Autore: Eugenio Furia

  • Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    «Emme’ a Dario, Saverio e Settimio su Rainews!!!».

    Spesso, in Calabria, perché un “evento” – scusate la parola – “culturale” – scusate la parola/2 – sia riconosciuto come tale serve un passaggio sulla Rai – fosse anche quella regionale («Compa’ ti ho visto al tg3»). In questo caso era il circuito nazionale e gli screenshot dei tre dioscuri – sì, è un paradosso – di Scena Verticale e della Primavera dei Teatri hanno riempito le chat ammirate dei cosentini in preda o meglio vittime del vorticoso zapping domenicale tra conflitto russo-ucraino, cronaca nera morbosa e celebrazione kitsch dello scudetto partenopeo.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Dal Pollino a New York

    Domenica sera finiva a Castrovillari Primavera dei teatri, 23esima edizione, mentre oggi inizia e finisce a New York l’evento – scusate la parola/3 – in occasione dell’uscita della prima compilation della Respirano Records, l’etichetta che il cosentino Luigi Porto ha fondato nella Grande Mela in pieno lockdown: la compilation ospita artisti di NYC e Cosenza. Si tratta di «un lavoro di ricerca durato un paio d’anni, ma abbiamo messo insieme dei bei pezzi e alcuni sono secondo me dei capolavori, alcuni di artisti sconosciuti al grande pubblico, stili differenti ma affini all’art rock/psichedelia», spiega Porto, che da oltre dieci anni lavora e vive di musica a Manhattan (sì, si può fare!).

    Cervelli in fuga per scelta

    In queste ore va lì in scena il release party nello studio della Respirano (nata nel 2021 da un’idea dello stesso Porto, in seguito affiancato dal compositore newyorkese Ray Lustig), una “monthly studio” night con un giro di diversi artisti che ruotano attorno, una sorta di mini Factory incentrata uptown Manhattan. Sette progetti newyorkesi e cinque made in Cosenza nella prima compilation, intitolata No Need To Fear: piedi nell’isolotto più bello del mondo, ma testa e braccia e cuore saldamente in Calabria, o nelle varie subcolonie occupate da cervelli (e strumenti) in fuga, spesso per scelta e non per necessità come invece piacerebbe e farebbe comodo a certa narrazione lacrimevole.

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    New York

    Connettere New York e Cosenza

    Non per essere ombelicali, ma tra i nomi degni di nota oltre a Porto segnaliamo i bruzi Gintsugi – al secolo Luna Paese, cosentina di nascita che da tempo vive in Francia – con le sue atmosfere intimiste e dilatate; Al The Coordinator, ovvero Aldo D’Orrico, poliedrico cantautore e chitarrista nato e cresciuto a Cosenza; Remo De Vico, compositore e sound designer anche lui nato e cresciuto a Cosenza, dove ha fondato il laboratorio elettroacustico del Miai; infine Paolo Gaudio, batterista, compositore e sound designer, classe 1991, che invece vive e lavora a Milano.
    Per una volta non è la fuffa de «il/la cosentin* che fa le sue cose all’estero» ma è proprio un lavoro internazionale che connette Nyc con Cosenza. Bravi.

    Primavera dei teatri: un dovere morale

    Primavera dei Teatri, al contrario, non è una performance di una serata bensì quella che definiremmo una manifestazione lunga, riconosciuta e storicizzata. E soprattutto ospitata da sempre in Calabria, toponimo che indica la location – scusate la parola/4 – ma anche il sostegno istituzionale.
    Eppure la novità di quest’anno è stata tornare «alla sua collocazione primaverile, anche prendendoci il rischio di non attendere l’avviso pubblico regionale sugli eventi – spiegano Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano – che da anni sostiene economicamente il festival per due terzi del suo budget. Primavera dei Teatri, che apre ogni anno la lunga stagione festivaliera in Italia, deve poter assolvere alla funzione di presentare e accompagnare i debutti nazionali. (…) Inoltre (…) nasce da un dovere morale verso i cittadini di una regione carente di offerte culturali. (…) La grande sfida è stata e rimane quella di avvicinare la gente comune» al palcoscenico e a ciò che gli ruota intorno.

    Ospiti da tutta Italia

    Se a New York ci sono i cosentini come ospiti, a Castrovillari gli ospiti sono le compagnie teatrali di tutta Italia. Il festival diretto da La Ruina, De Luca e Pisano ha presentato oltre 40 momenti di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica e performance accompagnati da residenze creative, workshop, reading, presentazioni di libri e convegni: 16 debutti assoluti, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali. Lo stesso De Luca ha proposto il suo Re Pipuzzu fattu a manu – Melologo calabrese per tre finali con Gianfranco De Franco, mentre La Ruina ha portato in scena il suo ultimo lavoro Via del Popolo, nelle stesse ore in cui veniva candidato come migliore novità al premio Le Maschere del Teatro italiano.

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    Gianfranco De Franco

    Primavera dei teatri oltre le «splendide cornici»

    Contro i numeri zero delle sagre mordi e fuggi con tanto di neomelodico nella «splendida cornice» di un borgo magari resiliente – scusate la parola/5 –, ecco invece una mole non indifferente di nomi, cifre – stilistiche e di presenza – e copertura mediatica che smentiscono il mantra delle prefiche calabre («qui non si può fare nulla»).
    Capannoni abbandonati restituiti alla fruizione artistica, tributi in morte a Renato Nicolini e Franco Scaldati e in vita alla iconica – scusate la parola/6 – Patrizia Valduga. Momenti di sogno, silenzio e aggregazione, riflessione, risate e commozione.
    Certo serve sostanza ed esperienza per riempire di magia un festival. «Che lavoro fai?». «L’attore». «Ok, ma il vero lavoro?». «Questo. Questo che vedi». Anche in Calabria si può.

  • I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

    I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

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    «Chi si firma è perduto» (sulle lusinghe del lavoro giornalistico)

    «Il successo è soltanto il passato remoto del verbo succedere»

    ALCOL

    «Sopportatemi, duro ancora poco»: la frase che Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 – Milano, 14 novembre 1971) rivolgeva a chi gli stava vicino mentre l’autodistruzione da alcol stava per compiersi.

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    Luciano Bianciardi nel suo letto

    • AVANTI/1

    Di Bianciardi si citano sempre l’attualità, la “visione”. «Ha vissuto in un’epoca che non era la sua», come ha raccontato la figlia Luciana a Simonetta Fiori (Robinson n. 311): «Era contrario al divorzio perché prima ancora avremmo dovuto lottare per abolire il matrimonio. E nel giorno dell’allunaggio ci invitò a pensare alla luna di Leopardi, perché quella conquistata da Neil Armstrong non sarebbe servita a niente (…). Sapeva guardare molto lontano, ma non fu compreso dai suoi contemporanei. Era avanti di una cinquantina d’anni».

    • AVANTI/2

    In una lettera del 13 luglio 1970 alla figlia rivela di aver scritto «un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali» (accadrà 12 anni e 3 mondiali dopo).

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    Dino Zoff alza la coppa, L’Italia si è appena aggiudicata i Mondiali dell’82

    • AVANTI/3

    Giacomo Papi (la Repubblica, 18/11/2022) ha ricordato che in un pezzo del 28 luglio 1959 uscito sull’Avanti!, Bianciardi anticipò di due anni Umberto Eco e la sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno” e di undici l’intuizione di Andy Warhol: ogni italiano aspetta il suo «quarto d’ora di celebrità e di fortuna» (bisogna aggiungere che, forse non per caso, “quartodorista” è un neologismo di incerta attribuzione – Gadda o Manganelli – per definire i frequentatori di case d’appuntamento).

     

    • BANCHE

    «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare le televisioni» (1968).

    • CALABRIA

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    Tropea, un particolare del monumento a Pasquale Galluppi

    Ha senza dubbio avuto meno fortuna della casalinga di Voghera di Alberto Arbasino, ma ha una sua dignità letteraria la «maestrina di Catanzaro» con cui Bianciardi identifica l’insegnante-tipo in viaggio d’istruzione in Svezia, dove “il Nostro Giovane Lettore”, protagonista di un suo articolo per il settimanale ABC, si è recato in vacanza; qualche rigo prima, il pensiero filosofico del tropeano Pasquale Galluppi è preso ad esempio come materia su cui sgobbano i «colleghi diligenti e secchioni» del giovane.

    • CALVINO

    «Son riuscito a scrivere un libro, che ritengo la mia cosa migliore. Calvino ne è entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» (secondo alcuni la trama fu “rubata” da Bianciardi a un ignoto scrittore irlandese da lui stesso tradotto).

    • COMUNISMO

    Un giorno, mentre Giangiacomo Feltrinelli parlava di comunismo, si alzò e uscì, dopo avere preso dall’attaccapanni il cappotto di cammello del padrone (Papi, cit.).

    • CRITICA

    «Solitamente i critici da noi parlano poco del libro o spettacolo o dipinto che dovrebbero recensire. Più che altro parlano di sé» (da Non leggete i libri, fateveli raccontare, ed. Stampa Alternativa 2008, testo apparso in origine nel 1967 in 6 puntate su ABC).

    • DRAMMA

    «Il vero dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto davvero. (…) Conosceva bene, forse, l’origine della parola “applauso”: l’applauso era l’invenzione che gli antichi usavano per coprile le grida dei lapidati a morte. Bianciardi venne sepolto da decine di migliaia di applausi. Morì a 49 anni. Da solo. (…) Al suo funerale ci saranno soltanto quattro persone. Dimenticato da tutti. Rimosso. Anche dagli stessi che lo avevano incensato in vita» (Gian Paolo Serino, Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, ed. Clichy, 2015).

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    Luciano Bianciardi e Ugo Tognazzi sul set del film tratto da La vita agra

    • ENDECASILLABI

    «Alcune pagine (de La vita agra, ndr) sono scritte in perfetti endecasillabi» (Luciana Bianciardi, traduttrice a sua volta, oggi editrice in ExCogita).

    • FELTRINELLI

    Dalla Feltrinelli fu licenziato «per scarso rendimento», lui commenterà: «Soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. (…) La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso».

    • GIORNALISMO/1

    Negli anni ’60 Indro Montanelli propose a Bianciardi una collaborazione al Corriere della Sera e uno stipendio di 300mila lire (circa 5mila euro di oggi) per due pezzi al mese, lui – a differenza di quanto fece Pasolini – rifiutò perché non si sarebbe sentito abbastanza libero come su Le Ore e Playmen, Kent ed Executive, ABC e il Guerin Sportivo ai tempi della direzione di Gianni Brera; però accettò di scrivere per il Giorno: «Sto lavorando, ma per la pagnotta (…) Tutta roba che non mi piace molto, ma che altro vuoi fare? Leggo parecchio, la sera, un po’ di tutto… E facciamoci coraggio».

