Autore: Danilo Chirico

  • Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Quella di Stefania Tramonte sarebbe dovuta essere una storia come tante altre. Ha 42 anni e una voce squillante. Vive a Lamezia Terme («non potrei farne a meno») e ogni mattina per lavoro va a Catanzaro. È sposata (con Pasquale, “una benedizione” lo definisce) e ha due figli (Matteo e Christian, di 11 e 8 anni). Le piace stare con gli amici e ha imparato a fare tesoro delle piccole cose. Se le chiedi un bilancio della sua vita ammette di avere sofferto, ma non ha dubbi nel definirsi anche fortunata e circondata d’amore. Tante giovani donne calabresi potrebbero riconoscersi in queste parole.
    Ma quella di Stefania, suo malgrado, non è una storia come tante altre. Non lo è da una dannata notte di 31 anni fa.

    L’agguato a Lamezia

    Le tre del mattino, giù dal letto, una fugace colazione e poi di corsa fuori di casa, senza svegliare la moglie Angela e le tre bambine – Maria, Stefania e Antonella, di 13, 11 e tre anni. Il 40enne Francesco Tramonte fa il netturbino al Comune di Lamezia e anche quella notte raggiunge Palazzo Sacchi, sede del centro della nettezza urbana. Prende le consegne e si dirige al piazzale dove il camion è già pronto. Alla guida c’è il 36enne Eugenio Bonaddio, autista della Sepi, la ditta privata che gestisce la raccolta dei rifiuti. A bordo anche un ragazzone di 28 anni, Pasquale Cristiano, che non dovrebbe stare lì: il medico gli ha sconsigliato il lavoro notturno sui mezzi per un problema di epilessia, ma – vai a capire il destino – c’è un’emergenza e lui si mette a disposizione. Partono.

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    Mamma Angela con Antonella, Stefania e Maria Tramonte anni prima della tragedia

    Intorno alle cinque sono nella zona di Miraglia, a Sambiase, dove l’illuminazione pubblica è cosa rara e la sensazione di degrado e abbandono soffocante. Il camion accosta, vanno per scendere quando notano l’ombra di un uomo dietro i cassonetti: ha corporatura media, porta lunghi capelli pettinati all’indietro e la barba incolta, indossa un giubbotto scuro e paio di jeans. Soprattutto, imbraccia un fucile da guerra. Il suo ghigno è spaventoso, complice il canino inferiore destro più lungo e appuntito degli altri denti. Intima ai tre netturbini di scendere, loro obbediscono.

    All’alba del 24 maggio 1991 Lamezia Terme diventa il teatro di uno spaventoso massacro. Il killer spara 22 volte: i proiettili di kalashnikov calibro 7.62 centrano Francesco 12 volte e Pasquale 7. Non hanno scampo. Se la cava con qualche ferita Eugenio Bonaddio che riesce a mettersi in salvo. Dopo l’inferno di piombo è l’ora dell’odore del sangue e del silenzio.

    L’ultima notte di Tramonte e Cristiano

    È un collega del padre a bussare alla porta di casa Tramonte e dare la notizia alla moglie: «Hanno ammazzato vostro marito su un camion», le dice. «Mia madre è rimasta scioccata, incredula e senza parole». Poi le lacrime, la disperazione e la ricerca del coraggio per parlare con le figlie. «Sono rimasta di ghiaccio», aggiunge. Poi ricorda «la confusione, l’arrivo di una vicina di casa, poi un gran viavai di tantissime persone: abitavamo in quel quartiere da una vita, non ci riusciva a credere nessuno». Anche a casa Cristiano è così. «Il padre e il fratello pensano a uno scherzo di cattivo gusto: cosa c’entra Pasquale con quelle cose?».

    Appunto. Ci pensa spesso Stefania: «Erano due puri: sono stati due martiri». Dalla memoria riaffiora un ricordo: «Un giorno mio padre racconta che un collega si è fatto male a una mano e rischia di perdere un dito – dice – non dimentico la paura che provai pensando che potesse accadere a lui. Figuriamoci una morte così». Un omicidio non è mai giustificabile, ma ci sono delle circostanze in cui è più facile immaginare che possa capitare. «Me lo ha detto anche il figlio di un poliziotto: lui aveva paura quando suo padre usciva di casa con la pistola. Mio padre invece aveva in mano una scopa».

