Autore: Geppino De Rose

  • Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Alzi la mano chi, almeno per un attimo, non abbia subito pensato alla vecchia Cassa per il Mezzogiorno nell’apprendere della disponibilità dell’UE a valutare l’estensione del regime di favore delle Zes (Zone Economiche Speciali) a tutto il Mezzogiorno.
    Occorrerà del tempo, certo, per mettere a fuoco le tante questioni di merito che questa Zes Unica per il Sud, inevitabilmente, solleva sul piano delle politiche di attrazione degli investimenti.

    Zes Unica per il Sud: chi comanda però?

    Una prima questione, affatto secondaria, sembra tuttavia emergere sul piano della coerenza politica dello strumento.
    La domanda è: ma perché un governo che punta sull’autonomia differenziata (Lega e Salvini in primis) sceglie di virare su uno strumento centralista e dirigista come la Zes Unica (voluta fondamentalmente dal ministro Fitto e quindi da Fratelli d’Italia)per il Sud?
    E in tale scenario, le Regioni del Sud, che prima avevano le loro Zes, continueranno ad avere dei ruoli di definizione e governance delle politiche di attrazione e semplificazione? O, piuttosto, saranno chiamate ad una mera esecuzione di uno spartito immaginato a Roma e/o a Bruxelles?
    Ce n’è davvero tanta di incertezza da superare.

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    Le attuali Zes in Italia

    Il derby nella maggioranza: dirigisti vs liberisti

    L’impressione è che, conclusasi la luna di miele post elettorale, comincino a cristallizzarsi quelle differenze di fondo che, comunque, la coalizione legittimamente esprimeva ed esprime.
    La mia impressione è che un derby dirigisti-liberisti appaia chiaramente profilarsi all’orizzonte perché, così come già sta accadendo su Giustizia e Fisco, anche la questione dell’autonomia differenziata non fa impazzire di gioia il maggiore partito dell’alleanza e cioè Fratelli d’Italia. Partito che, sempre più chiaramente, tende a raffreddare gli eccessi liberisti della Lega e, in misura meno accesa, di Forza Italia.

    Zes Unica per il Sud: la sfida perfetta

    Chi definisce la politica industriale? Il governo centrale, sentiti i territori, o saranno i territori a farlo magari in coerenza con le scelte già adottate, ad esempio nei partenariati della programmazione europea 2021/27?
    Risposte non semplici anche perché, alla vigilia delle elezioni europee che saranno, come noto, su base proporzionale, nessuno ha voglia di sbagliare messaggio al proprio elettorato di riferimento.
    La Zes Unica per il Sud è la sfida perfetta: centralismo vs regionalismo, statalisti vs liberisti, Fratelli d’Italia vs Lega e Forza Italia.

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    Il porto di Gioia Tauro è la Zes calabrese

    Semplificazione e strategia

    E la sinistra? Abbastanza incredibilmente il PD, a giudicare almeno da una dichiarazione del capogruppo alla Camera, sembrerebbe non gradire l’annuncio centralista del ministro Fitto accusando, piuttosto, il governo di ritardare colpevolmente, da mesi, l’istituzione della Zona logistica semplificata della Toscana.
    Il che sembrerebbe legittimare un giudizio negativo verso le Zes Uniche per il Sud.
    Insomma una situazione tutta in divenire alla quale occorrerà dedicare la giusta attenzione nei prossimi mesi. Di sicuro il Sud ha bisogno di attrarre investimenti e di dotarsi di procedure autorizzative semplificate.
    La speranza è che nell’ansia della semplificazione non si dimentichi il disegno strategico complessivo della politica industriale al Sud.
    Spesso è accaduto.

  • Il primo Silvio e la rivoluzione liberale

    Il primo Silvio e la rivoluzione liberale

    Silvio Berlusconi ha avuto un grande merito: ha offerto identità, spazio politico e rappresentanza ad una miscellanea di anime culturali da sempre presenti nel Paese.
    Liberisti e cattolici liberali, neo corporativisti, nazionalisti, europeisti, socialisti, atlantisti, riformisti: tutto, in una precisa fase storica, è entrato a far parte di Forza Italia.
    La narrazione, spesso disonesta, del berlusconismo ha finito per cancellare questa straordinaria intuizione di Silvio Berlusconi: sdoganare, come si diceva spesso, aree e bisogni precisi che in un grande Paese come il nostro risultavano schiacciati dal mainstream della sinistra e del sindacalismo manierista e militare della Triplice che tutto occupava e tutto gestiva.

    Berlusconi sdoganò politicamente anche gli ex missini come Gianfranco Fini

    Affascinati da quella Forza Italia

    Ecco perché un liberista come il sottoscritto, amante del libero mercato e della deregolamentazione, si lasciò affascinare, insieme a ad altri amici, dal progetto di Forza Italia. La rivoluzione liberale, la curva di Laffer, lo Stato che arretra, le privatizzazioni erano luoghi magici dell’immaginario dei liberisti di quegli anni.
    Silvio Berlusconi ha avuto il merito di creare un luogo politico dove declinare questa visione della società.
    Gli uomini della prima Forza Italia erano Pera, Martino, Baget Bozzo, Urbani: intellettuali di prestigio che fungevano da garanti del disegno politico e della grande intuizione di Silvio Berlusconi.

    Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa nei governi Berlusconi

    Il primo Berlusconi e poi?

    Occorre distinguere, con coraggio, il primo Berlusconi dal Berlusconismo degli anni successivi. Le idee, anche quelle grandi, camminano sulle spalle degli uomini. Se sbagli gli uomini e le donne a cui affidare il progetto, fatalmente, finisci per indebolirlo. Ed è esattamente ciò che è capitato, negli anni, al disegno di Berlusconi. Non passi dal 34% al 7% dei consensi elettorali per caso.
    Ma tutto ciò non deve cancellare il portato storico dell’intuizione di Silvio Berlusconi: se solo si fosse riusciti a mantenere la barra dritta quando la maggioranza berlusconiana sfiorava il 40% oggi, forse, parleremmo di un’Italia diversa con più attenzione al merito e all’equità fiscale.

    Cosa lascia all’Italia

    Questo nulla toglie alla stagione ideale del primo Berlusconi. Questo Paese deve a Silvio Berlusconi il merito storico di aver salvaguardato, tutelato e rappresentato un bisogno di modernità e di europeismo, di moderazione e di valori liberali, di mercato ma anche di attenzione al sociale.
    Il berlusconismo eticamente debole, immaginato dalla sinistra, è frutto di una deriva inarrestabile del sistema di potere e dei tanti cerchi magici che hanno accompagnato la stagione finale del leader.
    Ma questo Paese al di là delle tante contraddizioni deve dire grazie a Silvio Berlusconi.
    Senza di lui avremmo avuto meno alternanza democratica, meno innovazione istituzionale, meno mercato e soprattutto tanta retorica di sinistra.
    Berlusconi non era un santo. Nessuno di noi lo è.
    Grazie presidente.

  • I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    Già da diverso tempo l’Università della Calabria figura nelle posizioni di vertice della graduatoria mondiale della computer science e dell’intelligenza artificiale.
    Un risultato straordinario. Ancora di più se si pensi, solo per un attimo, che in Calabria per avere un’Università abbiamo dovuto attendere sino al 1970. Giusto per avere un’idea: ben 9 secoli di ritardo rispetto a Bologna (1088), più di 7 secoli rispetto a Napoli (1224), più di 5 secoli rispetto a Catania (1434).
    Un’eternità sul piano dello sviluppo sociale ed economico.

    Un record inaspettato

    La domanda è intrigante: com’è stato possibile scalare in soli 50 anni la classifica mondiale in settori così strutturati e trasversali come la computer science e l’intelligenza artificiale?
    A dispetto della sempiterna narrazione della Calabria miserabile e dei soldi pubblici sprecati in opere e attività inutili, l’eccellenza calabrese nella computer science e nell’intelligenza artificiale ha invece una storia bellissima di visione strategica e di creazione di capitale umano in aree fortemente svantaggiate.

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    Intelligenza artificiale e Computer science: i due primati dell’Unical

    Sergio De Julio: un pioniere a via Bernini

    Tutto iniziò in un luminoso appartamento di via Bernini 5, a Rende. Lì uno scienziato visionario e certamente un po’ folle, date le condizioni di partenza e l’assoluta inconsistenza del tessuto formativo, il prof Sergio De Julio, decise di creare il Crai (Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni in Informatica), insieme a partner istituzionali e privati altrettanto visionari.
    Fu uno dei primi casi di virtuosa collaborazione pubblico-privato sostenuta da finanziamento pubblico (il famigerato intervento straordinario) che investì sulla formazione di qualità (oggi si dice d’eccellenza, ma la sostanza non cambia) nell’informatica, che stava mostrando già allora i segni della sua implacabile trasversalità nel futuro delle tecnologie di produzione e in quelle della società nella sua più ampia accezione. De Julio ha avuto il merito di intuire 50 anni fa questa transizione digitale (altro che Pnrr) e di investire sulla formazione di giovani calabresi.

    Un miracolo calabrese

    Io, che ho avuto la fortuna di frequentare (in verità per pochi mesi, prima di partire per gli Stati Uniti) via Bernini e poi la villetta di via Modigliani, sono stato testimone di questo miracolo calabrese.
    Se provo oggi con la mente a ripercorrere quegli ambienti e quel clima di serietà, di rigore scientifico ma anche di straordinaria amicizia e umanità, rivedo in quelle stanze piene di computer tanti giovanissimi ricercatori dalle barbe incolte e dagli occhi pieni di entusiasmo e di lucida follia. Tanti ricercatori esteri.
    Chi partiva per la California, chi tornava da Vienna, chi pianificava il suo Phd a Berkley: insomma. era un ambiente esplosivo, assolutamente inedito per una Calabria abituata alle sonnolente domeniche in tv con Pippo Baudo e la guantiera di dolci da portare a casa della fidanzata. Ben altri ritmi e rituali.

