Autore: Concetta Guido

  • E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    «Ho passato tutto questo tempo a dare la caccia a un fantasma. Però adesso stiamo per morire. Potresti dirmela la verità! Diabolik, chi sei?».
    E così insieme a Ginko-Valerio Mastandrea scopriamo che l’antieroe creato negli anni Sessanta dalle mitiche sorelle Angela e Luciana Giussani è cresciuto sull’Isola di Dino, di fronte a Praia a Mare. È la location scelta, insieme alla Tonnara di Palmi, per raccontare la sua infanzia e la sua adolescenza, nell’ultimo film della trilogia dei fratelli Marco e Antonio Manetti.

    I fratelli Antonio e Marco Manetti (foto Pietro Luca Cassarino, fonte Wikipedia)

    Diabolik-Chi sei?, prodotto da Mompracem e da Rai Cinema, è stato presentato al Citrigno di Cosenza nelle stesse ore in cui usciva in tutta Italia. In sala con Antonio Manetti, Giampaolo Calabrese, project management della Calabria film commission, che ha contribuito alla realizzazione, il presidente regionale dell’Anec Pino Citrigno e la giornalista Rosa Cardillo.
    «Le maestranze calabresi hanno una marcia in più, è incredibile», dice Antonio Manetti. «Lavoriamo sempre con la stessa troupe, siamo una famiglia, ma ogni tanto abbiamo incluso qualcuno proveniente da questa regione, ragazzi e ragazze non alfabetizzati cinematograficamente e che sono cresciuti in fretta; con il resto della squadra spesso siamo rimasti meravigliati dalle capacità dimostrate».

    Le riprese del film dei Manetti Bros sull’Isola di Dino

    Da neonato a criminale… sull’isola di Dino

    Nell’ultimo capitolo della saga si scava nel passato di Diabolik. Girato in un pezzetto di Calabria, a Bologna, Milano e Roma (tra la primavera e l’estate del 2022), è ispirato al numero 107 del fumetto, una storia che i cultori conosco bene.
    Giacomo Giannotti e Mirian Leone interpretano la coppia del crimine. Il loro è un grande amore come quello tra l’Altea di Monica Bellucci e il commissario di Clerville. Deliziosa Barbara Bouchet che appare nei panni di una contessa, mentre Carolina Crescentini, anche lei in una breve parte, ricorda un personaggio di Omicidio a luci rosse di Brian de Palma.
    Il futuro criminale viene salvato in mare, neonato, da un manipolo di criminali che lo porta sull’isola (di Dino) dove crescendo imparerà, grazie a chimici, medici e ingegneri pazzoidi, a costruire le maschere umane, a fabbricare trucchi meccanici rocamboleschi, a far scorrere fiumi di pentothal. E sono scene in bianco e nero con un sentore di espressionismo tedesco alla “dottor Caligari”. Sull’isola si aggira una pantera nera che semina il terrore e che tutti chiamano Diabolik. Una creatura che lo affascina, tanto da prenderne il nome.

    La giornalista Rosa Cardillo e il regista Antonio Manetti

    Palmi e il «film del cuore»

    I fratelli Manetti sono romani ma originari di Palmi da parte di madre. Amano e frequentano la regione dello Stretto da sempre. In questo momento seguono il montaggio di U.S. palmese, finito di girare la scorsa estate, con Rocco Papaleo, Claudia Gerini, Massimiliano Bruni (stessi produttori del terzo Diabolik, con in più il patrocinio della Lega Nazionale Dilettanti).
    Un’opera ottimista, «un film del cuore», confessa il regista, che segna il ritorno dei Bros all’abitudine di spaziare tra i generi.
    «E’ dall’incontro con Giampaolo Calabrese che è nata l’idea. Durante le location per Diabolik ci chiese “perché non fare un film interamente dedicato alla regione?”. Io e Marco avevamo una storia, un progetto già scritto e messo da parte. Gliel’abbiamo raccontata e lui ha risposto: “Facciamolo!”».

    Erano due ragazzini i Manetti, quando in un’osteria vicino allo stadio di Palmi, mentre mangiavano gelati, ascoltavano i racconti sulle imprese di un calciatore. «La squadra di calcio è una scusa per raccontare tante cose, è un film pieno di emozioni, sia sportive sia umane». Un film sulla Calabria migliore. «Vorremmo fare per questa terrà ciò che abbiamo fatto in Campania con il nostro Song’e Napule».
    Molta musica (nel caso della premiata opera napoletana quella dei neomelodici, con il Lollo Love di Giampaolo Morelli), tenerezza, ironia, affetto. Nel cast anche Max Mazzotta e Paolo Mauro, attori calabresi che hanno lavorato in diversi film, molto impegnati sul territorio.

    La copertina “stracult” del numero 107 di Diabolik

    Maschere, vintage e tanta musica

    Nel cast di Diabolik-chi sei? c’è Max Gazzè, un altro artista che da queste parti torna volentieri, grazie alla sua collaborazione con il musicista Checco Pallone e la sua orchestra. Interpreta il re del terrore che si traveste per una “missione” e indossa una maschera che ha la faccia… proprio di Gazzè.
    L’attore Paolo Calabresi fa il cattivo, è King, il capo supremo della comunità di geniali delinquenti che popolano l’isola. È il primo avversario di Diabolik. Chi la spunterà?
    Non spoileriamo, ma ci piace l’alleanza femminile tra Eva e la duchessa Altea di Vollenberg, per salvare i loro compagni dalle grinfie di una banda di rapinatori, talmente sopra le righe da provocare un effetto comico. Una parte della critica non è stata generosa con questo film. I Manetti pagano scelte coraggiose da apprezzare nel tempo. La loro trilogia è un’eredità importante per il cinema italiano.

    I personaggi sembrano realmente fumetti. La cinepresa gli sta addosso esaltandone centimetri fisiognomici e sguardi. Ironici e fedeli agli effetti meccanici più che a quelli speciali, gli autori sembrano divertirsi a creare un film dall’allure vintage. Una pellicola forse un po’ lunga, come tante altre delle ultime stagioni cinematografiche, ma che offre più punti di osservazione: uno spasso è scovare gli oggetti e gli arredi di scena: dallo show di macchine d’epoca, alle lampade, alla varietà di telefoni della Sip.
    Tutta la saga passerà l’esame dei botteghini degli States. I registi, che puntano sulla vena noir e su quel dna di cinema italiano apprezzato dagli americani.
    E poi c’è l’amata musica. La colonna sonora originale, uscita anche in vinile, è di Aldo e Pivio De Scalzi, con una soundtrack a base il funky. E vengono in mente L’ispettore Coliandro e altri lavori dei Manetti. Canta anche il re del falsetto degli anni Settanta Alan Sorrenti. Ti chiami Diabolik è il brano d’apertura firmato insieme con i Calibro 35.

    Da sinistra: Pino Citrigno, Antonio Manetti, Rosa Cardillo e Giampaolo Calabrese

    Un via vai di registi e attori

    «Abbiamo accolto la troupe e i Manetti con grande piacere e siamo orgogliosi – dice Giampaolo Calabrese della Calabria film commission, – di far conoscere il territorio attraverso una narrazione innovativa e di alta qualità». Inizia ad essere molto lungo l’elenco dei film realizzati nella regione in questi ultimi anni. La Fondazione avvierà corsi di formazione per personale specializzato, per poter rispondere alle richieste di produttori e registi che scelgono la Calabria. Partito da Cosenza Alessandro Gassman, dove ha soggiornato durante le riprese di alcune scene di A mani nude di Mauro Mancini, è arrivato l’attore americano James Franco, protagonista di Hey Joe di Claudio Giovannesi. Un magnifico via vai che si spera diventi una costante per una Calabria sempre più cinematografica.

  • Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Ha costruito un edificio prezioso con la sua poesia, i racconti, i romanzi, gli articoli, i saggi. Fino all’ultimo giorno della sua vita ha continuato a lavorare strappando ogni lembo di tempo alla malattia impietosa che lo metteva a dura prova. Coraggioso e generoso con i suoi lettori, Franco Dionesalvi. Una statura da gigante che con il tempo dovrà essere ricostruita, in modo limpido come i suoi occhi.

    «E vivo e parlo e canto e innamoro e soffio bocca a bocca». I suoi versi hanno invaso Villa Rendano, Sulla scia dell’aurora il titolo della serata in suo ricordo a un anno dalla scomparsa – aveva 66 anni – il 6 luglio del 2022. A organizzarla il Comune di Cosenza e la Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, con Antonietta Cozza, delegata alla Cultura della Giunta Caruso e giornalista, a condurla con grande professionalità.

    Franco Dionesalvi nel ricordo degli amici

    Nel pubblico, in prima fila, il professore dell’Unical Pierangelo Dacrema, che con lui ha scritto a quattro mani Conversazione tra un economista e un poeta, testimone e protagonista delle ultime giornate di Dionesalvi, dedicate alla scrittura. Il libro, prima pubblicazione postuma del poeta, è una bussola di carta nel mare magnum di influencer, algoritmi, economia spietata che generano solitudine e nonsense esistenziale.
    L’hanno ricordato le parole dei poeti Anna Petrungaro e Daniel Cundari, del suo amico Filippo Senatore, che ha inviato la sua testimonianza da Milano, dove lavora come bibliotecario al Corriere della Sera.

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    Da sinistra: Anna Petrungaro, Antonietta Cozza, Concetta Guido

    Anche io sono intervenuta, mi appare anomalo – è difficile che un giornalista scriva in prima persona – ma nello stesso tempo bello lasciare traccia della serata con questa breve cronaca. Con Franco abbiamo vissuto dialoghi intensi tra arte e vita, la forza dell’ironia disvelante che ti fa cogliere la sostanza delle cose e guardare negli occhi le cose più terrificanti per cercare di capirne il senso e poi tanti momenti creativi. Tra tutti, mi viene in mente, forse perché più vicina all’idea di cielo, una bizzarra e affascinante mostra sugli alieni e la Calabria, che lui intitolò Avvistamenti. La allestimmo nella Casa delle Culture di Cosenza (creata da lui stesso durante il suo assessorato), nel fatidico anno Duemila,  insieme a Michele Pingitore e agli artisti visionari Luca Scornaienchi, Tonino Iozzo e Raffaele Cimino.