     

    Era mio padre

    «Non se lo meritava, papà – dice Stefania – E poi era una bella persona, era un giocherellone, aveva l’animo di un bambino, e infatti tutti i bambini erano innamorati di lui». Racconta i giri sull’Ape a tre ruote con i nipoti, i picnic improvvisati in montagna: «Era divertente, lo ricordano tutti così. Mi sento fortunata ad avere ereditato questo tratto». Era anche affettuoso con le sue figlie e la moglie Angela: «La baciava sempre. Eravamo una famiglia umile, però felice, soprattutto delle piccole cose. Siamo ancora così». Forse perché cercano di non smarrire il ricordo di Francesco: «Con Maria condividiamo gli stessi ricordi, Antonella invece era troppo piccola, non ha memoria di quegli anni, è una cosa che mi fa soffrire. Però parliamo sempre di lui, anche per i miei figli è una presenza viva».

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    Francesco Tramonte con la sua famiglia

    Lo shock e il dolore sono enormi, ma bisogna andare avanti. Angela si rimbocca le maniche: «Abbiamo avuto solo lei come punto di riferimento, s’è dedicata completamente a noi. Avrebbe potuto fare la bidella, ma non ha voluto privarci anche della sua presenza. Abbiamo vissuto con la pensione di mio padre: ha fatto la scelta giusta, è stata una madre straordinaria». La loro vita è cambiata per sempre, «ma ce l’abbiamo fatta». Anche perché, lo sottolinea spesso Stefania, «mi sono sempre sentita amata, dai miei compagni di scuola di allora, dai miei amici, dalla mia famiglia, dalle persone comuni: sono sempre stati tutti molto comprensivi, attenti, vicini».

    Tramonte e Cristiano, morti che riguardano tutti

    D’altra parte, le cittadine e i cittadini di Lamezia hanno condiviso anche la rabbia e la paura con le famiglie di Tramonte e Cristiano: «Da quel giorno si sono sentiti in pericolo: hanno pensato che se avevano ucciso degli innocenti in quel modo sarebbe potuta toccare a chiunque».

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    Pasquale Cristiano

    Lamezia si sente vulnerabile, cerca una spiegazione. Anche gli investigatori si interrogano. Perché quella notte? Perché Tramonte e Cristiano? E perché con quelle modalità?
    Lo scenario che si va via definendo è sconvolgente. Cristiano e Tramonte non erano un obiettivo, sono rimasti vittime della necessità dei boss di compiere un gesto dimostrativo per affermare che i rifiuti sono affar loro: poteva esserci chiunque su quel camion. In altri termini, Lamezia scopre che si può morire così, senza motivo. Anche per questo migliaia di cittadini sfilano per le vie della città.

    L’illusione delle indagini

    Le indagini intanto sembrano procedere speditamente. «I giornali scrivevano che c’era un testimone, che la pista era quella giusta», ricorda Stefania amareggiata. E un testimone, in effetti, c’è. Bonaddio, l’autista del camion, è impaurito ma fornisce un identikit del killer. Per gli investigatori è Agostino Isabella, di Sambiase, considerato vicino alle cosche. Bonaddio lo riconosce e, nel giro di poche ore, il caso sembra chiuso. Finché l’autista di fronte a un nuovo riconoscimento esita e tra le quattro persone dietro il vetro ne indica due diverse: uno è Agostino Isabella, l’altro il fratello che gli somiglia molto. «Che devo dire? – commenta Stefania – Certo, con Bonaddio ci siamo conosciuti e abbiamo sperato nella sua testimonianza, ma non ne abbiamo mai parlato: ogni tanto ci incontriamo, ma non abbiamo nessun rapporto».

    La Corte d’appello di Catanzaro

    La verità però è che «tutta l’indagine non è stata fatta bene, diciamo che sono stati commessi troppi errori». Isabella l’11 maggio 1992 viene comunque mandato a processo ma la Corte d’Assise di Catanzaro lo assolve il 19 giugno 1993 per non aver commesso il fatto. Le motivazioni descrivono però un omicidio di ’ndrangheta maturato nella lotta tra clan per “assicurarsi l’appalto del servizio di nettezza urbana”, che fino ad allora “era stato conferito con dubbia legalità e con dispendio sproporzionato di pubblico denaro a imprese non immuni da sospetti di contiguità al mondo mafioso”.