    L’area di ingegneria dell’Unical

    I ragazzini terribili di Sergio De Julio

    Erano loro, i ragazzini terribili di Sergio De Julio, quelli che avrebbero segnato indelebilmente il successo mondiale dell’Unical nei settori dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.
    Provate a leggere i curricula di autorità scientifiche mondiali del calibro di Nicola Leone (attuale rettore dell’Università della Calabria), Manlio Gaudioso, Domenico Saccà, Domenico Talia, Pasquale Rullo, Sergio Greco, Giuseppe Paletta e chiedo scusa ai tantissimi altri che, colpevolmente, dimentico in questa sede.
    Troverete orgogliosamente citate, nelle righe dei loro esordi professionali, le esperienze maturate nel Crai insieme al professor De Julio, lucido e folle visionario.
    Un primato da difendere

    Perché quest’amarcord, vi chiederete. Domanda legittima. Perché è bene che le nuove generazioni di studenti che affollano le aule di informatica dell’Unical conoscano e apprezzino il capolavoro che è stato realizzato in Calabria. Che difendano il Dna di questo miracolo calabrese. Perché non ci si abitui al titolo di campioni del mondo e che continuino ad onorare la storia di questi, ormai ex, ragazzini terribili che hanno fatto la differenza in un’unità di tempo assolutamente breve e incredibile.
    Nella speranza, magari, di creare un nuovo nucleo di ragazzini terribili pronti a cogliere, affrontare e vincere le sfide del prossimo secolo.
    In Calabria, sissignore. Proprio dall’Università della Calabria. La nostra Università.

  • L’importante è il Mediterraneo: sì, ma quale?

    L’importante è il Mediterraneo: sì, ma quale?

    Puntuale come l’allergia a primavera, è arrivato anche stavolta il richiamo alla magia del Mediterraneo. È stato subito un fiorire di sigle accattivanti: Hub Mediterraneo, Stati generali del Mediterraneo, Missione Mediterraneo e via dicendo.
    Se analizziamo i programmi di governo dal 1980 in poi, parliamo quindi di oltre 40 anni, troviamo sempre un rinvio alla necessità del nostro Paese di puntare verso scelte di posizionamento culturale e commerciale capaci di privilegiare la nostra natura mediterranea piuttosto che inseguire la locomotiva tedesca e nord europea con i suoi numeri, per noi, irraggiungibili.

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    Soprattutto per il Sud, si diceva e si dice, il Mediterraneo deve diventare un’opportunità strategica, dato il nostro posizionamento geografico e la presenza di infrastrutture importanti quali il Porto di Gioia Tauro.
    Tutto bene se non fosse per un unico piccolo dettaglio che non appare ben considerato nelle riflessioni sinora espresse dalle forze politiche, sociali ed imprenditoriali: di quale Mediterraneo parliamo?

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    Il porto di Gioia Tauro

    Ma che cos’è questo Mediterraneo?

    Usciamo dall’equivoco e dalla genericità. Non esiste il Mediterraneo. Esistono diversi Mediterranei che dovremmo avere il coraggio, politico, di valutare e, parallelamente, di scegliere.
    Ci riferiamo al Mediterraneo Occidentale? E cioè a Marocco, Algeria e Tunisia?
    Ci riferiamo al Mediterraneo Centrale? E cioè a Libia ed Egitto?
    Ci riferiamo al Mediterraneo Orientale? E cioè a Israele, Libano, Siria, Turchia?
    E nel caso del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, quale dovrebbe essere il criterio di selezione geo-politico di queste tre aree?

    Se è vero, da un lato, che la recente crisi energetica e migratoria ha finito per sdoganare relazioni culturali (di facciata) con paesi mediterranei in possesso di DNA democratici non proprio affini alla realtà europea (Algeria e Turchia in primis), siamo proprio sicuri che la creazione di nuove relazioni commerciali possa bastare a fare del Mediterraneo una prospettiva di sviluppo stabile e concreta per il Sud?

    Paese che vai, problema che trovi

    La mia impressione è che non basti. Intanto Tunisia, Marocco, Israele, e per tanti versi anche la Turchia, sono nostri diretti concorrenti, spesso anche vincenti in termini di leadership di prezzo, in molti segmenti dell’agroalimentare (olivicoltura e agrumicolo soprattutto) e del turismo di massa (Egitto e Turchia soprattutto).

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    Dromedari sulla spiaggia di Sharm El Sheikh

    La Libia non ha governance politica certa. La Tunisia è vicina al default. L’Algeria e il Marocco sono sempre a un passo dal dichiararsi guerra per la questione del Sahara occidentale. Nel Libano secondo Save the Children il 37% della popolazione ha addirittura problemi di nutrizione. Di Siria è quasi pleonastico parlare.