    Le opere di Franco Dionesalvi: novità in arrivo

    I momenti musicali di Sulla scia dell’aurora sono stati curati, invece, dai Nimby. È una band rock che ha iniziato a collaborare con Dionesalvi nel 2006 e che, imbracciate le chitarre elettriche, ha reso un omaggio pregevole, musicando tre degli inediti dell’ultimissima produzione del poeta. La piccola raccolta che le contiene uscirà a settembre per le edizioni Erranti e sarà presentata all’interno del programma del festival Laudomia nella città bruzia.

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    Rossana Bartolo, moglie di Franco Dionesalvi e Antonietta Cozza

    A dare la bella notizia è stata la moglie del poeta, Rossana Bartolo. Nonostante la forte commozione per una perdita irreparabile, ha tracciato il percorso futuro: «Mi ha lasciato disposizioni perché rendessi nota la sua opera e la rendessi disponibile a chiunque l’avesse voluta studiare. Mi sto adoperando per questo: fra un anno uscirà la sua opera omnia poetica per la casa editrice Puntoacapo». E ancora: «Continuerò con il resto dei suoi scritti, raccoglierò i testi teatrali e i racconti inediti; raccoglierò i Sombreri, i suoi sferzanti elzeviri e altro ancora».

    «Siamo tutti collegati»

    È Anna Petrungaro a ricordare quanto scrive Edmond Jabès. « La morte è senza potere contro ciò che sta per germinare, crescere, espandersi. La poesia è un pensare contro l’oblio». Il pensiero di una conoscenza approfondita e di una diffusione più capillare delle sue pubblicazioni, è stato il nesso logico di ogni momento. E lui, il poeta, sembrava esserci tra i suoi affetti, i suoi amici, il pubblico, a reggere quel filo sottile e forte con il quale «siamo tutti collegati». Perché siamo «un po’ tutti uno la continuazione dell’altro», come ha scritto in lettere private e in frammenti, che sono bellezza poetica, pensiero e teoria di vita ed esortazione alla consapevolezza, alla gioia, all’attivismo culturale.

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    Il pubblico nel giardino di Villa Rendano per “Sulla scia dell’aurora”

    «Mi auguro – ha detto Anna Petrungaro riguardo all’opera di Franco Dionesalvi e alle prossime pubblicazioni – che riceveranno la giusta attenzione e diffusione, non solo dai singoli lettori ma anche dalle istituzioni amministrative e scolastiche, che ci sia l’impegno a programmare un lavoro che vada oltre la temporaneità dell’evento che è tale in quanto isolato dal resto, dalla consuetudine, che abbia la forza di permanere e di rifecondarsi».

    Da Cosenza a Milano, tra amore e amarezza 

    La poetessa, legata da un’amicizia ultraquarantennale a Franco Dionesalvi, con il quale, non ancora ventenni, condivise le esperienze teatrali della compagnia Nuova immaginazione, ha ricordato la «scelta amarissima» da lui fatta, a 60 anni, quando «dopo avere dato tanto e sperato incessantemente nella possibilità di un ulteriore radicamento di senso nella sua città, è emigrato a Milano».
    E poi ha ricordato che in un video girato pochi giorni prima di morire, «spese indimenticabili parole d’amore per Cosenza, nonostante tutto. Invocò la cura della memoria di amici poeti come Raffaele de Luca e Angelo Fasano» e «il dovere morale, ripetutamente sollecitato, di intitolare loro qualcosa».

    Nel corso della serata si è parlato anche della ricchezza dei contenuti di un romanzo dell’autore, L’ultimo libro di carta, pubblicato negli anni della pandemia. Un romanzo sulla guerra, sull’amore, sulla battaglia persa contro gli algoritmi che ci tracciano in ogni giornata, sulla perdita della memoria personale e collettiva.
    Il suo sito e il suo blog sono due finestre dell’edificio prezioso che ha costruito. Contengono un’utile mappa per orientarsi tra tutti i suoi lavori, gli articoli e le lettere da Milano, gli scritti sui suoi “ragazzi”, gli allievi di una nuova Barbiana «del riscatto della dignità», come ha detto Filippo Senatore, che stava costruendo in Lombardia.

    Parole che fanno bene al cuore

    I Nimby – Aldo Ferrara, Francesco e Tommaso la Vecchia – oltre ad esibirsi hanno testimoniato il legame che li univa. Negli anni passati hanno musicato un racconto tratto dalla raccolta Libro della morte e delle cento vite e poi realizzato, insieme a lui, lo spettacolo di musica e poesia Pianure.

    «Franco ci ha regalato la possibilità di metterci in gioco, di scoprire quanto è bello fare musica e innamorarsi delle parole; ci siamo divertiti, abbiamo scherzato, abbiamo sudato, faticato, lavorato insieme… ma, soprattutto, abbiamo passato momenti di intensa Felicità. Perché…”ci sono parole che fanno bene al cuore”». E altre che alzano muri, scrive Dionesalvi in una poesia intitolata la “Responsabilità”.
    Noi, con lui, preferiamo le prime.

    (Le foto all’interno dell’articolo sono opera di Ivana Russo, si ringrazia per averne concesso l’utilizzo)

  • Malamerica, l’emigrazione del sogno infranto

    Malamerica, l’emigrazione del sogno infranto

    L’America delle sliding doors, la soglia del tutto è possibile. E poi l’America che regala e toglie, del sogno infranto, della calce nelle unghie, della fatica bagnata di Coca Cola.
    È la Malamerica. Si intitola così la pièce messa in scena dall’attore e regista Ernesto Orrico, un artista che trasforma in materia teatrale vicende e personaggi calabresi. L’autrice è Vincenza Costantino ed è una produzione Rossosimona.
    Orrico è in scena con Mariasilvia Greco. Entrambi interpretano più personaggi, diverse figure sceniche, pregne di storie personali, che danno il senso dell’infinita epopea del viaggio nella terra straniera.

    Meri, Joe e la Malamerica

    Le storie si incrociano nel luogo di transito per eccellenza: una boarding house newyorkese, gestita da Meri, strappata a un Sud d’Italia e agli abbracci della madre, per seguire il destino americano del padre. È lei il crocevia delle vite. Quelle che hanno costruito i grattacieli, che volevano essere Gene Kelly o Marlene Dietrich e che hanno vissuto gli States dai tuguri. E poi c’è Joe, l’emigrato tipo o anche la voce di tutti, come un coro drammatico ma anche comico.
    «Mi interessava parlare di emigrazione in maniera diversa, raccontare quella fallita, andata male. L’emigrazione italiana è spesso narrata – spiega Vincenza Costantino,- attraverso storie di successo. E allora mi sono chiesta: ma chi parla degli altri? Di tutti quelli che non ce l’hanno fatta?».

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    Mariasilvia Greco (foto Pietro Scarcello)

    Le figure femminili sono interpretate da Mariasilvia Greco, capace di trasformarsi in emigrata polacca e subito dopo in donna del boss, semplicemente cambiando una giacca, legando i capelli, indossando un cappello. Anche Orrico “scivola” da un personaggio a un altro a vista del pubblico. «Non amo un teatro troppo costruito e artefatto -spiega il regista-. Il gioco del travestimento, dello svelamento in scena, mi sembra un modo per poter arrivare subito allo spettatore, per coinvolgerlo in maniera diretta nel gioco teatrale».

    Garritano come un jazzista newyorkese

    La musica lega i destini, disegna il percorso. Gli attori escono dalla scenografia, scarna ed evocativa, e vestiti di lustrini, con un microfono in mano e una luce rossa come un semaforo al contrario, cantano schegge di vita dei migranti di tutti i tempi. Sono i momenti delle song. Sul palcoscenico, con loro, il musicista e compositore Massimo Garritano. Ancora una volta in felice tandem con Orrico, ha creato le musiche originali, cariche di sonorità elettriche. È vestito come un jazzista del Birdland, con un grande fiore bianco sulla giacca. Riesce a smuovere emozioni, sia quando omaggia lo swing americano, sia quando esegue la sua personale interpretazione del tema.

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    Greco, Orrico e Garritano in un momento dello spettacolo (foto Pietro Scarcello)

    Malamerica ci racconta che il teatro è più che vitale tra i sette colli cosentini, ed è un teatro emozionante, che racconta storie universali, con impegno e infinito amore.
    Ciò che è meno vitale è la galassia scenica. Due teatri comunali chiusi, il presidio dell’avanguardia, l’Acquario, smantellato, in sofferenza quasi irreversibile molti piccoli spazi di associazioni e minicompagnie attive in città. I cartelloni del Rendano e del Garden hanno fatto il sold out, soprattutto con i nomi noti in tv e al cinema, ma sono la sperimentazione e le piccole produzioni a soffrire.
    Quest’ultimo lavoro di Orrico-Costantino, marito e moglie e partner artistici, ha debuttato al Gambaro di San Fili, che con la rassegna Tutti a teatro, viaggio nei diversi generi, ha riempito una parte del vuoto, offrendo un’alternativa. Malamerica non è classificabile come genere, è una pièce che ha multiformi radici nello studio dell’emigrazione italiana.
    La fucina di personaggi germoglia, infatti, da storie reali.

    Gli indesiderati: il caso Mike Salerno

    C’è anche un riferimento alla parabola di Michele Salerno da Castiglione Cosentino, vicedirettore di Paese Sera dagli anni Cinquanta al 1964. Salerno, diventato Mike a New York, viveva nel Bronx, giornalista antifascista e anche sarto al bisogno, fu rispedito in Italia dopo ventotto anni, sulla nave Saturnia, 379 passeggeri. La sua complessa e coerente esistenza è narrata nel Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea, curato da un maestro del giornalismo calabrese, Pantaleone Sergi, sul sito dell’Icsaic (l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, diretto da Vittorio Cappelli).

    «L’anticomunismo americano – si legge, – stava montando e dopo ben ventotto anni di residenza negli Stati Uniti durante i quali si era sempre battuto contro capitalismo e imperialismo, fu vittima del Procuratore generale Tom Clark e della legge McCarran del 1950 e fu deportato in Italia…».