    Un messaggio bestiale per Lamezia

    E c’è di più: “Il barbaro eccidio – scrivono i giudici – volle essere un significativo messaggio, tanto più efficace quanto più permeato da bestiale efferatezza, rivolto a tutti, pubblici e privati operatori; un messaggio che preannunziava nuovi equilibri mafiosi e dei quali non poteva non tenersi conto nello spendere i miliardi della nettezza urbana”. Tutto questo in un quadro di esternalizzazione (dal 1988), nonostante il Comune fosse “in grado di attivare in proprio il servizio”. Insomma, è stato un atto di terrorismo mafioso per regolare gli affari nel settore dei rifiuti in una città piegata e in crisi (il 20 settembre 1991 ci sarà lo scioglimento per mafia del consiglio comunale, il 1992 si aprirà con il duplice omicidio del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano).

    Nel 1993 si aprirsi una nuova stagione: quella del vescovo Vincenzo Rimedio e della sindaca Doris Lo Moro – eletta anche grazie ai voti di Vincenzo Cristiano, il papà di Pasquale, che decide di candidarsi – durante la quale il Comune organizza una commemorazione ogni 24 maggio. Nel 2000 Vincenzo Cristiano muore, l’anno successivo il centrosinistra frana alle elezioni e inizia un periodo di lenta rimozione della storia dei due netturbini. Fino all’elezione a sindaco nel 2005 di Gianni Speranza che riaccende una luce su Tramonte e Cristiano. Tuttavia qualcosa nella memoria deve essersi inceppato se Stefania – il 7 dicembre 2006 – avvia una piccola grande rivoluzione personale. “Conservo ancora il ritaglio del giornale di quel giorno”, rivela.

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    Il ritaglio conservato da Stefania Tramonte

    La svolta di Stefania Tramonte

    In un teatro cittadino viene organizzata la presentazione di un libro a cui partecipano, tra gli altri, il sindaco Speranza, Maria Grazia Laganà, la moglie del vicepresidente del consiglio regionale Franco Fortugno ucciso l’anno prima, e il presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione. Quando l’incontro sta per terminare dal palco chiedono se qualcuno tra il pubblico ha delle domande. Si alza una ragazza, le tremano le gambe, ha la voce incerta: «Sono la figlia di una vittima della ‘ndrangheta, vorrei sapere chi ha ucciso mio padre». Cala il gelo nella sala. «Vorrei sapere se ci sono indagini in corso».

    È Stefania Tramonte. «Non avevo mai parlato di mio padre in pubblico fino a quel giorno – ricorda oggi che invece è diventata la voce della famiglia – mi faceva troppo male. Ho sentito una forza dietro le spalle che mi spingeva. Dovevo farlo, da troppo tempo era tutto insabbiato». Le viene quasi da sorridere: «Ho parlato due secondi – parla di sé con tenerezza – perché poi mi sono messa a piangere». Prendono la parola alcuni studenti, ma dalla sala cresce la protesta: datele una risposta. L’inchiesta è arenata, non ci sono novità. Tocca a Speranza lanciare un appello (l’ultimo lo scorso anno lo ha promosso il festival Trame): riaprire le indagini! Tutta la città ha bisogno di conoscere una verità sinora impossibile visto che non s’è celebrato neppure il processo d’appello. Il pubblico ministero ha presentato l’appello in ritardo e la sentenza di assoluzione è divenuta esecutiva il 18 luglio 1996.

    Gazzetta del Sud, 15 maggio 2016, in occasione dei 25 anni del duplice delitto

    «Non so se era tutto programmato – afferma sconsolata – ma mi dispiace non avere mai avuto l’occasione di chiedere una spiegazione al pm Luciano D’Agostino. Ma all’epoca cosa avrei dovuto fare? Non conoscevamo le procedure. Oggi cosa posso dire? Alcune indagini sulla massoneria su certi magistrati mi fanno riflettere». Ma non prova «odio né rabbia, e ne sono fiera. Vedere in carcere gli assassini non mi darebbe pace. Tanto il vero ergastolo lo stiamo vivendo noi, con un dolore che durerà tutta la vita, e niente potrà restituirmi mio padre. Ma è giusto conoscere la verità».

    Dopo 31 anni

    Sono trascorsi 31 anni da quella dannata notte e non è stato facile. «Devo dire grazie a mio marito, che ha accettato la tristezza, le lacrime, il panico quando era tutto difficile. Ma da qualche tempo le cose vanno meglio: sono mamma, so che devo stare bene per i miei figli. E poi è giusto per me». L’aiuta anche avere incontrato sulla sua strada la famiglia Cristiano, forse perché lo considera un po’ un lascito di suo padre.

