Autore: Claudio Dionesalvi

  • Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Quando si chiede ai cosentini quali siano stati i fallimenti dell’amministrazione Occhiuto, rispondono tutto d’un fiato: il traffico, il centro storico e l’acqua. Che il servizio idrico in città sia carente lo confermano migliaia di testimonianze e lamentele quotidiane affidate da cittadini di quartieri diversi ai social media. Su questo grave disservizio, sia in passato che in anni recenti sono stati scritti libri e realizzate inchieste.
    Autorevoli esperti hanno studiato il problema, analizzato le cause, individuato le responsabilità, prospettando delle possibili soluzioni.

    Propaganda vs Realtà

    Il video diffuso più di un anno fa da Sorical in merito alla questione della mancanza d’acqua a Cosenza attesterebbe il miglioramento quantitativo del servizio, in virtù di un’asserita razionalizzazione del sistema. È un report che testimonia un impegno per cercare di affrontare il problema, ma traspira un tono propagandistico che rivela una scarsa aderenza alla realtà dei fatti.

    Sebbene rispetto ai decenni precedenti un sensibile miglioramento della situazione in effetti sia avvenuto, è proprio il caso di dire che questa rappresentazione fa acqua da tutte le parti. In ogni quartiere, dal centro alla periferia, nella fase attuale dell’anno i rubinetti domestici rimangono a secco dal tramonto all’alba. L’acqua arriva nelle case solo in ore diurne. Nelle stagioni calde la durata dell’erogazione si riduce ulteriormente.

    L’ultima classifica

    Non se ne accorgono le famiglie che usufruiscono di cisterne condominiali. Un po’ di più lo percepisce chi ha installato nella propria abitazione un serbatoio autonomo: il rumore della pompa idraulica segnala che nei tubi la pressione è talmente bassa da richiedere l’attivazione del motorino. Soffrono invece, e bestemmiano in cosentino stretto, commercianti e residenti sprovvisti di autoclavi.

    Eppure, a leggere i dati forniti una settimana fa da Legambiente nella classifica annuale pubblicata da “il Sole 24 ore”, Cosenza sarebbe la quindicesima città italiana nella graduatoria sull’efficienza del servizio idrico, la più virtuosa del meridione. La differenza tra l’acqua immessa in rete e consumata per usi civili, industriali e agricoli si attesterebbe al 22,6%, contro il 50 di Catanzaro. Stando a questi dati, nel capoluogo calabrese metà dell’acqua si disperderebbe a causa delle condutture colabrodo. Nella città dei Bruzi, invece, il problema sarebbe addirittura ridotto della metà.

    Acqua e fonti

    Viene da chiedersi come sia possibile. Una prima risposta è contenuta nelle spiegazioni che Legambiente fornisce sui criteri adottati nel redigere la speciale classifica: «Fonte: dati originali dei Comuni».
    È noto che ormai per i gestori di ristoranti, pizzerie, hotel e B&B vale più una recensione positiva di qualsiasi altro attestato di merito. Qualche lamentela pubblicata da un cliente su una delle tante piattaforme dedicate al turismo può imbrattare un’immagine luminosa della propria attività ricettiva, costruita con tanti sacrifici nel tempo. Nel caso dell’indagine Quanto è verde la tua città, è come se Legambiente avesse chiesto a un ristoratore di recensirsi da solo.

    Un ulteriore elemento di dubbio sui risultati dello studio sorge quando si osservano le differenze tra le cifre relative al 2016 e all’anno successivo. In soli 12 mesi a Cosenza la percentuale di dispersione dell’acqua si sarebbe ridotta dal 77 al 36%. A meno che, pur di rattoppare la rete idrica, nelle viscere della terra l’amministrazione Occhiuto e la Regione Calabria non abbiano impiegato forze paranormali, è molto difficile valutare questo dato come attendibile.

    Gli interventi effettuati

    I lavori di rifacimento ci sono stati, sì, non v’è dubbio. Nell’aprile scorso, l’ingegner Giovanni Ioele, capo struttura del Dipartimento tutela dell’ambiente della Regione Calabria, informava la commissione Ambiente di Palazzo dei Bruzi che in tre anni sul territorio comunale sono stati sostituiti 12 chilometri di rete idrica e riparate circa 200 perdite, 400 gli interventi di rifacimento degli allacci, 360 le saracinesche sostituite e 44 gli idranti installati.

