Autore: Gianfranco Donadio

  • Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Mezzo secolo fa, Umberto Caldora si spegneva nelle residenze dell’Università della Calabria, l’ateneo che aveva contribuito a fondare e che lo aveva appena nominato ordinario di Storia Moderna. La sua morte interrompeva un percorso intellettuale che, a partire dagli archivi napoletani, aveva saputo trasformare la polvere dei dispacci in una mappa vivente delle società rurali. Il lascito più denso di questo metodo è “La Calabria nel 1811. Le relazioni della statistica murattiana”, (originariamente pubblicato negli anni ’60; ed. definitiva a cura del Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1995, ISBN 978-8886067232), un volume che è un’operazione di antropologia storica ante litteram.

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    Umberto Caldora, storico meridionalista, tra i primi docenti dell’Unical

    La “Statistica murattiana”

    Nel 1811 Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli dal 1808, ordina una “statistique générale” del regno meridionale. Lo strumento con cui l’Impero intende tradurre il territorio in numeri, rendendolo leggibile e quindi riformabile. In Calabria, la circolare del 15 marzo 1811 arriva ai sindaci dei 405 comuni della provincia attraverso i prefetti di Cosenza, Catanzaro e Crotone. Il questionario è lungo 37 punti: popolazione per sesso ed età, bestiame, colture, strade, scuole, ospedali, debiti pubblici, usi civici, consuetudini matrimoniali.

    Caldora non si limita a trascrivere le 1.200 pagine manoscritte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli (Fondo Intendenza, buste 1811-1813). Le confronta con i verbali delle sottocommissioni provinciali, le lettere di accompagnamento dei sindaci, le annotazioni marginali dei funzionari francesi. Ne emerge un testo ibrido dove da un lato si nota il linguaggio amministrativo di Parigi, dall’altro la voce filtrata delle comunità, spesso reticente o strategica.

    La “fotografia” della Calabria

    La Calabria del 1811 conta 498.732 abitanti (dato medio tra le tre province), con una densità di 33 ab./km², concentrata lungo le valli del Crati e del Savuto. Caldora evidenzia la struttura piramidale delle famiglie: nuclei di 7-9 persone, con alta natalità (42‰) compensata da mortalità infantile del 28%.

    Un caso paradigmatico è il comune di Acri (Cosenza), dove il sindaco don Giuseppe Salfi dichiara 11.214 anime, ma Caldora scopre che il numero è gonfiato per ottenere più esenzioni dalla leva. Confrontando i registri parrocchiali conservati nella curia vescovile, l’autore riduce la stima a 10.680, rivelando una pratica diffusa di “famiglie fittizie” create per eludere la coscrizione. Qui la statistica diventa etnografia: il censimento non registra solo corpi, ma strategie di sopravvivenza parentale.

    Il 78% della superficie è montagna o collina; solo il 12% è seminativo. La relazione di “Castiglione Cosentino descrive 1.200 ettari di uliveti, ma Caldora nota che i sindaci omettono sistematicamente i terreni demaniali usurpati. Attraverso le denunce al tribunale di Cosenza, ricostruisce la mappa delle “difese” (recinti abusivi) che riducono la transumanza del Pollino.

    Lo studio delle forme di economia

    Un altro dato: la produzione di seta greggia è di 42.000 kg annui, concentrata nelle mani di 180 famiglie di commercianti ebrei a Rossano. Caldora usa le bollette doganali per tracciare la filiera fino ai mercati di Lione, mostrando come l’occupazione francese trasformi una risorsa locale in merce imperiale.

    Le donne sono il 51% della popolazione attiva nei campi, ma compaiono solo nei capitoli “mortalità” e “matrimoni”. Caldora integra le relazioni con i processi per bigamia e abbandono di coniugi: nel 1811 si contano 42 casi a Catanzaro, tutti legati alla leva maschile. Emerge un quadro di “resistenza domestica”: donne che falsificano certificati di vedovanza per riscattare i fratelli, o che gestiscono il contrabbando di sale lungo il Neto. La statistica murattiana, pensata per razionalizzare, diventa involontariamente archivio di pratiche subalterne.

    A Caldora è stata intitolata una delle aule architettonicamente più rappresentative dell’Unical

    E dei mutamenti sociali

    L’edizione del 1995 è arricchita da “cinque appendici”. Una tabella sinottica dei 405 comuni con variazioni demografiche 1806-1811; un indice dei toponimi con varianti dialettali; un glossario di termini amministrativi francesi tradotti in calabrese;  una serie di carte tematiche (riprodotto da Caldora su lucidi negli anni ’70); un repertorio delle fonti secondarie (oltre 120 titoli).

    Ogni relazione è accompagnata da note critiche che confrontano i dati ufficiali con le memorie orali raccolte da Caldora nei mercati di Castrovillari e Spezzano Albanese tra il 1958 e il 1965. È qui che la storia si fa antropologia: il documento non è mai neutro, è sempre negoziato tra potere centrale e comunità periferica.

    A cinquant’anni dalla morte, il volume rimane “l’unico censimento integrale” della Calabria napoleonica. Eppure, è anche un monito, dal momento che le inchieste dall’alto producono conoscenza, ma anche silenzi. I comuni arbëreshë (San Basile, Lungro) dichiarano solo il 30% della popolazione reale per evitare la coscrizione; i pastori del Sila omettono i capi vaccini per non pagare la tassa sul bestiame.

    L’osservazione della storia e della vita quotidiana

    Rileggere Caldora oggi significa riconoscere che la Calabria contemporanea – con i suoi 1,9 milioni di abitanti e un tasso di emigrazione del 2,1% annuo – porta ancora le cicatrici di quelle griglie napoleoniche: catasti incompleti, clientelismi radicati, resistenze silenziose. Il viale di Castrovillari intitolato al suo nome non è solo toponomastica, ma è un invito a continuare a leggere tra le righe dei questionari, dove la storia ufficiale incontra la vita quotidiana.

  • Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani

    Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani

    Nel crepuscolo autunnale del Mezzogiorno italiano, dove il sole cala lento tra le serre e le colline aspre della Calabria e i venti del Tirreno sussurrano storie antiche, il 2 novembre è un giorno di silenzio imposto dal calendario liturgico, ma è anche un ponte – quel ponte liminale, evocato da Luigi Maria Lombardi Satriani e Mariano Meligrana nel loro Il ponte di San Giacomo (1975, ried. 1989) – che collega i vivi ai morti, come un passaggio vitale, un dialogo sotterraneo che nutre l’esistenza quotidiana.

    Partendo da quel testo fondante dell’antropologia meridionale che illumina come le credenze popolari calabresi trasformino il lutto in un rito di resistenza e memoria, esploriamo il concetto di morte in questa terra di confine. Un ragionamento per comprendere come, in un mondo globalizzato e segnato da crisi recenti come la pandemia, la morte resti un «segno sotterraneo della vita», come ha scritto Lombardi Satriani: morte non come assenza, ma come presenza che modella comunità e identità.

    La morte a Sud descritta nel ponte di San Giacomo, libro di Lombardi Satriani e Meligrana

    Non svaniscono mai del tutto

    Vito Teti descrive, in lavori come Pietre di pane (2011), come i morti non svaniscano mai del tutto. In alcuni tratti di folklore calabrese, essi ritornano come ospiti affamati dall’aldilà, per i quali i vivi preparano tavole imbandite con “ossa dei morti”, o il grano dei morti, un pugno di chicchi tumefatti nell’acqua bollente, metafora di corpi che rigenerano la terra fertile. Queste pratiche, radicate nel sincretismo tra cristianesimo e paganesimo pre-cristiano, riflettono un’antropologia del lutto che Ernesto de Martino definiva «pianto rituale», ossia un grido collettivo che non piange solo la perdita, ma riafferma i legami sociali contro l’angoscia del nulla.