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    Indro Montanelli

    • GIORNALISMO/2

    Prima di Michele Masneri (estate 2015 in Audi per il Foglio) e Michele Serra (per l’Unità su una Panda 4×4, trent’anni prima), a sperimentare il format del reportage in auto furono proprio Pasolini (periplo d’Italia in 1100, nel 1959) e Bianciardi; ma l’inventore assoluto del genere fu Luigi Barzini: Parigi-Pechino su una Itala con il principe Scipione Borghese (10 agosto 1907).

    • HOTEL

    No, Bianciardi era piuttosto tipo da pensione: una di quelle in cui abitò a Milano era in via Solferino, la strada del Corsera.

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    La sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano

    • INCIPIT

    «Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo dall’alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della vocale interdentalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno» (La vita agra comincia in modo non proprio agevole…).

    • LIBRI/1

    Da direttore della biblioteca di Arezzo inventò il Bibliobus, un furgone con cui distribuire libri a contadini e minatori.

    • LIBRI/2

    «Proverò a scrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino».

    • MAESTRI

    «I miei maestri si chiamano così: Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce fin da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese […] tuttora insuperato. Henry Miller, detto Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e conoscere personalmente. Ora abita a Big Sur, e qualche volta mi manda una cartolina firmando col suo nome italiano di mia invenzione».

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    Henry Miller nel suo studio a Big Sur alla fine degli anni Quaranta

    • NATALE

    Quel giorno che regalò Il piccolo chimico al figlio Ettore e passò una notte intera a tradurre il manualetto dall’inglese (amore paterno + deformazione professionale)

    • OPERAIO

    «È comprensibile che quest’uomo, ubriaco di pagine tradotte, senta ribollire la propria vicenda attraverso parole e linguaggi altrui, come l’operaio del film di Charlot che, pur staccato dalla catena di montaggio, continua meccanicamente ad avvitare bulloni» (Michele Rago sul linguaggio de La vita agra).

    • POLITICA

    «La bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo con cui vi si mantiene».

    • QUALITÀ

    «Non rinunciava a qualità, cura, rigore. Come se nella scrittura riuscisse a trovare la misura e l’equilibrio che non trovava nella vita» (Luciana Bianciardi).

    • REPRESSIONE

    «Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno per non so quale follia» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana).

    • STIPENDIO

    «L’aggettivo “agro” sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo» (lettera all’amico Mario Terrosi, 30/12/1962).

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    Un’altra immagine di Luciano Bianciardi

    • SUBITO

    «Il guaio di finire un libro (da tradurre, ndr) sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana, che ne ricorda «la disciplina ferrea» da traduttore: «Fissava un numero di cartelle al giorno, e non andava a letto prima di aver finito l’ultima pagina. Era la lezione di sua mamma, nonna Adele. […] L’eccellenza è stata per lui un obbligo»).

    • TALK

    «È stato uno dei primi critici televisivi, uno dei primi opinionisti. Fosse ancora vivo, come si dice sempre del suo coetaneo Pasolini, quel che ne pensa del mondo andrebbe a dirlo in un talk becero di Rete4, pure a “Ballando con le stelle” se pagano qualcosa» (Alberto Piccinini, il Venerdì, 2/12/2022).

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    • TELEVISIONE

    «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l’uso della televisione è gratuito. Non si paga, però si sconta» (1965).

    • TOUR

    «Oramai sto girando come un rappresentante di commercio» (in tournée per La vita agra)

    • TORRACCHIONE/1

    Il Luciano protagonista del capolavoro assoluto di Bianciardi arriva a Milano per vendicarsi facendo saltare il «torracchione», che non è il Pirellone, come qualcuno potrebbe pensare, bensì la sede della Montecatini Edison (poi Montedison), società responsabile della tragedia raccontata da Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma; «Se si guarda Milano oggi, hanno stravinto i torracchioni» (Francesco Piccolo, prefazione a Trilogia della rabbia, Feltrinelli, 432 pp., 16 euro, un’ottima idea regalo per Natale ma non solo)

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    Luciano Bianciardi a Milano (foto Ugo Mulas)

    • TORRACCHIONE/2

    «Ma lui non voleva mettere nessuna bomba: la bomba era quel libro là, che diceva che il miracolo economico era una fregatura. Però la bomba non esplose, anzi l’autore fu corteggiato dai salotti e dalla tv, un giullare che invece di essere combattuto viene integrato dal sistema» (Luciana Bianciardi).

    • UTOPIA

    «Aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro. (…) Viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia» (Piccolo, cit.); sembra l’effetto contrario di quello ottenuto da Tom Wolfe dopo la celebre descrizione dei radical chic newyorkesi.

    • VOGUE

    Per celebrare il successo de La vita agra su Vogue America esce una sua foto accanto ai simboli della Milano del boom e dei consumi, una città che raccontò con sguardo lunghissimo attraverso i suoi cambiamenti: la moda del cibo giapponese e la mania delle diete, i calciatori dalle facce «sempre meno di braccianti e manovali, sempre più di assennati ragionieri», persino ciò che saranno i selfie, gli autoscatti sintomo di un allora incipiente esibizionismo di massa.

    • ZUPPA

    Per il racconto La solita zuppa, un mondo al rovescio nel quale s’insegna l’ora di masturbazione a scuola, nel 1965 fu denunciato per oscenità e vilipendio della religione.

  • Cuddrurìaddri, il buco (fritto) con Cosenza intorno

    Cuddrurìaddri, il buco (fritto) con Cosenza intorno

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    Che poi è facile friggere i cuddrurìaddri a dicembre, quando lo fanno praticamente tutti: è facile come dire che la statua di Mancini non gli somiglia, che i lavori di viale Parco non finiranno mai e che davanti al bar Continental c’è sempre una macchina in doppia fila almeno due di questi tre assiomi cosentini sono assolutamente veri, peraltro. 

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    Anche Telesio sul web si unisce al rito dei cuddrurìeddri

    Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
    Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.

    La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.  

    Il mistero della vecchiaréddra

    A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
    In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.

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    Crispeddi appena fritte

    Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».

    Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura. 

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    Acciughe in una vecchiaréddra

    Qualcosa di erotico

    Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.

    Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini). 

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    A Cosenza Vecchia si venerano i cuddrurìaddri

    Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə). 

    E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).

    Olio, ingredienti, ripieni

    Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).

    Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”. 

     

    Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa. 

    A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona. 

    Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.

    Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.  

    Cuddrurìaddri per Carlo V

    Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Crati e Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.

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    Il Duomo di Cosenza

    Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90. 

    Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H. 

    Una short list minima (10 posti)

    Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).

    Covid o non covid, a Cosenza si frigge in uno dei chioschi aperti per le festività natalizie (foto Alfonso Bombini)

    Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti (via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione). 

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    L’adesivo che omaggia i cuddrurìaddri apparso in questi giorni sui muri della città

    Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né CV lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.

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    Tonino Napoli

    Dove trovarlə sempre

    Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).

    Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì. 

    Vecchiaréddre worldwide

    Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.

  • MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

    MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

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    «Anche via Popilia è Cosenza»
    (frase attribuita a Tonino Napoli, visibile su una recinzione di lamiera)

    Finirà che dovremo ringraziare la grande distribuzione per questo lento eppure costante processo di integrazione che interessa via Popilia, un processo che in vent’anni la politica a Cosenza non è riuscita a portare a termine.
    Ora che anche la Lidl ha aperto un supermercato sulla antica strada consolare romana, è ufficiale che non è bastato l’abbattimento della secolare linea ferrata per inglobare nel tessuto urbano ’a petrara (così detta un tempo in virtù dei ciottoli del fiume Crati che le scorre a est): i binari erano un diaframma che la isolava da un centro incredibilmente ravvicinato. E oggi di nuovo allontanatosi.

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    1910, Crati: Santa Maria degli Angeli e foresta, poi via Popilia

    Il rilevato ferroviario è stato sostituito da un viale ibrido (alberato ma anche asfaltato e con pista ciclabile ma anche pedonale) che continua a non avere pace tra annunci di restyling e cantieri sospesi e riaperti, anzi no; ma nel frattempo anche la presunta rinascita edilizia dei primi anni Duemila sembra fallita, con molti palazzoni in gran parte ancora vuoti e che iniziano a invecchiare seppur disabitati fin dalla costruzione.
    Oggi almeno si registra un ritrovato attivismo da ricondurre ai Bonus 110 sulle tante cooperative nate già da fine anni Ottanta. Fu quella la prima “riconversione” del quartiere (una scommessa di gentrificazione ante litteram), quando viale Parco era ancora un progetto – a cui però, evidentemente, i costruttori credevano.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal centro città

    Subito dopo, la diffusa colata di cemento del nuovo millennio non è servita a rendere via Popilia più vivibile: all’aumento della volumetria non ha fatto seguito un parallelo miglioramento dei servizi.
    La spazzatura accatastata all’ultimo lotto, a qualche decina di metri in linea d’area dai lussuosi appartamenti rendesi, è un simbolo perfetto di questo abbandono assoluto, che fa ancora più rabbia dopo la prosopopea dell’ultima campagna elettorale in cui si prometteva l’ennesima rinascita.

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    Rifiuti all’ultimo lotto di via Popilia a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perché se una legge non scritta della politica a Cosenza vuole da sempre che «le elezioni si vincono a via Popilia», alle ultime amministrative, questo elemento è apparso come qualcosa di più di una indicazione, rivelandosi piuttosto la conferma dell’esistenza di un blocco di consenso decisivo nel ballottaggio che ha incoronato Franz Caruso: proprio in nome della «attenzione per le periferie», o meglio per la periferia cosentina per antonomasia.

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    La protesta, organizzata dall’allora consigliere di maggioranza – diventerà assessore poco dopo, carica che riveste anche oggi nella Giunta Caruso – De Cicco contro il progetto di un campo rom a via Popilia

    Capannoni tutti uguali per salvare le periferie?

    Di certo questo isolamento non è attribuibile (solo) agli ultimi arrivati a Palazzo dei Bruzi.
    Viale Mancini e la bretella fantasma a est di via Popilia (ex via Reggio Calabria, con innesto sul ponte di Calatrava) rappresentano due simboli della più totale inadeguatezza amministrativa a Cosenza essendo, rispettivamente, un’eterna incompiuta e un cantiere che non parte mai: due confini più o meno immaginari – il primo incerottato d’arancione, il secondo solo tracciato – che corrono paralleli e continuano a condannare l’ex stradone popolare alla marginalità, a rimanere il ghetto che si credeva di aver cancellato – diciamo spostato nel ghetto/bis di via degli Stadi – oltre vent’anni fa con il “trasloco” della vecchia baraccopoli (dicembre 2001) e il viale Parco poi intitolato al sindaco che lo immaginò e ne inaugurò i primi spezzoni mentre era ancora in vita.