    Preso atto anche di questa relazione, la tempistica appare però ancor più anomala. Se gli interventi sono stati effettuati solo a partire dal 2018, non si capisce come la situazione sia potuta migliorare già nel biennio precedente, addirittura fino a dimezzare la dispersione. In realtà le perdite continuano a riguardare gran parte della città. E sono di almeno tre tipi:

    Sotto accusa rimangono anche le autoclavi condominiali. Secondo alcuni esperti e amministratori di Palazzo dei Bruzi, essendo prive di “sistemi di ritenuta”, cioè di valvole e galleggianti, continuerebbero ad accaparrare milioni di litri per scaricarli direttamente nelle fogne.

    Tutta colpa dei cittadini?

    C’è chi fa notare che per le amministrazioni locali è ormai tattico colpevolizzare la cittadinanza su presunti comportamenti incivili nella raccolta differenziata dei rifiuti come nel rispetto del codice della strada. Non poteva mancare lo scorretto utilizzo dell’acqua. Ed è comunque spontaneo chiedersi come mai in questi anni il Comune non abbia ordinato delle ispezioni tecniche, condominio per condominio.

    Nel tentativo di recuperare crediti derivanti da tributi, multe e canoni d’affitto delle case popolari, l’amministrazione guidata da Mario Occhiuto ha affidato onerosi incarichi a società private. A prescindere dagli scarsi risultati conseguiti con questi affidamenti, se avesse agito con la medesima solerzia nel pretendere il corretto funzionamento delle cisterne condominiali e nei controlli sull’effettiva funzionalità dei contatori, forse il problema sarebbe stato in parte risolto.

    Beni comuni e privatizzazioni

    Intanto, mentre per gran parte della giornata i rubinetti cosentini rimangono a secco, il prossimo sabato 20 novembre a Napoli è prevista la manifestazione nazionale per l’acqua bene comune «minacciata – scrivono i promotori del corteo – dal governo Draghi di privatizzazione con il DDL Concorrenza. In più il neosindaco di Napoli tra le prime cose da fare intende privatizzare l’azienda pubblica dell’acqua e lo stesso Draghi tramite i soldi del PNRR vuole realizzare la Multiutility SUD, raggruppando e privatizzando tutta l’acqua delle 6 regioni Sud continentali».

    Dal canto loro, l’assemblea dei sindaci dell’Autorità Idrica della Calabria e la Giunta regionale avrebbero idee poco chiare su chi dovrà amministrare la nostra acqua e quanto ci costerà. Si profilano due strade. O il gestore sarà una società per azioni a capitale pubblico oppure la captazione e l’adduzione spetterebbero a Sorical, ma distribuzione e depurazione passerebbero nelle mani di un nuovo soggetto, che potrebbe essere una Spa a capitale pubblico oppure un’azienda speciale consortile.
    Il coordinamento calabrese “Bruno Arcuri” sostiene che «acqua bene comune non vuol dire capitale pubblico, ma gestione pubblica».
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    L’azienda speciale

    In sintonia con quanto prospettato dal presidente della Regione Roberto Occhiuto, il coordinamento chiede che il servizio sia affidato a un’azienda speciale, purché tale forma giuridica sia permanente, non temporanea.
    La situazione è resa ancor più complicata dalla nota indirizzata due giorni fa al presidente della Provincia Franco Iacucci, dal presidente dell’Autorità idrica della Calabria, Marcello Manna. Al momento la decisione non è ancora definita, ma la Sorical dovrebbe restare come gestore all’ingrosso, mentre a valle si avrebbe un’azienda speciale. Questo cozzerebbe però con l’indicazione del presidente della Regione sulla gestione unitaria.