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    Vincenza Costantino

    Da anni Vincenza Costantino studia l’emigrazione. Malamerica, nato prima che il covid bloccasse il mondo, è stato finalista, nel 2017, al premio made in Usa Mario Fratti, dedicato agli inediti italiani ed è l’ultima tappa di una trilogia (Jennu brigannu del 2005, L’emigrazione è puttana, 2008). Una valida fonte è stata Trovare l’America, storia illustrata degli italoamericani nella collezione della Library of Congress (la Biblioteca nazionale degli Stati Uniti che custodisce oltre 158 milioni di documenti), di Linda Barrett Osborne e Paolo Battaglia.

    Il teatro è la vera America, parola di autrice

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    Rocco Perri e Bessie Starkman

    Ma Malamerica è anche un omaggio al teatro stesso. «È il mio omaggio a Pirandello e a De Filippo, per me i più grandi, gli autori che amo di più. Il teatro è il luogo in cui i fantasmi possono vivere, impossessarsi di corpi e raccontare storie diverse. È il teatro la mia America».
    Tra i fantasmi evocati da Meri e Joe c’è Rocco Perri. Partito da Platì a 16 anni e diventato il re dell’alcool proibito in Canada, ricco e potente, in affari con Al Capone, gestiva i suoi affari illeciti con la compagna Bessie Starkman. La sua storia è stata scritta dal giornalista ed esperto di criminalità organizzata Antonio Nicaso (Il piccolo Gatsby, Pellegrini editore).
    Nella galleria di figure, c’è poi il giovane Gene (Eugenio), il più sognatore di tutti. «È un personaggio che ho amato da subito. Cerca la sua strada e al padre che lo esorta a fare il muratore e gli dice “faremo questa città tutta nuova”, lui risponde “io voglio il mio sogno”. Il suo sogno – racconta Ernesto Orrico – è il cinema».

    Malamerica e i fantasmi di Foster Wallace

    È il desiderio a tirare i fili di questi fantasmi. Sono le vicende della gente che veramente ha investito sull’America e lo ha fatto in maniera totalizzante – conclude Vincenza Costantino – pagando il prezzo più alto in assoluto».
    La disillusa Meri e l’emigrato narratore Joe cantano: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». È una frase di David Foster Wallace, lo scrittore che alcuni lettori trovano noioso, altri venerano come un genio. Sotto i fantasmi di Malamerica crepita il suo pensiero.
    «Può piacere o meno, ma non può essere ignorato. Negli ultimi anni ha segnato la letteratura più di ogni altro. Credo che Infinite Jest sia importante come l’Ulisse di Joyce».
    Malamerica ha iniziato il suo viaggio, verso nuove stagioni e nuovi cartelloni, proprio come i suoi emigranti. Con un occhio alle odissee e alle tragedie che si consumano nei nostri mari.

  • Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

    Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

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    Il fiuto per i film su cui puntare si è sviluppato in anni di lavoro sul campo, ma è nato probabilmente sulle colline di Arcavacata. Era nella prima generazione di studenti del progetto pilota di un Dams a Sud, tra i cubi dell’Università della Calabria, dove si è laureato con una tesi su Stanley Kubrick.
    Paolo Orlando oggi è il direttore della distribuzione di Medusa film e in questa fine anno ha buoni motivi per gioire. Guarda i successi in sala, è continuamente collegato con i report di Cinetel.

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    Paolo Orlando

    È un “grande giorno” per il cinema italiano. Il film con Aldo, Giovanni e Giacomo, diretto da Massimo Venier, ha festeggiato un magnifico Natale, con un incasso di oltre un milione e 100mila euro nel giorno di Santo Stefano. A firmare la colonna sonora della commedia ambientata sul lago di Como, è il cantautore calabrese Dario Brunori, che già aveva collaborato con il trio in Odio l’estate.
    Il box office è da record. Se la partenza è questa, si spera anche in un grande anno del ritorno del pubblico in sala nella post pandemia. Il terreno è già tastato da diversi titoli di questa fine 2022. L’omaggio al teatro di Roberto Andò con il suo La stranezza, la commedia piccante Vicini di casa, il family Il ragazzo e la tigre.

    Da Reggio al grande schermo

    Paolo Orlando, 52 anni, reggino, nella grande fabbrica italiana del cinema, che ha il suo quartier generale a Roma, lavora dal 2001. Oggi fa parte della rosa ristretta dei manager. Dal 2019 insieme con il vice-presidente e amministratore delegato Giampaolo Letta, condivide scelte e strategie. Visiona quintali di pellicole ed è presente a tanti festival, da quelli più importanti ai cosiddetti minori, le vetrine del cinema che verrà. Da Cannes, Venezia e Berlino a Giffoni e Saturnia.

    Anche all’invito del Reggio Calabria film festival ha risposto volentieri. Un buon motivo per tornare a respirare l’aria del mare dello Stretto e per fare visita ai suoi genitori.
    Nella città brutia è stato nel febbraio scorso, in occasione dell’anteprima nazionale di un film a lui caro, “Una femmina” del regista cosentino Francesco Costabile, la storia di Rosa la ribelle, l’attrice cariatese Lina Siciliano, che non accetta il clima e la brutalità mafiosa in cui è costretta a crescere.
    Ciò che colpisce dei titoli Medusa è la perfetta osmosi tra il cinema più impegnato e i prodotti che possono piacere a un grande pubblico.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Come si sceglie un film?

    «Le scelte nascono da un’idea condivisa, a partire dall’amministratore delegato, fino a coinvolgere tutte le varie funzioni aziendali. Medusa ha sempre avuto la costante coesistenza di titoli dall’alto potenziale commerciale, quindi trasversalmente nazionalpopolari, e di tutto ciò che aveva a che fare con un mondo più art house che passava sia per gli esordi del cinema italiano, sia per il consolidamento di grandi autori. Le congiunture degli ultimi dieci anni hanno modificato l’approccio, anche perché il pubblico ha manifestato un’attenzione particolare al prodotto di qualità».

    Cosa è cambiato? E come si sceglie un listino Medusa?

    «Abbiamo provato a far coesistere quello che più naturalmente ci viene bene, cioè la commedia popolare, con un cinema più ricercato, più impegnato. L’esigenza è, quindi, quella di comporre un listino che sia il più eterogeneo possibile e che vada a intercettare al meglio le tipologie di pubblico È in quest’ottica che nascono film come Perfetti sconosciuti, 2016, oppure film family, un sottogenere della commedia che il cinema italiano non frequentava e che è stato rianimato con Dieci giorni senza mamma (di Alessandro Genovesi, con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, ndr).
    Gli esempi più recenti sono la distribuzione di Un altro giro diretto da Thomas Vinterber, Oscar come miglior film straniero, e Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno e un bravissimo Francesco Di Leva».

    Un decennio di risultati, insomma, prima che il covid fermasse tanti progetti. Un esempio per tutti: La grande bellezza e l’Oscar per il miglior film straniero riconquistato dal cinema italiano.

    «Sì, tutta la produzione di Sorrentino fino a Youth è passata da noi. Ma penso anche a Tornatore, a Virzì, a Pupi Avati e ad altri nomi illustri del cinema italiano».

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    Paolo Sorrentino con l’Oscar vinto con il suo La grande bellezza

    Il tuo primo incontro con il cinema è stato in Calabria. Sei stato allievo di Marcello Walter Bruno, semiologo e critico di “Segno cinema”, uno che con i suoi studenti amava discutere di tutte le forme d’arte. È scomparso lo scorso luglio, ed è stato un dolore per chiunque l’abbia conosciuto, ascoltato, letto. È inevitabile chiederti se il tuo intuito abbia a che fare con questo background.

    «L’intuito o sensibilità, io preferisco questa definizione, sicuramente trae le sue origini dal mio percorso di studi ad Arcavacata.
    Con Marcello Walter Bruno fu un incontro folgorante. Lui e un altro docente in particolare, Roberto De Gaetano, sono stati gli attizzatori di questa fiamma. Marcello ha avuto il grande merito di proporre un metodo che utilizzo tuttora: il modo che io ho per approcciare un progetto, a partire dalla sua sceneggiatura, è quello di scomporlo. Ed esattamente era questa la maniera di procedere nello studio dei grandi autori italiani come Visconti o del cinema americano, da Coppola fino ad arrivare a Kubrick. Quando l’ho scelto come relatore, lui stava lavorando proprio al suo libro sul regista (un volume cult uscito qualche mese dopo la morte di Kubrick, per la Gremese n.d.r.).

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    Warren Clarke, Adrienne Corri, Malcolm McDowell e Stanley Kubrick durante le riprese di Arancia meccanica, 1971

    Io ero affascinato dal rapporto di Kubrick con Max Ophüls, il meno conosciuto di tutti i registi teutonici che tra gli anni ’40 e ’50 emigrarono nel cinema americano. Marcello mi aveva suggerito un approfondimento stilistico, ma io sono andato oltre e ho portato avanti una mia tesi, secondo la quale le influenze ophulsiane non riguardavano soltanto la tecnica ma arrivavano alle tematiche. Quindi il mio lavoro aveva questo piano suicida, perché toccare un mostro sacro è da suicida, di dimostrare che Kubrick aveva pescato a piene mani nel cinema del regista tedesco. Ho lavorato per sei mesi notte e giorno ed ero pronto a laurearmi, quando Marcello mi chiese altri tre mesi di approfondimento. Io ero completamente sfinito e non accettai».

    Come andò a finire?

    «Non bene. In sede di commissione di laurea bocciò la proposta del presidente del Dams di conferirmi la lode. Lui che era il mio relatore. Ecco Marcello era preciso, netto, era trasparente. E anche queste sue qualità sono state un lascito, oltre al metodo di lavoro, a cui cerco di ispirarmi».

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    Marcello Walter Bruno

    Qual è oggi la tua visione della Calabria? Pensi anche tu che potrebbe essere un set naturale, a cielo aperto?