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    La baraccopoli demolita per volere di Mancini: il ghetto trasloca a via degli Stadi (foto Ercole Scorza)

    Di recente, un lunedì mattina in cui molti se le aspettavano proprio su viale Mancini – annuncio di due esponenti di giunta in una trasmissione tv –, le ruspe si videro spuntare nel tratto centrale della petràra. Veloci e aggressive come solo quelle di un privato, per di più forestiero, sanno essere.
    La tabella dei lavori conferma la vox populi di un nuovo supermercato Lidl e il polverone dovuto al livellamento del terreno, misto agli sventramenti di antiche palazzine basse e disabitate, ufficializza come conclusa la parabola che dalla guerra di mafia ha portato a una ben più innocua guerra dei supermercati, passando da quella del mattone: forse, quest’ultimo, un conflitto dormiente e sempre dietro l’angolo.

    Cosenza, i lavori per realizzare un nuovo supermercato a via Popilia

    I capannoni tutti uguali della Gdo si confermano dunque elemento antropico e urbanistico prima che commerciale eppure, in questo, via Popilia è solo l’ultima frontiera se si pensa ai tanti precedenti (EuroSpin e ancora Lidl su via degli Stadi, un’altra Lidl con annessa rotatoria lungo viale Principe a Rende solo per restare agli ultimi): perché, prima di diventare area degli acquisti per residenti e pendolari, questa era e rimane l’arteria delle scuole (anzi di recente si sono aggiunti lo scientifico e il geometra), delle farmacie che si spostano rinnovandosi e delle edicole che chiudono (aumentano solo quelle votive), dei presidi di legalità come la polizia stradale all’estremità sud e i carabinieri al confine nord, del carcere, dell’Agenzia delle entrate e del palazzetto dello sport.

    Gnugna e tressette, scommesse e munnizza: «Questa è la realtà»

    Qui, accanto alla Comunità Bethel, un orto si affaccia sulla strada dove le auto sfreccerebbero a 100 all’ora se non ci fossero i dossi in cemento più alti di Cosenza (due, ma fanno egregiamente il loro lavoro…): un gruppo eterogeneo gioca a carte nel cortile di quello che fu un frequentato centro per anziani.
    Il welfare ha da tempo abbandonato queste latitudini, come se la cementificazione avesse portato anche inclusione: l’associazione di volontariato “IoNoi” ha sede nei locali della fu VII circoscrizione, un tempo anche ludoteca per i bambini della zona.

    Spariti anche i luoghi della politica – un processo comune ai quartieri centrali ma qui forse più doloroso – si è passati dalle sezioni di partito alle sale scommesse come luogo di aggregazione.
    Nel blocco che si vuole costruito coi soldi del piano Marshall – siamo nel tratto centrale, zona sopraelevata – sono quasi stinti i murales tracciati sulle palazzine basse color senape. Uno dei progetti, meritevoli per carità, ma che durano il tempo della foto assessorile e del seguente comunicato stampa: ma almeno in questo casa resta il monumentum, lo stimolo visivo a ricordare.

    Un furgone abbandonato in una traversa di via Popilia

    Tutt’intorno, auto e furgoni abbandonati, ancora spazzatura, siringhe. È anche vero che se la gnugna (l’eroina, ndr) non è mai scomparsa – continua anzi ad avere periodici ritorni di fiamma –, questa periferia non appare più inaccessibile e infernale come un tempo, quanto piuttosto sospesa in un limbo purgatoriale; può essere però ben definita con un verso sempre dantesco ma dal Paradiso (XV, v. 106): «Non avea case di famiglia vote». Il Sommo si riferiva agli appartamenti fiorentini disabitati perché sproporzionati al bisogno delle famiglie, qui siamo piuttosto nel territorio della superfetazione di solai fine a se stessa che ingrassa la lobby dei costruttori mentre altri strati sociali sono condannati all’emergenza abitativa e all’esclusione sociale.

    Uno stallo che raramente permette il salto da uno status a quello superiore, una stratificazione immobile che Lugi, alias Luigi Pecora, orgogliosamente afro-popiliano, racconta benissimo in un pezzo rap (Questa è la realtà) in cui passeggia idealmente da casa sua – l’ultimo lotto che sembra un block di Spike Lee – al centro.

    Via Popilia, dalle guerre di mafia (e del mattone) a quella dei supermercati

    Il culto del dio cemento e il cristianesimo convivono a via Popilia

    Nel 2005 si contavano tredici gru su viale Mancini (intanto saturatosi), nel frattempo altrettante ne sono spuntate su via Popilia (oggi in realtà sono una decina, sparse tra i Due Fiumi e la casa circondariale).
    I due delitti eccellenti al giro di boa dei due secoli e due millenni – tra il semaforo in zona carcere e l’ultimo lotto – sembrano un ricordo lontanissimo. Ora la guerra – dopo quella combattuta a colpi di cazzuola nel ventennio passato – se la fanno i supermercati, a colpi stavolta di oneri di urbanizzazione: a fine aprile 2019 la storica baracca di Felicetta con annessa fontanella fu abbattuta per permettere la spianata con relativa rotatoria in funzione EuroSpin.

    L’ex sindaco Occhiuto e gli allora assessori Caruso, Vizza e Spataro in posa simil Beatles per l’inaugurazione della rotatoria

    Come allora apparve chiaro che servisse un supermercato per cucire la viabilità rimasta monca (in quel caso per collegare il ponte di Calatrava con viale Mancini), adesso un altro mega gruppo (Lidl) invade i territori Conad sbloccando i lavori in un’area pensata in origine come parco – e così “venduta” una quindicina di anni fa agli acquirenti dei nuovi e coloratissimi palazzoni sorti nella zona della chiesa di Cristo Re.
    Urbanisticamente rivoluzionario, il mega-cantiere è l’ennesima dimostrazione che dove non arriva il pubblico tocca al privato. Dovesse leggerci qualcuno di EsseLunga e decidesse di avventarsi su via Popilia: di lotti abbandonati ce ne sono a bizzeffe, tocca soltanto scegliere.

    COSA VEDERE

    Il quartiere è il più classico degli ibridi urbanistici tra case popolari e palazzoni moderni. Da vedere i murales del secondo lotto (ma anche quello di Marulla al Marca) e le tante edicole votive, segni della fede autoprodotti. In assenza di negozi storici – sbranati dal cemento come Carlino o scomparsi come il mitico maniscalco –, un tour a piedi può essere illuminante soprattutto per “pesare” la mancata saldatura della zona cuscinetto venutasi a creare a est di viale Mancini e poi, oltre, nella fascia tra via Popilia e il fiume.

    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    DOVE MANGIARE

    La pizzeria di Roberto Presta, figlio del compianto Franchino detto “’a chiacchiera” per il gusto di intrattenersi con i clienti, merita una tappa anche per la piccola rosticceria: fondata nel 1975, si trova al civico 160. Da provare anche il pesce del Pirata, pescheria-trattoria di mare (via Anna Morrone, zona sud) e gli arancini di Cusenza Piccante (n. 60/62)

    DOVE COMPRARE

    Ma se passate da via Popilia non potete non provare la pasta di mandorle di Gaudio! Un antro al civico 230 in cui il tempo si è fermato e dove è possibile trovare anche gli ultimi esemplari di “pastarelle” formato grande: addirittura il diplomatico e il mega-choux con tanto di “gileppo”. Tra l’altro vi servirà uno degli ultimi negozianti cosentini dotato di sorriso…

    (2. continua)

  • Incompiute di Cosenza, dieci tappe nella città in sospeso

    Incompiute di Cosenza, dieci tappe nella città in sospeso

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    Il pubblico arranca, il privato avanza. Da un lato cantieri che si trascinano da anni, dall’altro micro e macro colate di cemento che coprono fazzoletti anche minuscoli in centro città: è il caso della palazzina incastonata sul lato nord di piazza Bilotti o della mega-struttura sanitaria per ora segnalata solo dalla maxi-gru visibile tra via Alimena e l’isola pedonale all’incrocio di via Miceli.

    La struttura sanitaria privata che sta nascendo nel cuore di Cosenza

    Cosenza e le incompiute: il non finito bruzio

    Nel frattempo, di alcune incompiute non resta neanche la prima pietra, ma solo gli annunci a mezzo stampa: ricordate l’Ecovillaggio? Avrebbe dovuto trasformare il campo rom in una sorta di cittadella campanelliana. Un milione di euro (da fondi Pisu) destinato al “villaggio creativo” nell’ex mercato ortofrutticolo di Vaglio Lise («spazi e strutture attrezzate per favorire la nascita di un mercatino per la vendita di prodotti realizzati dai rom e per fornire occasioni di socializzazione, incontro e valorizzazione della loro cultura» si leggeva nelle cronache del 2011, anno 1 dell’EO, l’Era Occhiuto), con il vicino campo sosta e i box già in uso ai grossisti da convertire in alloggi da 40 metri quadri «con zona living, due camere da letto, bagno», ambienti «all’esterno colorati e con temi diversi per caratterizzarli» e la luce che «arriverà anche dall’alto». Wow.

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    Ombre di tutte le età si intrattengono tra tetti in eternit e box colorati nel Villaggio Rom progettato dal Comune

    Fanta-urbanistica. Undici anni dopo, nella città sospesa dove l’unica opera sbloccata – ammesso che di opera si possa parlare – è il tratto di via Roma riaperto al traffico tra le due scuole, il “non finito” bruzio parla di promesse, polemiche e fallimenti. Piccola ricognizione.

    1. Viale Mancini

    La madre di tutte le incompiute. In principio – dopo i tagli del nastro del sindaco eponimo – fu la voragine che si spalancò il 1° aprile 2005. E non era uno scherzo, anzi poteva scapparci il morto. Ne seguì un’inchiesta giudiziaria, poi il rifacimento e la riapertura, il tira e molla politico tra livelli istituzionali (Comune-Regione-Ue) sulla nuova destinazione d’uso con tanto di derby tra i due Mario O. (Occhiuto e Oliverio), la riduzione della carreggiata a favore di pista ciclabile durante il primo lockdown e l’ennesimo cantiere aperto – quasi per ripicca – a poche settimane dal voto che avrebbe incoronato Franz Caruso sindaco.

    Il tutto mentre continua ad aggirarsi lo spettro della metro leggera, argomento per tutte le stagioni elettorali come il nuovo ospedale, la corte d’appello e lo svincolo autostradale a Sud; e la nuova giunta annuncia come imminente – un po’ come la campagna di rifacimento del manto stradale che stiamo ancora aspettando – la ripresa dei lavori del parco del benessere intanto intitolato a Jole Santelli.

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    Il cantiere della metropolitana leggera su viale Mancini a Cosenza (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi

    Livelli toponomastici che si stratificano, proprio come i rifiuti nelle aree transennate, rischi che pedoni e bikers corrono proprio per via dei pali arrugginiti che puntellano le reti di plastica arancione, cestini praticamente assenti e un senso di sospensione riassumibile nei semafori che lampeggiano da 5 anni nonostante le auto arrivino dal senso opposto. Soprattutto: il traffico già congestionato dal dimezzamento della carreggiata è aumentato dopo la riduzione a una sola corsia. Mentre la bretella che costeggia via Popilia resta un miraggio.