    Da un Occhiuto all’altro

    Dunque, mentre un Occhiuto si appresterebbe a trovare una risposta concreta alle istanze dei comitati per l’acqua pubblica in Calabria, l’altro Occhiuto, impegnato com’era nella ricerca del “bello”, si è congedato dal ruolo di primo cittadino senza però aver garantito il funzionamento effettivo di questo come di altri settori nevralgici del Comune bruzio. La “grande bellezza” sarà pure un orizzonte monetizzabile, ma rimane un risultato superficiale. Per ingegnerizzare davvero la rete idrica, per riparare i guasti, sarebbe necessario impegnare risorse consistenti, scendere in profondità, scavare, svolgere un lavoro oscuro che tuttavia non fornirebbe alla cittadinanza l’immediata evidenza dei fatti.

    Se il servizio idrico fosse garantito per 24 ore, forse in tanti nemmeno se ne accorgerebbero, perché le cisterne private e condominiali ammortizzano la drammaticità del disservizio. Nella società virtuale, quel che non appare non esiste. E ci si abitua a tutto. Persino dell’acqua si può fare a meno, magari fingendo a se stessi di averla a disposizione per tutta la giornata. Se poi si vive in una città ai primi posti della graduatoria nazionale, «è una città che ci ha reso orgogliosi». Allora la doccia può attendere.

  • Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Cinquantuno famiglie cosentine perdono la principale fonte di reddito. Operatori sociosanitari, centralinisti, amministrativi e ausiliari della RSA San Bartolo e della clinica Misasi stanno per essere licenziati. Garbati ma freddi e risoluti, appena subentrati alla vecchia proprietà, nelle strutture che hanno rilevato dai Morrone, i Greco hanno fatto subito sapere che l’aria sarebbe cambiata. Com’è noto, nel tempo hanno sviluppato una singolare competenza nel correre non solo al capezzale dei pazienti, ma anche delle aziende in coma.

    Così i nuovi amministratori si sono affrettati a chiarire al personale sanitario che non avrebbero guardato in faccia nessuno e non si sarebbero lasciati condizionare da eventuali protezioni parentali. Soprattutto, i Greco avrebbero preteso l’allineamento della qualità delle prestazioni agli standard, secondo loro elevati, delle altre cliniche di cui sono proprietari. Prodigi della “società liquida”: una potente famiglia contro il familismo.

    La clinica Misasi a Cosenza, ceduta di recente dalla famiglia Morrone al gruppo iGreco
    Cinquantuno esuberi su 129 dipendenti

    Pochi giorni fa questo potente gruppo, da tanti anni ai vertici di settori differenti dell’imprenditoria locale, ha annunciato 51 esuberi su 129 unità lavorative. Il personale superstite dovrà dunque gestire 45 posti di riabilitazione intensiva, 10 letti di lungodegenza medica, 60 di RSA non medicalizzata e prestazioni ambulatoriali fisioterapiche.
    Le formule adottate per motivare i licenziamenti sono quelle che da sempre accompagnano i tagli dei posti di lavoro nelle aziende: “situazione di crisi”, “piano di risanamento economico”, “indispensabile riequilibrio finanziario”, “riduzione dei costi aziendali”.

    Le colpe addebitate alla Regione

    Secondo la nuova proprietà, le responsabilità principali, tanto per non cambiare, sono imputabili alla Regione Calabria che avrebbe effettuato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budgets che non hanno consentito la copertura dei costi fissi». Nel documento inviato alle organizzazioni sindacali si ribadisce che determinanti sarebbero state «le politiche sempre più stringenti poste a base del patto di stabilità regionale».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto
    E quelle dei Morrone

    Secondo i Greco, i fondi pubblici sono stati ridotti, i posti letto pure, ma il personale è rimasto ai livelli di prima. Quindi, bisogna tagliuzzarlo. Ci sarebbero poi gli errori commessi dai Morrone: «Le altre cause che hanno concorso a determinare il dissesto finanziario – si legge nel documento – sono addebitabili alla errata previsione di un investimento immobiliare, ovvero all’acquisizione di un terreno in permuta nel comune di Cosenza su cui realizzare la struttura immobiliare da adibire a Casa di cura».