    «Sono nato a Reggio Calabria ma all’età di sette anni sono andato a vivere a Roma, per poi trasferirmi a Cosenza negli ultimi anni di scuola. La mia è sicuramente una visione poco campanilista che non mi impedisce di vedere le grandi potenzialità e insieme i grandissimi sprechi e anche gli scempi che vengono fatti da tutti i punti di vista. È sicuramente vero che negli ultimi tempi si è mosso qualcosa. Con la Calabria film commission sono nati progetti che hanno prodotto risultati importanti. C’è stata tutta una serie di film girati nella regione che hanno guadagnato il panorama nazionale e internazionale, partecipando a festival, riscuotendo premi, ottenendo attenzioni da parte della critica.

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    Gianni Amelio al Festival di Venezia

    Penso ad Anime nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e al “mio” Una femmina del regista Francesco Costabile. C’è un nuovo rigurgito di nuovi autori che hanno trovato origine in produzioni locali e, inoltre, non dimentichiamo che uno dei più grandi autori italiani viventi, parlo di Gianni Amelio, è calabrese. Ecco, mi sembra che ci sia più di un elemento per essere fieri. Se poi è un set a cielo aperto bisognerà vedere. La cosa più importante è non disperdere ciò che sinora è stato fatto».

    Anche sotto l’ombrellone, quando arrivi in Calabria per trascorrere qualche giorno di vacanza, guardi immagini e sceneggiature. È vero che spesso coinvolgi i tuoi familiari e i tuoi amici nella visione di un trailer, di un cortometraggio divertente, della bozza di un manifesto?

    «Sì, spesso, coinvolgo persone a me vicine, ascolto i pareri di amici, familiari e anche di figure target. Per esempio, se deve uscire un film per famiglie, mi capita di mostrare il trailer a un bambino e di chiedergli cosa ne pensa».

    Un’attrice, un volto nuovo femminile del cinema, sulla quale punteresti molto?

    «Mi fa molto piacere parlare di un’attrice che secondo me ha un potenziale che adesso sta venendo fuori, anche se già da qualche anno era evidente, e che, non vorrei essere blasfemo, ma potrebbe essere una nuova Monica Vitti. È Pilar Fogliati (vista in Forever Young, in Corro da te e nella serie Netflix Odio il Natale, ndr).
    È molto giovane ed ha tantissime caratteristiche, riesce ad essere fragile, divertente, quindi comica, ma anche intensa e drammatica. È per queste sue doti che ricorda lo stile Vitti».

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    Pilar Fogliati

    Quale sarà il film italiano del nuovo anno, il film che lascerà qualcosa di importante nel pubblico, il più amato, il più visto?

    «A saperlo! Magari! Posso anticipare alcuni film su cui riponiamo speranze. Uno di questi è Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese tratto dal suo romanzo, un film con un supercast, sulla ricerca della felicità, del motivo per essere felici e che uscirà a fine gennaio. È la storia di una sorta di gestore di anime, Toni Servillo, che offre sette giorni per far ritrovare la forza di vivere a persone che stanno per suicidarsi. È una storia intrigante e interessante. Subito dopo, a febbraio, usciremo con Laggiù qualcuno mi ama, il docufilm di Mario Martone su Massimo Troisi, che proprio nel 2023 avrebbe compiuto settanta anni. È stato realizzato con documenti inediti e testimonianze di colleghi e amici e che tra l’altro vedrò per intero proprio stasera, quando finiremo questa intervista, perché sinora ho visto dei pezzi. Stasera vedrò il film finito».

    Cosa ti manca di Reggio Calabria?

    «Ciò che mi manca di più in assoluto sono i miei genitori, poi ci sono anche altri affetti, amici, che rivedo sempre volentieri. Una cosa che mi lega moltissimo a Reggio è il mare, perché è qualcosa di ancestrale, che va oltre qualunque deturpamento della realtà. Sì, è anche il mare a mancarmi molto».

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    L’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Il mare della Fata Morgana che avvicina le sponde e incanta, culla di reperti riemersi, il mare archeologico che fa venire in mente proprio la testa di Medusa, quella cara a Versace, che inchioda la sguardo, come fa un bel film con il suo pubblico.

     

     

  • La mia Cristina

    La mia Cristina

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    Era un buco assurdo il garage dove abbiamo fatto nascere, come un figlio, il primo Quotidiano, all’inizio di Cosenza, poi della Calabria (oggi Quotidiano del Sud).
    Sulla porta del bagno minuscolo un collega spiritoso, mi pare che fosse Franco Ferrara – rientrato dal nord per partecipare alla nuova impresa, – aveva scritto “chiamate internazionali”. Io e Cristina siamo diventate amiche da subito, avevamo un’intesa profonda e la prova del nostro legame l’ha data il tempo. Non si è mai affievolito. Dal 1995 a poco fa e per sempre.

    Per gli altri

    Il nostro primo direttore è stato Pantaleone Sergi, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Era inebriante fare un giornale ben curato, di personalità, di bella penna e agguerrito sulla cronaca. Il primo numero uscì con uno scoop della cronista Mara Martelli, che tramortì la concorrenza: il pentimento del boss Franco Pino. Insieme con i nostri collaboratori eravamo sguinzagliati in città, all’università, nelle caserme, nei teatri ed eravamo così entusiasti che non contavano le ore di lavoro, giorno e notte. Ogni volta che scrivevamo un pezzo su un fatto che ci coinvolgeva o ci turbava particolarmente, una strage familiare, storie di miseria e efferatezza, o anche il racconto di un luogo, o un pezzo culturale, era naturale leggerci a vicenda prima di pubblicare.

    Cristina aveva il mestiere dentro, aveva fatto un corso a Roma e possedeva il sacro fuoco. Imparò subito a concepire e disegnare le pagine, lavorando accanto a Lucia Serino -già giornalista professionista e con un bel background,- tanto da diventare in breve tempo un punto di riferimento. Ha scritto troppo poco rispetto a quanto avrebbe dovuto. Tutta protesa per gli altri, impegnata nella fattura quotidiana del giornale, un lavoro immane, finiva per avere poco tempo e lei non ci stava a scrivere due righe tanto per farlo. In ogni cosa metteva qualità e soprattutto nella scrittura sarebbe stato necessario farlo.

    L’esempio della grazia

    È difficile parlare della collega Cristina Vercillo, perché innanzitutto ho perso una persona cara. Prima che la malattia la fiaccasse fino a non darle più la forza di parlare al telefono, facevamo chiacchierate lunghissime. Parlavamo di libri, dei fatti del giorno, di film, di alimentazione oncologica, di fastidiosi effetti collaterali, con la voglia di scambiarci opinioni e consigli su ogni singolo argomento, senza cambiare tono, senza scomporci. Anzi, alcuni fatti politici nazionali e internazionali riuscivamo ad indignarla assai, a farle vibrare le parole per poi tornare alla melodia vocale che la contraddistingueva, lei che prima di scegliere il giornalismo era stata pianista.

    Cristina era così. Curiosa, colta, aggiornata, dotata di spirito critico, di una visione pluriangolare delle cose, cauta, mite, coerente e disposta a sacrifici e rinunce inenarrabili pur di continuare ad essere quella che era. Parlare con lei è sempre stato come farlo con me stessa. L’unica accortezza era di non essere troppo brusca perché Cristina è l’esempio della grazia, ed è sempre ritornata in un carapace irraggiungibile dinanzi ad ogni forma di aggressività.

    Un mistero. Mantenere, da caporedattore centrale, gli equilibri di intere redazioni, che in alcune fasi sono come miniere, controllare ogni virgola del giornale, moltiplicare l’udito e lo sguardo, tamponare ogni intemperie e poi essere naturalmente una creatura delicata e sensibile. È stato duro il distacco da lei quando sono andata via dal Quotidiano, verso altre esperienze professionali. E quando sono tornata a prestare la mia collaborazione per la cura di rubriche e delle pagine culturali della Domenica, (chiamata dal direttore Ennio Simeone prima e dal direttore Matteo Cosenza e dal caporedattore Lucia Serino poi), la mia amica Cristina era felicissima.

    È stata lei ad accompagnarmi in Umbria quando mi sono sposata. Ammiravo il suo senso d’orientamento, il viaggio era un’altra cosa che aveva dentro, che amava. Io, lei, Gabriella d’Atri. Piano piano, chilometro dopo chilometro, a raccontarci, a ridere. Loro emozionate quanto me. Da quel momento in poi le noie, le delusioni, le sofferenze sul lavoro (che pur ci sono) sono diventati discorsi tra amiche più che tra colleghe. Sfoglio i vecchi album e sorrido, nelle poco foto in cui compare si copre il viso. È proprio lei, bella, una gran classe, sempre dietro le quinte.

    I suoi affetti

    Ci siamo sempre fidate ciecamente l’una dell’altra e oggi che leggo tante testimonianze sul suo eccezionale modo di essere, sulle eccelse qualità professionali, sono orgogliosa e penso a suo padre, il dottore Giuseppe Vercillo, a sua sorella Roberta, ai suoi amati nipoti Alessandro, GianMarco, Emanuela e a queste carezze dell’anima che gli sono giunte. Che possano portare loro un po’ di sollievo dinanzi a un dolore sconfinato! In ogni telefonata c’erano loro, i suoi affetti. Suo padre sempre accanto.

    La vita è beffarda. Quando ho combattuto io contro il mio alieno, Cristina c’era. Poi è toccato a lei. Ancora non posso crederci.
    I nostri alieni erano diventati amici come noi. Parlavamo di terapie, spirito di sopportazione, medicamenti con grande naturalezza. E la paura… sì, quella era onnipresente ma eravamo bravissime a lasciarla in un angolo e a confidarci un peccato di gola, alla faccia della dieta oncologica, o il desiderio di un viaggio, di una lettura, di tante cose che avremmo potuto fare…. No, non posso credere che Cristina non sia più su questa terra. Pensare alla sua forza nella sofferenza è un cortocircuito di ammirazione e dolore profondo.