    2. La bretella che non c’è

    Ad osservare il rendering del Parco Urbano, che prevede la chiusura totale e definitiva del tratto di viale Mancini che va dai Due Fiumi alla sopraelevata, appare chiaro che si renderà vitale, più che consigliata, la bretella che correrà a est, parallela a via Popilia (da via Giovanbattista Lupia alla rotatoria del ponte di Calatrava), una volta venuta meno la principale via di accesso al centro città.
    Era il 2018 quando il Comitato Cs Viabilità Sicura raccolse migliaia di firme per sollecitare i lavori. Da allora solo annunci. E, ancora di più, imprecazioni degli automobilisti impelagati nel traffico, con disagi – anche filmati e rilanciati sui social – di ambulanze in file impossibili da “stappare”.

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    Il paradosso di via Buffone (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Nell’Accordo di Programma tra la Regione Calabria e il Comune di Cosenza fu prevista la realizzazione della viabilità alternativa (più un’ovovia nel centro storico). Ma la realtà parla di una discarica, sottoposta anche a sequestro. E di situazioni kafkiane come alcune traverse pronte, con tanto di segnaletica, ma inutilizzabili (vedi via Pierino Buffone): conducono a una strada che non c’è! Nel frattempo l’erba si fa largo sull’asfalto nuovo e già invecchiato.

    3. Piazza Bilotti

    Non è una installazione-impacchettamento alla Christo, eppure anche di arte si tratta visto che i Filosofi guerrieri di Giuseppe Gallo – dopo la vetrina nazionale della copertina de La Lettura del Corriere della Sera – sono costretti all’interno di un recinto di transenne. In origine si fantasticò di un intervento legato anche alla riqualificazione di piazza Autolinee (un futuribile sottopassaggio pedonale avrebbe dovuto portare all’autostazione…) e l’allora sindaco Mario Occhiuto rivelò di propendere per un tappeto verde piuttosto che per l’ammasso di laterizi attualmente visibile: le cose sono infatti andate diversamente.

    Sculture e transenne a piazza Bilotti (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Passati dieci anni, la vicenda giudiziaria del sequestro per motivi di sicurezza, dopo l’inchiesta che ha coinvolto la ditta esecutrice dei lavori e gli strascichi anche politici incombenti sulle due giunte Occhiuto, riduce la piazza più grande della città a non-luogo, o meglio luogo a metà: struttura dimezzata anche sotto il livello stradale, tra un Museo Multimediale chiuso e il McDonald’s e il parcheggio riaperti. Anche in questo caso, una bella sintesi per chi s’interroga sui motivi della prevalenza del privato sul pubblico.

    4. La piscina fantasma

    Doveva essere il progetto di punta del fu Parco fluviale poi ribattezzato con grandeur parigina Lungofiume boulevard – eventificio per due consiliature poi riconvertito a luogo di land art – infine Parco acquatico, quasi una risposta del capoluogo all’opera rendese. Invece sulla piscina coperta da 25 x 12,5 metri – inaugurata nella primavera 2011 e mai entrata in funzione – a inizio 2021 è stata anche aperta un’inchiesta dalla Procura di Cosenza: sei indagati tra tecnici comunali e rappresentanti della ditta appaltatrice (con la quale, nel 2017, Palazzo dei Bruzi ha rescisso il contratto stipulato 8 anni prima), ipotizzati i reati di truffa, falso e frode nelle pubbliche forniture.

    Per la struttura sportiva negata a una città che ne avrebbe bisogno una sorte più nebulosa dei Bocs Art, musealizzati nel complesso monumentale di San Domenico: come per il Mab, grande battage mediatico e innegabile seguito anche per queste strutture poste lungo l’agonizzante parco fluviale del Crati. Poi il nulla.

    5. Cupole geodetiche

    Il fantomatico quartiere fieristico è un altro tormentone, anzi manco quello. È uscito dai radar della politica da tempo. Le cupole geodetiche di viale Magna Grecia, sempre rileggendo il libro dei sogni del neosindaco Occhiuto 2011, rientravano nel progetto più complessivo della “porta dello sport e dell’expo” (il 2015 e le fascinazioni di Milano erano dietro l’angolo). L’idea era di eliminare le cupole per sostituirle con un unico spazio espositivo, «una struttura ovoidale, piuttosto avveniristica e realizzati con materiali dall’effetto rifrangente».

    Le cupole geodetiche poco prima della loro rimozione (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi

    Di ovoidale si è potuto ammirare soltanto un cesso troneggiante nella variegata munnizza che colpiva il viandante avventuratosi sulla pista ciclabile e pedonale che unisce Cosenza e Castrolibero. Le tende sfondate delle cupole che negli anni ’80 ospitavano esposizioni e feste dell’Unità come simbolo della grande area urbana, altro refrain da campagna elettorale. Un monumento alla grande bruttezza.

    6. La città dei sottopassi

    Quando vuoi stupire o non sai come uscirne, tira fuori un sottopasso e il tuo interlocutore ne sarà spiazzato. La “porta commerciale” favoleggiata nell’area di via Popilia all’altezza di Vaglio Lise – che prevedeva l’interramento della strada statale 107 Silana Crotonese a favore di un’enorme piazza con verde attrezzato – avrebbe dovuto saldare la già agonizzante stazione e i quartieri popolari portando nuove attività commerciali, una sorta di quartiere fieristico bis per il quale venivano sventolati 100 milioni di euro già pronti. In dieci anni lo scalo ferroviario si è ulteriormente depotenziato a favore di Paola. L’unico intervento degno di nota è – manco a dirlo – un ennesimo polo della grande distribuzione (non proprio piccolo commercio di prossimità) subito dopo i palazzoni ex Carime e Provincia tirati periodicamente in ballo per il fantomatico nuovo ospedale.

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    La stazione di Vaglio Lise a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)

    È un intervento strutturale piuttosto imponente per il quale si confida nell’intervento finanziario, attraverso risorse europee, della Regione. La sottopassaggite – branca dell’annuncite che colpisce indistintamente la classe politica locale – si manifestò poco prima del decennio occhiutiano anche dalle parti di viale Trieste (avrebbe dovuto snellire il traffico in zona ospedale) e, da ultimo, è tornata alla grande tra chi suggeriva un piano B alla spianata di via Misasi/largo Rodotà.
    Il tutto ha un sapore ancora più paradossale se si pensa che, a fronte di tutti questi non-sottopassi, c’è un ponte facile facile che potrebbe unire i due viali di Cosenza e Rende intitolati ai rispettivi ras socialisti: ma in questo caso, a parte recentissimi ulteriori sviluppi, non siamo neanche agli annunci.

    7. Museo di Alarico

    Nel “triangolo delle meraviglie” Ponte di Calatrava/Planetario/ Museo di Alarico, l’ex Hotel Jolly poi sede dell’Aterp è senza dubbio il manufatto messo peggio. Sulla confluenza, appena sopra la statua a cavallo con la quale Cosenza si presenta, per dirne una, agli automobilisti nella cartellonistica autostradale, questa sorta di castello dell’Innominato bombardato giace sventrato da anni.

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    I ruderi dell’ex hotel Jolly, abbattuto per far posto al museo dedicato ad Alarico (foto Camillo Giuliani)

    Per quanto era flessuoso e sinuoso il rendering propalato dall’amministrazione precedente, tanto spigoloso e urticante risulta la realtà di questo ex palazzone senape famoso per non essere dotato di balconi, in pieno stile brutalista. La vista su corso Plebiscito si è liberata a favore della chiesa di San Francesco di Paola dopo l’abbattimento dei sei piani. Ma la struttura museale su un piano o poco più che tutti aspetta(va)no sembra davvero lontana da arrivare.

    8. Planetario

    Tra le incompiute è la più compiuta: alla vigilia della pandemia veleggiava sull’onda dell’entusiasmo. Le domeniche di febbraio 2020 di divulgazione e intrattenimento con la collaborazione di studiosi dell’Unical raccolsero molto favore. Poi lo stop brusco, ancora più doloroso vista la partenza alquanto problematica. Da allora, iniziative sempre meritevoli e per ora estemporanee ma sempre seguite. La speranza è quella di orari definitivi e cartelloni meglio strutturati (e magari la possibilità di pagamenti digitalizzati).

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    Rifiuti davanti al planetario di Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)

    9. Biblioteca Civica

    Lo stallo di una delle più importanti istituzioni culturali del meridione è tra i cavalli di battaglia de iCalabresi. Se i tormenti del presente e ai dubbi sul futuro c’è poco da aggiungere.

    L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Ma forse giova qui riportare una nota trionfalistica di qualche anno fa: «Rassicurazioni e rinnovata fiducia. È ciò che Mario Occhiuto ha trasmesso personalmente ai dipendenti della Biblioteca Civica, storica istituzione culturale cosentina, attraverso la visita che, da neo presidente della Provincia, ha voluto compiere fra le prime uscite pubbliche proprio nel prestigioso edificio adiacente il teatro Rendano. La crisi che ormai da tempo ha colpito l’Ente gestito sia dal Comune che dalla Provincia, rientra nei primissimi punti dell’agenda che attende Occhiuto negli uffici di piazza XV Marzo. Lo aveva anticipato già prima dell’elezione il presidente, e oggi ha voluto ribadirlo direttamente ai dipendenti che subito dopo l’incontro hanno rimosso gli striscioni di protesta posti all’esterno. Mario Occhiuto, che ricopre il duplice ruolo di sindaco della città e massimo rappresentante della Provincia, ha dichiarato che affronterà i problemi in seno ai locali ricchi di un patrimonio vasto (come i manuali antichi di valore inestimabile) con un progetto di rilancio delle attività che potrebbe essere eventualmente legato a una modifica dello Statuto, necessario alla nuova vita della Biblioteca Civica». Era il 21 ottobre 2014. I commenti li lasciamo ai lettori.

    10. Le incompiute culturali

    A proposito di incompiute culturali, più nella gestione che nella struttura, lo stallo dei teatri storici cittadini risiede tutto tra il Morelli e l’Italia-Tieri, laddove almeno il Rendano ha una stagione, per quanto mainstream.
    Qui un’analisi ampia e dall’interno: dall’esterno basti dire che, dalle sponde opposte del Busento, i due teatri dirimpettai si guardano e aspettano Godot. Un po’ come tutta la città.

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    L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto
  • Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Nell’estate del nostro scontento – acqua mai mediamente così sporca lungo tutto il Tirreno cosentino già da inizio luglio –, nei giorni del «sembra merda ma non è» dell’assessore Fausto Orsomarso, facciamoci del male e andiamo a Scalea. Ma non per vedere la celeberrima e infatti già celebrata «fioritura algale» (su social e battigie è già più citata del “mare da bere” dell’allora governatore Mario Oliverio, ancora alquanto in voga a dire il vero), bensì a caccia. Sempre di «merda», però per strada.