    Mediterraneo, Sud e Calabria

    Allora signori, per piacere, facciamo uno sforzo di onestà intellettuale. Che significa diventare hub del Mediterraneo? Che significa puntare al Mediterraneo? Parliamo di internazionalizzazione attiva o passiva?
    Mi spiego meglio: stiamo forse provando ad indossare, come italiani, l’abito di un neo-colonialismo strisciante travestito da solidarismo europeo? E l’Italia, oltre alle forniture di gas da ottenere da regimi dittatoriali, ha i mezzi e la finanza pubblica per interpretare questo ruolo senza sfiorare il ridicolo? E il Sud e la Calabria, alle prese con LEP che il ministro Calderoli intende assicurare stornando gli euro del Fondo Coesione non spesi (colpevolmente) dalle Regioni, che ruolo avranno? Venderemo le melanzane sott’olio ai tunisini o le settimane al mare, magari a Tropea, agli egiziani?

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    La Tropea da cartolina

    Intanto la Cina…

    Qual è la politica industriale che il Paese ha immaginato e per quale paese del Mediterraneo? Qualcuno si è accorto, ad esempio, che gli investimenti diretti cinesi nel Mediterraneo sono avvenuti in infrastrutture strategiche come i porti attraverso l’acquisizione di partecipazioni nelle relative società di gestione? Parliamo di Marsiglia, Ambarli, Valencia, Pireo, Port Said, Marsaxlokk, Cherchell, Haifa, Istanbul.
    Certo, si dirà, questa non è una buona ragione per desistere ma, vivaddio, potremmo ragionare su singoli progetti e su singoli paesi e non ricorrere sempre alla formula salvifica di Mediterraneo che finisce per non significare nulla?

    Obiettivi, non slogan

    E allora perché non provare a costruire da subito un Master plan con indicazione di Paese, Settori, Progetti, Obiettivi e Sostenibilità finanziaria cercando di dare alla politica il senso del governo per obiettivi e non per slogan ormai quarantennali e davvero desueti?
    Il Mediterraneo ringrazia per le risposte che la politica riuscirà, sicuramente, a dare.

  • Silicon Valley Bank: crolla il mito ma cosa rischia la Calabria dell’innovazione?

    Silicon Valley Bank: crolla il mito ma cosa rischia la Calabria dell’innovazione?

    Inutile giraci intorno: il crack della Silicon Valley Bank ha creato sgomento. È caduto un mito e quando crollano i miti ti senti smarrito, incapace di elaborare una ragione, avverti la tua debolezza.

    È un po’ come quando perdi un grande amore. Negli ultimi 40 anni chiunque (e fra questi il sottoscritto) parlasse di start-up, di risk capital, di innovazione finanziaria, di nuova imprenditorialità legata ai follow up della ricerca universitaria finiva per citare la Silicon Valley Bank come eccellenza mondiale e come modello (best practice, dicono quelli bravi) da replicare nei contesti produttivi maggiormente orientati alla ricerca.

    Il crollo della Silicon Valley Bank ha determinato una immediata reazione negativa dei mercati

    Non vi era convegno, seminario, club deal o acceleratore d’impresa che prescindesse da lei: l’istituzione finanziaria californiana capace di dare credito alle idee d’impresa piuttosto che agli immobili da ipotecare in garanzia, come fanno le banche di casa nostra. E giù la raccomandazione (rigorosamente inascoltata) data a diverse generazioni di politici di creare istituzioni finanziarie (magari anche regionali) con la specifica mission (oh yes) di dare credito alle idee di ragazze e ragazzi, magari squattrinati, ma con una solidità visionaria e nuove ipotesi di prodotto, di modelli di consumo da lanciare sul mercato.

    Inutile ora cercare di capire le cause (tassi elevati, inflazione sottovalutata, aspettative in forte ritirata, il Metaverso che entra in conflitto con l’economia reale, la FED troppo ortodossa in materia monetaria, probabilmente un po’ di tutto ciò). Ci vorranno mesi, e forse anni, per un’analisi seria e credibile.
    Cerchiamo piuttosto di capire se è in crisi il modello della Silicon Valley. Anche perché, per quanto apparentemente lontana, questa evoluzione del modello dell’innovazione a tutti i costi potrebbe a breve presentare il conto, non proprio gradevole, a tutti i paesi dell’UE e, fra questi, soprattutto a quelli che hanno creato distretti industriali legati all’innovazione.

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    L’Università della Calabria, polo di eccellenza nel settore dell’innovazione

    La Calabria dell’innovazione

    E qui entra in gioca anche la nostra remota e lontana Calabria che, come noto, ha poggiato buona parte delle sue idee di sviluppo proprio sull’innovazione e sul ruolo delle università. Ripetiamoci: il problema non è solo il rischio di contagio del crollo finanziario in sé (le banche europee hanno portafogli diversificatissimi e non specializzati come nel caso della SVB). Risentiranno magari di qualche reazione emotiva in borsa ma i fondamentali dovrebbero tenere. Almeno si spera.