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    Maria Tramonte, Antonio Cristiano e la piccola Francesca

    «Un giorno mia madre con la macchina urta e danneggia il gradino davanti a una casa. Ci fermiamo e lasciamo un biglietto per dire al proprietario che siamo disponibili a rimborsare i danni. Era la casa di Rosa e Vincenzo, i genitori di Pasquale Cristiano. Non lo sapevamo. È stato il primo di una serie di segnali che ci hanno fatto percepire per sempre la presenza di papà e Pasquale». Di certo non il più sorprendente: «Mia sorella Maria – rivela – ha sposato il fratello di Pasquale. Si sono conosciuti al cimitero e si sono innamorati. La loro bambina si chiama Francesca, come papà». È stato importante questo accompagnarsi reciprocamente tra le famiglie di Francesco e Pasquale. «Ma papà mi manca, sempre. Vorrei abbracciarlo, vorrei stringere quel corpicino fragile che è stato bombardato da quei colpi di fucile. Bombardato. Non se lo meritava, nessuno se lo merita». Nessuno.

  • Sciolti e poi abbandonati: ma l’antimafia dei record funziona?

    Sciolti e poi abbandonati: ma l’antimafia dei record funziona?

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    Questa storia ha inizio nel primo pomeriggio di un giovedì di maggio di 31 anni fa all’interno di un salone da barbiere a Taurianova, nel Reggino. Quel giorno un killer uccide un uomo mentre fa la barba. La vittima – la faccia ancora sporca di schiuma – si chiama Rocco Zagari ed è un boss della ‘ndrangheta. Il suo omicidio rappresenta il punto di non ritorno della faida tra gli Zagari-Viola-Avignone e gli Asciutto-Alampi che in due anni ha già fatto 32 morti. Il giorno seguente, il 3 maggio 1991, rimarrà agli annali come quello della “mattanza del venerdì nero”.

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    Il “venerdì nero” di Taurianova nel racconto giornalistico della Gazzetta del Sud

    La vendetta degli Zagari è impressionante: tre agguati e quattro omicidi. In uno di questi il sicario mozza la testa del cadavere, la lancia in aria e spara come in un macabro tiro al piattello davanti a una ventina di testimoni pietrificati. La Calabria finisce in prima pagina e il governo è costretto a intervenire: il 7 maggio presenta una serie di misure sul caso Calabria e il 31 emana il decreto legge 164 che introduce lo scioglimento per mafia degli enti locali.

    A distanza di poche ore, il prefetto reggino dispone la sospensione del consiglio comunale di Taurianova, il 2 agosto arriva lo scioglimento. È la prima volta nella storia d’Italia. O meglio, la prima volta che avviene grazie a una legge. Era già successo infatti nel 1983 quando, alle elezioni del Comune di Limbadi, il boss Ciccio Mancuso aveva ottenuto 469 preferenze su 1215 votanti. Da latitante. Per impedirne la scontata indicazione a sindaco, si era reso necessario un decreto del presidente della Repubblica Sandro Pertini.

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    Il boss Ciccio Mancuso, quasi sindaco di Limbadi

    Record su record

    Da allora questa storia di record e prime volte si ripete senza soluzione di continuità. La conferma, l’ennesima, arriva dal dossier Le mani sulla città appena pubblicato da Avviso Pubblico, l’associazione degli enti locali contro le mafie: per il quindicesimo anno consecutivo, anche nel 2021 (questa volta al pari di Sicilia e Puglia) la Calabria è prima in Italia per numero di enti sciolti per mafia (quattro su 14: Guardavalle, Nocera Terinese, Simeri Chichi e Rosarno). Ma la Calabria è in vetta anche alla classifica assoluta.

    Su 365 decreti di scioglimento, ben 127 riguardano la Calabria (la Campania segue con 113). Di questi, 71 la provincia di Reggio, 24 il Vibonese, 17 il Catanzarese, 10 la provincia di Crotone e cinque il Cosentino. Ben 28 enti – ancora un primato – hanno subìto decreti plurimi, 11 consigli comunali sono stati addirittura sciolti per tre volte (Rosarno, Lamezia Terme, Taurianova, Briatico, Nicotera, San Ferdinando, Gioia Tauro, Platì, Africo, Roccaforte del Greco e Melito Porto Salvo). Sono almeno altri due i primati: su sette aziende sanitarie coinvolte, ben cinque sono calabresi. Ed è calabrese il primo capoluogo di provincia ad avere subìto un decreto di scioglimento: Reggio Calabria.