    La fioritura “munnizzale”

    Qui il mese di agosto è iniziato con lo spauracchio di 250 tonnellate di rifiuti riversate per le strade cittadine. E con la conseguente richiesta del sindaco Giacomo Perrotta, il quale ha rispolverato il sempreverde «invio dell’esercito» per risolvere la situazione.
    Et voilà: è il 30 luglio, un venerdì pre-maxiesodo, e le strade di Scalea sono pulite. L’esercito è già passato di notte e ha spazzato via la fioritura “munnizzale”, evidentemente.

    E dunque per rendere il viaggio meno inutile e deludente torniamo nella località cantata da par suo da Tony Tammaro («Scalea, Scalea / Ma come mi arricrea», rima intergenerazionale, meno di due minuti di video e oltre un milione e 300mila visualizzazioni su YouTube) 35 stagioni dopo il reportage di Michele Serra in Panda per l’Unità.
    La «selva di pubblicità immobiliari» che «quasi fa ombra alla strada» ha lasciato il posto ai cartelloni della grande distribuzione e dei marchi in franchising.

    Se a metà anni Ottanta si doveva pubblicizzare il Villaggio Maradona di Domenico Fama, negli anni della massificazione dei consumi e della democratizzazione del cibo ecco i loghi Conad, MD, EuroSpin, InterSpar. Cartelli e 6×3 che fanno da contraltare alle molte serrande abbassate degli empori vecchia maniera, generi alimentari e negozi-di-tutto dove trovavi dai braccioli agli accendini, al tagliaunghie, ai souvenir con la calamita per il frigorifero con la torre Talao o la vicina isola di Dino.

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    Una gelateria ormai chiusa alle spalle della Torre Talao, simbolo di Scalea
    Accenti toscani, annunci in cirillico

    I tempi di Serra, il cuore del ventennio di cemento ovvero il sacco della costa tirrenica, erano evidentemente quelli dei cartelloni che annunciavano tramite rendering i rassicuranti villaggi che avrebbero di lì a breve sbranato la terra. Il “consumo di suolo” era ancora di là da venire, almeno nei dossier di Legambiente, benché fosse già felicemente al galoppo.

    Oggi dominano le agenzie immobiliari (sul tratto di statale che attraversa Scalea se ne contano 10 in poco più di 50 metri, altre sono nelle strade interne: per numero competono con Cosenza) sparse nel campionario comune a tutte le altre città italiane di finanziarie, agenzie di scommesse e outlet. Un unico panorama cromo-iconografico come quello che per terra vede vicini un gratta e vinci grattato e una bustina di Gaviscon svuotata cui da un anno e mezzo si è aggiunta una mascherina usata.

    Tra accenti toscani (sorpresa!) e annunci in cirillico, curiosiamo tra gruppetti di russ*, ma sono soprattutto donne in questo che sembra un business a trazione matriarcale. Larghe, bionde e mediamente sorridenti stanno sedute davanti alle vetrine, su sedie di plastica o impagliate come da postura classica in modalità vilienza calabra.
    Ci sono le agenzie russe ma anche una Gabetti, espongono foto e info sulle varie metrature. Si va dal monolocale a 200 metri dal mare (19mila euro, ma se ne trovano anche a 13mila) alla tipologia 60 mq a 38mila, c’è un bilocale 30 mq a 15mila euro, praticamente una utilitaria. A Santa Maria del Cedro prezzi ancora più bassi, a Grisolia e Maierà stracciati proprio.

    Insegne ibride Scalearealty.ru e I❤ Russiascalea.ru (РУССКАЯ СКАЛЕЯ) competono con i localissimi Riviera-italiana e Larcoimmobiliare.com. Ma confrontare le homepage è capire esattamente il diverso immaginario di chi conosce questi posti per esserci nato e chi ci arriva con chissà quali aspettative. L’esotismo di un litorale che in foto sembra Miami (siti russi) si scontra con fotogallery tutte piscine e corpi abitativi brutalisti e soprattutto mare ripreso da lontano (nei siti italiani).
    Sottotesto: in caso di mare inquinato o fioritura algale ci sono valide alternative, tranquilli.

    Rimini senza Rimini (però ci sono i lidi)

    Un anziano gira con il Mattino sottobraccio, giusto per ricordarci che Tammaro è ancora attuale. Palme e verde sono curatissimi, i muletti della ditta Ecoross macinano chilometri a caccia di antiestetici e maleodoranti cumuli.
    Via Michele Bianchi (il primo segretario del Partito Nazionale Fascista che vanta un sacrario nella natia Belmonte), porta alla piazza-parcheggio con il monumento ai caduti. A pochi metri ecco la casa (abbandonata) in cui Gregorio Caloprese «insegnò a Pietro Metastasio la filosofia del Cartesio» (dopo due secoli Gaetano ed Alfonso Cupido posero 1920, recita la lapide). Il gazebo della Pro loco propone la sagra del pesce spada, l’eventificio pre-Covid e gli assembramenti alla leggendaria discoteca Acadie sembrano appartenere a un’altra era.

    Settemila abitanti d’inverno e 300mila in estate (annotava Serra, oggi i numeri parlano di 11mila contro oltre 250mila presenze compresi i turisti), senza piano regolatore e uno sviluppo edilizio «selvaggio e abnorme», un «boom canceroso», una «metastasi di cemento» formatasi tra speculazione e abusivismo.
    Oggi, guardando verso monte dalla marina, non si possono non notare alveari in laterizio appoggiati sulla “scalea” che dà il nome al borgo: uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio.

     

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    […]Uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio […]

    Trenta metri quadrati comprati a inizio Ottanta per 15 o 20 milioni di lire (l’inviato riportò la paga quotidiana degli operai edili a nero: 2 o 3mila lire al giorno), ma fognature che scoppiavano perché le varie lottizzazioni avevano fatto confluire i collettori dentro le vecchie tubazioni. E la merda in acqua, appunto (Orsomarso in quel 1985 aveva ancora 14 anni e non si occupava di fioriture algali).
    Sì, nei quattro decenni a seguire non sembra sia cambiato molto.

    «Tortora, Praia a Mare, Scalea, Santa Maria del Cedro, Diamante, Belvedere, Cetraro, giù giù fino ad Amantea: la costiera cosentina è assassinata dal cemento. In buona parte cemento mafioso. (…) I soldi sporchi della camorra napoletana e della ‘ndrangheta calabrese sono scomparsi anche nei milioni di metri cubi costruiti da queste parti. Comodamente riciclati in un mercato edilizio completamente al di fuori del controllo pubblico. Perché la mafia non ammazza soltanto i cristiani: ammazza anche i paesi, la terra, i paesaggi, le tradizioni, la storia, la cultura», scriveva Serra. Che definì Scalea «un villaggio» divenuto «mostro» con «una spiaggia meravigliosa, oggi trasformata in un allucinante carnaio», «una folla riminese ma senza Rimini, senza strutture, senza servizi, senza niente».

    La storia si ripete

    Sdraio e ombrelloni affittati senza licenza, il Comune che chiude tutti e due gli occhi in cambio dei voti, si doleva il cronista. Oggi almeno i lidi, non solo a Scalea, sono una materia normata, mentre sul voto di scambio in Calabria si scrivono ancora ordinanze e articoli di cronaca.
    Nell’estate 2021, la seconda covidica, quella dei vaccini e del Green pass che dovevano rappresentare il lasciapassare alla socialità e al rilancio dell’economia e del turismo, nuove e vecchie emergenze cioè alghe e spazzatura alimentano i discorsi più o meno ironici, più o meno incazzati nei tavolini distanziati dei bar.

    «L’apatia, ecco il grande problema della mia gente. E l’abbandono da parte di tutti». Cosa resta di queste parole di Gennaro Serra, il pittore che segnalò il sacco di Scalea a sovrintendenza e pretura e nel 1975 sentì esplodere una bomba sotto casa? Resta l’apatia, il senso di abbandono forse meno: perché si sa che almeno ci sono un sacco di russi che a Scalea hanno trovato il loro eden.

  • Alfabeto minimo dei vini calabresi

    Alfabeto minimo dei vini calabresi

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    Per una terra come la Calabria che la leggenda vuole abbia preso uno dei suoi stessi antichi nomi dal vino, la notizia di un concorso internazionale ospitato nei suoi confini è solo il riconoscimento di una tradizione millenaria.

    Più di cento vini calabresi in concorso

    In occasione del Concours Mondial de Bruxelles – la kermesse patrocinata dalla Regione e ospitata a Rende dal 19 al 22 maggio: coinvolti oltre 320 giudici, 8mila i vini da 50 nazioni – la Calabria potrà “raccontarsi”, come da formula di marketing territoriale alquanto abusata: se negli anni scorsi i vini calabresi facevano registrare presenze molto basse, in questo 2022 ne vedremo iscritti al Concours oltre cento. Tutte le degustazioni saranno alla cieca: in campo circa 70 commissioni composte ciascuna da 5-6 degustatori, con valutazioni fatte sui tablet per evitare qualsiasi margine d’errore. I giudici non assaggeranno più di 40/45 vini per mattinata.

    Vini, attenti all’autocelebrazione come per gli amari calabresi

    Saranno giorni di degustazioni, divulgazione ed eventi collaterali. L’occasione, però, è anche propizia per fotografare – senza l’illusione dell’esaustività – il movimento vitivinicolo calabrese, che per la sua crescita esponenziale degli ultimi vent’anni è difficilmente etichettabile o riducibile in griglie precostituite.
    Di certo si è arrivati a un apprezzamento sempre maggiore – per qualità e quantità di aziende e bottiglie ma anche per la presenza di personalità eccelse tra produttori e divulgatori locali, come vedremo, oltre che di enologi che hanno tracciato la strada come Donato Lanati per Librandi – in modo meno “drogato” di quanto sia accaduto nell’ultimo lustro nel mondo degli amari, tra continui exploit e premi non sempre “prestigiosi” come da formula. Il rischio è l’autoreferenzialità provinciale e anzi ombelicale riassumibile in un celebre post de Lo Statale Jonico («È calabrese la città calabrese più bella della Calabria»); ma questo è un altro discorso. Luoghi comuni a parte, ecco dunque un alfabeto minimo e semiserio (e soprattutto in continuo aggiornamento) su vini e produttori calabresi.

    Archeologici

    vini-calabresi-migliori-etichette-produttori-bianchi-rossi-rosati-bollicineAcroneo è un brand acrese legato alla famiglia Bafaro: «La produzione dell’archeo-vino Acroneo è frutto di uno studio accurato delle fonti letterarie, iconografiche e archeologiche. Ogni aspetto è curato nei minimi dettagli, per ricostruire il processo di vinificazione antico, si tratta di archeologia sperimentale». Arkon, un Magliocco in purezza da 15,5° affinato in anfora interrata, territorio San Demetrio Corone, sarebbe l’ideale con il garum, la salatissima salsa al pesce degli antichi romani antesignana in un certo senso della sardella. Ammesso che sappiate riprodurla.

