Autore: Francesco Cirillo

  • Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    L’allarme tsunami diramato in tutta fretta dalla Protezione civile il 4 dicembre scorso ha mandato in fibrillazione tutti i comuni della costa tirrenica. Hanno chiuso scuole, uffici, bar e tutto ciò che si trova sul lungomare. Poi, cessato l’allarme, i residenti hanno cominciato a porsi domande. Basta la caduta di un costone dello Stromboli per diramare un allarme tsunami? Basta un’onda di un metro e mezzo per chiudere scuole e attività produttive? E le mareggiate invernali con onde fino a 9 metri, come quelle di qualche settimana fa, dove le mettiamo? È fin troppo logico e chiaro che qualcosa nelle nostre coste è cambiato, e di molto. Il problema sta tutto nell’erosione costiera che colpisce l’intera Calabria da almeno venti anni. Procede rapida, ma poco o nulla hanno fatto i nostri amministratori pubblici per cercare di fermarla o, almeno, arginarla.

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    Un’eruzione dello Stromboli ha destato allarme sulla costa tirrenica calabrese

    La speculazione edilizia sulla costa tirrenica

    Paghiamo il prezzo della speculazione edilizia degli anni ’80, quando la sabbia del mare servì per costruire villaggi e alberghi. E paghiamo anche il saccheggio dei fiumi. Milioni di metri cubi di sabbia trasportata per millenni dai corsi d’acqua servirono per costruire ogni sorta di edificio. Poi la prima grande mareggiata portò a gettare a mare migliaia e migliaia di massi di cemento. Sarebbero dovuti servire a difendere la linea ferroviaria e, naturalmente, tutto ciò che di abusivo si era realizzato lungo le coste. Ditte legate alla cosca di Cetraro bucarono montagne e colline per trasportare massi che non servirono a fermare la furia delle mareggiate che anno dopo anno divoravano decine di metri di spiaggia. Poi, in nome del turismo, ecco la nascita di chioschi e stabilimenti balneari che tolsero altra spiaggia. Un disastro annunciato.

    La febbre dei porti

    Come se non bastasse, arrivò la corsa ai porti. Negli anni ’90 la portualità ricevette dall’Europa e dai governi milioni a non finire. A lucrarci su furono tanti, i risultati positivi pressoché nulli. L’erosione continuava, ma bracci a mare distrutti poi dalle mareggiate nascevano comunque. Cittadella del Capo, Diamante, Belvedere, Scalea, Fuscaldo, Paola, Campora San Giovanni: ogni Comune presentò un progetto per avere il proprio porto. Alcuni ebbero anche qualche autorizzazione che li indusse a gettare massi per costruire i bracci, ma solo i comuni di Campora e di Cetraro riuscirono a costruirli. Peccato che non lo abbiano fatto nel migliore dei modi, tant’è che ogni anno si registrano insabbiamenti, con relativo esborso per liberare i pescherecci incagliati.

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    Una ruspa in azione all’imbocco del porto di Cetraro per evitare che le barche si incaglino

    Costa tirrenica, arrivano le dune

    Adesso arrivano le dune a difesa di caseggiati e lidi balneari, chissà se tutte autorizzate. I lidi, lasciati soli, fanno da sé. Ed ecco in azione decine di ruspe che per km, lungo tutte le spiagge, si mettono al lavoro per alzare dune di difesa. Questo vuol dire un grave danno alla vegetazione dunale, alle stesse dune naturali. Così facendo, paradossalmente, si favorisce ancora l’erosione costiera. Il mare non trova alcun ostacolo e avanza, inglobando pezzi interi di spiaggia.

    Franano le colline

    Il prolungarsi delle piogge rende i terreni collinari più fragili; massi e pietrame si staccano e ostruiscono la linea ferroviaria e le strade. La tragedia di Ischia ha portato a riflettere (speriamo) sulla speculazione edilizia su quell’isola, ma il problema riguarda l’intero Sud ed i cambiamenti climatici stanno mettendo in evidenza tutte le criticità. Due frane hanno interessato altrettanti paesi della costa nei giorni scorsi. Una si è verificata a San Lucido: è crollato un costone roccioso che sovrasta il tracciato ferroviario della galleria San Lucido-Paola e ha rischiato di interrompere il traffico ferroviario. L’altra è avvenuta a San Nicola, con Italia Nostra a organizzare un sit-in lungo la strada provinciale per smuovere le autorità.

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    La frana a San Nicola vista dall’alto

    L’associazione ambientalista, in un comunicato del 12 dicembre scorso, spiega che «la Provincia di Cosenza nella persona del dirigente Gianluca Morrone e del responsabile del Servizio tecnico viabilità, Settimio Gravina interviene sulla questione specificando che “l’evento franoso che ha causato l’interruzione della SP n.1 è dovuto allo smottamento di un gran quantitativo di materiale terroso di riporto ed usato come riempimento di un impluvio naturale per la realizzazione di un’area di parcheggio di proprietà della Società Immobiliare Mediterranea S.P.A”».

    Una goccia nel mare di cemento

    La cosa, si legge ancora nel comunicato, ha portato la stessa Provincia a diffidare l’azienda affinché provveda «ad eseguire con la massima urgenza i lavori di messa in sicurezza della scarpata sovrastanti la strada provinciale , mediante la realizzazione di tutte le opere necessarie al consolidamento del versante». In caso contrario, «qualora si dovessero prorogare i tempi di ripristino della viabilità la Provincia si determinerà ai fini giuridici per la richiesta di eventuali risarcimenti anche per il disservizio creato all’utenza», riporta ancora Italia Nostra.