    Comuni sciolti per mafia: il caso Reggio

    È il 9 ottobre 2012 quando il Viminale usa la scure sul Comune guidato dal sindaco di centrodestra Demetrio Arena. Per l’Amministrazione, già impantanata in un dissesto finanziario, è un’onta: il provvedimento parla di «contiguità» con ambienti criminali, indica la necessità di «rimuovere le cause del rischio di infiltrazioni mafiose» e chiama in causa la gestione delle aziende municipalizzate e il comportamento di alcuni consiglieri e dipendenti comunali.

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    Il Comune di Reggio Calabria

    A nulla serve pubblicare il documento Reggio rivendica il suo ruolo nel goffo tentativo di scongiurare in extremis il provvedimento: si tratta di un retorico e banale appello che – senza esprimersi sui fatti all’attenzione della commissione d’accesso o agevolare un confronto pubblico – richiama a una presunta «ingiusta campagna di diffamazione che criminalizza un’intera città»» e a «una strategia denigratoria di una intera comunità» che ha «bellezze naturali ma anche cultura, eccellenze lavorative, imprenditoriali, professionali, scolastiche». Un testo incredibilmente sottoscritto da oltre 500 tra «professionisti reggini, imprenditori, rappresentanti di organizzazioni di categoria» e dalle principali associazioni antimafia cittadine (Libera, Riferimenti, Ammazzateci tutti, Museo della ’ndrangheta – non lo sottoscrivono invece daSud e Reggio non tace).

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    Arena e Scopelliti abbracciati

    Lo scioglimento è un colpo fatale per il cosiddetto Modello Reggio, il sistema politico e di potere del presidente della Regione Giuseppe Scopelliti, padrino politico di Arena, già barcollante per una delle pagine più drammatiche della storia cittadina: il misterioso suicidio di Orsola Fallara, potentissima dirigente del Settore Finanza del Comune. A Reggio inizia l’era dei commissari, poi di nuove amministrazioni targate centrosinistra. Ma un vero dibattito sull’accaduto non ci sarà mai. Un’occasione sprecata.

    Il paradosso dell’antimafia

    Reggio non è tuttavia un caso isolato. L’analisi di Avviso Pubblico sui trent’anni di applicazione della legge dimostra infatti che esiste un deficit di trasparenza sul lavoro delle commissioni di accesso. E che non funziona la necessaria attivazione di una discussione pubblica sui fatti oggetto del provvedimento. Inoltre, emergono problemi a proposito di scioglimenti giudicati arbitrari perché “politici”, di commissari spesso non all’altezza e dell’impossibilità di intervenire sulla macchina amministrativa: circostanze che creano diffidenza, se non insofferenza, tra i cittadini.

    «Alla lunga – sottolinea Vittorio Mete, docente di Sociologia all’Università di Torino, alla presentazione del dossier di Avviso Pubblico – gli scioglimenti godono di un deficit di popolarità e consenso. Quello della legittimità percepita è un problema che dobbiamo porci, perché lo scioglimento non rimedia a un meccanismo di raccolta del consenso che non è sano e che non si ripara in pochi mesi».

    Le conseguenze, a volte, rischiano il paradosso: succede quando l’intervento dello Stato crea una frattura del patto tra istituzioni e cittadini, soprattutto nelle aree in cui è più pervasiva la presenza dei clan. Una questione delicata, ricca di contraddizioni che riguarda – è un’avvertenza necessaria – la possibilità di esercitare i diritti costituzionali e nulla ha a che vedere con il falso garantismo che cerca di insinuarsi nelle fragilità del sistema.

    Due casi emblematici e una legge da cambiare

    Sono emblematici, da questo punto di vista, i casi dei comuni aspromontani di Platì, rimasto per anni senza sindaco a causa di tre scioglimenti e della ripetuta assenza di candidati, e di San Luca, dove Bruno Bartolo è stato eletto nel 2019 (con il 90% delle preferenze!), a distanza di sei anni dallo scioglimento e di ben 11 dalle ultime elezioni, solo grazie alla candidatura del massmediologo Klaus Davi che ha garantito la possibilità di una competizione.