    L’operazione doveva essere effettuata in virtù di un cospicuo credito d’imposta, ma in seguito un provvedimento normativo ne avrebbe limitato la fruizione, «sicché non era più possibile, considerate le restrizioni temporali, completare l’opera progettata. A tal punto, per non disperdere le opere murarie realizzate, si decise di convertire il progetto originario in un intervento di edilizia residenziale da destinare al mercato immobiliare. Tutto ciò generava dei forti ritardi nella realizzazione dell’opera (…), causando inadempienze contrattuali nell’assegnazione degli immobili da attribuire ai venditori del terreno concesso in permuta e determinando delle forti penali da corrispondere ai cedenti il terreno. Il suddetto processo fu l’inizio di un sistemico ed inarrestabile ciclo d’indebitamento che ha innestato, a sua volta, una incontrollabile crisi finanziaria».

    Il ritorno degli ospedali riuniti?

    Insomma, secondo i Greco, galeotte furono l’ennesima avventura edilizia e un’altra disastrosa operazione immobiliare che i Morrone realizzarono acquistando un edificio a Diamante. Di fronte a dati così oggettivi, ci sarebbe ben poco da ribattere. Eppure, in una lettera aperta, un gruppo di lavoratrici e lavoratori fa notare che «il nuovo colosso iGreco si espande ed è pronto ad acquisire l’ex palazzo della Banca Carime a Vaglio Lise, proprio lì dove sorgerà il nuovo ospedale», caldeggiando così le ipotesi degli analisti di politica cittadina, che vedono una convergenza di interessi tra il blocco di potere politico che sostiene la nuova amministrazione comunale e gli imprenditori della sanità privata.

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    La leghista Simona Loizzo

    Riprenderebbe fiato il programma di centralizzazione delle strutture al momento gestite da iGreco. Cioè il vecchio progetto di ospedali riuniti che avrebbe dovuto trovare una location nella zona nord dell’area urbana. Stavolta troverebbe pure la benedizione di nuove figure del quadro politico regionale, come la leghista Simona Loizzo, da sempre estimatrice del marchio iGreco.

    I sindacati non si fidano

    Critici e guardinghi i sindacati. «Come mai – si chiede Ferdinando Gentile, dell’USB – di questa situazione si sono accorti solo adesso? La procedura di concordato preventivo, avviata dalla precedente proprietà, forniva un quadro realistico. Prima di subentrare alla vecchia proprietà, una visura camerale i Greco l’avranno fatta. È chiaro che l’annuncio dei licenziamenti pone due condizioni: o la Regione destina più fondi o i lavoratori e le lavoratrici accettano contratti mortificanti per loro e meno onerosi per l’azienda. Il piano prevede anche un taglio secco di portinai e centralinisti, come se in strutture delicate come queste non ce ne fosse bisogno».

    Licenziamenti entro Natale

    Serratissimi i tempi per le procedure di licenziamento, che si chiuderanno entro 45 giorni. Entro una settimana, l’esame congiunto al quale parteciperanno i sindacati, poi le carte passano all’ispettorato. «Già per il prossimo 15 novembre i Greco hanno convocato i dipendenti – prosegue Gentile -. Li metteranno di fronte a scelte già fatte. Così pagano i lavoratori per gli interessi di due famiglie. Non dimentichiamo che i soldi che permettono alle cliniche private di funzionare sono privati solo sul piano nominale. In realtà, provengono da casse pubbliche. Non ci possiamo permettere licenziamenti in questa drammatica fase storica. Chiediamo che la Regione e il Comune intervengano. Se questi licenziamenti avverranno, potrebbe essere l’inizio della macelleria sociale in Calabria».

    L’intreccio perverso

    Emerge dunque quanto perverso sia l’intreccio tra sanità pubblica e privata. La seconda si è nutrita delle risorse disponibili per la prima, fino a quando la pubblica non è andata in crisi totale. Come accade in ogni sistema costruito su rapporti patologici, anche il parassita, alla fine, soccombe insieme al corpo che lo ha ospitato. È molto improbabile che il nuovo commissario alla Sanità, il presidente della Regione Roberto Occhiuto, in considerazione dei suoi trascorsi e soprattutto delle sue ferme convinzioni neoliberiste, possa restituire risorse alla sanità pubblica calabrese.