    Artigianali

    Chi sono i Vac? Vignaioli artigiani di Cosenza, sigla che vale anche per Vignaioli dell’Alt(r)a Calabria, guidati da Eugenio Muzzillo (Terre del Gufo). I magnifici dieci (gli altri sono L’Antico Fienile Belmonte, Rocca Brettia, Elisium, Tenute Ferrari, Manna, Ciavola Nera, Cerzaserra, Azienda Agricola Maradei, Cervinago) propugnano una filosofia davvero bio e puntano sul vitigno autoctono a bacca nera che trova a 500 metri slm il suo habitat ideale.

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    Fabio Lento, Ciavola Nera: è uno dei vini calabresi “targati” Vac (foto Facebook)

    Bruzio, orgoglio 

    Proprio il Magliocco rivive oggi nella Dop Terre di Cosenza, denominazione che in un decennio è passata da 10 a 60 aziende consorziate e un milione di bottiglie prodotte. Merito di un lavoro commerciale e comunicativo che trova le sue basi in un fondamentale libro di Giovanni Gagliardi e Gennaro Convertini su Il vino nelle terre di Cosenza (ed. Rubbettino 2013, con le formidabili foto di Stépahne Aït Ouarab). Il Consorzio è oggi presieduto da Demetrio Stancati dell’azienda agricola Serracavallo (Bisignano, CS).

    Creativi/1

    Restiamo in ambito letterario e nelle Terre di Cosenza con il Maglianico Serragiumenta, etichetta che gioca con l’Aglianico la cui fortuna è stata decantata – è il caso di dire – dal potentino Gaetano Cappelli in un gustoso libro per Marsilio che celebra il vitigno del Vulture. In questa bottiglia di rosso “da meditazione” dell’azienda agricola di Altomonte (CS) troverete il 60% di Magliocco e il 40% di Aglianico: sempre che riusciate a meditare accanto a un arrosto di carne o un tagliere di formaggi a lunga stagionatura, piuttosto che vedere i draghi. Esperienza comunque da consigliare, vista la qualità del vino.

    Creativi/2 (pure troppo, forse)

    Dgp? Una volta che sarà corretto il simpatico refuso sull’etichetta (Denominazione Geografica Protetta, un ibrido tra Dop e Igp) varrà tantissimo questo stock di bottiglie firmate Colle di Fria, tipo il Gronchi rosa o la moneta da 1000 lire del 1997 con i confini dell’Europa sbagliati (valore su eBay: 3mila euro).

    Eretici

    Incurante della polizia del pensiero unico, Dino Briglio Nigro con la sua barba marxista spinge il suo Sputnik 2 (azienda L’Acino, San Marco Argentano, CS), una magnum di Magliocco in purezza (14°) dall’etichetta orgogliosamente sovietica. Dell’altrettanto eretica azienda presilana Spiriti ebbri (citata nientepopodimeno che dal compianto Gianni Mura in una delle sue ultime classifiche del meglio dell’anno su Repubblica) consigliamo invece il Cotidie (rosato e bianco).

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    Dino Briglio Nigro appartiene alla categoria degli eretici tra i produttori di vini calabresi

    Governativi

    La Tenuta del Castello di Roberto Occhiuto (antica cantina dell’alto Jonio cosentino di cui sono proprietari anche Paolo Posteraro e Valentina Cavaliere) aggiorna in un certo senso, restando nel centrodestra e in zona ionica, l’impegno da 4 generazioni dei Senatore (Cirò Marina) o quello di Dorina Bianchi (Pizzuta del Principe, Strongoli). Una versione calabrese della passione dalemiana con la sua cantina umbra La Madeleine.

    Indipendenti

    Francesco De Franco (azienda ‘A Vita, vedi anche alla lettera R) ha da poco celebrato, il 14 maggio, il Sabato del Vignaiolo, la giornata pensata in tutta Italia dalla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti «per raccontare al pubblico e agli appassionati le realtà territoriali dei 1400 soci Fivi»: 18 appuntamenti organizzati da nord a sud da altrettante delegazioni locali, tra banchi d’assaggio, degustazioni guidate e abbinamenti gastronomici.

    Magno, anzi maximo

    Con un punteggio di 99/100, il Megonio 2019 Librandi a inizio anno è risultato il miglior vino italiano in assoluto secondo la guida Vitae 2022 edita dall’Ais (Associazione italiana sommelier). Il rosso Igp Calabria richiama nell’etichetta il quadrumviro romano attivo nel II secolo d. C. nella città romana di Petelia, oggi Strongoli. Per molti calabresi però, con i rossi Gravello e Duca Sanfelice, è stato per decenni sinonimo di vino rosso di fascia altissima.

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    Il Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia sulla guida Vitae 2022

    New York Times

    Un altro rosso, stavolta di Odoardi (vai alla lettera Q), a fine 2021 è stato collocato nel gotha dei 20 migliori vini al mondo al di sotto dei 20 dollari: parola di Eric Asimov, tra le firme più influenti del New York Times e autorità planetaria del settore vino, entusiasta per 149 – L’inizio, una «miscela rossa, incentrata sull’uva Gaglioppo, che è affumicata, tannica e un po’ selvaggia, come la Calabria, ma concentrata e deliziosa».

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    La sede del NYT

    Pionieri e volti nuovi

    Dopo anni di premi e soddisfazioni, il 2022 ha portato al guru Nicodemo Librandi il dottorato di ricerca honoris causa in Scienze agrarie, alimentari e forestali all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. E se Roberto Ceraudo, fondatore dell’azienda Dattilo a Strongoli oggi anche ristorante stellato grazie alla figlia Caterina, è diventato intanto ambasciatore dell’Accademia dell’olio di Spoleto, è un volto nuovo eppure già noto quello del “benemerito della vitivinicoltura italiana per il 2022”: si tratta di Giovanni Celeste Benvenuto (vai alla lettera Z), abruzzese figlio di calabrese che ha trovato a Francavilla Angitola (VV) il suo eden: è stato premiato nella cerimonia di apertura dell’ultimo Vinitaly.

    Qualità/quantità

    Il rischio di articoli come questo è tanto di ridurlo a un elenco di aziende quanto di dimenticarne imperdonabilmente qualcuna: dunque, per qualità, evoluzione e presenza sul mercato (in qualche caso anche nei settori Horeca e Gdo) bisogna citare, con la già menzionata Serracavallo, almeno Ferrocinto, Fratelli Falvo, Terre Nobili di Lidia Matera, Tenuta del Travale di Raffaella Ciardullo, i gemelli rendesi Giraldi&Giraldi, Chimento, Colacino, i decani Eugenio Cundari e Giuseppe Calabrese nel Cosentino; Baroni Capoano e Casa Comerci nel Vibonese; Sergio Arcuri, Ceraudo, Enotria, Ippolito, Iuzzolini, Russo & Longo, Cantine San Francesco, Santa Venere, Tenuta del Conte e Termine Grosso nel Crotonese oltre naturalmente a Librandi e ai rivoluzionari cirotani che trovate alla lettera seguente; Criserà, Lavorata e Tramontana nel Reggino; Dell’Aera e Le Moire nel Catanzarese e il già citato Odoardi nel Lametino, con Statti e Lento.

    Rivoluzionari

    La “revolution” dei Cirò boys, intanto diventati lord, potrà dirsi conclusa quando arriverà la tanto agognata Docg, o almeno si avvierà l’iter: a oltre 10 anni dal cambio del disciplinare, l’idea della denominazione di origine controllata e garantita non è mai tramontata e anzi è quanto mai attuale. Intanto i più visionari tra i vignerons calabri – capitanati da Cataldo Calabretta e Francesco De Franco (lo abbiamo trovato alla lettera I) – continuano con la loro missione nel distretto più importante della vitivinicoltura calabrese, tra i più longevi e produttivi del Mezzogiorno, un unico paesaggio che ingloba anche Crucoli e Melissa: duemila ettari circa (dati Arssa 2002) ovvero il 20% della superficie vitata dell’intera Calabria. Con il Gaglioppo re assoluto e incontrastato.

    Spumanti

    Le bollicine erano il grande tabù della vinificazione calabrese: poi arrivarono, quasi 15 anni fa, Almaneti e Rosaneti di Librandi. Due etichette ormai storiche cui aggiungere quantomeno il brut Dovì di Ferrocinto, Chardonnay in purezza da un vigneto a 600 metri slm esposto a nord, forte di 36 mesi di affinamento sui lieviti.

    Viola

    Il Moscato di Saracena è tra i vini calabresi più apprezzati

    Un discorso a parte merita la famiglia Viola che da un quarto di secolo a Saracena (CS) con il suo Moscato al governo ha riportato al top nazionale la tradizione cinquecentesca del vino dolce, menzionato dalle fonti storiche sulle tavole pontificie almeno dal XVI secolo. Merito dell’intuizione di Luigi, maestro elementare in pensione, e della passione dei figli.

    Zibibbo

    Nel 2020 il New York Times ha inserito lo Zibibbo delle Cantine Benvenuto (lettera P) tra i 10 migliori bianchi italiani sotto i 25 dollari, da allora solo soddisfazioni: da provare il bianco Orange non filtrato e il rosato Celeste.

    Wilde

    «Per sapere se il vino è buono non occorre bere l’intera botte»: Oscar Wilde lo diceva riferendosi all’incostanza delle letture, noi prendiamo la frase in prestito per ribadire che per apprezzare il vino calabrese non serve citare tutte le aziende (qui un elenco accurato). Di certo ci abbiamo provato: e la difficoltà di essere esaustivi già la dice lunga su quanto sia in crescita il settore.

    (in aggiornamento…)

  • MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

    MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

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    Alle sei del pomeriggio una quindicina di ventenni, in cerchio, discute animatamente in un magazzino di via Rivocati. Non parlano dell’ultimo trend di TikTok né della mise di Damiano dei Maneskin e nemmeno di chi vincerà lo scudetto, ma molto probabilmente della crisi russo-ucraina. È la federazione dei giovani comunisti: il che sarebbe già una notizia se non fosse che tutto ciò accade in uno dei quartieri più marginali eppure – o forse, proprio per questo – affascinanti della città.

    Era il cuore della “Cosenza città di provincia”, ma con cinque cinema, raccontata da Stefano Rodotà, che proprio in questo quartiere, nel palazzone nobiliare di via Sertorio Quattromani, crebbe e maturò prima del grande salto a Roma.

    I ragazzi della Federazione dei giovani comunisti animano il dibattito pubblico del quartiere (foto Alfonso Bombini 2022)

    Prologo. Tre fiere: il commercio nel dna del quartiere

    “Fino a tutto il 1300 e il primo quarto del 1400 Cosenza non superò le sponde dei due fiumi tranne che con il borgo dei Rivocati al di là del Busento, a nord, nella zona pianeggiante occidentale”, scriveva Enzo Stancati nel primo dei quattro volumi di Cosenza nei suoi quartieri (Luigi Pellegrini editore, 2007): nel Duecento, dal 21 settembre al 9 ottobre vi si teneva la fiera annuale dei santi Matteo e DionigiFederico II elesse nel 1234 Cosenza una delle sette sedi delle esposizioni generali del regno con Sulmona, Lucera, Capua, Bari, Taranto e Reggio – con lana e oreficeria tra i prodotti in vendita e soprattutto seta (qui “si stabiliva il prezzo del prodotto che poi veniva accettato dalle altre fiere”).