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    Il municipio a Platì

    «Coniugare diritti fondamentali – ha scritto di recente lo studioso delle mafie Isaia Sales – con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è necessario rivedere alcuni cardini della strategia. A partire dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali». Una discussione antica e non più rinviabile. «Quando si arriva a constatare – aggiunge – che ben 78 comuni sono stati sciolti più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace». E bisogna trovare il coraggio, e la volontà, di cambiarla. Sono tre le proposte di modifica della legge, in commissione Affari costituzionali alla Camera, ma una vera discussione non c’è.

    Un fenomeno di classi dirigenti

    La ragione va forse cercata nelle parole di Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico: «Quella delle mafie, scriveva Pio La Torre, è una questione di classi dirigenti, che ha a che fare cioè con il potere e con coloro che lo detengono». La forza delle mafie sta fuori dalle mafie, spesso nei rapporti politici. «Nel corso del tempo – aggiunge – diverse inchieste giudiziarie, storiche e giornalistiche hanno dimostrato che non può esistere mafia senza rapporti con la politica, ma che può e deve esistere una politica senza rapporti con le mafie». Spezzarli spetta agli apparati repressivi, ma «anche alle forze politiche e ai cittadini elettori».

    E tuttavia il tema delle mafie, e del loro rapporto con il potere e con la politica, rimane «assente dal dibattito, anche in questo momento in cui cerchiamo di far partire il Paese col Pnrr», cioè con quella valanga di soldi in arrivo dall’Ue di cui tanto si parla ma su cui non è possibile discutere né per decidere come spenderli, né per individuare il modo migliore di impedire che finiscano nelle mani sbagliate. L’esperienza, a quanto pare, non insegna. Ma questa, seppure anch’essa antica, è un’altra storia.

     

  • Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

    Totò, il punk ucciso a Bovalino per un debito di 300mila lire

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    Luglio 1986, Arena Lido di Reggio Calabria. Gli ambientalisti hanno organizzato un concerto contro il nucleare dopo il disastro alla centrale di Chernobyl di aprile. Sul palco i CCCP e i Gang: un evento. Ad aprire la serata c’è una band di esordienti, gli Invece. Sono quattro musicisti poco più che ragazzini – Salvatore Scoleri, Mimmo Napoli, Totò Speranza e Peppe De Luca – vengono dalla Locride e, come loro stessi ammetteranno anni dopo, quel giorno sapevano a malapena accordare gli strumenti.

    Il pubblico li guarda perplessi, ma è questione di pochi istanti. Gli Invece hanno energia da vendere, uno sguardo originale sul mondo e cantano in dialetto le loro canzoni punk-reggae. Un mix vincente.
    È l’inizio di una ribellione impossibile, di una piccola grande storia di passioni e rabbia, libertà e ingiustizie, dolore e morte vissuta nella Locride degli anni ottanta, terra di rapimenti, faide e tradimenti.
    Decidono di chiamarsi Invece per questo. Meglio, contro tutto questo.

    Adolescenti a Bovalino

    Salvatore, Mimmo e Totò vivono a Bovalino, un piccolo comune che si affaccia sul mare, dove l’aria sembra rarefatta e immobile. È forte l’oppressione della ‘ndrangheta aspromontana, così come il sentimento diffuso che nulla possa mai cambiare. È a questo orizzonte asfissiante che i tre ragazzi non vogliono rassegnarsi. Per questo in paese tutti li considerano gli strani e i disadattati, peggio ancora i drogati solo perché ogni tanto fumano erba. Si spalleggiano a vicenda, soli contro tutti. Diventano inseparabili.

    «Totò ed io passavamo intere giornate e lunghissime notti insieme, c’erano anche Mimmo Napoli e Ciccio Sacco, pochi altri», ricorda Salvatore. Il loro rifugio è la camera di Totò, nella casa sopra il negozio di fiori di famiglia. Il balcone si affaccia sulla piazza di Bovalino, «ma per noi che avevamo colorato le pareti con le bombolette spray, che ci avevamo scritto sopra le frasi di De André e Orwell, di Marley e Guevara e che consumavamo i 33 giri di Clash, Sex Pistols e Cure, quella piazza poteva essere a Londra, a Bologna o a Berlino». Avevano praticato «una rottura con l’ombelico del luogo madre».