    Luciano Moggi

    Luciano Moggi è stato evocato da iGreco nelle trattative della scorsa estate per l’acquisizione, poi sfumata, del Cosenza Calcio. C’è chi con malizia fa notare che il presunto sistema Moggiopoli, nonché il suo abbraccio mortale che fece franare gran parte dei vertici del calcio italiano del secolo scorso, rischia di riproporsi nell’organizzazione dei servizi alla salute dei calabresi. Come prendere la sanità, già agonizzante, a pallonate.

  • Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Sono crateri capovolti, piccoli vulcani artificiali che eruttano al contrario. Ogni tanto sbuffano, quasi sempre rilasciano sostanze nocive nell’aria, nei fiumi, nelle falde acquifere. In provincia di Cosenza esistono quattro “terre dei fuochi” dimenticate. Forse sarebbe più corretto definirli “fuochi nelle terre”, per quanto sono invisibili e nascosti nel sottosuolo. Nessuno s’azzarda più a misurare la febbre delle aree contaminate nostrane. Una certa stanchezza, frutto dell’impotenza, sembra prevalere persino tra gli abitanti di queste zone.

    Mobilitazioni e processi

    In passato, si organizzavano in comitati di protesta per denunciare l’elevato tasso di tumori e invocare le bonifiche. Col tempo, l’oblio ha fiaccato quelle mobilitazioni. E oggi a sollevare il problema rimangono in pochi. Così, tra archiviazioni, stralci, prescrizioni e assoluzioni, si sono dispersi in mille rivoli anche i procedimenti giudiziari che avrebbero dovuto accertare le responsabilità.

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    Una manifestazione ad Amantea per chiedere la verità sui danni ambientali nel territorio (foto Francesco Cirillo)

    Al momento, non c’è un solo politico, un ecomafioso, un imprenditore o uno dei loro servitori che abbia pagato per i disastri ambientali di Praia, Amantea, Montalto e Cassano. Non uno dei tanti imputati nei vari processi ha subito una condanna. Bravura dei difensori, inadeguatezza delle procure o sostanziale impunità per chi inquina? Sia in primo grado che in appello è arrivata l’assoluzione per tutti e 12 i responsabili della Marlane di Praia dalle accuse, a vario titolo, di lesioni gravissime, omicidio colposo plurimo e disastro ambientale. Negli anni Novanta, il primo a produrre inchieste su questa drammatica vicenda fu lo scrittore e mediattivista Francesco Cirillo.

    Un accordo con le famiglie dei morti

    Centinaia di operai si sarebbero ammalati di cancro a causa delle esalazioni dei coloranti adoperati nell’azienda tessile e dell’amianto presente nei freni del telai. In precedenza, Eni-Marzotto aveva stipulato un accordo con le famiglie degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parte civile, a ciascuna delle quali aveva versato tra i 20mila e i 30mila euro. Già il 4 aprile 2020, nel motivare l’annullamento, per gli effetti civili, della sentenza a suo tempo emessa dalla corte d’Appello di Catanzaro, la corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione di intervenuta prescrizione dei delitti di omicidio colposo pluriaggravato «è frutto di erronea applicazione della legge penale».

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    Il problema delle bonifiche

    Rimane comunque il problema della bonifica dei terreni che sarebbero stati interessati dai presunti scarichi abusivi di sostanze chimiche provenienti dalla fabbrica. Nel settembre 2017 la procura di Paola ha disposto nuovi accertamenti. A sollecitare un ulteriore approfondimento sono stati i comitati ambientalisti. Sul Tirreno cosentino, che si tratti delle migliaia di fanghi da depurazione scaricati in mare o delle perizie sulle sostanze inquinanti presenti nelle falde acquifere, serpeggia il sospetto che taluni soggetti istituzionali non vogliano o non riescano a vedere l’evidenza.

     

    Territorio in pessima salute

    Sebbene gli esperti, chiamati a pronunciarsi nell’ambito dei processi che si stanno celebrando, certifichino un pessimo stato di salute delle acque e dei terreni, pare che non ci siano autorità disposte a prenderne atto. Già nel 2007 si rilevava infatti la presenza di materiali cancerogeni nel sottosuolo. La professoressa Rosanna De Rosa, del Dipartimento di Geochimica e Vulcanologia dell’Università della Calabria, registrava valori molto alti di cromo, nichel, piombo e arsenico.