    Già nel 1416 era il luogo della fiera della Maddalena (iniziava il 22 luglio e durava 15 giorni), poco dopo il convento dei Domenicani – dove transiterà Tommaso Campanella – contribuirà a farne abitato popolare in espansione, tra commercianti e artigiani, ortolani e fornaciai “insediati a debita distanza dai cittadini più abbienti, accanto all’acqua del fiume necessaria al loro lavoro”.
    Una terza fiera stagionale (Annunziata, dal toponimo della piana oggi ereditato dall’ospedale) “accordata da Filippo II con un privilegio del 4 agosto 1555 (…) in base a un documento del 1839 (…) si svolgeva in un solo giorno, il 25 marzo, in piazza San Domenico”.

    Perché Rivocati?

    Il compianto storico di Lago racconta anche che questo “quartiere suburbano” era “collegato al nucleo urbano dal ponte – poi appunto detto “delli Rivocati” – che immetteva direttamente in città mediante l’antica via consolare (oggi corso Mazzini, ovvero isola pedonale, ndr). Nella zona (…) si rinvennero nel 1840 i resti di un pilone di ponte romano, forse un secondo ponte sul Busento, che aggirava l’abitato e, circuendo il Pancrazio, conduceva forse a Portapiana”.

    Le tracce romane si ritroverebbero anche nella conformazione ortogonale delle strade, con via Rivocati asse principale e viale dei Platani e Viaròcciolo – oggi rispettivamente corso Umberto I e via Piave – assi paralleli procedendo verso nord.
    E l’etimologia dei “Rivucati”? Vexata quaestio: dialettizzazione di “ad rivum casae” (umili casupole a ridosso del fiume) o toponimo riferibile alla “revoca” della decisione di un feudatario limitrofo, tra XII e XIII secolo, di negare la concessione abitativa ai cosentini in questo lembo demaniale e non infeudato?

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    La statua dedicata a Lucio Battisti (foto Alfonso Bombini 2022)

    1. Dal puttan-tour ai servizi segreti

    Corsi e ricorsi: Stancati cita cronache del 1891 che riportano “reclami per la nettezza urbana trascurata” mentre “nel 1893 si lamentavano schiamazzi notturni e indecenza igienica”.
    Quegli stessi “Rivucati”, un secolo fa zona di cantine e accoltellamenti ma anche bagni nel Busento non ancora irreggimentato, oggi cercano una nuova identità: una spinta arriva dalla recente intitolazione a Battisti dei “giardini di Lucio”, con tanto di accenti sbagliati nei titoli riportati sulla scultura bifronte inaugurata da Mogol, ma un primo segnale di agognata renaissance – l’ennesima, dopo i bombardamenti e il degrado sempre dietro l’angolo, letteralmente – si era avuto già con l’inaugurazione in pompa magna del “distretto di cybersecurity” nella vecchia e sontuosa sede delle Poste, alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi (era il 2015).

    Una raccolta di foto e stampe tratte dal gruppo Fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”

     

    Fu allora che arriat’ii poste virò da toponimo di pecorecce iniziazioni sessuali perlopiù verbali a polo di alta tecnologia con una spruzzata di servizi segreti. Un mood da spy story reso ancora più attuale, qualche giorno fa, dall’ufficializzazione della destinazione d’uso del palazzotto liberty di via Trento restaurato alla grande nell’ultimo anno e sul cui ingresso – incastonato tra due alti cipressi appena posti – troneggia finalmente, dopo iniziali chiacchiericci e segreti di Pulcinella finali, la scritta Grande Oriente d’Italia. Il mega-tempio massonico a un paio di metri dal palazzo comunale. Giusto per titillare le battutine dei detrattori del neo-sindaco Franz Caruso esponente di spicco proprio del Goi — dìciche.

     

    2. Il vecchio che resiste al brutto modernista

    Il tappeto multicolor di piazza Riforma che in pieno stile-Penelope dell’evo occhiutiano (scascia e conza, scascia e conza…) se ne sta già venendo via, è il segno dei tempi: ricorda la pavimentazione stradale attorno a piazza Bilotti, che si sfonda in virtù di implacabili leggi di obsolescenza simili a quelle che regolano la durata dei frigoriferi: con la differenza che quei blocchi di pietra si sfondano e vanno cambiati ogni 2, 3 mesi mentre l’elettrodomestico almeno a dieci anni ci arriva.

    Ai Rivocati, al contrario, alcuni manufatti resistono agli anni, alle intemperie e al cemento che avanza sbranando le antiche vestigia: da decenni abbevera i viandanti, per esempio, la fontanella resa iconica da uno scatto in b/n del compianto Fabio Aroni, zampillo che in un angolo della fu via Montello (oggi Davide Andreotti, storico) con via Pasubio serviva gli espositori del fu mercatino ortofrutticolo oggi rimpiazzato da uffici di nuovissima costruzione dell’Azienda ospedaliera e altro.
    È invece sparita da un paio d’anni la targa Cristiani Banane – altrettanto iconica – che svettava qualche metro più avanti. Era il quartiere dei commerci, qualcuno dei quali è oggi rimasto, come vedremo. Palazzoni moderni sono entrati a gamba tesa, con esiti alterni, tra i vecchi palazzi sventrati dalle bombe del 1943.

    3. Cultura, in attesa del pubblico il privato si organizza

    Il cine-teatro Italia Tieri, una delle strutture cittadine in cerca di identità, è il fulcro di una zona che galleggia tra innovazione e abbandono: proprio davanti all’ex Gil, edificio figlio del Ventennio, ecco il Centro di Salute mentale: non proprio l’Eden per chi ha bisogno di cure.
    Attorno, accanto ad altri poli istituzionali come la Casa della Musica collegata al conservatorio Giacomantonio, non mancano le nuove iniziative private: sta per partire l’Atelier AC (iniziali di Adele Ceraudo, artista cosentina celebrata anche oltre i confini calabresi) su corso Umberto; alle spalle, sullo stesso isolato, c’è quello di un’altra artista: Luigia Granata (via Davide Andreotti 23).

    Il cine-teatro Tieri diventato rifugio per i senzatetto

    Sul lato opposto della strada, in pochi metri sullo stesso marciapiede troverete le officine visuali “Ovo” di Andrea Gallo e la sede della Fgci e, a breve, la nuova sede della casa editrice Coessenza, già galleria d’arte Vertigo dove una ventina di anni fa trovarono nuova collocazione e linfa gli esponenti del “Laboratorio delle due anime” raccontato da Concetta Guido nell’omonimo libro edito da Le Nuvole (2001).

    La targa che ricorda lo scrittore Nicola Misasi

    Un passaggio poco prima della casa in cui visse Nicola Misasi “illustre scrittore calabrese” (1850-1923) conduce nella sede di Tecne, lo studio musicale di Costantino Rizzuti, cerebrale sperimentatore di suoni.
    Sono tutti soggetti che operano con dedizione e nel silenzio ma meriterebbero qualche attenzione.

    4. Negozi: chi ha chiuso e chi resiste reinventandosi

    Se il mitologico Cimbalino, cantato anche da Totonno Chiappetta, ha chiuso poco prima del traguardo delle 70 candeline (le avrebbe spente l’anno prossimo), come pure il salone del barbiere presente poco distante dal 1955, altre insegne storiche come Montalto sport (dal 1937) si sono reinventate adeguandosi, in questo caso, al mercato delle bici elettriche.

    Poco lontano, il negozio di cordami Mazzuca – tempio degli imbottigliatori e dei preparatori di conserve – ha ceduto il posto a un ristorante (CalaBry, via Sertorio Quatromani / piazza Tommaso Campanella) mentre si sente anche la mancanza della bancarella-cappelleria all’innesto nord del ponte Mario Martire.
    Fratelli Bruni (via Trento 7) è un’insegna che in questo 2022 festeggia i 130 anni. Un altro Bruni (corso Umberto, di fronte al Gran Caffè Renzelli) si vanta ancora oggi di essere l’unico concessionario di Borsalino. Insegna vintage che fa il paio con il lezioso lettering della cartoleria Morano, un civico prima.

    Caso a parte Scarpelli, che dal 1946 a oggi si è trasformata da bottega di quartiere – carattere che ancora conserva per la clientela autoctona – a tappa gourmand, tra cantina sconfinata e prodotti localissimi o internazionali di fascia altissima. Nell’arco di tre quarti di secolo ha annesso locali su locali creando infine un isolato interamente dedicato al gusto. Degno dirimpettaio il rivenditore di sale Borrelli, che non rinnega il piccolo spaccio accanto alla presenza nella grande distribuzione. Ma qui siamo già entrati di diritto in zona cibo.

    5. I Rivocati a tavola (da 10 euro in su)

    Nel quartiere bifronte potrete concedervi una tappa cosentinissima dal crapàro (trattoria Miseria e Nobiltà, largo dei Visigoti / Lungobusento Tripoli) e da Grandinetti (via Sertorio Quattromani 32, dove la leggenda vuole che il conto sia sempre di 10 euro) oppure una serata super-chic nel neonato Fellini (via Trento 15), dove se siete fortunati trovate anche la musica dal vivo.
    Negli anni novanta la rosticceria Reda, a gestione familiare, sfornava – si fa per dire: era tutto frittissimo – panzerotti a ciclo continuo: adesso i locali sono tra i tanti della zona in affitto.

    È però questa tutta una zona a tale vocazione gastronomica che potrete trovare ristoranti anche in due civici attigui (è il caso de Il paesello e A gulìa, su via Rivocati 95 e 91) oppure uno di fronte all’altro (Tina Pica e Osteria gemelli Tucci al 104 e 102).
    Da segnalare infine due presenze, una storica e una recentissima: EnoBruzia, l’apprezzato spaccio di vini di Lattarico per tutti gusti e le tasche, e il panificio l’Aurora, punto vendita dell’azienda Carelli che evidentemente ha intuito la vocazione di un quartiere vecchio 800 anni eppure dinamico come pochi altri. Il quartiere dei fornai e delle fiere.

    Silverio Tucci, chef dell’omonima osteria nel quartiere Rivocati

    COSA VEDERE

    Il giardino della Banca d’Italia (corso Umberto) curato nei minimi dettagli davanti a un edificio maestoso ma vuoto è uno dei simboli della città sospesa tra inespresse potenzialità e triste realtà.

    DOVE COMPRARE

    Siamo nel quadrilatero compreso tra il Renzelli a due passi dal municipio (assolutamente da provare la varchiglia) e la bottega delle meraviglie di Scarpelli: bisogna solo scegliere.