    Così Bovalino li respinge, ma loro non fanno nulla per essere accettati. Totò, il primo punk della Locride, è quello che si fa notare di più. Indossa un giubbotto di pelle su cui ha disegnato una siringa spezzata per dire no all’eroina. Porta i capelli tinti e la cresta, usa borchie e anfibi. Facile immaginare che «tantissimi compaesani ci guardassero come fossimo degli alieni». Così Totò inizia a girare per strada con un binocolo al collo. E ai passanti che indugiavano troppo con occhi giudicanti chiede divertito: «Vuoi il binocolo per guardare meglio?». Altre volte, invece, ha raccontato l’amica Deborah Cartisano, estrae un pettine dal taschino, lo bagna in una pozzanghera e poi se lo passa tra i capelli. Ama stupire.

    Arriva la musica

    Ma presto le provocazioni non bastano più. Quel gruppetto di adolescenti sensibili e inquieti sente il bisogno di dare voce alla propria rivoluzione e sogna una band. Accade nella primavera del 1986 quando, poco più che 16enni, incontrano Peppe De Luca, che è più grande di loro e s’è laureato a Bologna in Scienze politiche con una tesi sul punk. Tornato a San Luca, trova naturale avvicinarsi agli strani di Bovalino, con cui condivide la rabbia per le ingiustizie e l’amore per la musica. È lui a far scoprire ai ragazzi la potenza del reggae.

    Gli Invece nascono così: Salvatore, che strimpella la chitarra e scrive poesie, ne diventa il cantante, Mimmo Napoli si accomoda alla batteria, Totò – che non ha mai imbracciato uno strumento in vita sua – si procura un basso e inizia a suonarlo, mentre Peppe fa da chioccia con la sua chitarra elettrica. In quei giorni, l’amico Ciccio Sacco scatta una foto alla band in una posa improbabile davanti a un muro scrostato da qualche parte tra Bova e Palizzi: diventerà la loro immagine storica. L’avventura può avere inizio. «Eravamo una cosa completamente nuova, eravamo all’avanguardia», rivendica fiero Scoleri. La loro musica viene definita “combat reggae”, le loro canzoni contro la guerra e le ingiustizie fanno presto il giro della Locride su nastri di fortuna.

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    Salvatore Scoleri alla chitarra

    Il concerto con i CCCP e i Gang a Reggio Calabria potrebbe essere il trampolino giusto. Tuttavia mentre in tutta Italia si afferma la nuova musica indipendente, gli Invece faticano. È sempre tutto più difficile in Calabria. Così i ragazzi si dividono ed emigrano. Mimmo trascorre alcuni mesi all’estero, Salvatore gira l’Europa come artista di strada (una passione mai sopita), Peppe sceglie il quartiere afrocaraibico di Brixton a Londra, Totò prima raggiunge la sorella Teresa in Liguria poi, dopo un periodo in Portogallo, si trasferisce da Peppe a Londra.

    Ma anche se sono dei giramondo, gli Invece trovano sempre il tempo di tornare a Bovalino e ogni volta è una buona occasione per scrivere canzoni e suonare. Nel 1988 la band organizza un tour calabrese e nei due anni successivi registra dei nastri promozionali. Ma la fortuna non gira e all’improvviso le cose precipitano: Totò finisce nell’inferno dell’eroina. Cade e si rialza molte volte, anche passando per una comunità. Nel frattempo continua a girovagare tra l’Italia e la Francia, la Spagna e il Portogallo dove, nel 1993, diventa padre di un bambino che si chiama Diego. Totò combatte contro i demoni e trova rifugio in paese, dove si unisce ai tanti giovani che animano il movimento antindrangheta “Pro Bovalino Libera” che si batte contro i sequestri di persona e chiede la liberazione del fotografo Lollò Cartisano.

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    Il bassista degli Invece, Totò Speranza, ucciso dal pusher

    Totò ci riprova

    Dopo quella stagione di impegno, si sente pronto per una nuova sfida e si trasferisce a Roma dove lavora come cuoco e si specializza in una paella in versione calabrese. Le cose vanno talmente bene che decide di investire con alcuni amici romani in un locale nel rione Trastevere, il Punto G. Ma il momento fortunato dura troppo poco. Nessuno sa davvero quali tormenti lo abbiano attraversato, ma per Totò sono mesi difficili. S’innamora di una ragazza che si fa spazio nel mondo della tv evocando messe nere e dicendo di far parte della famigerata setta dei Bambini di Satana. Scoppia uno scandalo e si apre un’inchiesta della magistratura.