    Un anno dopo, nella relazione di consulenza tecnica disposta dalla procura di Paola, nell’evidenziare i rischi per la salute umana, il dottor Giacomino Brancati precisava che «solo un intervento specifico di rimozione dei contaminanti da quell’ambiente potrà mitigare, persino fino ad annullarla, l’entità di ogni accertato pericolo».

    I contaminanti spariscono

    Nel settembre 2018, a seguito dell’incidente probatorio nell’ambito del nuovo procedimento penale (oggi in fase di indagini nel tribunale di Paola) a carico dei dirigenti Marzotto per fare luce sulla morte di altri 50 operai e su 10 superstiti affetti da tumore, i professori Ivo Pavan e Alessandro Gargini hanno espletato la perizia con campionamenti nell’area antistante lo stabilimento e al confine con le abitazioni di Praia, rilevando nelle falde acquifere la presenza di tricloroetilene e cobalto. Eppure, nel piano di caratterizzazione del 2018 per la bonifica del territorio dai veleni della fabbrica Marlane, queste sostanze non ci sono più.

    L’Arpacal cambia idea

    Qualcuno si chiede se l’Arpacal, nel ratificare il piano, non abbia dimenticato cosa aveva firmato solo qualche tempo prima. Escludendo la presenza di extraterrestri nelle profondità della terra, non è fantascientifico capire da dove arrivino queste sostanze dannose. Annullata, per gli effetti civili, la sentenza del 2017 della corte d’Appello di Catanzaro, e accogliendo il ricorso dell’avvocato Lucio Conte, la corte di Cassazione ha ordinato il calcolo del risarcimento danni a favore del comune di Tortora, parte civile nel processo. L’udienza si terrà il prossimo 24 novembre.

    Il fiume Oliva

    Anche per i veleni individuati nella valle del fiume Oliva, ad Amantea, dai tribunali sono emersi giudizi di innocenza, ma centinaia di metri cubi di scorie industriali rimangono sotto terra. Non se ne conosce la provenienza. Qualcuno ipotizzò che a scaricarli sia stata una delle famigerate navi dei veleni. Ma le inchieste giudiziarie non hanno confermato questa ipotesi. Rodolfo Ambrosio, avvocato di Legambiente, ricorda un episodio inquietante.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea

    «In occasione di un sopralluogo con la troupe del Tg2 Dossier – racconta – ci avvicinò un signore anziano che aveva lavorato come camionista per alcune ditte edili note e locali. Ci disse che per interrare i materiali inquinanti loro raccoglievano la terra scavata fino a 40 metri di profondità per poi venderla di risulta ad imprese che la pagavano. Essendo presenti altri colleghi avvocati, la polizia giudiziaria, medici e tecnici, abbiamo concordato sulla necessità di un supplemento di perizia per verificare cosa ci fosse tra i sette metri nei quali scavò la procura e i 40 indicatici dal camionista. Quando la procura ci ha sentiti, lo abbiamo ribadito e siamo ancora in attesa delle risultanze e di un eventuale sbocco penale per un secondo procedimento».

    Il ruolo della Regione

    Oltre alla ricostruzione della verità storica e giudiziaria, rimane l’annoso problema delle bonifiche. «Si è parlato tanto, troppo dell’Oliva – spiega Gianfranco Posa, portavoce del comitato “De Grazia” -. La Regione, che ha la responsabilità di bonificare o mettere in sicurezza l’area, non è mai concretamente intervenuta, trincerandosi dietro l’analisi del rischio elaborata da Ispra e Arpacal che in buona sostanza dice che i veleni dell’Oliva “ce li siamo già mangiati”, ovvero hanno già prodotto i loro effetti negativi sulla popolazione ma, che adesso, non sono più pericolosi».

    «In realtà l’analisi del rischio – aggiunge Posa – è frutto di un lavoro durato anni che ha visto col tempo cambiare i risultati delle analisi chimiche spesso con risultati contrastanti tra quelli elaborati dagli enti pubblici e quelli dei consulenti dell’autorità giudiziaria. Ma la verità – come ribadisce anche l’analisi del rischio nella parte finale – è che i rifiuti nell’alveo di un fiume non ci possono stare e vanno rimossi o messi in sicurezza».