    Le prefiche di Pasolini

    Nel Mezzogiorno più ampio, dal Cilento campano alla piana di Sibari, all’Aspromonte, alla Calabria grecanica, la morte è concepita come un ciclo agrario, intrecciato alla terra aspra e alla migrazione. Qui, il sudario non è solo stoffa nera – che, come nota un recente studio etnografico su usanze funebri calabresi (2025), le donne anziane indossano per un anno intero, o talvolta per la vita, come atto di fedeltà e protezione – ma un velo che separa e unisce mondi.

    I rituali del 2 novembre, con le processioni ai cimiteri e le lamentazioni delle “piangitrici”, o prefiche evocate da Pasolini, trasformano il dolore individuale in un dramma corale, una forma di “contestazione culturale” contro l’oblio imposto dalla modernità. Lombardi Satriani lo coglieva già negli anni ’70: i morti calabresi, evocati nei canti e nei proverbi, sono “i segni sotterranei” che irrigano la vita contadina, impedendo che l’emigrazione – che ha svuotato paesi interi – recida le radici.

    Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani diventa lutto invisibile

    Ma che ne è oggi di questo ponte? Dati recenti, emersi da indagini antropologiche post-pandemiche, rivelano una resistenza affascinante, ma anche mutazioni profonde. Il COVID-19, con i suoi oltre 13000 decessi in Calabria tra 2020 e 2023 (dati ISTAT, aggiornati al 2024), ha imposto un lutto “invisibile” con funerali a porte chiuse, tombe visitate da lontano, un silenziamento che ha amplificato l’angoscia heideggeriana della morte come “propria e impropria”. Eppure, come documenta un report etnografico del 2023 sull’antropologia della morte nel Sud Italia, le comunità hanno risposto con innovazioni ibride.

    A Reggio Calabria, nel 2020, i cimiteri di Condera e Paglia hanno visto ingressi contingentati, misurazioni termiche e mascherine, ma il rito si è adattato con preghiere via streaming, candele accese sui balconi, e un boom di “cunsulu” – quel pasto comunitario offerto alla famiglia del defunto – consegnato a domicilio, simbolo di solidarietà che ha rafforzato i legami in tempi di isolamento. Oggi, con la commemorazione tornata alla normalità emerge un’evoluzione deii rituali che incorporano il digitale, con app per virtuali suffragi e social media dove si condividono foto di tombe, trasformando il privato in pubblico.

    Morte e riti arbëreshë e grecanici

    In Calabria, terra di arbëreshë e grecanici, queste trasformazioni si collocano anche in specificità etniche, anche in periodi diversi dell’anno. Tra le comunità albanesi di Lungro o Frascineto, la Java e Prigatorëvet – la festa dei morti arbëreshë, mescola canti bizantini a credenze precristiane: i defunti “tornano” e i vivi lasciano porte aperte con pane e sale, eco di un’ospitalità come resistenza all’emarginazione. Qualche anno fa avevo notato come amiglie rurali hanno ripreso i “questuanti” – i bambini che, con zucche intagliate a teschio (coccalu di muortu), bussano alle porte chiedendo “oboli” per i morti – ma con un twist: incorporano elementi di Halloween, quel sincretismo globale che alcuni studiosi descrivono come “assemblaggio ludico” per rivitalizzare paesi spopolati. Non è diluizione, ma vitalità: la morte, ibrida, diventa strumento di aggregazione contro la solitudine pandemica.

    Questo ponte, dunque, non crolla; si rinnova. In un Mezzogiorno segnato da spopolamento – con Calabria che perde 10.000 abitanti annui (ISTAT 2024) – e flussi migratori inversi, come i cimiteri siciliani e calabresi che accolgono i resti di migranti annegati nel Mediterraneo la morte interpella l’antropologia a una riflessione urgente: come ospitare l’estraneo defunto? A Lampedusa o a Cutro e Crotone, emergono riti nuovi – monumenti anonimi, preghiere interreligiose – che estendono il “memento” cristiano a un’etica mediterranea dell’ospitalità. Lombardi Satriani, con il suo sguardo sul folklore subalterno, ci spingerebbe a vedere qui non tragedia, ma potenzialità: i morti “stranieri” diventano semi di una memoria condivisa, contro le barriere erette dalla crisi.

    Morte a Sud: fermiamoci ancora sul Ponte di Lombardi Satriani

    Sul far della sera del 2 novembre 2025, mentre le campane echeggiano nei valloni calabresi, fermiamoci a ragionare su questo ponte. La morte nel Mezzogiorno è fermento, è invito a vivere con intensità, a custodire i segni sotterranei che ci legano. Come i chicchi del grano dei morti, che gonfiano nell’acqua per rinascere pane, così i nostri defunti ci ricordano che la vita deve fare i conti con loro per continuare a essere tale. In questa commemorazione, non piangiamo solo perdite ma celebriamo un’eternità quotidiana, appassionata e resistente, che rende il Sud un laboratorio antropologico vivo.

    di Gianfranco Donadio

    L’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani
  • Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    In un’era dominata dal flusso incessante di contenuti digitali, dove le immagini si accumulano in cloud invisibili e algoritmi decidono cosa ricordare, la fragilità degli archivi audiovisivi delle televisioni private calabresi tra il 1974 e il 2004 emerge come un monito silenzioso. Questi archivi non sono semplici depositi di nastri magnetici o bobine polverose ma sono frammenti di una memoria collettiva, di testimonianze visive di un Sud italiano in transizione, segnato da lotte sociali, aspirazioni moderne e ombre persistenti di marginalità.

    IL DESTINO DEI SUPPORTI MATERIALI

    Eppure, la loro precarietà fisica, economica e culturale, li rende vulnerabili, quasi evanescenti, come echi di trasmissioni che svaniscono nel buio di una notte senza ricezione. Riflettere su questa fragilità significa interrogarsi non solo sul destino di supporti materiali, ma sul valore stesso della storia locale in un panorama mediatico globalizzato, dove il locale rischia di essere il primo a essere sacrificato sull’altare del profitto e dell’oblio.
    Il periodo 1974-2004 non è arbitrario, ma segna l’alba della deregulation televisiva italiana, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 1974 che liberalizza le trasmissioni via cavo, seguita dalla storica n. 226 del 1976 che infrange il monopolio RAI aprendo le porte alle emittenti private via etere.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’ARCHIVIO FRAGILE

    In Calabria, questa rivoluzione assume contorni peculiari che da un territorio economicamente fragile, con un tessuto produttivo dominato da piccole imprese e cooperative, nascono emittenti che diventano la voce autentica di comunità isolate, catturando rituali, proteste e volti quotidiani. Ma proprio questa prossimità al suolo, cioè la capacità di “raccontare il territorio”, come recita il progetto PRIN “Telling the Territory”, nel Dispes dell’Università della Calabria, di cui recentemente si è tenuto un convegno per illustrare la ricerca in corso, si rivela una condanna per la conservazione. Oggi, progetti come “L’archivio fragile” tentano di riscoprire questi tesori dimenticati, digitalizzando materiali che altrimenti rischierebbero la dissoluzione. Questa riflessione esplora le radici storiche di tale fragilità, le sue manifestazioni concrete e le implicazioni filosofiche per la nostra comprensione della memoria.