    Ad entrare in discussione potrebbe essere, piuttosto, il concetto stesso di distretto innovativo con filiere iper specializzate dove il valore è dato esclusivamente dal tempo necessario ad una linea di ricerca applicata di diventare prima brevetto, prototipo, business idea, progetto d’impresa e poi finalmente start up. Per dirla con gli americani (e sempre con quelli bravi) il time-to-market.

    Sono anni che suggerisco ai decisori politici di casa nostra, a volte amici a volte meno, di recuperare l’idea sempreverde della filiera integrata per allineare la politica industriale alle vocazioni territoriali e soprattutto di non confondere l’occupazione di breve periodo con il vero obiettivo di questa scelta.
    Il campanello d’allarme della californiana SVB significa, alle nostre latitudini, che la cultura dell’innovazione non deve trasformarsi in ossessione di mercato. Prodotti con cicli di vita troppo brevi, ad esempio, non diventano, meccanicamente, un fiore all’occhiello del sistema produttivo. Possono essere, al contrario, elementi di rigidità e di propensione alla crisi strutturale con effetti negativi a catena su occupazione, risparmio, domanda, investimenti.

    Questo non significa essere contro l’innovazione. Significa che il legame tra uomo e cultura, tecnologia e prodotto sta perdendo coerenza e logica.
    Non è caduta solo una banca. È caduta la Silicon Valley Bank.
    L’antropologia culturale dell’uomo veloce, multitasking a tutti i costi e virtualizzato nel metaverso potrebbe ricevere dal mercato un brusco richiamo alla realtà.
    Ma io no, non posso negarlo, ho perso un altro mito.

  • Autonomia differenziata: occhio ai furbetti della politica industriale

    Autonomia differenziata: occhio ai furbetti della politica industriale

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    Una domanda, sinistra e fatale, si aggira fra le tante (troppe) perplessità generate dall’ondata testosteronica leghista in materia di autonomia differenziata: la politica industriale toccherà alle Regioni o manterrà un profilo nazionale?
    Non sembri una domanda oziosa perché dalle diverse, possibili – e affatto semplici – risposte discenderanno conseguenze non proprio banali per i sistemi produttivi nazionali e regionali.

    Ora, sebbene il testo del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri, parli genericamente della possibilità offerta alle Regioni a statuto ordinario di godere di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in tutta una serie di settori tra cui anche alcuni attualmente di competenza esclusiva dello Stato”, il rischio che corre la politica industriale è altissimo.

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    L’attuale Consiglio dei Ministri in riunione

    Autonomia differenziata: la lista (leghista) dei desideri

    Se guardiamo le 23 materie potenzialmente oggetto di autonomia comprendiamo subito che quasi tutti gli strumenti, tradizionali, di politica industriale sono compresi nella famigerata lista delle 23 aree oggetto del desiderio leghista.
    Solo per citarne alcune: innovazione, trasporto, ricerca scientifica e tecnologica, porti e infrastrutture, governo del territorio, comunicazione, credito regionale, energia, istruzione, salute.
    Praticamente tutto. Troppo.

    Ricchi e poveri? Non solo

    Il rischio è quello di creare un sistema infernale di dialetti regionali su materie che richiederebbero al contrario linguaggi unitari e, soprattutto, dimensioni da ottimizzare su scale territoriali sempre più larghe.
    Non si tratta solo di ricchi e poveri, di LEP perequati o di spesa storica e fabbisogni standard. La questione, sulla politica industriale, è ancora più sottile e pericolosa perché impatta sul modello di governo di tutte le filiere produttive.

     

    L’attuale frontiera tecnologica, digitale e sostenibile, mira infatti all’integrazione tra filiere puntando sulla cosiddetta intelligenza artificiale generativa. Un sistema integrato di soluzioni produttive che vedono impianti istruiti (attraverso il machine learning) ad eseguire operazioni anche in remoto e soprattutto ad impatto ambientale potenzialmente neutro.machine-learning

    Occhio ai furbetti

    Le domande sono quasi scontate:

    • Chi governerà e con quali priorità la politica industriale derivata dall’intelligenza artificiale?
    • Quali LEP fungeranno da indicatori della perequazione tecnologica in materia digitale tra le Regioni? Assisteremo ad alleanze strategiche tra regioni produttive a maggiore specializzazione e intensità tecnologica?
    • Queste alleanze possono alterare i meccanismi di ripartizione fiscale delle risorse su scala nazionale? Corriamo il rischio di creare nuovi centri e nuove periferie geopolitiche?
    • Corriamo il rischio di trasformare il Paese in macro aree con tentazioni ultra autonomiste e miraggi di alleanze extra nazionali giustificate, o peggio ancora, mascherate da specializzazioni produttive e numeri su PIL mozzafiato?

    Sono solo domande certo. La veemenza leghista sui tempi non promette niente di buono. Occorre serenità, tempo, riflessione politica e analisi rigorosa sugli scenari potenziali. Magari per evitare che i soliti furbetti approfittino dell’autonomia differenziata per fare della politica industriale una questione “loro”. Tutta loro. Solo loro.