    Il Pnrr per mettere in sicurezza il territorio

    E poi c’è la popolazione che si è stancata di sentir parlare di questa zona, votata al commercio e al turismo, come di un territorio pesantemente inquinato senza vedere mai qualcuno che mettesse in atto soluzioni e pertanto ha allentato la pressione. In merito alle possibili soluzioni, Posa spiega che «si potrebbe attingere ai fondi comunitari ed elaborare un progetto di messa in sicurezza dell’area».

    «Il PNRR – aggiunge – sarebbe una buona possibilità per mettere in sicurezza il territorio calabrese, ma temiamo che anche questa occasione andrà persa. La prossima giunta regionale, qualunque essa sia, dovrebbe affidare l’assessorato all’Ambiente a un persona esperta e competente con la giusta sensibilità sulle tematiche ambientali. Qualcuno che abbia tra le sue priorità la soluzione delle tante emergenze ambientali calabresi e che si confronti con chi vive nei territori. Che punti sulla prevenzione, elaborando un adeguato piano dei rifiuti, che favorisca la nascita di impianti che riportino a materia prima i materiali differenziati raccolti. Che provveda al tracciamento dei rifiuti industriali, facendo prevenzione, in modo da rendere difficile lo smaltimento illegale».

    Sibaritide: condanne e prescrizioni

    Anche nella Sibaritide aleggia da anni un fantasma chimico, quello delle ferriti di zinco provenienti dal sito industriale di Crotone. «In questo caso, persino per me che ogni volta mi costituisco parte civile nell’interesse di Legambiente e Comuni, sta diventando difficile seguire gli infiniti tronconi delle inchieste giudiziarie», spiega l’avvocato Rodolfo Ambrosio.

    «Due processi – continua il legale – sono stati celebrati nel tribunale di Castrovillari per gli stessi reati del processo Artemide. Uno si è concluso con due condanne e siamo in attesa della fissazione dell’udienza in corte d’Appello. Per l’altro, invece, sarà celebrata udienza il prossimo 9 novembre. Come si ricorderà, fu de Magistris il titolare della prima inchiesta. E dopo 11 anni di processi e intervenute prescrizioni, furono bonificati i siti contaminati, tra Cassano e Francavilla Marittima, individuati dall’operazione “Artemide”».

    «Ma le zone interessate dai due procedimenti in corso – prosegue Ambrosio – sono ancora lì da bonificare e in parte da individuare. Il ministero della Difesa dispone di speciali elicotteri per la mappatura di metalli pesanti o radioattivi sepolti. In operazioni come Cassiopea, che portò alla scoperta di un traffico illecito di materiali inquinanti tra Caserta e Gioia Tauro, ne fu disposto l’impiego. Peccato che il procedimento sia stato archiviato e sebbene si conosca l’ubicazione di tali scarichi in Calabria, non si sia proceduto con la loro rimozione».

    Industria e ambiente

    Infine, rimangono senza risposte le domande poste negli anni sull’area di Montalto Uffugo. Qui la presenza di agenti inquinanti ha una storia antica. Il nostro giornale è tornato ad occuparsene di recente.

    «Anche in questo caso, persistono delle zone d’ombra – racconta l’avvocato Rodolfo Ambrosio -. Ricordo che durante un’udienza del processo da cui uscì assolto, tra gli altri, il sindaco di Rende, su mia domanda un teste riferì che nella zona morirono diverse mucche poste a pascolo. Ciò in contrasto con i rilievi dei tecnici che, pur provando l’inquinamento, lo certificarono sotto i livelli di legge. Vorrei capire come siano possibili i ricorrenti fenomeni di autocombustione in un territorio considerato “a norma».

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    Dunque, delle quattro mega-aree contaminate, Montalto e Praia sono le uniche imbottite di materiali che non proverrebbero da siti più o meno distanti. Di sicuro, tutti gli inquinanti sono di origine industriale e non è stata accertata l’entità reale del loro impatto sugli ecosistemi circostanti. Un vero e proprio paradosso, in una regione pressoché estranea al modello produttivo della fabbrica. Senza un ritorno dell’attenzione popolare e democratica su queste vicende, al danno dell’inquinamento si aggiungerà la beffa dell’oblio.