    IL MOSAICO DELLE TV PRIVATE CALABRESI

    La nascita delle televisioni private in Italia è figlia di un fermento sociale e giuridico che scuote gli anni Settanta. Il monopolio RAI, pilastro del consenso statale post-bellico, si incrina sotto il peso di movimenti studenteschi, operai e femministi, che reclamano una comunicazione più democratica e plurale. La sentenza del 1974, legittimando le trasmissioni via cavo in ambito locale, apre una breccia: da Telebiella nel Nord a pionieri meridionali come Telediffusione Italiana Telenapoli, le “libere” emittenti proliferano, passando da poche decine nel 1977 a oltre 600 nel 1980. In Calabria, questa espansione è tardiva ma intensa: la regione, con la sua geografia aspra e le sue divisioni provinciali (Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria), vede emergere canali come Telemia (fondata nel 1979 a Bova Marina), Promovideo TV negli anni ’80 e Reggio TV dal 1998, TeleCosenza, Telestars, ReteAlfa, eccetera, fino ad arrivare a network come LaC TV.

    UN SUD IN FERMENTO

    Queste emittenti non sono meri diffusori di intrattenimento, ma producono documentari e inchieste che penetrano l’essenza calabrese. Immaginate servizi su feste patronali a Tropea, proteste contro l’emigrazione a Reggio Calabria o reportage sulle cooperative agricole cosentine negli anni ’80, durante la crisi post-terremoto dell’Irpinia che lambisce il Mezzogiorno, giusto per fare qualche esempio. Tra il 1974 e il 2004, il panorama evolve, la legge Mammì del 1990 consolida il duopolio RAI-Mediaset, marginalizzando le realtà locali. La transizione al digitale terrestre, culminata in Calabria nel 2012, impone costi proibitivi e la legislazione del 2004 ridisegna il settore con norme stringenti. In questo arco, le TV private calabresi catturano un “Sud in fermento”: aspirazioni di modernità contro ombre mafiose, come le inchieste su ‘Ndrangheta che, pur censurate o autolimitate, filtrano nei telegiornali locali.

    UNA STORIA IN BETACAM

    Ma la loro produzione è artigianale: nastri VHS, U-matic e Betacam girati con budget risicati, spesso da operatori multifunzione in studi improvvisati. Qui risiede il paradosso: queste immagini, vicinissime alla vita, sono le più esposte al deperimento.
    La fragilità degli archivi audiovisivi calabresi si declina su più piani, intrecciando vulnerabilità tecnologica, precarietà economica e indifferenza istituzionale. Innanzitutto, il piano materiale: i supporti degli anni ’70-’90 – nastri magnetici in acetilcellulosa o poliestere – sono intrinsecamente instabili.

    LA SINDROME DELL’ACETO

    L’idrolisi, nota come “sindrome dell’aceto”, corrode questi materiali, rilasciando odori acidi e rendendoli illeggibili entro 20-30 anni se non conservati in condizioni ideali (temperatura sotto i 18°C, umidità al 40-50%). In Calabria, con climi umidi e depositi spesso in scantinati non climatizzati, questo degrado è accelerato. Molte emittenti, come quelle provinciali di Vibo Valentia o Cosenza, non hanno investito in digitalizzazione: i master originali giacciono in scatoloni, esposti a muffe, roditori o alluvioni. Il progetto “L’archivio fragile” dell’Unical ha riscoperto proprio questo: “archivi dimenticati” di emittenti private, dove bobine di documentari su migrazioni interne o tradizioni arbëreshë rischiano l’annientamento.

    COSÌ MUORE UN EMITTENTE

    Sul piano economico, la precarietà è endemica. Le TV locali calabresi nascono da iniziative imprenditoriali familiari o associative, con ricavi da pubblicità locale (negozi, sagre) che mal sopporterebbero i costi di conservazione. Negli anni ’90, la concorrenza di Mediaset e la crisi pubblicitaria post-2000 portano chiusure: emittenti come Studio 3 o Telespazio Calabria sopravvivevano con syndication precaria, senza fondi per archivi professionali. A differenza della RAI, con le sue Teche digitalizzate, queste realtà private non hanno obblighi normativi stringenti fino al 2004, e anche dopo, i contributi statali per le locali sono esigui. Il risultato è la dispersione. Al fallimento di un’emittente, i nastri finiscono in discarica, venduti a rigattieri o ereditati da eredi indifferenti. Un esempio emblematico è il fondo di Promovideo TV: attivo dagli anni ’80, i suoi archivi – ricchi di footage su eventi calabresi – languono in spazi non protetti, minacciati da obsolescenza tecnologica.

    In un Mezzogiorno storicamente ai margini della narrazione nazionale, questi archivi incarnano una “memoria minore”. Non epica, ma quotidiana: un servizio su una processione a Mammola o un dibattito su disoccupazione giovanile a Catanzaro. La loro fragilità riflette quella di un territorio emarginato, come denunciato nei documentari televisivi del periodo, che il progetto PRIN descrive come “voci del piccolo schermo d’inchiesta”. Senza riconoscimento istituzionale – a differenza degli archivi AAMOD a Roma o delle cineteche settentrionali – questi materiali rischiano l’oblio, perpetuando un colonialismo culturale interno all’Italia.

    LE ROVINE DI WALTER BENJAMIN

    Questa fragilità non è solo tecnica, ma è esistenziale. Riflettendoci, gli archivi audiovisivi calabresi evocano la teoria di Walter Benjamin sulla storia come “cumulo di rovine”, dove il passato non è lineare ma frammentato, recuperabile solo da chi osa frugare tra le macerie. In un contesto come la Calabria, segnato da terremoti metaforici – emigrazione, ‘ndrangheta, spopolamento – questi nastri sono rovine vive che catturano non la grande Storia, ma le storie di chi resiste.

    La loro precarietà interroga il nostro rapporto con la memoria: in un’era di big data, perché tolleriamo la perdita di miliardi di ore di footage locale? È forse perché, come suggerisce il convegno “Il documentario televisivo in Italia” all’Università del Salento, questi materiali sfidano il narrativo dominante, valorizzando “folclore e rivitalizzazione della cultura popolare” contro l’omologazione globale?
    Filosoficamente, la fragilità richiama Paul Ricoeur e la sua “memoria, storia, oblio”: senza conservazione attiva, la memoria si riduce a oblio selettivo, dove il Sud è sempre “altro” da narrare. Eppure, proprio qui sta la speranza: progetti come “Telling the Territory” dimostrano che la digitalizzazione non è solo salvataggio, ma atto etico di restituzione. Riscoprire un nastro su una protesta operaia a Gioia Tauro negli anni ’80 significa ridare agency a comunità silenziate, trasformando la fragilità in forza dialettica.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’UNICAL IN CAMPO PER DIFENDERE GLI ARCHIVI

    La fragilità degli archivi audiovisivi delle TV private calabresi (1974-2004) è metafora di un’Italia divisa: ricca di storie, povera di cure. Ma in questo rischio di perdita si annida un invito alla responsabilità collettiva. Istituzioni, università e comunità devono convergere – come nel PRIN Unical coordinato dal professor Daniele Dottorini – per digitalizzare, catalogare e narrare questi tesori. Chi scrive, con Patrizia Fantozzi e Antonio Martino, dell’unità di ricerca calabrese, è convinto che solo così, le immagini effimere diventeranno immortali, testimoni di un territorio che, pur fragile, ha sempre saputo inventare la propria voce. In fondo, conservare questi archivi non è mera filologia, ma è un atto di giustizia poetica, affinché il silenzio delle bobine perse non inghiotta il brusio vitale di una Calabria mai doma.