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    La protesta a San Nicola dopo la frana

    Ma non basterà mettere una toppa a San Nicola, perché tutto il territorio collinare è stato devastato. Basta guardare le nostre colline per vedere a che livelli di cementificazione si è giunti. E lo capiremo meglio nei prossimi mesi se il maltempo non si fermerà.

  • Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Sono arrivati i turisti mannari: i consumatori di fritture di gamberi e calamari, gli occupatori di spiagge e qualsiasi cosa sia fruibile per trascorrere una giornata estiva. Conoscono tutte le aree picnic lungo i fiumi, tutte le spiagge libere, le scogliere profumate di iodio. E si alzano la mattina presto per portarvi sedie a sdraio, ombrelloni, perfino barbecue. Tutto è privatizzato secondo questa mentalità che tende a togliere spazi pubblici – o comunque non propri – agli altri. Da decenni va avanti questa occupazione. Da decenni una popolazione intera si riversa dai propri territori originari a quelli vicini. Salta a pie’ pari aree di confine della Campania, come la costiera amalfitana e quella di Agropoli.

    Il motivo? Lì i prezzi sono alti da sempre. Poi il mare non ha la profondità e la trasparenza che ha nelle coste calabre. E qui si sentono padroni di ogni cosa. Perché hanno comprato casa trent’anni fa, perché i loro genitori venivano qui fin dagli anni ’70, perché qui pagano le tasse dell’immondizia e dell’acqua. Se non ci fossero loro moriremmo di fame, ripetono quando discutono con qualche commerciante o residente, e tutte le amministrazioni abbozzano. Ma qualcosa si sta rompendo. Il sindaco di Scalea ha cominciato a mettere dei paletti con un’ordinanza.

    Scalea e la guerra agli ombrelloni

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    Polizia municipale all’Ajnella

    La storica spiaggia cittadina dell’Ajnella, con una scogliera unica e l’acqua sempre pulita, era diventata inaccessibile a molti residenti e turisti. Sempre occupata da ombrelloni che vi rimanevano per mesi interi. Nessuno li spostava per non incorrere in risse o aggressioni, come avvenuto negli anni scorsi. Chi si alzava prima la mattina aveva privatizzato la spiaggia piantando file di ombrelloni per gli amici, i parenti ed anche per chi pagava dieci euro al giorno per farsi piazzare il proprio ombrellone.

    Le proteste e le denunce del passato si erano rivelate inutili. Ignorate, in nome del turismo e della gente che porta danaro qui e «non fa morire di fame i negozianti». Quest’anno la svolta con l’ordinanza del sindaco Perrotta. Chi vuole bagnarsi all’Ajnella potrà farlo solo con un telo da mare. Niente ombrelloni o sedie. E, soprattutto, niente barbecue.

    L’Arcomagno sotto attacco

    Il grido d’allarme arriva da Italia Nostra che con un comunicato stampa stigmatizza il comportamento dei turisti-mannari. In questo caso quelli che, come accadeva all’Ajnella, si piazzano armi e bagagli nella piccola spiaggetta suggestiva ed unica di San Nicola Arcella.

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    Turisti “mannari” sulla spiaggia dell’Arcomagno

    L’associazione chiede con una lettera al sindaco Eugenio Madeo, a che punto sia «l’affidamento del servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerente le visite controllate all’Arcomagno» per tutelarlo da comportamenti inadeguati. Italia Nostra auspica la scomparsa di «bivacchi, attendamenti notturni e diurni, ombrelloni», da sostituire con «visite guidate per piccoli gruppi, controlli, nel rispetto della fragilità ambientale del luogo».

    Madeo e la sua Giunta hanno già deliberato il 24 maggio scorso di affidare il «servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerenti le visite controllate all’Arcomagno e vigilanza serale e notturna». L’amministrazione ha approvato la proposta di una ditta di Belvedere e ora sono trascorsi i termini per l’acquisizione di una eventuale altra proposta migliorativa. A questo punto, chiede Italia Nostra, occorre di sbrigarsi, così da garantire «il modo migliore per valorizzare il patrimonio ambientale del nostro territorio, il modo migliore e moderno per fare turismo». Nonostante la lettera degli ambientalisti, l’occupazione dei turisti mannari continua indisturbata anche qui con pedalò e barbecue.

    Non c’è pace neanche per i fiumi

    La foce del Lao era diventata un’area picnic: c’era, addirittura, chi metteva i tavoli nell’acqua all’ora di pranzo e poi buttava i rifiuti nel fiume che li portava via. E così via, lungo l’Abatemarco e l’Argentino. Anche le aree picnic sono ad uso e consumo di chi si alza prima. Auto a pochi metri dal fiume, comportamenti da spiaggia, musica ad alto volume, giochi con pallone, divertimenti vari, compreso il lancio di pietre nel fiume.

    Calabria vs Campania

    Nei cartelloni estivi lungo l’Alto Tirreno cosentino non c’è traccia di cantanti, comici o attori calabresi. Qui primeggiano i napoletani, da Nino D’Angelo a Biagio Izzo o Gigi Finizio. In alternativa si può scegliere un Riccardo Cocciante alla modica cifra di 82 euro. In tutta la costa primeggia la neomelodica napoletana. La si sente ad alto volume nei lidi balneari o la sera negli improvvisati karaoke di fronte alle pizzerie prese d’assalto dal primo pomeriggio.

    Bisogna andare verso la Calabria del sud, a Palizzi e Bova per sentire la tarantella calabrese durante il festival Palearizza, che in calabro-greco significa “antica radice”. È un festival itinerante della musica e delle tradizioni popolari della Calabria greca, completamente gratuito. Si svolge di solito tra la fine di luglio ed il mese di agosto, nei borghi dell’Area Grecanica. Un’area che ancora è calabrese e dove si balla la tarantella tenendo i piedi per terra e le mani a coltello che circondano la donna.