    Anima bella

    Ho scritto queste righe perché so che a lei farebbe piacere leggerle, nonostante la sua proverbiale riservatezza, perché Cristina sa che arrivano da un sentimento vero e senza tempo, senza luogo. Durante la malattia era contenta di ricevere i messaggi affettuosi. Ascoltava tutti, leggeva tutti. Avrebbe apprezzato i saluti di tanti colleghi che sono piovuti sui social e sulle varie testate. Laura De Franco l’ha chiamata anima bella. E così è. Quando ho ricevuto, la sera di Santo Stefano, la notizia della sua morte dalla nostra amica Marienza, un angelo che le è stata accanto fino all’ultima fiammella, è stato come essere trafitta da una stalattite.
    In quel momento l’ho immaginata abbracciata a sua madre Flora. Strette strette.

  • L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

    L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

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    Belmonte Calabro, la patria dei prestigiosi pomodori che si tagliano e si mangiano come se fossero bistecche, rivuole indietro le sue opere d’arte. Per ragioni sconosciute le hanno portate a Cosenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Forse per avviarne i restauri, che poi si sono rivelati infiniti, forse per motivi di sicurezza, oppure per entrambe le cose. Fatto sta che le chiese di Belmonte Calabro sono state spogliate e chiuse, eccetto le parrocchie più grandi.

    «L’idea è di far rientrare la cittadina negli itinerari artistico-religiosi», spiega Stefania Bosco, storica dell’arte e restauratrice diagnosta, che dirige il “progetto Belmonte”. «Speriamo di poter riaprire tutte le chiese e di poter restituire loro le opere sottratte». Dovrebbero essere una ventina in tutto, disseminate tra i magazzini della Soprintendenza e della Curia.
    A giorni è attesa un’Annunciazione che recenti studi attribuiscono ad Antonello da Messina, mentre nel duomo sono stati appena recuperati due dipinti del Settecento a spese di un gruppo di belmontesi. A pilotare l’operazione dal basso, con una raccolta di fondi, è stata l’associazione Arte e bellezza, presieduta da Filippo Verre, a lungo medico di famiglia.

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    L’associazione Arte e bellezza festeggia il restauro dei due dipinti del ‘700

    La tavola preziosa che torna dopo quarant’anni

    Il ritorno del dipinto dell’Annunciazione è previsto proprio in questi giorni. Dopo quarant’anni, la tavola del Quattrocento sta per lasciare la Soprintendenza di Cosenza per rientrare a casa. Come Ulisse ad Itaca, come una parente amatissima partita tempo fa e attesa in patria. Un’opera di originale stile compositivo e ricca di simbolismi.
    Quando è stata portata via dalla deliziosa chiesa della frazione dell’Annunziata, si pensava che il suo autore fosse Pietro Befulco. E invece no, non è più cosa certa. Potrebbe essere di Antonello da Messina, il maestro meridionale che ha fuso l’arte italiana con quella fiamminga e che ha creato dipinti mozzafiato reinventando spazio e luce, come la Crocifissione e San Girolamo nello studio conservati nella National Gallery di Londra.

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    L’Annunciazione di fine XV secolo a Belmonte Calabro

    «È un’opera bellissima, una delle più importanti che abbiamo in Calabria, di una fattura molto raffinata. Il supporto è assai povero, una tavoletta di pessima qualità, ma la preparazione della stessa è straordinaria», spiega Stefania Bosco. E come se l’autore avesse raccolto un pezzo di legno qualsiasi per dipingerci sopra. Un supporto di fortuna che nel tempo è stato attaccato dai parassiti e che, per via della fragilità, ha messo a dura prova i tecnici durante le fasi di recupero. «Ma si è capito da subito – aggiunge, – che la scuola e il livello dell’artista erano molto alti».

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    I restauratori al lavoro. In primo piano, Stefania Bosco

    Vuole questo regalo per Natale il sindaco Roberto Veltri. La Soprintendenza ha richiesto standard di qualità e sicurezza molto precisi per poter riconsegnare l’opera. Lui, con il suo staff, grazie a fondi comunali e alla donazione di un imprenditore locale, ha predisposto «una stanza del Comune, dotandola del sistema d’allarme richiesto e di un dispositivo di controllo di temperatura e umidità. Abbiamo reso adatto l’ambiente per la buona conservazione dell’opera al suo rientro».

    C’è fermento nel centro storico di Belmonte

    Anche don Giuseppe Belcastro, responsabile delle chiese della cittadina, si sta dando da fare per riportare l’arte sacra nel borgo. «Iniziamo a vedere qualche risultato con il restauro dei due dipinti e il ritorno della tavola. È un primo importante passo, poi bisognerà impegnarsi per riavere tutto il resto. Grazie all’impegno competente e appassionato di Stefania Bosco il progetto Belmonte ha avuto una accelerata».
    È candidata ad ospitare un piccolo museo la chiesa dell’Immacolata, all’ingresso del centro storico. Risale al 1622 e ha un affascinante portale tardo rinascimentale. È stata recuperata in parte, ma ha ancora bisogno di interventi.

    «Siamo riusciti a restaurare tutti gli affreschi dell’abside e l’altare maggiore, grazie a una fusione di forze tra l’università, il Comune, la Curia, la Soprintendenza di Cosenza e le associazioni culturali San Martino e Barrueco», racconta ancora la Bosco, che lavora al progetto da un po’ di anni. Ha diretto i lavori di recupero dei due dipinti del Settecento del duomo e ha restaurato l’interno dell’Immacolata. Insieme a lei, la collega Donatella Barca e studenti dell’Università della Calabria. La chiesa è diventata un cantiere didattico prima della pandemia. Sette studenti del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Università della Calabria, hanno pulito le superfici decorate, hanno stuccato, integrato la pittura, rifinito con gli strati di protezione.

    Il duomo di Santa Maria Assunta è anche nel centro storico. Sta accogliendo gruppetti di viaggiatori dalla fine di novembre, da quando la pala d’altare e L’ultima cena sono tornati ad antico splendore. L’Assunzione, del 1795, è del pittore di Borgia Francesco Basile. L’ultima cena è un’opera del pugliese Nicola Menzele, formatosi nella bottega partenopea di Francesco De Mura.
    «Siamo rimasti molto soddisfatti, non soltanto noi dell’associazione ma anche la cittadinanza», dice il dottore Verre, che è uno dei duemila abitanti del borgo, dove è rimasto a vivere dopo il pensionamento.

    Non solo Belmonte: la regione delle “invasioni” artistiche

    Come tutta la Calabria, Belmonte ha ospitato artisti di diversa provenienza «Non esiste una scuola calabrese, i nostri artisti, come Mattia Preti, Pietro Negroni, Marco Cordisco, per formarsi sono andati in altre regioni», racconta ancora la direttrice del progetto. «La Calabria esprime un’arte contaminata da culture diverse, che abbiamo assorbito e fatto nostre. E questo può essere anche un punto di forza».

    Non desta quindi meraviglia un’apparizione del grande Antonello da Messina a Belmonte. Alla Pinacoteca comunale di Reggio Calabria, lo scorso anno, sono rientrate due tavolette a lui attribuite e che raffigurano San Girolamo penitente e La visita dei tre angeli ad Abramo .
    Che Antonello è ad Amantea, a pochi chilometri da Belmonte, nel 1460, è attestato da un documento. Quell’anno il padre Giovanni affitta un brigantino e si dirige proprio sulla costa tirrenica cosentina. Sul piccolo veliero salgono l’artista, sua moglie, i figli, la servitù. Un trasloco dopo un periodo trascorso in Calabria?
    La città di Belmonte non si pone domande. Aspetta la sua Annunciazione. Ci sarà tempo per i certificati di paternità, «l’importante – dice il primo cittadino – è che torni a casa».

  • Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

    Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

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    «Sei stata al mare?». «Sì, quello!». Fabiana punta il ditino contro una parete. Ti avvicini e capisci cosa indica. Un paesaggio marino in una cornice di legno. Ha appena due anni ed è una delle piccole inquiline della casa famiglia, per minori e donne in difficoltà, che ha sede nel complesso delle Vergini di Cosenza.

    Venti ospiti in tutto, stanze al completo. Eppure c’è un silenzio irreale tra il chiostro quadrangolare, il cortile e la chiesa, edificati nei primi decenni del Cinquecento, progettati dal capomastro della Valle del Crati Domenico La Cava. Fabiana ha i capelli lunghi e lisci e un visino mariano.
    Questo luogo ha una storia tutta al femminile. Il suo simbolo potrebbe essere la “Madonna della tenerezza”, esposta su un altare minore della chiesa. È una delle opere più antiche di tutta la città, un’icona di stile bizantino di fine Duecento, probabilmente realizzata da Giovanni da Taranto, simile e diversa dalla Madonna del Pilerio del Duomo Bruzio, detta galactrofusa, perché allattante.

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    La madonna Odigitria, l’icona bizantina della chiesa delle Vergini

    Questa Vergine Odigitria invece non allatta il suo bambino, lo presenta al mondo indicandolo con una mano e appoggia la guancia sul suo capo. Un dipinto ingiustamente meno noto e che da solo basterebbe ad attirare viaggiatori e turisti in quantità.

    Calata della corda: fuga d’amore 

    Un altro simbolo del posto è il coro ligneo settecentesco delle suore di clausura cistercensi. Un balconcino decorato con teste d’angelo, sostenuto da una volta di stucchi dorati. Dal 1811 il monastero ha ospitato fanciulle orfane, che quando si innamoravano, tentavano la fuga calandosi da una finestra, dando così il nome a uno dei luoghi mitici della toponomastica popolare: la zona della Calata della corda, tra via Liceo e Piazza dei Follari, dove un tempo c’era il mercato dei bozzoli della seta.

    Monastero di clausura e orfanotrofio

    Il complesso e articolato edificio è stato monastero di clausura, orfanatrofio, istituto educativo femminile. Oggi fa capo alla Fondazione di diritto privato Santa Maria delle Vergini, presieduta da Alessandra De Rosa. Oltre alla casa famiglia, c’è un asilo Montessori, gestito dall’associazione PappaMusic. I bambini del nido e dell’asilo bilingue giocano nel chiostro insieme con i piccoli ospiti della casa famiglia.
    Del complesso fa parte il Palazzo Sersale, costruito alla fine del 1400, grande protagonista della storia cittadina, perché ospitò l’imperatore Carlo V.