  • Lo studente che diventò Rettore

    Lo studente che diventò Rettore

    Un’onda di entusiasmo travolge l’Università della Calabria. Con il 78% dei voti ponderati Gianluigi Greco è stato eletto nuovo rettore per il sessennio 2025-2031. E’ un plebiscito, un “sì” corale a un uomo giovane che rappresenta il futuro senza tradire le radici. A soli 48 anni, Gianluigi Greco diventa il rettore più giovane – dopo il fondatore Beniamino Andreatta –  nella storia dell’Università della Calabria, un primato che è un record anagrafico, ma è anche un simbolo di vitalità per un ateneo che, tra i più importanti del Mezzogiorno, aspira a essere faro di innovazione in un Sud troppo spesso relegato ai margini della grande narrazione nazionale.

    Una lunga storia cominciata qui

    Nato a Cosenza nel 1977, Greco è un figlio di questa terra, un calabrese doc che ha respirato l’aria aspra e generosa di Cosenza e delle colline di Arcavacata fin dai primi passi. Il suo percorso accademico è una storia d’amore con l’Unical. Qui si è laureato, qui ha conseguito il dottorato, qui ha scalato i gradini della docenza fino a diventare professore ordinario di Informatica. Dal 2018 dirige il Dipartimento di Matematica e Informatica (Demacs), trasformandolo in un polo di eccellenza che attira finanziamenti europei, giovani talenti e partnership globali. E oggi, per la seconda volta nella storia dell’ateneo – dopo Nicola Leone, suo predecessore e mentore –, un ex studente prende le redini dell’università che lo ha formato. Questa continuità non è un vezzo nostalgico ma è la prova che l’Unical sa crescere dall’interno, nutrendosi dei propri semi per fiorire rigogliosa. Gianluigi Greco non è un estraneo catapultato da chissà dove. E’ uno di noi, un calabrese che ha scelto di restare e di lottare per rendere questa terra competitiva nel mondo.

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    Gianluigi Greco, rettore dell’Unical

    Ruolo strategico

    In un Mezzogiorno che lotta contro la fuga dei cervelli, lui potrebbe essere il ponte che trasforma bit in opportunità concrete, algoritmi in posti di lavoro, ricerca in sviluppo territoriale. Per la Calabria intera, Gianluigi Greco è un lusso accademico; è una leva strategica per invertire la rotta, per fare dell’Università della Calabria un hub che esporta talenti anziché importarli.
    E come ha fatto Gianluigi Greco a conquistare il cuore della comunità accademica? Certamente non lo ha fatto con proclami vuoti, ma con un ascolto profondo, forgiato nei ruoli di servizio: dal 2018 membro del Senato Accademico, dal 2020 coordinatore della Commissione Didattica, artefice delle politiche strategiche che hanno portato l’Università ai vertici del Sud sotto la guida Leone. La sua elezione, con un’affluenza record grazie al voto per la prima volta elettronico, riflette un consenso trasversale: docenti che vedono in lui il garante dell’eccellenza, studenti che intravedono un futuro modulabile e inclusivo, dipendenti che si sentono protagonisti grazie allo Statuto 2023 che ne amplifica il peso elettorale.

    L’Unical come un albero con radici nel mondo

    È l’uomo del “noi” pericleo, come lui stesso cita da Tucidide: un’unità coesa, dove l’università non è un’isola, ma è un albero fiorito che radica nel territorio e allunga rami verso il mondo. Il suo programma elettorale? Un capolavoro di ponderazione, studiato nei minimi dettagli per un ateneo che deve navigare la fine del PNRR e le sfide post-pandemia. Un manifesto di “furore del fare”, omaggio a Beniamino Andreatta, primo rettore e visionario fondatore dell’Unical, la più preziosa istituzione di cultura della nostra regione, con internazionalizzazione e inclusione come pilastri, ricerca qualitativa per massimizzare il Fondo di Finanziamento Ordinario senza inseguire numeri vuoti, collaborazione con la società al posto di una “terza missione” astratta.

    Propone un’università “telematica ma personale”, con corsi flessibili che conciliano studio e lavoro, per combattere la dispersione e attrarre talenti dal Sud. Parla di policlinico come priorità, ma non l’unica: c’è l’innovazione digitale per il territorio, l’espansione dei confini della conoscenza critica, la crescita generalista che valorizza tutte le discipline. È un piano innovativo e strategico, che guarda al globale senza perdere il contatto con la Calabria: un faro per il Mezzogiorno, dove l’IA non è un gadget, ma uno strumento per diritti, sviluppo e rinascita.

    Il nuovo rettore tra coloro che lo hanno sostenuto

    Da Arcavacata la promessa di un sogno possibile

    Mentre gli studenti tornano nelle aule e i professori brindano, Gianluigi Greco non è solo un nome eletto, ma è una promessa. Una rivoluzione gentile, che parte da Arcavacata per illuminare l’intera regione. Perché in lui la Calabria non vede un solo un rettore, ma un sogno possibile, un Sud che innova, include, conquista. Adesso l’Unical – e la nostra terra – è nelle sue mani sapienti. E noi aspettiamo di volare.

  • La festa dei Santi Medici

    La festa dei Santi Medici

    All’alba del 25 settembre di venticinque anni fa, risalgo i sentieri aridi della Locride, il sole che tinge d’arancio il mare e i rovi. Con Antonio Bevacqua, Ottavio Cavalcanti, Agostino Conforti e Antonio Rizzo, giriamo un documentario sul pellegrinaggio ai Santi Cosma e Damiani per l’Università della Calabria. Macchina da presa in spalla, catturiamo un rito che unisce fede e folklore: “I Santi Medici”, che vogliamo offrire all’attenzione dei nostri lettori.

    La terra, friabile dopo un’estate torrida, risuona di canti griko e del tintinnio degli ex voto. Il pellegrinaggio al Santuario di Riace, paese di duemila abitanti, celebre per i Bronzi emersi nel ’72, è un cammino di redenzione, un’epica antropologica che collega Mediterraneo e fede.

    I santi guaritori

    I gemelli siriani e il simbolismo

    Cosma e Damiano, gemelli siriani del III secolo, medici anargyroi che curavano gratis, furono martirizzati sotto Diocleziano. La loro agiografia narra miracoli: un trapianto di gamba etiope, una traversata a nuoto dall’Arabia. A Riace, il culto nasce nel 1669 con un reliquiario d’argento, e nel 1734 diventano patroni. Un pastore sognò i santi sul “castedu”, dove sorge il santuario. Oggi, si racconta che  il reliquiario è portato da donne, raggiunge uno scoglio con l’orma di Cosma, simbolo di approdi per naviganti ed esuli.

    Le statue dei Santi Medici esposte durante la festa a Riace

    Venerati anche nella festa degli zingari

    La festa è sincretismo mediterraneo. Per Victor Turner, una “communitas” che dal 25 al 27 settembre dissolve barriere sociali. Pellegrini da Stilo a Roccella Jonica, scalzi o con bastoni, offrono ex voto: cuori d’argento, arti di cera, navi per viaggi sicuri. I Rom e Sinti, nella “festa degli zingari”, venerano i santi come protettori degli emarginati, danzando con tamburelli e tarantelle attorno alle statue settecentesche della Chiesa di Santa Maria Assunta. La “calata dei santi” è un rito di “incubatio”, eco dei templi di Asclepio.

    Le radici di una festa come resistenza all’oblio digitale

    Riace resiste all’oblio digitale. Per tre giorni, messe solenni e veglie notturne animano il santuario. Il 26, la processione serpeggia con la banda musicale, falò rom, ‘nduja e pitte. Fuochi d’artificio segnano il ritorno delle statue. Bancarelle di ceramiche griko e cibi della tradizione accompagnano balli fino al 27, quando una messa chiude il rito.