    Una tarantella in costume grecanico

    È vietato il saltarello tipico della tarantella napoletana o pugliese. Lo testimonia un episodio a cui ho assistito a Riace Marina: durante un concerto dei Kumelca, il cantante scese dal palco per dire a due giovani ballerini di origine campana di smettere di fare il saltarello e seguire una coppia calabrese che ballava secondo tradizione. «Imparate la nostra tarantella, quando tornate a casa fate il saltarello», disse loro, fra gli applausi di tutti i presenti.

    Andando un po’ più a nord sulla linea jonica si distingue Roccella Jonica. Qui ogni anno un festival jazz attira turisti di qualità da ogni parte d’Italia. Si respira aria diversa, tranquilla, non invadente. Qualche anno fa l’intero festival fu dedicato a Frank Zappa: questo fa capire che tipo di turista si vuole e che tipo di cultura si pratica.

    Il Tirreno cosentino derubato della propria identità

    Una volta, pochissimi anni fa, non era così. Il Tirreno cosentino era solcato da pescatori, non da lussuosi yacht ormeggiati nei porti di Cetraro o Maratea. Erano tantissime le marinerie di Cetraro, Amantea, Diamante, Scalea, Cittadella del Capo. Ed erano loro, i pescatori, i padroni del mare. Quasi 70-80 in ogni paese. Uscivano in mare la notte e tornavano la mattina con carichi di pesce che vendevano direttamente ai turisti e ai residenti in attesa sulla spiaggia.

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    Una bella immagine della spiaggia dell’Arcomagno

    La strada del Tirreno cosentino era ancora quella costruita da Mussolini nel 1927 e solo nel 1970 fu costruita la variante SS 18. Ora è diventata intasatissima, teatro quotidiano di incidenti stradali con morti e feriti. Si viaggiava per forza di cose lentamente e gli incidenti erano rari. La mattina, il risveglio nei paesi della cosiddetta Riviera dei cedri profumava davvero di cedro. Oppure dello iodio profuso dalle scogliere ricche di ricci di mare e “capelli di mare” ormai scomparsi. Ora si sente il profumo dell’olio delle barche a motore, degli scarichi fognari clandestini, dei depuratori malfunzionanti.

    L’arrivo dei turisti mannari

    Gli unici turisti presenti erano quelli della “Cassa di Risparmio” di Cosenza, che mandava nella costa tirrenica i propri dipendenti in caseggiati appositamente costruiti per loro. Ai cosentini che avevano costruito ville a Diamante, Sangineto, Cittadella, si affiancarono turisti romani e così fu fino agli inizi degli anni 80. Poi arrivarono loro, i turisti mannari. Certo, non tutti sono turisti mannari. Esistono persone che hanno acquistato casa e si sentono calabresi, ma la maggioranza non rispetta il residente. Emblematica fu l’uccisione di un giovane cosentino, accoltellato a Diamante da un napoletano per futili motivi.

    Mafia e politica, Dc in primis, si allearono e cominciò la grande distruzione. Si cominciò a costruire ovunque. Senza legge. Senza ritegno. Derubarono le spiagge della sabbia per farne cemento. Colonizzarono i fiumi per realizzare impianti per il prelievo della sabbia. Le ruspe cominciarono ad abbattere ogni cosa per far posto a enormi villaggi turistici. Ed ecco che a migliaia acquistarono mini appartamenti di 30-40 mq. Tutti ammassati come formiche in condomini dai nomi bellissimi e ingannevoli. Niente venne risparmiato. E ora correre ai ripari invocando un turismo di qualità o un turismo sostenibile è pura fantasia. Questo è il Tirreno cosentino e questo sarà per i prossimi anni. Facciamocene una ragione.

  • La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    Le donne della Marlane, l’ex fabbrica dei veleni con sede a Praia a Mare, molto più dei loro colleghi maschi operai, erano quelle che credevano più di tutti alle potenzialità di quello stabilimenti, alla crescita economica ed alla fine della fame che le loro famiglie avevano subìto nel dopoguerra. Molte di loro erano figlie di contadini. Avevano visto con i loro occhi le proprie madri lavorare la terra o ai telai che avevano in casa, senza riuscire a fare quel salto economico che tutti si aspettavano dal quel duro lavoro. All’arrivo del conte Rivetti nella Maratea degli anni ’50, le donne di Maratea erano riconosciute come brave tessitrici e chi voleva fare un buon corredo alle proprie figlie in sposa raggiungeva questa cittadina per rivolgersi a loro.

    Il conte Rivetti arriva nel Sud

    Se Cristo si è fermato a Eboli, Rivetti lo sposta oltre. Fino alla Calabria, in un’area dove si incrociano le tre regioni meridionali più povere d’Italia: la Basilicata, la Campania, la Calabria. L’opera di Rivetti comincia grazie a finanziamenti enormi che il conte riuscì a ottenere dalla Cassa del Mezzogiorno, sembrerebbe anche grazie alla sua amicizia personale con il potente deputato lucano Emilio Colombo. La sua prima cattedrale nel deserto fu il complesso industriale chiamato R1 S.p.A Lanificio di Maratea e nacque nel 1957. Nel 1958-59 Rivetti si sposta in Calabria e qui a Praia a Mare fa nascere la R2.