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    Il largo Vergini

    L’arte del cucito con la prof ucraina

    Destini cuciti e intrecciati. In questa cornice di narrazioni, appare ancora più significativo il laboratorio “L’arte del cucito”, ospitato nel vecchio refettorio dell’istituto. Le lezioni sono terminate a giugno e adesso si sta preparando una mostra. A guidare le corsiste, di diverse nazionalità ed età, dai venti ai settanta anni, è la costumista ucraina Natalia Kotsinska. Le associazioni “Maschere e volto”, che si occupa di teatro, e “Anteas”, attiva nel volontariato, coordinano il progetto. «Nonostante il bacino di utenza fosse vario, le corsiste si sono perfettamente integrate», spiega Imma Guarasci, direttore artistico di “Maschere e volto”.
    «Ha trovato il modo di integrarsi pure chi ha avuto inizialmente difficoltà nel comunicare per via della lingua, come nel caso di due giovani siriane. Una cosa bella è che nella scelta delle stoffe e dei colori per la realizzazione degli abiti, ognuna di loro è riuscita a recuperare elementi della tradizione della propria terra d’origine», spiega ancora Imma Guarasci, soddisfatta di un’esperienza nata sia per fornire competenze professionali, sia per far incontrare donne dal vissuto difficile.

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    La costumista Natalia Kotsinska dirige il corso di cucito

    Non ci sono più suore alle Vergini. Le “figlie di Sant’Anna” arrivarono nel 1887, dopo che erano andate via le monache di clausura cistercensi. Le ultime due sorelle hanno abitato qui fino allo scorso settembre. Hanno portato con sé tanti ricordi, nomi e vicende di ragazze cresciute tra queste mura.

    Un rifugio per mamme e bambini 

    Gina Nudo le ha conosciute bene. Lei è la decana delle educatrici. È qui da vent’anni.
    «Quando accogliamo le donne assegnate alla casa famiglia, cerchiamo innanzitutto di tranquillizzarle. Sono di varia nazionalità, sono tutte spaventate quando arrivano. Il nostro è un lavoro difficile, ma bisogna usare ogni giorno il cuore e le regole in giusta misura. Fare famiglia, appunto. Io e la mia collega, Giovanna Maio, ci occupiamo della vita quotidiana, intratteniamo i piccoli, ascoltiamo le vicende drammatiche, guidiamo mamme e bambini in un percorso di rinascita. A volte ritornano negli ambienti dai quali erano scappate ed è una grande tristezza».

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    L’educatrice Gina Nudo

    In molti casi però, continua Gina, e il suo viso si illumina, trovano la propria strada. «Spesso, quando termina il periodo di assegnazione da parte del tribunale, vogliono tornare da noi. Significa che siamo riusciti a costruire una rete di protezione e affetto».
    Sonia, 40 anni, è qui con sua figlia adolescente. Nella loro stanza ci sono libri, qualche ricordo, nessuna fotografia. «Quando siamo scappate da casa nostra non ho pensato agli oggetti, l’importante era salvare noi stesse».

    Fabiana torna a sorridere

    La madre della piccola Fabiana, una giovanissima donna originaria di un paese dell’est europeo, è in un angolo della stanza, ascolta e annuisce. «Da quando sono qui sono tornata a sorridere – sta raccontando Sonia, – perché ho ripreso a fidarmi di chi mi sta accanto».
    «Posso dire la stessa cosa», interviene la madre di Fabiana: «In questo luogo ho conosciuto mia figlia per la prima volta, mi dedico a lei, la vedo rinascere, gioca, ride, parla, mangia le polpette, mentre prima si rifiutava di masticare».

    I tricicli dei piccoli ospiti che frequentano l’asilo

    Il soggiorno è in una nuvola di profumi speziati. Afia, donna africana, sta cucinando per sé. Fa concorrenza alle cuoche storiche della casa famiglia, le sorelle Spadafora, Rosanna e Beatrice, che nutrono con amore.

    Fede, bellezza e solidarietà

    L’antica storia di questo luogo continua, in chiave multietnica, il suo secolare inno alla Madonna, testimoniato dalle preziose opere conservate nella chiesa a navata unica. La pala che decora l’altare principale racchiude in una ricca cornice dorata una doppia raffigurazione: una rara immagine di Maria morente e la sua assunzione in cielo. Un’opera cinquecentesca probabilmente sconosciuta a molti cosentini, come l’icona bizantina della tenerezza. Il portale di legno della chiesa, in stile barocco, è ricco di figure intarsiate dagli scalpellini di Rogliano di fine Seicento. Il chiostro, dove oggi sono sparsi i giochi di crescita di scuola Montessori, oltre quindici anni fa è stato set del film “Giuseppe Moscati. L’amore che guarisce”, di Giacomo Campiotti, con Beppe Fiorello e Kasia Smutniak.

    Una rara opera d’arte: l’assunzione della Vergine

    Tante vite sono passate da qua, eppure resta uno scrigno di misticismo e silenzio. Nessuno parla a voce alta, una volta varcata la soglia.
    Da qui si va via con un proposito: tornare. Sul portale di pietra che affaccia su Largo Vergini, sotto l’immagine di San Bernardo di Chiaravalle, l’educatrice Gina Nudo saluta e sembra leggere nel pensiero: «Tornate presto».

  • Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

    Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

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    «Io sono affidabile», risponde un personaggio del film premio Oscar La Grande bellezza, a chi si meraviglia del fatto che possiede le chiavi dei palazzi nobiliari. Nel rione Massa si racconta che anche la sede cosentina della Banca d’Italia di metà Novecento scelse un uomo probo per aprire la cassaforte. Proprio come il misterioso custode di Roma inventato da Paolo Sorrentino.
    Era un abitante della Massa, gran signore e proprietario di uno storico mulino ad acqua sulla sponda del fiume Crati. «Don Luigi Leonetti custodiva la seconda chiave del caveau», ricorda la gente del quartiere. «Apriva e chiudeva ogni giorno insieme con il direttore».

    Il museo seconda casa degli abitanti della Massa

    C’è un gran via vai al Museo dei Brettii e degli Enotri. È diventato una casa per gli abitanti del rione. Lo hanno inaugurato nel 2009, nel quattrocentesco complesso monumentale di Sant’Agostino. Una struttura restituita alla città e, negli anni, diventata polo culturale e sociale. Residenti e nativi si ritrovano nel chiostro arioso e mistico, in questo grande scrigno di reperti preistorici e dell’età dei metalli. «Tra il Museo e il quartiere c’è una bella alleanza», dice la direttrice, l’archeologa Marilena Cerzoso.

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    La direttrice Marilena Cerzoso mostra gli atti di morte dei fratelli Bandiera

    Gli abitanti collaborano alle iniziative, ricostruiscono il puzzle della memoria, masticano storie e radici. Nella notte dei musei hanno fatto da guida ai visitatori e spesso promuovono passeggiate nei vicoli. È tutto documentato sul gruppo Facebook Kiri da Massa, creato da Mario Zafferano, promoter di questo recupero d’identità.

    Hanno anche un presidente, l’ingegnere Franco Mauro che adesso abita nella città nuova, ma alle iniziative, ai convegni, alle inaugurazioni di mostre, partecipa con tutta la granitica memoria di piccole e grandi storie. Ricorda, ad esempio, il ritorno dei soldati dal secondo conflitto mondiale, perché il complesso di Sant’Agostino, tra le tante vite che ha avuto, è stato anche rifugio per gli sfollati. «Ero molto piccolo ma la scena mi è rimasta impressa: un giovane tornato a casa dal fronte, stanco, sporco. Si è levato la maglia e sul pavimento ho visto cadere un tappeto di pidocchi».

    Ritorno in Massa cercando le origini

    Fino a qualche anno fa arrivavano persone in cerca di un pezzo d’infanzia. Cercavano la stanza dove dormivano i genitori, l’angolo in cui si mangiava tutti insieme. Erano gli ex piccoli sfollati del complesso di Sant’Agostino.
    All’epoca era il rione dei pignatari (gli artigiani cosentini della terracotta). “Massa” perché nel ’700, spiega Paolo Veltri, ex preside della facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria che nel quartiere è cresciuto, «vennero erette delle barriere di protezione per limitare i rischi di inondazione derivanti dalle piene del Crati». Ecco l’origine del nome.

    Massa: il rione di Suor Elena Aiello

    Nei vicoli è rimasta l’eco delle sirene delle fabbriche, del vociare delle cantine, dei passi di frati, preti e suore. Dagli agostiniani, alle canossiane, a don Maletta, parroco di San Gaetano che ha costruito pezzetti di dna del rione.

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    A sinistra nella foto, la beata Elena Aiello

    Erano le strade percorse in lungo e in largo anche da Suor Elena Aiello, ‘a monaca santa, figura cult per il popolo bruzio, fondatrice della Congregazione delle Suore Minime della Passione, beatificata nel 2011.
    La storia della Massa è un romanzo dalla trama fitta, una saga di luoghi e persone à la Balzac .

    Cantine e patrioti

    «Ci ho vissuto dai 9 ai 21 anni. Sono andata via quando mi sono sposata e poi sono tornata per sempre. È l’unico luogo dove desideravo mettere radici. Ho ritrovato tanti amici». Rita Ritacco, badante, conosce ogni pietra e ogni famiglia. «Ho comprato una casa e se un giorno farò soldi – ride – ne comprerò un’altra per i miei figli».
    Ha fatto la stessa scelta Giancarlo Spinelli, imprenditore edile. «Sono tornato ad abitare nel mio quartiere d’origine, con mia moglie e i miei figli, quando ho ereditato casa dai miei nonni». Suo padre era una celebrità, tra la gente del posto: Natale Spinelli, proprietario di una cantina. Si beveva vino artigianale mixato alla gassosa prodotta nella vicina fabbrica di Giovannino Gallo.