    La processione a Riace

    Riace, con i suoi Bronzi, è terra di miracoli. I santi medici, legati ai Dioscuri e Asclepio, rappresentano un sincretismo bizantino. In un’Italia di spopolamento e abbandoni, gli emigrati di Santena replicano la festa dal ’65. I Rom trovano cittadinanza nei balli e negli ex voto, unendo sangue gitano e litanie cristiane. È una guarigione collettiva: il mare lava paure, i canti griko collegano Oriente e Occidente, le tarantelle scacciano la solitudine.

     

  • Nicola Gratteri racconta le origini del male

    Nicola Gratteri racconta le origini del male

    La prima puntata di Lezioni di mafie, il programma condotto da Nicola Gratteri su La7, andata in onda il 17 settembre 2025, ci riporta alle radici antropologiche di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo quale la ‘ndrangheta calabrese. Attraverso il dialogo tra Gratteri, lo storico Antonio Nicaso e il giornalista Paolo Di Giannantonio, il programma è stato un interessante resoconto giudiziario, che si apre a un viaggio profondo nella psiche collettiva di una terra aspra, dove l’ombra della mafia coesiste con l’essenza stessa della cultura umana.

    Come aspirante antropologo, vedo in questa narrazione un’opportunità unica per decifrare il crimine, quel tessuto sociale che lo ha generato e nutrito, trasformandolo da fenomeno locale in impero transnazionale.
    La ‘ndrangheta emerge come un sistema rituale e simbolico che riecheggia le strutture tribali antiche del Mediterraneo meridionale. Nata sulle montagne della Calabria – come Gratteri evoca con passione, ricordando la sua infanzia a Gerace, un paese isolato tra rocce e silenzi – questa organizzazione è mera delinquenza economica, ma anche una vera e propria “religione profana” del potere.

    Riti e iniziazioni, tra sacro e sciamanesimo

    I riti di affiliazione, descritti nel programma con dovizia di dettagli storici da Nicaso, richiamano le iniziazioni sciamaniche o le società segrete delle culture preindustriali: giuramenti su sangue e croci, gerarchie basate su vincoli familiari e codici d’onore che trascendono la legge statale. Questi elementi non sono casuali: sono radicati in un’antropologia della sopravvivenza.

    La Calabria, con il suo terreno impervio e la storia di emigrazioni forzate, ha forgiato comunità dove il clan familiare – la ‘ndrina – funge da rete di protezione contro lo Stato assente e le carestie storiche. Come osserva l’antropologo Edward Banfield nel suo classico Le basi morali di una società arretrata (1958), in tali contesti il “familismo amorale” diventa norma: la lealtà al sangue prevale sull’interesse collettivo, permettendo alla ‘ndrangheta di evolvere da bande di briganti ottocenteschi a holding globali.

    Dalle antiche montagne, alla conquista del resto del mondo

    Dalle montagne più dure verso i cinque continenti

    Il programma illumina brillantemente questa metamorfosi antropologica. Partendo dai villaggi montani – luoghi di isolamento che favoriscono la coesione endogamica e il sospetto verso l’esterno – Gratteri e Nicaso tracciano il percorso della ‘ndrangheta verso i cinque continenti. Espansione economica, attraverso il traffico di cocaina o l’infiltrazione in finanza e politica, adattamento culturale darwiniano. La mafia calabrese, a differenza della più spettacolare Cosa Nostra siciliana, opera nel silenzio, un’etica del “non detto” che riflette il codice dell’omertà come meccanismo di difesa comunitario.

    Eppure, qui emerge il dramma umano: l’infiltrazione silenziosa nelle istituzioni legali corrompe il capitale sociale, trasformando reti di solidarietà in catene di dipendenza. Pensiamo alle storie di resistenza raccontate nella puntata – imprenditori e cittadini che “dicono no” – come esempi di agency antropologica, di individui che rompono il ciclo culturale del conformismo mafioso per rivendicare un’identità autonoma.

    Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. La loro collaborazione è iniziata molti anni fa

    Magistrato e antropologo

    Ma ciò che rende Lezioni di mafie un gioiello non è solo l’analisi storica, bensì il suo invito a una riflessione etica profonda. Gratteri, con la sua voce rotta dall’esperienza di una vita sotto scorta, incarna l’antropologo militante: un insider che decostruisce la cultura mafiosa dall’interno, mostrando come essa sfrutti le vulnerabilità umane – paura, povertà, senso di appartenenza – per perpetuarsi. In un mondo globalizzato, dove la ‘ndrangheta usa il dark web e le criptovalute (temi accennati come anticipazione delle puntate successive), questa mafia diventa metafora di un’antropologia post-moderna, ibrida, fluida, capace di mimetizzarsi nelle economie legali. Eppure, il programma ci ricorda che le radici rimangono in Calabria, dove il paesaggio montano è sfondo, ma anche agente culturale che modella l’identità, la lotta alla mafia è una battaglia per reclamare l’umanità collettiva.

  • Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    L’Università della Calabria ha celebrato da poco l’inaugurazione del suo 54º anno accademico, un momento di riflessione e orgoglio per un ateneo che si conferma tra i più dinamici del Sud Italia. Tuttavia, a segnare l’evento è stata un’azione dirompente: l’irruzione di studenti e attivisti del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina” durante il discorso del rettore Nicola Leone.

    Il Rettore Nicola Leone durante l’inaugurazione dell’anno accademico

    Con slogan come “Palestina libera!” e striscioni che denunciavano la “complicità delle università con Israele”, i manifestanti hanno interrotto la cerimonia per protestare contro gli accordi accademici con atenei israeliani e le collaborazioni con industrie belliche come Leonardo e Thales, accusate di alimentare il conflitto a Gaza. L’episodio, pur senza degenerare in violenza, ha messo in luce una tensione profonda: il ruolo delle università come spazi di sapere neutrale versus la richiesta di posizioni politiche nette su questioni globali.
    Questa protesta, che si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni pro-palestinesi negli atenei italiani, solleva interrogativi cruciali. Da un lato, i manifestanti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, dando voce a un’urgenza etica condivisa da molti: la solidarietà con il popolo palestinese in un contesto di crisi umanitaria. Le loro accuse di “complicità” toccano un nervo scoperto, quello delle responsabilità istituzionali in un mondo interconnesso, dove collaborazioni accademiche e industriali possono avere implicazioni politiche. Dall’altro lato, l’irruzione ha interrotto un momento simbolico di unità accademica, sollevando critiche su modi e tempi della protesta. L’Università della Calabria, descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, ha cercato di riaffermare il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma è davvero possibile, o desiderabile, che un’università rimanga neutrale su questioni così divisive?

    Libertà accademica e attivismo politico

    Il cuore del problema sta nel bilanciamento tra libertà accademica e attivismo politico. Le università sono luoghi di confronto, dove idee opposte devono poter coesistere senza censure, ma anche senza che il dialogo venga soffocato da azioni che, pur legittime, rischiano di polarizzare invece che costruire. La protesta di oggi ha avuto il merito di accendere i riflettori su una questione globale, amplificata da immagini e video condivisi in tempo reale su piattaforme social e web.
    Tuttavia, il rischio è che il messaggio si perda in una dialettica di scontro, anziché tradursi in un dialogo strutturato che coinvolga studenti, docenti e istituzioni.
    L’Unical, con i suoi oltre 30.000 studenti e un ruolo centrale nel Mezzogiorno, ha l’opportunità di trasformare questo episodio in un’occasione di crescita. Organizzare tavoli di discussione aperti, con esperti di geopolitica e rappresentanti di tutte le sensibilità, potrebbe essere un passo per canalizzare l’energia della protesta in un dibattito costruttivo. La sfida è chiara: come conciliare l’eccellenza accademica con la responsabilità sociale, senza cedere né alla neutralità ipocrita né alla politicizzazione divisiva? La risposta non è semplice, ma l’università, come luogo di pensiero critico, è chiamata a cercarla.