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    Quel che resta dello stabilimento, visto dall’esterno

    Per queste due strutture, il “benefattore” riceve dallo Stato ben 6 miliardi di vecchie lire. Una cifra per quei tempi astronomica che rientra nella logica di aiuti al Sud. Tra il 1966 e il 1970 il conte Rivetti cede le sue azioni e gli stabilimenti vengono assorbiti prima dall’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), poi dalla Lanerossi e infine dall’ENI, che nel frattempo rileva la Lanerossi. Ora nasce la denominazione Marlane S.p.A. Mentre sul conte la stampa del Sud tace, quella dei Nord si scioglie in deliranti e sprezzanti analisi sociologiche antimeridionali al solo fine di mitizzare la figura del pioniere, del nuovo redentore delle zone depresse dei Mezzogiorno.

    Il “pioniere” che piaceva a Montanelli

    Montanelli scrive: «Prima che un industriale del Nord, l’ing. Rivetti, venisse a restituire questi luoghi al loro naturale destino di ottava meraviglia del mondo, gli abitanti di Maratea vivevano come venti secoli fa: di fichi, di pomodori, di carrube, d’uva e di cacio pecorino». Il “pioniere”, ribadisce il giornalista, «cala in una realtà dove solo le donne lavorano, mentre gli uomini giocano a scopone e briscola, aggrumandosi come mosche nei caffè locali, perché schivi, come tutti i meridionali, per un complesso di paure e abitudini casalinghe del sole e della luce».

    Si fanno risaltare le difficoltà e gli ostacoli nei quali ogni giorno si trova questo industriale che anziché portare i capitali all’estero, sente l’impegno morale e nazionale di investirli al Sud affrontando difficoltà burocratiche e tecniche enormi: trovandosi di fronte a gente neghittosa, a pretese salariali senza senso, a persone comunque non disposte ad accettare con disciplina la dura servitù del lavoro moderno.

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    Operai al lavoro nello stabilimento Marlane

    Le donne sono le prime assunte alla Marlane

    Poi la svolta. Il lavoro salariato, la paga a fine mese, i contributi, le ferie, la sicurezza di poter comprare una nuova casa. Le operaie, più degli uomini, pensano al progresso della famiglia, al futuro dei propri figli, al lavoro che un domani avrebbero potuto fare anche i propri figli. Teresa Maimone era una di queste operaie. Arrivava in fabbrica in bicicletta, desiderosa di affermarsi, di andare avanti, di portare il pane alla famiglia. Poi le morti per tumore, una dopo l’altra. Un elenco di donne operaie dimenticato, che nessuno ha intenzione di voler ricordare. A Tortora , esiste una via dedicata a Stefano Rivetti, fondatore della fabbrica, ma non una via dedicata alle donne ed agli uomini della Marlane. Niente esiste neanche a Praia a Mare.

    I veleni nei terreni

    Lì sono rimasti solo le tonnellate di rifiuti, certificati anche dall’ultima perizia depositata nel tribunale di Paola. Una perizia che dovrebbe essere distribuita casa per casa, per far capire i pericoli esistenti in quei terreni, e quelli che i cittadini corrono in quella cittadina. Il Comune di Tortora, quando il sindaco era Lamboglia, fu l’unico comune della costa tirrenica che si costituì parte civile nel processo contro i dirigenti della fabbrica. Gli altri sindaci, compreso quello di Praia a Mare, fecero finta di non sapere niente.

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    Una protesta dei parenti degli ex operai della Marlane morti di tumore

    Ma le morti ed i veleni ci sono. E nessuno oggi ha voglia di ricordarsene. Come nessuno ricorda le donne operaie, in questo 8 marzo:

    • Francesca Bocchino di Maratea è morta nel 1995 all’età di 49 anni per carcinoma al colon;
    • Maria Rodilosso di Aieta è morta nel 1998 all’età di 50 anni per carcinoma mammario;
    • Nelide Scarpino di San Nicola Arcella è morta nel 1999 all’età di 60 anni per tumore allo stomaco;
    • Teresa Maimone di Maratea è morta nel 2000 all’età di 54 anni per tumore all’utero;
    • Pasqualina Licordari, di Gallina è morta nel 2002 all’età di 61 anni per carcinoma del colon;
    • Resina Manzi di Aieta è morta nel 2005 all’età di 62 anni per tumore mammario;
    • Domenica Felice di Tortora è morta nel 2003 all’età di 48 anni per carcinoma midollare della mammella;
    • Maria Iannotti di Trecchina morta nel 1988 all’età di 48 anni per tumore maligno del colon.

    Un ricordo per le donne e gli uomini della Marlane

    Sono solo alcune delle decine di operaie della fabbrica Marlane di Praia a Mare, molte delle quali colpite da tumori maligni riconducibili ai fumi cancerogeni che venivano fuori dalle vasche del reparto tintoria e dalle polveri dell’amianto sparse per il capannone. Lavoravano tutte senza mascherine, né tute di protezione, né guanti. In un unico ambiente, con al centro macchine in cui si impiegavano, all’insaputa di tutti, veleni chimici.

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    Vasche per il trattamento dei tessuti all’interno della Marlane

    Nel 2013, durante il processo Marlane, in primo grado, nel tribunale di Paola l’ironia della sorte volle che un’udienza capitasse proprio un venerdì 8 marzo. Un processo che si chiuse in primo e secondo grado con la completa assoluzione di tutti gli imputati compreso il capo Marzotto. Si attende la fine del secondo processo, ancora impelagato in perizie tecniche , nella speranza che si giunga alla verità. Perché queste donne, così come le centinaia di altri operai, ottengano finalmente giustizia. Ed una piazza che ne perpetui il ricordo.

  • Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Da quando – dagli anni ’80 in poi – il Tirreno cosentino è diventato meta turistica con leggi ad hoc per la costruzione di alberghi e villaggi, magari abusivi e usati come lavanderia dalle cosche locali, anche le opere pubbliche hanno accompagnato questa crescita disordinata e devastante.

    Molto denaro per nulla

    Una pioggia di denaro si è riversata su tutti i paesi costieri, per la gioia di politicanti di centro, destra e sinistra che così hanno accresciuto il proprio peso politico ed elettorale. Sono gli anni in cui i big si chiamano Misasi, Pirillo, Gentile, Adamo, Covello, Antoniozzi. Anni in cui si dissemina la costa di marciapiedi e si rifanno centri storici con marmi di Trani e pietre di porfido del Trentino. Sorgono mattatoi, centri sportivi, porti turistici, strade di penetrazione finite nel nulla. Opere quasi tutte abbandonate o inutilizzate.

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    Massi per arginare le mareggiate a Belvedere

    Come può un masso arginare il mare?

    La follia degli anni ’80 inizia con i massi a difesa della ferrovia. Una serie di pietre provenienti da cave, gestite spesso dalle potentissime cosche del Tirreno, gettate alla rinfusa a protezione della linea ferroviaria colpita da forti mareggiate. A trasportare i massi una serie di ditte, a studiare il fenomeno tecnici di dubbia esperienza che hanno costruito quell’inutile barriera di massi favorendo indirettamente o direttamente l’erosione verso il paese vicino. Così i massi a Belvedere hanno rovinato le spiagge di Sangineto e, via verso sud, fino al disastro di San Lucido.

    Fronte del porto

    Dopo i massi, ecco i finanziamenti sulle condotte sottomarine legate alla depurazione. Miliardi di vecchie lire hanno fatto sì che ogni depuratore avesse la sua condotta che sarebbe dovuta arrivare a trenta metri di profondità. Diverse però, finiti i finanziamenti, si sono fermate a poche decine di metri dalla riva espandendo liquami secondo le correnti.

    Poi l’esplosione della portualità negli anni ’90. Ogni paese voleva un porto, ogni paese presentò progetti in massima parte finanziati dalla Regione o dal Comune. Anche stavolta a regnare sembra essere l’improvvisazione. Progetti fantasiosi e soprattutto miliardari, che vanno dal Porto canale mobile e retraibile di Tortora alla foce del fiume Noce a quello attorno alla Torre Talao a Scalea. C’è poi quello nel fiume Corvino a Diamante con annesso lago, e poi ecco quello di Belvedere fra i massi della ferrovia, quello di Fuscaldo, di Paola, di Cittadella, di Campora San Giovanni.

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    Diamante vuole un porto turistico

    Al momento, passata la buriana dei fallimenti finanziari, sono operativi solo quelli di Cetraro e Campora san Giovanni. Ma entrambi convivono annualmente con l’insabbiamento degli ingressi e i relativi esborsi di centinaia di migliaia di euro per liberarli e permettere così alle imbarcazioni di entrare ed uscire.

    Il porto di Damante è emblematico del disastro compiuto da quattro sindaci, iniziato nel 1990 con il sindaco De Luna, e proseguito con Caselli, Magorno, Sollazzo, e tre governatori (Oliviero, Santelli, Spirlì) che non sono riusciti a gestire cospicui finanziamenti finiti in mano di un concessionario, riducendo solo la scogliera ad un ammasso di cemento.

    Aviosuperficie e ospedale: Scalea abbandonata

    La madre di tutte le opere pubbliche abbandonate è probabilmente  l’aviosuperficie di Scalea. Circa 23 miliardi di vecchie lire sperperate lungo il fiume Lao in un corridoio verde, un’area Sic e un’area demaniale. Per costruirlo sono state estirpate ben 2.000 piante di cedro che decine di contadini coltivavano da decenni. Un disastro passato inosservato e che ha fatto posto ad una lingua di bitume lunga circa 2.000 metri e larga 30 e ritornato alla luce grazie all’inchiesta “Lande desolate” nella quale venne coinvolto anche il governatore Oliverio, poi assolto.

    Sempre a Scalea un’altra delle opere pubbliche abbandonate e solo in parte restituita alla collettività negli anni recenti, è l’ospedale. Una struttura imponente di tre piani che troneggia su una collina costata alla collettività ben 10 miliardi di vecchie lire. Non è mai entrato in funzione come ospedale né lo diventerà dopo la chiusura di altri 19 presìdi in tutta la regione. Rimasto senza alcun controllo dopo essere stato attrezzato, per anni è stato vandalizzato, fino a farne sparire le cucine e tutti gli arredi delle stanze.

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    Doveva essere l’ospedale di Scalea, ma è solo abbandonato e vandalizzato

    Tre viadotti e due gallerie

    Poi ci sono le strade di penetrazione dal Tirreno verso l’autostrada, quelle che avrebbero dovuto favorire il turismo. La strada di collegamento di Lagonegro è obsoleta e se ne cerca un’altra. La prima negli anni ’90 fu il congiungimento di Guardia Piemontese attraverso San Marco. Una variante che era partita bene ma che si è fermata a metà con una sola bretella ben fatta: riporta, però, alla vecchia strada provinciale senza raggiungere l’autostrada a pochissimi km.

    Ed ecco in alternativa un’altra grande pensata, una nuova strada che da Scalea possa raggiungere Mormanno. I soldi pubblici ci sono, ben 100 milioni di euro. Si parte alla grande dal fiume Lao, ma, completata una bellissima rotonda, la strada si ferma ad un piccolo ponte della ferrovia. Soldi impegnati, dieci milioni di euro. Contro l’opera interviene anche il Parco del Pollino che non dà nessuna autorizzazione.  La strada per raggiungere Mormanno dovrebbe attraversare il territorio di Papasidero con tre viadotti e due gallerie. Uno sfondamento e una cementificazione selvaggia nel pieno del parco.