  • ChatGPT, Metaverso e la Calabria che può sorprendere

    ChatGPT, Metaverso e la Calabria che può sorprendere

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    Neanche il tempo di capire cosa fosse e a cosa potesse servire il Metaverso che dall’angolo sbuca ChatGPT. Praticamente una soluzione di intelligenza artificiale, creata dalla californiana OpenAI, capace di risolvere equazioni, comporre poesie, elaborare testi, addirittura superare, come già sperimentato, test di ammissione alle Graduate School. Basta fargli una domanda on line e lei/lui (dipende dalla fluidità di software) in pochi istanti elabora risposte.

    Secondo Christian Terwiesch, docente della prestigiosa Wharton Business School della Pennsylvania, «ChatGPT è in grado di surclassare alcuni dei suoi migliori studenti all’esame sul corso di operation management, nel Master in Business Administration».
    Avete voglia di verificarlo? Semplice: cliccate qui. Basterà solo avere la pazienza necessaria per aspettare il vostro turno visto che è assediato da richieste globali.

    ChatGPT e l’analfabetismo funzionale

    C’è da restare affascinati. Certo il sistema ha dei limiti, nel senso che genera testo incrociando la conoscenza che incontra nei miliardi di documenti presenti in rete. Non ha senso critico, non è capace di correggersi o di sviluppare idee nuove. Per il momento, ancora, non lo fa. Di sicuro con questa chatbox vanno in soffitta, da subito, compiti a casa, prove concorsuali, esami di stato e persino, forse, le lettere d’amore.

    chatgpt-aiFare i conti con l’intelligenza artificiale sarà la vera sfida educativa ed economica dei prossimi anni. Rischiamo di vedere intere generazioni condannate precocemente ad una sorta di subdolo analfabetismo funzionale. Non è proprio un caso se, già da tempo ormai, organismi internazionali del calibro del World Economic Forum, avvertono che già «dal 2025, addirittura il 50% di tutti i lavoratori avrà bisogno di reskilling (ristrutturazione delle competenze) e il 40% delle competenze base degli attuali lavoratori cambierà».

    Niente paura né facili entusiasmi

    Intelligenza artificiale, Internet dei Sensi e, da poco, Metaverso e ChatGPT, appaiono disegnare traiettorie tecnologiche destinate a rivoluzionare i processi produttivi, i modelli di consumo e la socialità.
    Si tratterà, come al solito, di governare l’innovazione senza arretrare spaventati dinanzi alle nuove opportunità. E anche, diciamocelo pure, di non esaltarci anzitempo rispetto ai miracoli promessi/minacciati dall’intelligenza artificiale.

    Delle due l’una: o si condanna la società all’analfabetismo tecnologico funzionale o si cambia il modello sociale di produzione. Immaginare, oggi, carriere lavorative e contributive di 40 anni prima di andare in pensione è, praticamente, fumettistico. In quarant’anni, con l’attuale velocità di trasformazione, si succedono almeno quattro generazioni tecnologiche.

    L’Università della Calabria e l’intelligenza artificiale

    In tutto ciò la bistrattata Calabria appare meno fragile e ultima, come da consolidato copione. L’Università della Calabria vanta infatti competenze e professionalità che la pongono ai primi posti nelle graduatorie mondiali dell’intelligenza artificiale. Roberto Occhiuto conosce bene questo primato e sembra sinceramente intenzionato a farne un vantaggio competitivo per le sue politiche di sviluppo. La recente istituzione del corso di laurea in Medicina e Tecnologie Digitali ne è la prima importante testimonianza.

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    L’Università della Calabria

    Ma i campi sono praticamente infiniti. Metaverso e promozione turistica, intelligenza artificiale nell’agricoltura di precisione, ChatGPT nell’assistenza sociale e tantissimi ancora.
    Paradossalmente, o quasi, la Calabria potrebbe diventare la regione leader nel Mediterraneo per lo sviluppo e l’implementazione di nuove catene di valore economico e sociale supportate da soluzioni di intelligenza artificiale. Vogliamo provarci?

  • Capitale civico, il grande deficit della Calabria maleducata

    Capitale civico, il grande deficit della Calabria maleducata

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    C’è un ritardo in Calabria di cui nessuno parla e che sembra interessare poco tutti gli analisti e gli esperti di sviluppo. Parliamo del capitale civico.
    Un insieme di regole e comportamenti virtuosi, di prassi sociali non codificate, di rispetto implicito dell’altro qualsiasi esso sia, di eleganza sociale legata alla convivenza urbana e rurale. Qualcosa di diverso e, forse, di più importante della semplice e “banale” legalità. Sono regole e prassi che qualificano un territorio e spesso ne marcano la differenza in termini di vantaggio competitivo.