    Un momento della protesta

    La protesta del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina”, rappresenta un caso emblematico delle tensioni che attraversano le istituzioni accademiche in un’epoca di crisi globali. L’irruzione nell’Aula Magna, con slogan come “Palestina libera!” e “Se bloccano la flottilla, blocchiamo tutto!”, non è stata solo un atto di dissenso, ma un tentativo di forzare l’università a prendere posizione su un conflitto che, pur geograficamente lontano, ha profonde ripercussioni etiche e politiche. Analizzando l’evento, emergono tre nodi critici: il diritto di protesta, la “neutralità” accademica e il rischio di polarizzazione.

     Il diritto di protesta e la sua messa in scena

    L’azione del Coordinamento è stata pacifica ma volutamente dirompente, con l’irruzione e l’affissione di striscioni come quello sul Ponte Bucci (“complicità e responsabilità delle università con Israele”). La scelta di interrompere un evento simbolico come l’inaugurazione accademica ha garantito visibilità, amplificata da post sui social che hanno documentato l’evento in tempo reale. Tuttavia, questa strategia solleva una questione: la teatralità della protesta, pur efficace nel catturare l’attenzione, rischia di alienare chi potrebbe essere aperto al dialogo? I manifestanti hanno denunciato accordi con atenei israeliani e collaborazioni con aziende come Leonardo e Thales, accusate di sostenere il conflitto a Gaza. La loro richiesta – la rottura di questi legami – è chiara, ma la modalità scelta ha lasciato poco spazio a un confronto immediato, trasformando l’evento in uno scontro simbolico più che in un’occasione di dibattito.

    Una fase della protesta a favore della Palestina

    La neutralità accademica: un mito insostenibile?

    L’Unical ha risposto descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, riaffermando il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma la pretesa di neutralità accademica è problematica. Le università non operano in un vuoto: gli accordi con atenei stranieri o industrie belliche non sono mai solo “tecnici”, ma portano con sé implicazioni politiche. La protesta ha messo in discussione il silenzio istituzionale su queste connessioni, accusando l’Unical di complicità indiretta in un conflitto che molti studenti percepiscono come un “genocidio”. Tuttavia, la neutralità ha anche un valore: garantisce che l’università rimanga un luogo di pluralismo, dove tutte le voci – incluse quelle pro-israeliane o neutrali – possano esprimersi. Rompere accordi accademici con Israele, come chiesto dai manifestanti, potrebbe essere visto come un atto di censura verso studiosi e istituzioni israeliane, non tutte necessariamente allineate con le politiche del loro governo. Qui si gioca la sfida: come bilanciare responsabilità etica e apertura intellettuale?

    Foto

     La polarizzazione e il dialogo

    La protesta si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni studentesche pro-palestinesi, come i sit-in all’Aquila contro Leonardo. Questo movimento riflette una crescente sensibilità tra i giovani per le questioni globali, ma anche una tendenza alla polarizzazione. I critici dell’azione, che l’hanno definita “controversa”, sottolineano che politicizzare un momento celebrativo come l’inaugurazione rischia di alienare chi non condivide la causa. Sui social noto che commenti si dividono: alcuni utenti lodano il coraggio degli attivisti, altri lamentano la “mancanza di rispetto” per l’evento accademico. La “frattura profonda” evidenziata dall’episodio non è solo tra studenti e istituzione, ma anche all’interno della comunità accademica, dove sensibilità diverse si scontrano senza un terreno comune. La richiesta di “dialogo strutturato” avanzata da alcuni osservatori è sensata, ma richiede volontà da entrambe le parti: i manifestanti devono accettare la complessità del tema, e l’università deve riconoscere che la neutralità non è sempre una risposta sufficiente.

    Alcuni militanti del coordinamento Cosenza Unical per la Palestina

    Il ruolo dell’Unical nell’area del Mediterraneo 

    La protesta all’Unical è un microcosmo delle tensioni globali che attraversano le università, chiamate a essere al contempo templi del sapere e arene di confronto politico. L’azione del Coordinamento ha avuto il merito di portare il conflitto israelo-palestinese al centro del dibattito, ma ha anche evidenziato i limiti di un approccio che privilegia l’irruzione al dialogo. L’università ha l’opportunità di trasformare questa frattura in un’occasione di crescita, promuovendo spazi di confronto che includano prospettive diverse, da quelle degli attivisti a quelle di chi difende la cooperazione accademica internazionale. La sfida è costruire un dibattito che non semplifichi la complessità geopolitica, ma la affronti con rigore e apertura. Solo così l’Unical potrà onorare il suo ruolo di faro culturale nel Mezzogiorno, senza cedere né al silenzio né alla polarizzazione.

  • Santomarco: il tunnel del futuro e l’eredità della vecchia galleria

    Santomarco: il tunnel del futuro e l’eredità della vecchia galleria

    Un progetto da 1,6 miliardi di euro sta per ridisegnare il destino della tratta Paola-Cosenza. Una nuova galleria a doppio binario, lunga 17 chilometri, sostituirà la storica Santomarco, inaugurata nel 1987, che per decenni ha spezzato l’isolamento della città dei Bruzi. Parte della linea ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria, il nuovo tunnel, con una stazione a Montalto Uffugo vicina al polo universitario di Rende, promette di rivoluzionare la mobilità calabrese: più treni, tempi di percorrenza ridotti, un impulso al porto di Gioia Tauro.

    I lavori, previsti per il 2025 e con conclusione entro il 2030, porteranno la vecchia Santomarco alla dismissione, lasciandola forse a nuovi usi locali. Ma il cammino non è privo di ostacoli. A Paola, gli espropri per il cantiere, nell’area di Pantani, hanno scatenato proteste. “Ci stanno togliendo la terra, e nessuno ci ascolta,” sbotta una donna di 60 anni. “La ferrovia ci ha dato tanto, ma ora rischia di lasciarci indietro.”

    Il sogno di unire il mare alla montagna

    Risaliamo il tempo. È il 1966, e le ruspe iniziano a mordere la montagna. L’idea è audace: un tunnel di poco più di 15 chilometri, il più lungo d’Italia all’epoca, per sostituire la vecchia linea a cremagliera Paola-Cosenza, un percorso tortuoso che, dal 1915, arrancava tra locomotive a vapore e automotrici Aln 56 FIAT. “Due ore per fare trenta chilometri, quando andava bene,” racconta Giuseppe, 78 anni, ex ferroviere in pensione, mentre sorseggia un caffè al bar della stazione di Paola. “La cremagliera era un’odissea: frane, smottamenti, ritardi. Ma era l’unica strada per il mondo.”

    Il vecchio treno Cosenza-Paola

     

    Il progetto della Santomarco nasce per cambiare tutto. Una linea elettrificata, con pendenze massime di 18 per mille, capace di portare Cosenza a meno di mezz’ora dal mare. I lavori, però, sono un calvario. Ventuno anni di scavi, dal 1966 al 1987, segnati da difficoltà tecniche e costi lievitati. Le cronache locali sussurrano di operai morti, schiacciati da crolli o travolti in incidenti mai del tutto documentati.