    La protesta dei lavoratori Sateca all’interno delle terme di Guardia Piemontese

    Non solo opere pubbliche: il disastro delle Terme

    Storia a sé fanno le Terme Luigiane e il contenzioso fra i due comuni che la dovrebbero gestire (Guardia Piemontese e Acquappesa) e la società che la aveva in concessione. Struttura chiusa, dipendenti in cassa integrazione, indotto volatilizzato, pazienti privati del servizio: a perdere è stato come sempre il territorio, ennesima conferma della disastrosa gestione delle cose pubbliche nell’alto Tirreno cosentino.

    Sempre a Guardia Piemontese, vicino alle terme è stata costruita una grossa struttura. È il Centro Congressi, costato centinaia di milioni in vecchie lire, abbandonato per decenni. Ripreso e ristrutturato recentemente, per poi essere destinato ad altro. Anche stavolta un’opera pubblica costretta a lungo a fare i conti con degrado e abbandono, quale sarà la prossima?

    Il centro congressi di Guardia Piemontese

     

  • Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Al di là delle polemiche, dei blitz ambientalisti, delle risposte da parte del sindaco, il problema della discarica di Scalea esiste e pesa quanto un macigno. E’ inutile nasconderselo, il sito della discarica a Piano dell’Acqua andava bonificato e da anni.  Invece è rimasto lì come se non esistesse. Il blitz di Carlo Tansi, geologo e presidente di Tesoro Calabria, assieme agli ambientalisti del Tirreno, una settimana fa ha riportato a galla la questione.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    La Procura chiude la discarica

    Era il 2013 quando la Procura di Paola chiuse la discarica. Tutti i rifiuti esistenti vennero raggruppati con ruspe e sepolti da tonnellate di terreno costituendo così delle verdi collinette oltre che finire in profonde buche. Cosa c’è in quelle collinette di Scalea forse non lo sapremo mai. Intanto quella discarica non doveva essere costruita in quel luogo al centro di tanti villaggi turistici. Si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale, ora sede del Sert e di alcuni uffici dell’Asl e adiacente a diversi terreni ad uso agricolo.

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    La strada che conduce alla discarica ormai chiusa di Scalea

    Lo scempio ambientale a Scalea

    Un sito che sovrasta la cittadina tirrenica e sorvolato ancora oggi da centinaia di gabbiani in cerca di cibo. Dove passano falde acquifere e partivano ruscelli di percolato che raggiungevano le spiagge davanti alla Torre Talao. Uno scempio ambientale sotto tutti i punti vista, non valutato da chi ha dato le concessioni alla fine degli anni 90. Poi, agli inizi degli anni 2000 ecco fioccare le prime denunce da parte degli ambientalisti e le proteste di commercianti e cittadini sfociate in una manifestazione che ha sfilato per le vie di Scalea.

    Nel 2013 la chiusura definitiva, senza che nessuno ne pagasse le conseguenze. Un omicidio ambientale senza colpevoli. Poi ecco l’arrivo da parte della Regione Calabria di un finanziamento per la bonifica di circa 3 milioni di euro. L’attuale sindaco Perrotta dice di volerlo utilizzare al più presto.

    I siti pericolosi e le bonifiche mancate

    Resta aperta in tutto il Tirreno cosentino così come nel resto della regione la questione delle bonifiche mancate. Il piano regionale delle bonifiche risale al 2002 ( ordinanza del commissario n.1771 del 26.02.2002) e come riportato da un successivo piano in Calabria esistono 48 siti che necessitano di una bonifica; 20 ricadono in provincia di Cosenza, 2 ricadono in provincia di Crotone, 5 ricadono in provincia di Catanzaro, 5 ricadono in provincia di Vibo Valentia e 16 ricadono in provincia di Reggio Calabria.

    Ma molti altri siti non ricadono in questo elenco. Nei 409 comuni calabresi vennero censiti 696 siti di discarica potenzialmente contaminati da rifiuti, dei quali 354 attivati con autorizzazione regionale o ai sensi del DPR 915/1982 e i restanti 342 in assenza di autorizzazione. Secondo la classificazione del rischio relativo, i siti potenzialmente contaminati sono stati così suddivisi: 73 siti a rischio marginale, 262 a rischio basso, 261 a rischio medio e 40 ad alto rischio.

    Oltre 5 milioni dal Pnrr per le bonifiche

    Forse per avere un piano completo dei siti contaminati aggiornato e delle bonifiche da fare, (ma chi lo farà se manca la figura dell’assessore all’Ambiente all’interno della giunta regionale?), bisognerà attendere l’arrivo del fondi del Pnrr, fra i quali dovrebbero esserci 5.443.128 euro espressamente per le bonifiche di alcune superfici. Lo chiarisce il deputato calabrese del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio, che indica anche le aree che saranno interessate dal processo di bonifica.

    «Sono previsti – ha detto – interventi a Celico per l’ex discarica di località Tufiero e a Buonvicino per l’ex discarica di località Fossato, in provincia di Catanzaro a Lamezia Terme in località Scordovillo e nella città metropolitana di Reggio Calabria a Siderno presso la Fiumara Novito». Intanto i cittadini si chiedono quanto tempo si dovrà attendere per le altre bonifiche.

    Terreni e fiumi inquinati

    Altra situazione da monitorare con attenzione è quella del fiume Noce a Tortora inquinato dall’impianto di san Sago. Qui sono stati accertati dai carabinieri importanti sversamenti  di percolato. Ciò nonostante è in corso, da parte dei gestori dell’impianto, presso la Regione Calabria una richiesta per la riapertura dell’impianto.