    L’educazione che non c’è

    La Calabria sembra, nella media, drammaticamente priva di questo capitale che spesso rende il nostro territorio non attrattivo.
    La spazzatura non conferita correttamente o lanciata dal finestrino dell’auto, il cameriere sgarbato nella famosa località turistica, il furbetto della fila o del parcheggio, l’arroganza di un medico o di un infermiere al pronto soccorso, i telefoni dei pubblici uffici che suonano a vuoto per ore, le strisce pedonali intese come ostacoli alla pole position di chissà quale Gran Premio… potremmo continuare all’ infinito.

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    Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    La quotidianità di noi calabresi, ammettiamolo, è caratterizzata da una assoluta mancanza di capitale civico con cui conviviamo quasi rassegnati. Eppure occorrerebbe partire proprio da progetti di rafforzamento di questo specifico capitale per disegnare una nuova stagione o filosofia di interventi. Non ci sono PNRR o POR capaci di incidere concretamente sul territorio se manca questo capitale. Ma in tutti i programmi di sviluppo non vi é traccia di questo enorme problema. A scuola, negli anni 70, si insegnava educazione civica, una sorta di alfabetizzazione giuridica sulla Costituzione della Repubblica italiana. Utile ma non sufficiente.

    Altro che legalità, serve il rating di capitale civico

    Occorrerebbe premiare i comportamenti virtuosi, usare i social come vetrine educative, puntare su rating di capitale civico negli esercizi commerciali, negli uffici pubblici, nella sanità, nelle prassi urbane.
    Non basta un rating di legalità, un certificato antimafia o un DURC a sintetizzare la qualità di un territorio o di un contesto produttivo se, poi, la media dei comportamenti sociali esprime miseria e inciviltà.

    Si può e si deve “vascolarizzare” il tessuto regionale di civismo, di intelligenza sociale, di educazione sentimentale verso gli altri.
    Credo sia questa la vera innovazione, la prima priorità del territorio regionale. Ridurre il gap di capitale civico che ci separa dalle altre regioni. Non solo più ricche o più sviluppate. Solo tristemente più civili.
    Inutile negarlo o autoassolverci: siamo civicamente arretrati.

  • Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Vorrei iniziare con una domanda provocazione: che fine ha fatto “la mano invisibile del mercato” nelle scelte del centrodestra?
    Già solo a leggere i programmi economici, si intuisce un caos spaventoso. Si passa dalle grandi opere infrastrutturali, tipo Ponte sullo Stretto e Alta Velocità ferroviaria (quale volano keynesiano dello sviluppo e della creazione di ricchezza) alla flat-tax di Laffer, quale strategia fiscale a supporto della crescita e dei consumi ( e qui siamo in piena supply side economics) fino ad arrivare, nelle scelte degli enti locali territoriali, addirittura, alla gestione semi diretta (simil-IRI per intenderci) di impianti termali, di aeroporti e chissà di cos’altro ancora.

    Centrodestra: tanti voti e poche idee?

    La risposta più ovvia, ma da evitare, è sempre quella: attese le diversità delle anime politiche che lo abitano, il centrodestra resterebbe un efficacissimo cartello elettorale ma un debolissimo progetto politico ed economico.
    Tale caratteristica legittimerebbe le asimmetrie ideologiche e il coacervo, apparentemente irrazionale, di approcci alle questioni di politica economica. Troppo semplice, quasi banale.
    La mia impressione è che ciò sia dovuto a qualcosa di più problematico: si tratterebbe, al contrario, di una risposta politica alla complessità di una fase storica che non consente lussi, quali l’eleganza metodologica piuttosto che l’ortodossia ideologica, nella definizione delle policy.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il centrodestra ha abbandonato ormai da tempo la polverosa identità del sogno berlusconiano per sfociare in un pragmatismo deputato a fare sintesi tra liberismo-liberalismo, sovranismo e destra sociale.
    A ben vedere, le tre anime ideologiche del centrodestra stanno provando a cedere quote parte della propria sovranità culturale a vantaggio di un passaggio successivo capace di riallinearle sotto una comune veste strutturale.
    Sarà, forse, la formula istituzionale del (semi) presidenzialismo la nuova frontiera comune del centro destra? E quale DNA economico animerà il nuovo contenitore liberale dei conservatori italiani?

    Che si fa con la destra sociale?

    Deglobalizzazione ed emergenze ambientali, di sicuro, offriranno poco spazio a nostalgie di governance ispirate al liberismo puro.
    D’altra parte, considerando che, in termini elettorali, allo stato, Lega e Forza Italia, insieme, pesano meno di Fratelli d’Italia, appare ovvio immaginare una precisa riconfigurazione delle direttrici di politica economica, non propriamente ispirate al sovranismo e al liberismo della Lega e di alcuni settori di Forza Italia.