    “Non c’era sicurezza allora,” confida Antonio, 65 anni, figlio di un operaio che lavorò al cantiere. “Mio padre tornava a casa con la polvere nei polmoni e la paura negli occhi. Diceva che ogni metro di quella galleria costava sangue.” Le cifre esatte delle vittime restano un mistero, inghiottite dalla reticenza di un’epoca che celebrava il progresso, ma taceva sui suoi costi umani.

    Apre la Santomarco: il giorno della svolta

    31 maggio 1987. La Santomarco viene inaugurata. Il primo treno elettrico taglia il nastro, e Cosenza si ritrova improvvisamente più vicina al mondo. I tempi di percorrenza crollano: da due ore a 25 minuti. “Fu come scoprire il mare,” ricorda Maria, 50 anni, insegnante, che da ragazza viaggiava con la vecchia cremagliera per studiare a Napoli. “All’improvviso, potevamo essere parte di qualcosa di più grande.”

    La galleria non è solo un tunnel: è un’arteria che pompa vita. Studenti affollano l’Università della Calabria, appena fondata; i commercianti di Cosenza trovano nuovi mercati; i pendolari iniziano a sognare un futuro oltre le montagne.
    Ma la Santomarco non è una panacea. Il binario unico, con un solo punto di incrocio a metà tunnel (oggi dismesso per normative di sicurezza), limita la capacità della linea. I treni regionali si accavallano, i ritardi si accumulano. E quando qualcosa va storto, il disastro è dietro l’angolo.

    L’odissea dei pendolari

    6 dicembre 2017. Un treno merci deraglia nella galleria. Nessuno muore, ma la linea resta chiusa per tre mesi. Autobus sostitutivi arrancano su strade tortuose, lasciando pendolari e studenti in balia di ritardi e disagi. “Un incubo,” sbotta Francesca, 28 anni, studentessa di ingegneria a Rende. “Arrivavo a lezione con due ore di ritardo, quando il bus non si rompeva.” Ancora nel 2024, un guasto elettrico blocca un treno nella galleria per ore. “C’era una donna con un bambino piccolo, un disabile senza assistenza,” racconta un macchinista di Trenitalia. “Siamo addestrati per le emergenze, ma in un tunnel così lungo, ogni minuto sembra eterno.”

    I ferrovieri sono i guardiani silenziosi della Santomarco. “Lavorare qui è una missione,” dice il macchinista, che guida treni da vent’anni. “La galleria è sicura, ma non perdona errori. E quando si ferma, il mondo si ferma con lei.” Le esercitazioni di emergenza, come quella del 2024, sono un rito necessario: vigili del fuoco, protezione civile e personale FS si addestrano per evacuazioni che, si spera, non saranno mai necessarie. Ma il timore di un incidente grave aleggia sempre.

    Santomarco, un tunnel di speranze e cicatrici

    La Santomarco è più di un’opera ingegneristica. È il sogno di una Calabria che non vuole più essere periferia, il sacrificio di operai dimenticati, la fatica quotidiana di pendolari e ferrovieri. Ogni viaggio attraverso il suo buio è un atto di fede in un futuro migliore. Mentre il treno emerge dalla galleria e il profilo di Cosenza appare all’orizzonte, si avverte ancora l’eco di chi ha scavato, lottato e sperato per rendere possibile questo passaggio. La Santomarco non è solo un tunnel: è la storia di una terra che, metro dopo metro, cerca di conquistare il suo posto nel mondo. Con il nuovo progetto, quel sogno si prepara a un nuovo capitolo, ma le cicatrici del passato restano, incise nella roccia e nella memoria dei Bruzi.

     

  • Ferragosto, la festa che segna la fine dell’estate

    Ferragosto, la festa che segna la fine dell’estate

    Ferragosto è una delle festività più radicate nella tradizione italiana, un momento che mette insieme storia, religione e identità culturale. Al Sud e in Calabria, questa giornata assume un significato particolarmente profondo, non solo per il suo valore storico e religioso, ma anche per il modo in cui si è trasformata nel tempo, diventando un simbolo di convivialità, ritorno alle radici e transizione verso la fine dell’estate. La sua vicinanza con le celebrazioni di San Rocco, festeggiato il 16 agosto, crea un continuum di festività che in molte località calabresi si fondono in un unico grande momento di aggregazione popolare, tra sacro e profano.

    Le Feriae augusti all’origine della festa

    Le origini storiche di Ferragosto

    Il termine “Ferragosto” deriva dal latino Feriae Augusti, le festività istituite dall’imperatore Augusto nel 18 a.C. per celebrare il riposo e la fine dei lavori agricoli più intensi. Questa festa pagana, dedicata al raccolto e alla fertilità, era un momento di svago per il popolo romano, che si riuniva in banchetti, giochi e celebrazioni. Con l’avvento del cristianesimo, la Chiesa cattolica sovrappose a questa tradizione pagana la solennità dell’Assunzione di Maria, celebrata il 15 agosto, trasformando Ferragosto in una festa religiosa che commemora l’ascesa al cielo della Madonna. In Calabria, regione profondamente religiosa, questa sovrapposizione ha dato vita a un sincretismo culturale che unisce il carattere festoso e comunitario delle origini romane alla spiritualità cristiana.

    Ferragosto: un momento di ritorno e condivisione

    In Calabria, Ferragosto rappresenta molto più di una semplice festività religiosa o di un giorno di vacanza. È il culmine dell’estate, un momento in cui le comunità si riuniscono, spesso sotto il sole cocente di agosto, per celebrare la famiglia, l’appartenenza al territorio e la memoria collettiva. Tradizionalmente, questo è il periodo in cui gli emigrati calabresi, sparsi in Italia e nel mondo, tornano nei loro paesi d’origine. I paesi si animano di volti familiari, di abbracci e di racconti, mentre le tavole si riempiono di piatti tipici: dalla ‘nduja ai maccheroni al sugo di capra, dalle melanzane ripiene alle zeppole. È un momento di convivialità che riafferma l’identità meridionale, fatta di legami forti e di un profondo senso di appartenenza.

    Le vacanze degli italiani

    Le celebrazioni di Ferragosto variano da località a località, ma spesso includono messe solenni in onore dell’Assunzione, seguite da sagre, spettacoli pirotecnici e feste in spiaggia. Sulle coste, da Tropea a Scilla, le giornate di Ferragosto si trasformano in un’esplosione di vita: le spiagge si riempiono di turisti e locali, le barche si affollano per gite al largo, e le serate sono animate da concerti e balli tradizionali come la tarantella. Nei paesi dell’entroterra, invece, la festa assume un carattere più intimo, con processioni religiose e pranzi comunitari che rafforzano il senso di comunità.

    Il legame con San Rocco: un ponte tra sacro e profano

    Il giorno successivo a Ferragosto, il 16 agosto, molte località calabresi celebrano San Rocco, il santo pellegrino protettore dei malati e degli emarginati. La vicinanza temporale tra le due festività crea una continuità simbolica e pratica, soprattutto in paesi come Palmi, Gioiosa Ionica e Torre di Ruggiero, dove le feste di San Rocco sono tra le più sentite. Le celebrazioni in onore del santo si caratterizzano per processioni solenni, con statue portate a spalla per le vie dei paesi, accompagnate da bande musicali e preghiere. In alcuni casi, come a Palmi, la festa di San Rocco è un evento di straordinaria partecipazione popolare, con la “Varia”, una macchina processionale di origine antica, che rappresenta un momento di devozione collettiva.