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    L”ingresso della fabbrica della Marlane

    Un sito altamente inquinato è il fiume Oliva ad Amantea. Qui sono stati sotterrati dagli anni 90 in poi oltre 100 mila metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Nessuno dimentica l’oscura vicenda della Motonave Jolly Rosso spiaggiata nei pressi della sua foce nel lontano 1990. Infine restano i terreni della Marlane a Praia a Mare, che rischiano di essere “tombati” se venisse approvato il progetto di una grande struttura alberghiera, con annesso centro commerciale.

    Non mancano testimonianze rispetto a quanto avvenuto nel sito della Marlane. Come quella di Francesco De Palma, poi morto di tumore. La sua posizione, così come quella di altri lavoratori, non è mai stata presa in considerazione nei processi a Paola e a Catanzaro sui 110 operai morti in quella fabbrica. A Paola i 12 imputati vennero tutti assolti. Oggi è in corso un nuovo processo dopo i recenti rilievi su quei terreni.

     

     

     

  • Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Lavoro, amianto e voti sulla strada che porta alle fabbriche del Tirreno cosentino. Qui a Nord della Calabria non solo il turismo ha creato un po’ di reddito e tanta ricchezza per pochi. Migliaia di uomini e donne erano impiegati in quelle che adesso sono soltanto  archeologia industriale. Operai nelle fabbriche della Marlane e Lini e Lane di Praia a mare, donne alla camiceria di Scalea, alla Foderauto di Belvedere, alla Emiliana tessile di Cetraro. Di tutto questo lavoro oggi non rimane niente.

    Le fabbriche abbandonate
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    Il vecchio stabilimento abbandonato della Lini e Lane

    La Foderauto di Belvedere e la Lini e Lane sono abbandonate, la Emiliana di tessile riconvertita ad altro, la Marlane ancora invasa da rifiuti tossici sotterrati. E sembra incredibile che una struttura di questa grandezza, maestosità, imponenza, totalmente in preda al degrado stia al centro di una cittadina, considerata turistica, come Praia a Mare. Uno scheletro enorme emerge fra campi ancora coltivati, il vicino cimitero, palazzi per turisti e residenti. Si entra da un lato, quasi nascosto, proprio alle spalle del cimitero. Di fronte c’è la linea ferroviaria, dall’altra parte scorre la strada provinciale che delimita un altro scheletro: quello della famigerata Marlane.

    Era una fabbrica con 400 operai

    Quando entri nello stabilimento della Lini e Lane campeggia gigantesco, sulla sinistra, a mo’ di guardiano un enorme serbatoio in cemento e amianto. Una discarica invisibile che non vede nessuno, né il sindaco Praticò, né l’Asl. I tetti sono in amianto, così altre strutture. I topi sono dappertutto. Il silenzio è rotto solo dai treni che passano e che rimbombano all’interno vuoto della vecchia fabbrica. Negli anni Sessanta, questo capannone, era il fiore all’occhiello di tutta la Calabria con 400 operai. Da qui uscivano lenzuola, ricami, fazzoletti, tovaglie per tutta Italia.

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    Il vecchio serbatoio della “Lini e Lane”
    Dalla fabbrica uscivano voti alla Dc

    Lo Stato di allora, i governi di allora, i vari panzoni, forchettoni democristiani venivano a visitarla periodicamente rivendicandone nuovi finanziamenti e nuovi incentivi. Così come alla Marlane e in tutte le fabbriche tessili dell’epoca, a Castrovillari come a Cetraro ed a Scalea, da qui non uscivano solo lini e lane, ma anche voti a profusione per la DC. Basta leggere le interrogazioni parlamentari, finte, che gli stessi democristiani calabresi rivolgevano ai loro stessi governi democristiani. Le facevano dimostrando interesse per gli operai e poi in parlamento votavano per le dismissioni. Le interrogazioni del 1967 portano la firma di Mariano Luciano Brandi, socialista saprese, di area manciniana che fu deputato dal 1968 al 1972. Le altre del 1979 portano la firma di Romei, Buffone, Cassiani, Pucci. Democristiani doc che hanno fatto la storia del partito e della Calabria.

    I sindacati reggevano il sacco ai partiti

    I sindacati non disturbavano i partiti. Si accontentavano di esistere con le loro tessere ed anche loro ne approfittavano per ottenere qualche indotto lavorativo. Come avveniva alla Marlane dove la “triplice” si era spartita tutto l’indotto esterno della Marzotto costituendo cooperative guidate proprio dai segretari di Praia a Mare. Loro sapevano che quelle industrie tessili si reggevano solo con i cospicui finanziamenti delle varie Isveimer, Imi, Gepi, Cassa del Mezzogiorno.

    Non avevamo mai visto uno stipendio mensile

    Sono gli operai che non lo sapevano. Operai che provenivano tutti dal mondo contadino, che non avevano mai visto uno stipendio mensile, e che per loro anche una cifra modesta ricevuta ogni mese, serviva loro per incentivare i loro sogni. Vedere il figlio laureato, pagare qualche debito, comprarsi l’auto, magari una Cinquecento o un tre ruote per andare il pomeriggio in campagna, finirsi la casa costruita mattone per mattone da loro stessi.