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    Carte, vino e gassosa in una storica cantina della Massa

    Un’altra cantina mitica del passato era quello di Franchino Perrelli, oggi bar dei Fratelli Bandiera, dedicato a due figure storiche del cuore in questo lembo di città, per via del loro sacrificio in nome dell’Unità d’Italia. L’ara di Attilio ed Emilio Bandiera è nel Vallone di Rovito, dove furono fucilati, dopo un tradimento, il 25 luglio del 1844. Era meta di gite scolastiche, scenario di cori italici e manifestazioni, ma oggi vive lunghi periodi di abbandono. Sono stati gli stessi abitanti, insieme all’associazione Plastic Free, a ripulirlo recentemente, in 15 giorni. Gli atti di morte dei fratelli sono conservati nella sezione Risorgimento.

    Un forte senso di appartenenza

    Gli abitanti della Massa puliscono il Vallone dei fratelli Bandiera

    «Oggi il museo è il nostro gioiello e la direttrice è una persona speciale», dice Giancarlo Spinelli. Marilena Cerzoso è anche lei custode «affidabile», guida di un museo archeologico e inclusivo. «Ho un doppio legame con la Massa, personale e professionale. Sono tornata nei luoghi di cui ho sempre sentito raccontare dai miei genitori. – spiega. – Mia madre è cresciuta nel quartiere limitrofo della Garruba e insieme a mio padre ha vissuto la sua giovinezza nel gruppo scout di San Gaetano, sotto la guida del mitico don Luigi Maletta. Quindi essere tornata nei luoghi dei racconti della mia famiglia è per me motivo di grande gioia e commozione». Il fatto «di aver trovato un quartiere accogliente, che ha un forte senso di appartenenza – continua,- mi dà tanta forza e mi stimola nel fare sempre meglio per la valorizzazione del territorio».

    Remo Scigliano ha un bazaar. Fai un nome del passato e lui risponde con numeri: il civico, l’anno di nascita, date importanti della vita del personaggio citato. Ha lavorato «oltre trent’anni alle poste e telegrafo», anche lui è una risorsa preziosa per unire i fili del passato a quelli del presente. Il suo negozio è in fondo alla scalinata di Sant’Agostino.
    Davanti alla chiesa ci sono sempre gruppi di bambini che giocano a pallone. Hanno imparato. Appena vedono un visitatore in fondo alla scalinata fermano il Super Santos con un piede e aspettano che passi.

    Rita Ritacco e Giancarlo Spinelli

    «Anche io da piccolo giocavo sul sagrato, ma con le palle di pezza». L’ingegnere Mauro è nato nel palazzo accanto alla chiesa. «Una costruzione fatta da mio nonno nel 1910. Ecco – la indica, oltre un minuscolo davanzale con rose rosse rampicanti – quella era casa mia. Oggi si chiama via Viapiana, ma per noi rimane il Puzzillo». Accanto a lui il professore Veltri. Guardano verso l’ex Puzzillo e il piccolo davanzale sembra il colle dell’Infinito di Recanati.

    I confini

    La Massa confina con lo Spirito Santo, con Casali, con il vecchio tribunale di Colle Triglio, oggi Palazzo Arnone, che ospita la Galleria d’arte nazionale. Un itinerario breve e vertiginoso.
    «Sul lungo muretto di collegamento con lo Spirito Santo, fino alla metà degli Anni ’60, si giocava la tombola dei due quartieri ogni domenica, anche quando le giornate erano piovose», ricorda Veltri, che con Ugo Dattis ha scritto un libro, Sertorio a quattro mani, pubblicato dalla Pellegrini, dedicato alla città vecchia.

    Franco Mauro e Paolo Veltri

    Sono scanditi dai suoni i ricordi del passato. «L’orologio del vecchio tribunale, le campane della chiesa, – racconta Franco Mauro. – E poi suonava la sirena della fabbrica delle piastrelle in cemento Mancuso e Ferro, l’ingresso degli operai, alle sette, e l’uscita, alle quattro del pomeriggio».
    I nativi e gli abitanti della Massa sono raccoglitori di storie. «Se non ci fosse stato lo stimolo del Museo dei Brettii e degli Enotri. – conclude Paolo Veltri, – tutti i nostri ricordi si sarebbero dispersi nei vicoli».

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    Uno scorcio del rione Massa (foto Mario Magnelli)

    (Le foto nell’articolo sono di Concetta Guido e del gruppo Fb “Kiri da Massa”. Ringraziamo per l’autorizzazione all’uso delle immagini)

  • La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

    La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

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    C’era un akita in in ogni angolo d’Italia una decina di anni fa, dopo l’uscita di Hachiko – Il tuo migliore amico. Il meraviglioso cane giapponese del film con Richard Gere non è propriamente un cane da salotto. È un esemplare da lavoro e da caccia, ha un temperamento particolare. Sa essere docile e mansueto, quando il padrone è bravo a comprenderlo e a gestirlo.

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    Tutti insieme appassionatamente nel Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La razza e i lager

    La moda della razza è un vizio anche calabrese e sono state tante le famiglie che pur temendo i cani, ne hanno accolto uno in casa durante la pandemia. Tra contraddizioni e fenomeni strani, si intravede però un cambiamento, a detta degli esperti.
    Inizia a battere il cuore cinofilo della Calabria. Le associazioni in difesa del randagio non si contano. Da pochi anni opera nella regione Save the Dog, la cui mission è rafforzare l’anagrafe canina e promuovere campagne per la sterilizzazione. I partner locali sono le associazioni Argo e Amici animali Fef di Cosenza.

    La Lega antivivisezione non fa sconti ai canili calabresi: i più affollati d’Italia. Seimila cani, denuncia nel suo ultimo rapporto, sono stipati nel crotonese, le cui strutture superano di parecchio i limiti di capienza. Contro i «canili lager» si batte da sempre Aldina Stinchi, 74 anni.

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    Il Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La città dei cani

    A Caraffa, alle porte di Catanzaro, ha creato vent’anni fa una città del cane. Si chiama il Villaggio dei randagi dell’associazione Bios e si estende su una superficie di tre ettari e mezzo. Cucce e capanne, punti cibo e acqua, alberi, sentieri e niente cemento. «Il nostro è un modello innovativo, i cani vivono in ampi recinti e in gruppi, messi insieme per compatibilità caratteriali e altre caratteristiche che garantiscono la serena convivenza. In questo momento ospitiamo 150 cani. Vivono in semilibertà e soprattutto non sono costretti a stare nelle gabbie, che reputo qualcosa di arcaico e barbaro».

    Ad Aldina venne l’idea del villaggio «dall’osservazione attenta delle leggi sia nazionali sia regionali che, finalmente, impedivano l’uccisione degli animali». Nella dog city di Caraffa si cucinano 45 chili di pasta al giorno e con l’aumento dei prezzi sta diventando sempre più difficile mantenere i ritmi. Non ci sono sovvenzioni istituzionali, ma la solidarietà è tanta, come i volontari.

    Le staffette dell’amore

    E come la tenacia di Aldina che ha dichiarato una «feroce guerra» alle staffette dell’amore, le adozioni dei cani del Sud Italia nelle città del nord. Un fenomeno di grosse proporzioni ma completamente fuori controllo. I social sono invasi da fotografie di animali domestici, da immagini e post che raccontano storie d’amore tra cani e padroni, e sono pieni zeppi di compravendite e appelli per adozioni. La Lav contava 14mila 599 ospiti dei canili sanitari della regione nel 2017. Poi, denuncia nel suo ultimo rapporto, non è stato più possibile avere dati aggiornati.

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    Carmela Di Nardo e Billy the kid (ph Concetta Guido)

    Il boom col lockdown

    Batte il cuore cinofilo calabrese, tra storie tristi e qualche buon segnale. «Credo che in Calabria sia in atto un cambio di mentalità, anche se manca una vera e propria cultura dell’educazione cinofila», dice Carmela Di Nardo, 44 anni, addestratore Enci. «Ritengo che ci siano molte persone competenti. Il numero dei cani adottati è aumentato in maniera considerevole, bisogna dire però che durante il lockdown c’è stata un po’ di leggerezza».

    Carmela dedica tutte le sue giornate ai cani. È educatrice, studiosa di etologia e operatrice zooantropologica. Con il suo compagno e partner di lavoro Luca Indrieri, porta la cultura cinofila nelle scuole e negli asili. Un tipo di attività rara dalle nostre parti, dice, che «fatica ad essere riconosciuta e richiesta». Frequentava l’Orientale di Napoli quando nella sua vita è entrato un labrador. «Lo chiamai Biko, come Steven Biko, pensando alla canzone che Peter Gabriel ha dedicato all’attivista sudafricano». Un colpo di fulmine così intenso da farle decidere di cambiare strada, formarsi in cinofilia ed entrare in un mondo colorato ma faticoso.

    «La nostra associazione, la Yellowjoy, nata nel 2010, si occupa di educazione di base ed avanzata, aiutiamo la relazione tra il padrone e il suo animale, collaboriamo con il veterinario comportamentale, intervenendo su richiesta nel caso di problematiche come può essere l’aggressività o l’iperattività o anche l’avere paura».

    Luca Indrieri, addestratore e compagno di Carmela Di Nardo

    Cani giocattolo

    Perché loro, i cuccioli, non sono giocattoli e neanche un pacchetto da lasciare in un angolo per intere giornate. «Una volta venivano selezionati per carattere e attitudine, cioè per criteri funzionali e non morfologici. Adesso è il contrario – continua Carmela Di Nardo, – si guardano gli aspetti estetici e così può succedere di scegliere un maremmano come cane di famiglia, anche quando si vive in un appartamento di settanta metri quadrati. È chiaro che in questi casi possono subentrare problemi di convivenza».

    In contrada Motta di Castrolibero c’è il campetto di YellowJoy, luogo di addestramento e spazio di socializzazione. Da qui partono escursioni e passeggiate di gruppi di umani e cani in armonia. Qui gli ospiti fanno agility dog e sport condiviso con i padroni. È un giovedì pomeriggio e due levrieri incantano con la loro esile eleganza, un pitbull sta facendo una corsetta a ostacoli e Teseo, un monumentale corso, si prepara all’esposizione internazionale canina di Rende e Vibo Valentia, ripartita dopo un fermo di due edizioni a causa del Covid. Asia e Maia, entrambe simpatiche e argute meticce, Billy the kid e gli altri labrador dell’associazione sfrecciano veloci nell’erba, sembrano impazziti di gioia per poi fermarsi al comando, immobili come statue.