    Le processioni sono spesso accompagnate da spettacoli pirotecnici

    Il bisogno e la speranza

    Il legame tra Ferragosto e San Rocco non è solo cronologico, ma anche culturale. Entrambe le festività incarnano il bisogno di protezione e di speranza in una terra che, storicamente, ha affrontato difficoltà economiche e sociali. Se l’Assunzione di Maria rappresenta l’elevazione spirituale e la promessa di salvezza, San Rocco è il santo della concretezza, colui che intercede per la salute e la protezione dalle calamità. In un certo senso, le due feste si completano: Ferragosto celebra la vita, la gioia e il raccolto, mentre San Rocco richiama la fragilità umana e la necessità di fede e solidarietà.

    Il senso contemporaneo di Ferragosto

    Oggi, Ferragosto è collocato tra la tradizione e la modernità. Da un lato, conserva il suo carattere di festa popolare e religiosa, con le sue processioni, i pranzi in famiglia e le celebrazioni comunitarie. Dall’altro, si è adattato ai tempi moderni, diventando anche un’occasione di promozione turistica e di riscoperta delle tradizioni locali. Negli ultimi anni, molti comuni hanno investito in eventi culturali e gastronomici legati a Ferragosto, come sagre dedicate ai prodotti tipici o festival musicali che attirano visitatori da tutta Italia. Tuttavia, il cuore della festa rimane immutato: è un momento di pausa, di riflessione e di gioia condivisa, che segna il passaggio dall’estate all’autunno, un tempo di transizione che invita a guardare indietro e avanti contemporaneamente.

    Le spiagge affollate sono un simbolo del Ferragosto

    La fine dell’estate, annunciata da Ferragosto, porta con sé una certa malinconia, soprattutto per gli emigrati che vivono lontano e che, dopo i giorni di festa, devono ripartire. Eppure, è proprio in questa transitorietà che si trova il senso più profondo della festa: un’occasione per riaffermare le radici, per ritrovarsi e per celebrare la vita, nonostante le difficoltà. Le feste di San Rocco, che seguono immediatamente, amplificano questo messaggio, ricordando che la comunità, la fede e la solidarietà sono i veri pilastri su cui si fonda l’identità calabrese.

    Tra radici pagane, cristiane e turismo

    Ferragosto, dunque, è una festa che trascende il tempo, unendo le radici pagane e cristiane a un presente fatto di convivialità, turismo e devozione. È un momento in cui i calabresi celebrano la loro terra, la loro storia e il loro senso di appartenenza, mentre si preparano a salutare l’estate. Le celebrazioni di San Rocco, che spesso si intrecciano con Ferragosto, aggiungono una dimensione di spiritualità e protezione, rendendo questo periodo un’occasione unica per riflettere sul passato e guardare con speranza al futuro. In un mondo che cambia rapidamente, Ferragosto e le feste di San Rocco restano un punto fermo, un richiamo alla memoria collettiva e alla forza di una comunità che, nonostante tutto, continua a celebrare la vita



  • Verso Sud con Gianni Berengo Gardin

    Verso Sud con Gianni Berengo Gardin

    Nel cuore pulsante del Mezzogiorno, dove il sole brucia la terra e il mare sussurra antiche storie, Gianni Berengo Gardin ha posato il suo sguardo, un occhio che non si limita a vedere, ma a narrare. È vissuto 94 anni, il maestro della fotografia italiana ci ha lasciato un’eredità che si lega profondamente col Sud, e in particolare con la Calabria, terra di contrasti e di verità nude, che egli ha saputo cogliere con la sua Leica, strumento di un artigiano che si definiva tale, rifuggendo l’etichetta di artista. “La foto migliore è quella che ha più cose da dire”, diceva, e nel Mezzogiorno ha trovato un universo di parole silenziose, di gesti quotidiani, di paesaggi che parlano di resistenza e di bellezza ferita.

    Berengo Gardin, veneziano d’adozione ma nato a Santa Margherita Ligure, era un antropologo dell’immagine, un poeta della realtà che, con il suo bianco e nero, ha dato voce a chi non l’aveva. Il suo rapporto col Sud è stato un dialogo costante, un viaggio d’amore e di impegno civile, come testimoniano i suoi scatti a Capocolonna, Pentedattilo, Stilo e il suo legame speciale con il festival di Corigliano Calabro Fotografia. La Calabria, con le sue rughe di storia e le sue cicatrici di modernità, è stata per lui non solo un soggetto, ma un interlocutore, un “luogo” dove il suo obiettivo si è fatto specchio di un’umanità viva e complessa.

    A Capocolonna, nel crotonese, Berengo Gardin ha fotografato l’anima di una terra che si aggrappa alla sua eredità greca, alla sua identità sospesa tra mito e abbandono. Qui, il suo sguardo ha colto il silenzio di un paesaggio che racconta millenni, ma anche la fatica di chi lo abita, di chi vive ai margini di un Sud spesso dimenticato. A Pentedattilo, il borgo fantasma aggrappato alle rocce della costa jonica, ha immortalato le pietre che sembrano parlare, le case abbandonate che custodiscono memorie di vite passate, in un bianco e nero che rende eterno il tempo sospeso. E a Stilo”, culla della Cattolica e di un Medioevo che ancora respira, ha catturato la spiritualità austera di una Calabria che si erge fiera, nonostante le sue ferite.
    Il suo legame con la Calabria si è consolidato attraverso il Festival di Corigliano Calabro Fotografia, che ha contribuito a fondare nel 2003 e dove tornava ogni anno, come un pellegrino della luce, per “respirare fotografia”, come lui stesso diceva. A Corigliano, non solo ha lasciato il suo segno con il progetto “Viaggio a Corigliano” (2004), un racconto visivo della città e dei suoi abitanti, ma ha anche incarnato un esempio per generazioni di fotografi, condividendo la sua visione etica e il suo rifiuto di un’estetica fine a sé stessa. “Non voglio interpretare, voglio raccontare”, ripeteva, e in Calabria ha raccontato una terra che non si arrende, che vive nei volti dei pescatori, nei mercati, nelle strade polverose, nei gesti semplici che diventano epici sotto il suo obiettivo.

    Il Sud di Berengo Gardin non è mai stato un cliché, né una cartolina pittoresca. È un Meridione vivo, fatto di contraddizioni, di lotte, di dignità. La sua fotografia sociale, ispirata dai maestri della Farm Security Administration come Dorothea Lange e dai grandi della Magnum come Henri Cartier-Bresson, ha trovato da noi un terreno fertile per esprimere la sua missione: documentare l’uomo, la sua fatica, il suo ambiente. Le sue immagini del marchesato crotonese e della Locride sono frammenti di un’antropologia visiva che restituisce al Sud la sua complessità, lontano dagli stereotipi di arretratezza o folklore. Sono immagini che parlano di un Meridione che resiste, che si trasforma, che porta sulle spalle il peso della storia e la speranza del futuro. Berengo Gardin ha fotografato il Sud con la stessa passione con cui ha immortalato Venezia, i manicomi di “Morire di classe” o gli zingari di Palermo.

    Ma in Calabria, forse, ha trovato qualcosa di unico: una terra che, come lui, rifiuta di piegarsi alla superficialità, che chiede di essere guardata con attenzione, con rispetto. Le sue foto di questa regione sono un canto d’amore e di denuncia, un invito a non distogliere lo sguardo da un Sud che, come lui diceva, “ha più cose da dire”. E oggi, mentre piangiamo la sua perdita, quelle immagini continuano a parlarci, a ricordarci che la fotografia, quando è vera, è un atto di giustizia, un abbraccio all’umanità.