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    Le percentuali alle Politiche 2022

    Tuttavia, e qui sta la novità, molti politologici e troppi economisti tendono, inspiegabilmente, a sottovalutare la significativa matrice di destra sociale che caratterizza Fratelli d’Italia. Identificare la destra sociale nella destra liberista (o presunta tale) di Berlusconi e Salvini rappresenterebbe un grande errore e non restituirebbe la vera immagine della coalizione attualmente al governo. Le battaglie su periferie, ceti deboli, ruolo dello Stato, emarginati, famiglie, artigiani sono da sempre il terreno di coltura della destra sociale e di Fratelli d’Italia.

    Liberali all’italiana: il centrodestra e il mercato

    L’impressione è che si vada verso una nuova economia sociale di mercato capace di coniugare crescita e redistribuzione passando per il rafforzamento pubblico degli asset infrastrutturali (energia, autonomia alimentare, digitale, trasporti) senza arrossire dinanzi alla necessità della difesa degli interessi nazionali.
    Presidenzialismo, identità nazionale, nuove autonomie territoriali, Europa, mercato, politiche redistributive: il nuovo partito dei liberali italiani, forse, sta già muovendo i primi passi.

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    Attenzione tuttavia a non confondere, come spesso accade, tale possibile evoluzione con il modello renano (o neo corporativo) prevalente in Germania o Giappone, dove coesistono libertà di mercato, concertazione, dirigismo e, soprattutto, sindacati proattivi.
    La sfida italiana è più sottile e, nello stesso tempo, meno agevole.
    Dinanzi ad uno scenario inedito, fatto contemporaneamente di lotta al debito pubblico e di inflazione a doppia cifra, che politica economica e fiscale possiamo permetterci? E ancora, cosa significa essere liberali o attenti al sociale, con risorse pubbliche mai così rare e con imprese mai così insicure in termini di aspettative?

    Oltre le Regioni

    Occorre, forse, che questo centrodestra ripensi il paradigma dell’economia sociale di mercato. Un primo ordito metodologico potrebbe consistere nel rilancio (finalmente) del capitale civico, dell’economia civile e del protagonismo territoriale delle categorie. Costruire cioè unità geopolitiche diverse dalle attuali Regioni (troppo indistinte ed inefficienti) ed aggregare policy e territori sulla base di filiere produttive e sociali condivise.
    Il centrodestra potrebbe tentare di approcciare, ad esempio, la questione meridionale rivoluzionando la scala degli interventi e piuttosto che varare l’ennesimo piano decennale per il Sud (fatalmente destinato al flop, al pari dei suoi predecessori come la legge 64/1986) puntare finalmente su programmi di filiera capaci di aggregare territori omogenei e non “Regioni” ormai prive di senso identitario e politico.

    La sede della Giunta regionale della Calabria a Germaneto

    È ora di dire basta ai soliti POR e agli ormai ventennali partenariati regionali fantasma che nulla discutono, tutto approvano e poco spendono.
    Il dibattito è aperto. Servirebbe un po’ di coraggio. Politico. Anche europeo.

  • Economisti alla deriva nell’era del «Sì, ma…»

    Economisti alla deriva nell’era del «Sì, ma…»

    Sulla stampa economica internazionale, nell’ultima settimana, è apparsa una fortunata sintesi linguistica, la Yes, But Economy, per descrivere la sorprendente incongruenza delle tradizionali categorie interpretative di chi, per sfortuna o per scelta, si trova a svolgere il mestiere dell’economista.
    L’economia del “sì, ma”, giusto per tradurre alla meno peggio la fortunata formula coniata dalla stampa specialistica USA, è legata al crollo delle residue certezze degli economisti.

    Inflazione mai così alta in 40 anni? Si parte

    Qualche esempio anche italiano: gli economisti sono preoccupati dalla recessione legata all’energia? Sì, ma (appunto) nel frattempo il mercato del lavoro registra le migliori performance dell’ultimo decennio in materia di nuova occupazione creata.
    L’inflazione non è mai stata così alta negli ultimi 40 anni? Sì, ma (e sono due), solo per il Ponte dell’Immacolata, 12 milioni di italiani si sono messi in viaggio, incuranti del caro bollette e di Salvini al governo.

    Il divario tra Nord E Sud si allarga o no?

    La Svimez presenta l’ennesimo bollettino di guerra sullo stato di salute dell’economia meridionale dicendo che il divario con il Nord si allarga? Sì, ma (ancora?) esistono alcune filiere produttive meridionali (energie rinnovabili in primis) che possono fare per il Sud la differenza nei prossimi anni.
    Il triangolo debito pubblico, inflazione, guerra fa paura? Certo che sì, ma (e basta) ecco che l’Istat, per novembre 2022, stima un aumento sia dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 90,1 a 98,1) sia dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 104,7 a 106,4).

    Grande è la confusione sotto il cielo, specie per gli economisti

    Potrei continuare all’infinito. È chiaro o no che ormai sono saltati tutti i paradigmi dell’analisi economica tradizionale e che nessuno (e dico davvero nessuno) ha ormai nelle mani ragionevoli strumenti di previsione del cosa ci aspetti proprio dietro l’angolo?
    E per piacere non rispondetevi con un sì, ma…