    Addestramento di cani nella Sila Grande

    La Terra promessa

    Carmela, come tanti operatori cinofili, guarda al fenomeno delle staffette con circospezione. Non tutti i cani trasportati a tanti chilometri di distanza dal loro ambiente trovano una sistemazione felice. I canili rifugio esplodono e le staffette che trasportano trovatelli sono ormai quotidiane. Nel 2019 le adozioni, cioè la sistemazione di randagi calabresi, sono state 1492. Quasi totalmente al Nord, sostiene la Lav.

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    Aldina Stinchi

    «Noi ci battiamo in maniera feroce contro questo traffico di animali», dice senza mezzi termini Aldina Stinchi. «Le staffette partono per arrivare a un presunto nord felice che dovrebbe avere la capacità di ospitare migliaia di animali. È qualcosa di indecente e noi non sappiamo che fine facciano tutti i cani. Qualcuno troverà una buona sistemazione, ma gli altri? A volte il cane viene ospitato in una famiglia senza che ne sia stato verificato l’indice di adattabilità. E così viene abbandonato una seconda volta». L’associazione della Stinchi denuncia le collette promosse su Facebook, il business dei canili, che percepiscono soldi pubblici per mantenere i loro ospiti, le condizioni del viaggio verso le terre promesse, «terribili. Per me sono vere e proprie deportazioni».

    Gabbie invisibili

    A Caraffa di Catanzaro si recuperano nel green cani ammalati, abbandonati, buttati davanti al cancello del villaggio. A contrada Motta, nel campo di Yellowjoy, si insegna caparbiamente che il benessere del cane cammina su sei zampe. In qualche agglomerato cittadino spuntano rari cani di quartiere. Ma le gabbie dei randagi sono dure da abbattere. Sono di ferro ma anche invisibili.

  • Mongrassano e Gioia Tauro, al Sud si ghiaccia

    Mongrassano e Gioia Tauro, al Sud si ghiaccia

    Il regno del frozen food è in Calabria. È da Gioia Tauro che partono i prodotti surgelati e coltivati in campo aperto in centinaia di ettari di valli orticole nella Sibaritide, nel Crotonese, lungo la fascia tirrenica. Rape, broccoli, patate silane, asparagi, cipolle di Tropea, melanzane. Destinazione Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone.

    La sede della Gias a Mongrassano Scalo

    L’azienda calabrese di casa in Texas

    La Gias spa, industria leader di alimenti surgelati, ha mezzo secolo di vita, dialoga da sempre con le multinazionali ed è di casa in Texas. È tra le aziende selezionate dalla Whole Foods di Austin, società nel pacchetto d’oro Amazon, che gestisce cinquecento supermercati americani e tratta prodotti biologici per il suo takeaway.

    Nella storica sede di Mongrassano Scalo, a pochi chilometri da Cosenza, la major meridionale del freddo sta vivendo l’epoca della pandemia e l’eco disastrosa della guerra in Ucraina con molta preoccupazione ma con nuovi progetti, ben salda alla sua vocazione: piatti pronti con ortaggi e verdure di qualità, coltivazioni in ambienti salubri e rispetto per la natura.

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    La sede della Gias è a Mongrassano Scalo ma il cuore e la mente sono nella Sibaritide

    Di padre in figlia

    Gloria Tenuta, presidente e amministratore delegato, ha chiuso i conti del 2021 con una crescita del 6 per cento e un fatturato che si attesta sui 52 milioni di euro. La Gias è stata fondata da suo padre Antonio, scomparso nel 2005, dal quale ha ereditato una visione del futuro collegata con il mondo e con le radici salde nel proprio territorio. Dei quattro figli di Antonio, è stata l’unica a portare avanti l’industria. Di progetti sul porto di Gioia Tauro sente parlare da quando era piccola.

    L’hub di Occhiuto a Gioia Tauro si farà?

    Il governatore Roberto Occhiuto prospetta un hub più attrezzato per l’export, dotato di una piastra del freddo. L’importante snodo del traffico container del bacino del Mediterraneo è stato protagonista anche in occasione della recente Expo di Dubai ed è al centro della politica di sviluppo per la sfida energetica del progetto rigassificatore.
    Gloria Tenuta guarda con interesse alla possibilità di una piastra del freddo, sperando «che questa sia finalmente la volta buona».

    Il porto di Gioia Tauro

    «Sono tante le aziende che potrebbero usufruirne – dice, – non necessariamente soltanto chi produce surgelati». È un’opportunità anche per chi «impiega materie prime per le quali sono necessari stoccaggi sotto zero e inoltre – aggiunge, – può essere utile a tante aziende non calabresi».
    Il fatto è che non basta la piastra del freddo a Gioia Tauro per rafforzare l’export. Il trasporto via mare ha un problema fondamentale: non si trovano navi. «È molto difficile reperirle e il prezzo dei noli in questo momento è quadruplicato. Gli aumenti inevitabilmente incidono sul mercato e sui costi produttivi».

    Cavaliere del lavoro, due figli, Gloria Tenuta, 62 anni, è innamorata della Calabria, soprattutto della Piana di Sibari, dove è nata e vive tuttora. Dipinge nei momenti che sottrae al lavoro, alla famiglia e alla sua passione per il mare.
    La storia dell’azienda di famiglia è stata un’avventura. «Le nostre origini sono legate ai prodotti finiti della Findus. Nei primi dieci anni di attività avevamo soltanto la conservazione, quando mio padre brevettò la pelatura del pomodoro a freddo, da azienda di servizi ci siamo trasformati in realtà industriale».
    Antonio Tenuta intuì che quintali di pomodori destinati al macero potevano diventare un business. Era il 1977 e il brevetto del peeling del pomodoro congelato spopolò negli Stati Uniti e conquistò anche paesi come l’Israele e il Sudan.

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    L’origine della Gias è legata ai prodotti finiti della Findus

    Quatto salti in Calabria

    Dagli Anni ’80 e negli anni del sodalizio con la Findus Unilever, la Gias è entrata in tutte le casi degli italiani. I must dell’epoca erano i “Quattro salti in padella” e le “Zuppe del casale”. Molti calabresi riempivano i carrelli di surgelati salva pranzo, ignorando che avrebbero mangiato melanzane, cavoli, broccoletti coltivati a pochi chilometri da casa.
    «Preferiamo le materie prime del sud, non soltanto per i minori costi di trasporto, ma perché la nostra vocazione è quella di lavorare ciò che il territorio offre, e offre tanto. Produciamo 27mila tonnellate di prodotto all’anno e ne vendiamo 20mila. Abbiamo i nostri campi e le imprese referenti sul territorio, in Calabria, in Puglia, in Basilicata».

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    L’Ad Gloria Tenuta (al centro) con una parte dei dipendenti della Gias

    Quattrocento lavoratori d’estate e 150 dipendenti fissi

    «Nel picco estivo per la nostra azienda lavorano 400 persone, il resto dell’anno sono 150 i dipendenti. In mezzo secolo di attività – racconta la manager industriale, – abbiamo fatto tanti investimenti nel corso del tempo, abbiamo vissuto tanti momenti di crescita e tanti periodi difficili, come l’inflazione degli anni ’90, con la chiusura dei mercati e una crisi che ha investito l’industria con effetti dannosi». I Novanta peggio della scivolata dei mercati finanziari nel 2018, annus horribilis per i bond, il petrolio, l’oro.

    Eppure è negli Anni ’90 che Antonio Tenuta diversifica la produzione e sigla nuove alleanze con grosse catene dell’agroalimentare. Accanto al settore industria, nascono il catering e il retail con “Il Mediterraneo a tavola” e altri marchi.
    In questa epoca di crisi a Mongrassano è nata una newco. C’è aria di rinnovamento con l’ingresso di IdeA agro (gruppo De Agostini) e Cleon Capital. due società virtuose al loro primo investimento in Calabria. L’ingresso dei soci spinge a guardare verso i nuovi mercati, soprattutto verso la Cina.

    Lavorazione delle melanzane nello stabilimento della Gias a Mongrassano

    Alla conquista dei mercati asiatici

    «Con i nuovi partner condividiamo un progetto ambizioso che prevede l’ampliamento delle linee produttive di miscelazione, dai grigliati ai piatti pronti, l’incremento tecnologico con la meccanizzazione delle celle di stoccaggio e la conquista di nuovi spazi nei mercati esteri, negli Stati Uniti, dove siamo già presenti, e in quelli asiatici, dove lo siamo di meno».
    Lo sguardo della Gias non punta al vicino est, tantomeno alla Russia. «Non è mai stato un nostro mercato. È rimasta a un consumo di surgelati basici e attinge da paesi che non offrono prodotti particolari. In più c’è sempre stata la difficoltà di capire in maniera trasparente le loro regole».

    Se il bilancio del 2021 si è chiuso in crescita, il prossimo, 2022, resta un’incognita. Gli aumenti in bolletta sfiorano il 150 per cento.
    L’azienda calabrese ha un impianto di trigenerazione ed è classificata energivora.
    «Spendiamo già due milioni all’anno, ci aspettiamo minimo un raddoppio. Le nostre attese erano ben diverse dopo il periodo difficile del Covid; invece ci ritroviamo a fronteggiare nuovi e gravi problemi».

    Europa salutista, Usa ipercalorici. E i cinesi?

    Aumenti, speculazioni sulla crisi, navi che non si trovano, reti ferroviarie e autostradali storicamente inadeguate. I progetti di crescita devono fare i conti con questo elenco nero.
    Nel dialogo con la regione, le aziende chiedono sostegno e impegno per ottenere una moratoria Covid. «Bisognerebbe estendere gli aiuti, direttamente in bolletta, per i produttori ma anche per le famiglie. Se stanno soffrendo anche le aziende solide come la nostra, è necessario fare qualcosa».
    Adesso la priorità è organizzare il mercato asiatico. In Europa la tendenza è salutista, e vanno alla grande le vellutate, le verdure e i cereali, in America la richiesta è varia, dal vegano ai primi piatti iper calorici. Bisognerà capire cosa mangiano i cinesi.