    Totò, pur estraneo a quel mondo, finisce in carcere per avere difeso la compagna dalle pressioni della polizia, per lui ingiuste, durante un interrogatorio. Crolla, litiga con i soci del locale e all’inizio del 1997 fa ancora una volta ritorno in paese. Questa volta però non ha più voglia di essere considerato un corpo estraneo, dà una mano al negozio di famiglia e lancia lo slogan “Vogliamoci bene a Bovalino”, subito sposato dagli Invece che riprendono a suonare. I primi di marzo la band raccoglie l’affetto di tanti amici esibendosi nel bar dove i ragazzi spesso trascorrono le loro serate. Sarà l’ultimo concerto insieme.

    Il passato che ritorna

    Perché è vero che Totò è cambiato, ma non è facile chiudere con il passato. Soprattutto se hai accumulato troppi debiti con gli spacciatori. Per alcuni interviene la famiglia, l’ultimo, che risale al 1995, gli è fatale. Quella volta Totò aveva riempito la valigia con 200 grammi di marijuana per portarla agli amici romani – l’erba dell’Aspromonte è conosciuta in tutta Italia. L’aveva presa da un ventenne, diventato il principale pusher di zona, Giancarlo Polifroni. Totò gli deve trecentomila lire, ma il tempo passa e non riesce a pagare. Polifroni non vuole soprassedere – ne andrebbe del suo prestigio.

    Nella terra delle vittime di mafia

    Totò sparisce nel tardo pomeriggio del 12 marzo 1997, dopo avere bevuto una birra al bar con un amico. Il giorno seguente una telefonata anonima ai carabinieri segnala la presenza di un cadavere sotto un ponte della statale 106. Totò Speranza, 28 anni, è stato ucciso con un colpo alla tempia sinistra, il killer ha poi infierito sparandogli cinque volte alla schiena. Nel 2004 Giancarlo Polifroni viene condannato in contumacia a 17 anni in via definitiva. Sarà arrestato alcuni anni dopo, quando – rivelano le inchieste – è ormai un narcotrafficante capace di rifornire le piazze di spaccio di mezza Europa.

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    Gli Invece senza Totò Speranza

    Comu si faci

    Il dolore è insopportabile, per il gruppo la tentazione di mollare è forte. A riaccendere la fiamma è la ricercatrice tedesca, Eva Remberger, studiosa della musica dialettale italiana che insiste perché la band non si sciolga e si offre di sostenere le spese del primo disco. Durante quelle ore concitate Salvatore compone di getto una poesia per l’amico ucciso, si intitola Ma comu si faci – come si fa ad ammazzare ancora in Calabria, una terra che somiglia al paradiso – una struggente ballata, la canzone manifesto degli Invece. Tre mesi dopo l’omicidio, è un nuovo inizio: la band diventa il riferimento delle battaglie per i diritti in Calabria, arrivano le recensioni sulle riviste specializzate, i concerti oltre il Pollino, un memorial per Totò Speranza – che sarà organizzato per un ventennio. Anche per ricordare storie e nomi delle vittime di mafia.

    Nel 1999 escono due dischi da cui nasce un fortunato tour in Norvegia dove «creammo gli Invece in versione multietnica con musicisti di ogni parte del mondo», ricorda Scoleri. Tra una partenza e un ritorno, va avanti così per anni, poi forse la spinta si esaurisce, forse cambiano le priorità della vita e i concerti si fanno sempre più rari. La storia di Totò però è ormai un simbolo di ingiustizia e ribellione che trova alimento nei racconti delle associazioni antimafia, nelle parole del rapper Kento che al «sogno di Totò Speranza» nel 2016 dedica uno splendido pezzo, nelle testimonianze dei compagni di sempre che, 25 anni dopo quella morte assurda, conservano «nel cuore un ricordo che non sbiadisce». Non può.

    «Nascendo in un altro posto avremmo avuto più fortuna», ne è stato convinto Peppe De Luca. D’altra parte, si sa, la Calabria sa essere ostile e crudele. «Ma non avremmo potuto cogliere la quotidianità che si vive qua». E comunque, per dirla oggi con Scoleri, «non saremmo stati gli Invece». Quegli strani ragazzini, felici e disperati, che crescendo si sono battuti, che forse hanno anche commesso degli errori, ma che in fondo hanno solo desiderato essere liberi. Magari anche di cadere e di ricominciare. E che per questo hanno pagato – e pagano – un prezzo enorme e ingiusto. Nessuno mai avrebbe dovuto, nessuno mai dovrebbe.