    DOVE MANGIARE

    Anche in questo caso tocca solo scegliere: consigliamo un tuffo nella cosentinità del crapàro o di Grandinetti, ma anche il pesce dell’osteria dei gemelli Tucci.

    (1. continua)

  • Cultura, lettera a un assessore mai nato

    Cultura, lettera a un assessore mai nato

    La sera del 7 novembre, domenica, il neoeletto sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ha parcheggiato la sua Smart tra la biblioteca Civica e il teatro Rendano: è stato come appuntare una delle sue prime uscite pubbliche tra due simboli della decadenza culturale della presunta Atene della Calabria.
    Da un lato la sede della gloriosa Accademia cosentina, dall’altro il teatro di tradizione dove si celebrava Astor Piazzolla a cento anni dalla nascita: due dei tanti contenitori in cerca di contenuti, nel tempo dissestato in cui par di capire che di “contenuto” ci dovrà essere solo il budget dedicato alla cultura.
    Fine del prologo

    Car* assessor*

    O meglio, come sembra dovrà essere, car* consiglier* delegat*, il decennio di Occhiuto ha lasciato le macerie di un eventificio perpetuo di cui non resta alcuna traccia se non nelle lamentazioni social – anche postume – dei cosiddetti “odiatori” in modalità leoni da tastiera.

    Il biennio della pandemia ci ha precipitati in un nuovo riflusso in cui in maniera direttamente proporzionale si sono ristretti gli spazi pubblici di incontro e confronto e dilatati quelli della fruizione domestica – serie tv ma anche musica e persino mostre.
    Eppure Cosenza aveva iniziato a desertificarsi ben prima dell’emergenza Covid: ai lustrini dell’isola pedonale puntellata di opere d’arte e degli stand in centro o lungo il fiume ha fatto da contraltare il depauperamento dei simboli stessi di quella che si beava di essere l’Atene della Calabria, appunto, che per nemesi è stata scavalcata da Vibo capitale del libro, tanto per dirne una.

    Caro assessore o consigliere delegato alla Cultura, fondi permettendo ci sarà da intervenire anzitutto sui teatri cittadini: Rendano, Morelli e Italia giacciono come pachidermi fiaccati da una lunga agonia giunta, per paradosso, proprio dopo la rinascita strutturale, e quasi bisogna ringraziare i privati che con stagioni mainstream quanto si vuole almeno li tengono in vita.
    Al Rendano non si produce prosa dal 1990 – una volta decaduto il Consorzio teatrale –, lo stesso stallo riguarda la lirica ora che si è perfezionata la mutazione degli enti lirici in fondazioni lirico-sinfoniche (solo 2 su 14 hanno sede al Sud).

    A un assessore o consigliere delegato – o consigliera delegata, come pare in queste ore più probabile – si chiede di mettere in campo un progetto fattibile con cui cercare di accedere ai finanziamenti statali (il famoso Fondo unico per lo spettacolo del ministero della Cultura), per cui è richiesto un periodo di attività continuativa che al momento latita.
    Anche in questo caso converrebbe guardarsi attorno con umiltà, ispirarsi magari a esempi virtuosi nella gestione di strutture magari con meno storia ma più visione: dalla Fondazione che gestisce il Politeama di Catanzaro alla grandeur del nascituro (?) Museo del Mediterraneo impreziosito dal waterfront di Zaha Hadid a Reggio Calabria. Per ora un rendering magniloquente quanto il Museo di Alarico alla confluenza Crati-Busento.

    Cosa c’era, cosa c’è

    «A Cosenza (…) non c’è il problema di un assessore nuovo, manca invece il dibattito, la discussione politica e culturale e conseguentemente le scelte: quale cultura, quale arte, vogliamo per la nostra città?»: così Radio Ciroma nella lettera aperta “Per la cultura a Cosenza non serve un assessore ma una discussione”.
    Si sa che, soprattutto a sinistra, il “dibbbattito” (no, il dibattito no!) finisce spesso per trasformarsi in una paludosa riunione di autocoscienza che si inviluppa, si invischia e involve fino alla produzione del Documento Finale; seguirà buffet.
    Eppure per chi ricorda Petrucciani al Rendano, Ferlinghetti o Kusturica alla villa vecchia, i concerti di Lou Reed e Patti Smith o i tamburi del Bronx all’ombra dell’attuale ponte di Calatrava (nell’estate 1998 un totem più futuribile del planetario) fare un confronto con l’offerta culturale di oggi è alquanto desolante.
    Non va meglio se si cercano luoghi di aggregazione.

    Il grande Lou Reed, scomparso nel 2013

    Dal momento che la neo eletta maggioranza non ha fatto mistero di rivendicare una impronta socialista e un legame con la rinascita mancinianaben più della discutibile trovata grafica nel manifesto elettorale di uno dei candidati sindaco Civitelli –, al netto delle ristrettezze di cassa sarebbe allora il caso di ripartire da alcuni dei luoghi (pubblici) in cui il sindaco già ministro e segretario del Psi individuò altrettante opportunità di ripartenza, tanto più in questa fase post-pandemica.

    Senza bisogno di scomodare le Invasioni – davvero un precedente troppo ingombrante benché recentemente brutalizzato come si sfregia un monumento – è il caso di citare almeno la Casa delle culture e la Città dei ragazzi: un non-luogo nel palazzo un tempo sede del municipio e un unicum che, nella zona nord della città, dopo vent’anni non riesce a trovare una identità per imporsi (tra i cubi di via Panebianco, di recente la lodevole iniziativa Bibliohub con le scuole).

    La Città dei ragazzi su via Panebianco

    Ora che si avvicina il primo Natale de-cerchizzato è forse il caso che dal dissesto locale e dalla crisi globale venga nuova linfa: crisi deriva dal greco krino, ovvero decido, ed è nei tempi peggiori che possono nascere le cose migliori.
    Qualcosa in realtà a Cosenza non ha mai smesso di muoversi, e proprio nel centro storico che crollava sono nate nicchie di resistenza come Gaia, Arcired e Coessenza; ma altrettante premesse non sono diventate fatti: il Bocs Museum e la Casa della Musica forse sono gli esempi più lampanti di un torpore che prelude al fallimento pubblico.

    L’interno del Bocs Museum a San Domenico
    Conclusioni

    L’impressione è quella di una città che non fa tesoro delle proprie potenzialità. A cinquant’anni dalla nascita, l’Unical resta un oggetto misterioso per la comunità eppure indicizzato tra le eccellenze accademiche italiane.
    Altri fiori all’occhiello come il Conservatorio musicale “Stanislao Giacomantonio” continuano ad operare con non poche soddisfazioni e ricadute sociali oltre che culturali (con il decreto del Fus 2022 è stato peraltro annunciato dal ministro Franceschini un contributo straordinario per la nascita di orchestre stabili), così come alcuni premi (il “Sila ‘49” e quello per la Cultura mediterranea organizzato dalla Fondazione Carical) contribuiscono almeno ad ampliare lo sguardo oltre la dimensione strapaesana dei consumi culturali.

    C’è una città che in questi anni ha continuato a lavorare nel silenzio e nell’ombra, ma con impatto e seguiti invidiabili, senza pietismi e lamentazioni: forse adesso chiede solo di ricevere, se non riconoscenza, almeno un po’ di ascolto.

  • Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Non è vero che il ponte di Calatrava, costruito anche coi fondi Gescal destinati all’edilizia popolare, ha indirettamente negato un tetto a chi ne ha bisogno.
    Di tetti ne offre quattro – due su ogni lato – e almeno uno è abitato, con tanto di vista sul centro storico. Non solo: questo è uno dei pochi posti della città in cui non manca mai l’acqua – solo che è quella del Crati.
    Benvenuti nel lato B dell’opera faraonica per eccellenza, il manufatto dei record inaugurato con una cerimonia da Olimpiadi e passerella a favore di tg nazionali.

    Un momento della faraonica inaugurazione del ponte nel 2018

    Perché se per ogni cosa di questo mondo esiste il rovescio della medaglia, mai come in questo caso il “sotto” è così diverso dal “sopra”: il pennone sempre lampeggiante e gli stralli proiettati verso un alto che sembra infinito hanno una proiezione speculare verso un mini-girone dantesco abitato da spettri e presenze solo percepite.

    All’ombra del Planetario – un altro feticcio della città che doveva essere – e pochi metri più a nord della confluenza col suo scenario da bombardamento sull’ex Jolly, ecco la versione pulp di quella che doveva essere una promenade parigina; siamo nel territorio molto frequentato della Cosenza che si ferma al condizionale. Potrebbe essere, ma non può.

    Il mondo sotto il ponte

    Avventurarsi per le scale nel “mondo di sotto” col traffico che scorre nel livello dei “normali” spalanca una finestra sui marginali: due preservativi, bidoni, bottiglie rotte, lattine di birra. Due piattini di plastica da piccola pasticceria con avanzi di cibi bruciati. Quattro mattoni che reggono una griglia adattata a brace. Un giaciglio di emergenza ottenuto ammassando su uno strato di cartoni coperte e piumoni: una sensazione di provvisorietà trasformata in consuetudine, come quelle emergenze tutte calabresi divenute norma – la sanità, la gestione dei rifiuti, la casa come diritto di tutti, appunto…
    Una felpa nera appesa ad asciugare al passamano della scalinata che conduce al “mondo di sopra”.
    Il rifugio che affaccia a nord, invece, porta i segni di un rogo che ha annerito il cemento esasperando lo stridore con il bianco lucente della maxiopera che ha stravolto lo skyline bruzio.

    Un collegamento tra il nulla e il niente

    Così si vive a un minuto di auto dal salotto musealizzato dell’isola pedonale (cinque a piedi) vicino ad altri fantasmi come quello di Felicetta, la prostituta di lungo corso che per anni ha abitato la casetta da poco cancellata con la fontanella annessa: al loro posto una rotatoria, al servizio dell’ennesimo ipermercato, grazie alla quale al ponte di Calatrava è stato reso possibile “collegare il nulla al niente” come qualcuno ha scritto.

    E appare fantasmatica anche la presenza degli antichi abitatori di via Reggio Calabria: a dicembre saranno passati 20 anni dal “trasloco più bello dell’anno” osannato dall’amministrazione Mancini, quello che un ghetto cancellò per crearne un altro in via degli Stadi.

    La desolazione sulla sponda del ponte più vicina al centro città

    Oggi ne beneficia il privato, mentre l’intervento pubblico – in questo caso la bretella da saldare con via Sprovieri in funzione di decongestionamento del traffico su via Popilia, ora che viale Mancini è a senso unico – arranca, manco a dirlo. La Giunta ha approvato il progetto soltanto un paio di giorni fa.
    Quando da sotto il ponte vedi sbuffare un altro trenino pensi alla metroleggera, ennesimo feticcio, e alla sua futuribile utilità.
    Il fantasma del ponte chissà da dove arriva, tutte queste cose non le conosce, o forse gliele avranno raccontate: intanto prepara il fuoco e indossa la felpa, ché siamo a luglio ma di notte lungo il fiume è umido.