    Quel che resta delle fabbriche

    Oggi tutto è ridotto a scheletri industriali. Potrebbero diventare musei questi fabbricati. Ma il loro destino è ben altro. Nonostante le denunce fatte dal Comitato cittadino per le bonifiche dei terreni, nessuno è intervenuto. Il Comune dice di non poter intervenire in quanto l’area apparterrebbe ad un privato di Scalea, il privato non ha soldi per intervenire e cerca un compratore. Intanto la struttura continua a vivere mangiando i rifiuti che solerti cittadini praiesi avvezzi alla differenziata continuano a portarle.

     

  • Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    La realtà è sotto gli occhi di tutti quotidianamente: l’acqua appare sporca in molti tratti del Tirreno cosentino. Chiamatelo come volete questo sporco: polvere della spiaggia, fioritura algale, mare mosso, detersivi dei fondali. Il dato è che la voglia di fare un bagno è sempre meno. I turisti sui social sono scatenati. Furiosi, pubblicano foto da ogni spiaggia tirrenica con il mare tutt’altro che limpido. E ne hanno piena ragione: una settimana in un hotel o casa privata presa in affitto arriva a costare fino a 1500 euro. Aggiungete il costo dei lidi, dei parcheggi e del sostentamento e alla fine ci si ritrova con una bella spesa.

    Bandiere Blu

    L’esborso si sosterrebbe anche volentieri se si potesse fare un bagno nel Tirreno in tranquillità. Ma se si arriva sulle spiagge e si trovano sporche e il mare, in più, non è balneabile allora ci si sente truffati. Se poi si è venuti in questa zona spinti dalle nuove Bandiere Blu, la sensazione aumenta. Già, le Bandiere Blu: Per ottenerne una – è scritto sul sito che le assegna -, bisogna rispondere a ben 35 criteri che vanno dall’accesso dei disabili alle spiagge al controllo sulla depurazione, passando per l’affissione pubblica dei dati sulla balneabilità. Criteri forse rispettati altrove, mentre ad oggi in nessun paese sul Tirreno cosentino che abbia ottenuto la bandiera Blu tutto ciò si è avverato.

    L’inchiesta sulla depurazione

    Cade come un macigno a mezza estate l’inchiesta del procuratore Bruni sulla depurazione, un macigno grande come un palazzo che ha sconvolto tutti i centri del Tirreno. In particolare, i comuni di Diamante, Buonvicino e San Nicola, paesi sui quali vigeva la legge dei gestori dei depuratori e di funzionari degli uffici tecnici, forti tutti dall’appoggio di un infedele tecnico dell’Arpacal che li avvertiva dell’arrivo di eventuali ispezioni ai depuratori. Il sistema scoperchiato da Bruni dà l’idea di individui presi da delirio di onnipotenza per il tanto danaro che ricevevano dai Comuni con delibere a cadenza mensile. Quasi fossero sicuri dell’impunità, parlavano liberamente fra loro sui cellulari delle loro malefatte e dei traffici in atto.

    https://www.facebook.com/456580921189432/videos/745458892971276

    Dall’inchiesta apprendiamo cose che confermano i timori di quanti da anni lottano per avere un mare pulito individuando le cause della sporcizia e proponendo i metodi per eliminarle. Nell’indagine è finito anche un video che i militanti dell’associazione ambientalista Italia Nostra avevano effettuato a San Nicola Arcella filmando in diretta la rottura della condotta sottomarina e la conseguente fuoruscita dei liquami in mare. Quel video, appena apparso su Facebook, aveva allarmato le ditte, i tecnici, il sindaco di San Nicola, che immediatamente erano corsi ai ripari. Con buona pace di quegli amministratori che vedono negli ambientalisti l’equivalente di un’invasione di cavallette o altre sciagure.

    Magorno come Orsomarso, querele per chi dissente

    L’ultimo ad intervenire in questa direzione è stato proprio il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno. Il renziano, infatti, ha stigmatizzato l’intervento di Italia Nostra che ha mostrato proprio il mare sporco fra Diamante e Belvedere in una bellissima giornata. E con una delibera subito approvata dalla giunta ha messo in guardia le associazioni per future querele da parte dell’ente a tutela di un mare pulito per decreto. Neanche due settimane dopo e l’inchiesta di Bruni ha cambiato le carte in tavola.

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    La delibera della Giunta di Diamante firmata meno di due settimane fa dal sindaco Ernesto Magorno

    Gli arresti scattati dopo l’operazione Archimede hanno messo in pausa la questione, con il sindaco che ha commentato l’accaduto lanciando uno striminzito comunicato di appoggio all’azione giudiziaria, come se la cosa non lo riguardasse. Ma il tecnico ai domiciliari è del suo comune, così come i vari responsabili delle ditte in questione. Sono presenti da decenni a Diamante, non solo per il depuratore, ma anche per altre gestioni. Quella dell’acquedotto, per esempio, sulla quale sembra che penda un’altra inchiesta, o quella di diversi appalti su opere pubbliche. Sono sempre gli stessi a vincere le gare e sono sempre gli stessi a poter lavorare.

    Un problema diffuso

    Nei mesi scorsi altre inchieste hanno riguardato ulteriori comuni tirrenici come Maierà, Tortora, Scalea, Praia a mare. Un filo unico che la Procura di Paola sta cercando di portare a galla dopo anni ed anni di acquiescenza . Ma nell’inchiesta c’è di più. Ed è davvero grave.

    I fanghi depurati del depuratore di Buonvicino finivano sotterrati in terreni agricoli e a portarceli erano propri i dipendenti della ditta, autorizzati dal loro capo. Operazioni senza scrupoli che mettevano in pericolo le falde acquifere del territorio circostante oltre che i terreni stessi e le coltivazioni che vi erano. Un’attività criminale scoperta da poco, ma che secondo gli inquirenti andava avanti da tempo. E che si spera l’inchiesta blocchi immediatamente.