  • Appesi a un filo, nei call center di Abramo cresce la paura

    Appesi a un filo, nei call center di Abramo cresce la paura

    Al posto della chiave inglese, il microfono e le cuffiette. Invece della rumorosa catena di montaggio, il silenzio della propria stanza. Così vivono la loro giornata gli operatori della Abramo Customer Care, le vocine anonime che spesso mandiamo a quel paese se rispondendo al telefono ci rendiamo conto che dall’altra parte c’è un call center. Da quando lo smart working ha sostituito le postazioni ricavate in cabine e scrivanie, tantissimi di loro lavorano confinati in casa, isolati dai propri colleghi.

    In Calabria, Sicilia e a Roma 3mila sono i dipendenti di questa fabbrica immateriale. Team leader e operatori al netto percepiscono otto euro all’ora. Mentre le società committenti fatturano centinaia di milioni, i contratti part-time permettono ai lavoratori di portare a casa tra i 650 e i 950 euro mensili. Da ormai tanti giorni vivono in solitudine l’agonia dell’impresa di cui sono dipendenti.

    Il 18 febbraio scorso, Heritage Venture Ltd Investment Company aveva manifestato disponibilità all’affitto del ramo d’azienda. Ma il 24 marzo comunicava al Tribunale di Roma e agli organi competenti di «non ritenere più valida ed effettiva l’offerta di affitto ponte d’urgenza». Il fondo irlandese precisava che «il trascorrere del tempo senza alcun riscontro e l’aggravarsi della situazione di mercato della Abramo rendono per noi non più proseguibile questa iniziativa». In seguito, s’era detto pronto ad acquistare la società all’asta che però il 22 luglio scorso è andata deserta.

    Un digitale sfuggevole

    Il cosiddetto terzo settore avanzato avrebbe dovuto rimpiazzare il sogno naufragato di insediamenti industriali che nella zona a nord di Cosenza non hanno mai attecchito. Qui è tangibile “lo sviluppo senza gioia”.
    In Calabria, nella seconda metà del ‘900, l’illusione che poter impiantare fabbriche ovunque fosse possibile aveva seminato scheletri di incompiute e veleni industriali provenienti da altri territori, senza però redistribuire ricchezza tra la popolazione.

    Negli ultimi decenni del secolo scorso, si è affermata la convinzione che un’economia basata sul digitale e sulla telematica potesse rimpiazzare il sogno tradito di importare al sud almeno una parte della produzione industriale italiana. Così migliaia di persone hanno potuto lasciare la propria famiglia d’origine per generarne una nuova, contrarre mutui, evitare l’emigrazione, prestando la propria opera in modalità intermittente, cioè “a chiamata”, all’interno di queste nuove promettenti imprese.

    Oggi la crisi di aziende come Almaviva e Abramo certifica la fine di questa illusione. Tra i lavoratori di questo settore serpeggia un mix di timore e attesa. Raccontano storie di rassegnazione, ma anche di orgogliosa rivendicazione dei propri diritti. “Paternalista” è l’aggettivo ricorrente che spesso adottano per evidenziare l’atteggiamento del titolare dell’azienda, Gianni Abramo. Gli subentrò per quasi tre anni il fratello Sergio, sindaco di Catanzaro e di recente transitato nel partito “Coraggio Italia” di Giovanni Toti. Le redini dell’impresa tornarono interamente a Gianni nel 2016.

    Tanti dei suoi dipendenti lo dipingono come un uomo disponibile ad aiutarli nei momenti difficili e ne esaltano la conduzione della Abramo CC con le modalità di una “grande famiglia”. Nei messaggi privati, qualcuno gli scrive che lo considerava “più di un padre”, riconoscendogli di aver sempre tenuto “alla sua azienda e ai suoi lavoratori più della sua vita”. Al tempo stesso, c’è chi segnala il rischio che in ogni famiglia persino il migliore dei padri possa divenire padrone.

    Una causa tira l’altra

    Sarà stato anche questo il motivo che ha spinto alcune operatrici a ribadire un principio elementare: ogni lavoro impone doveri, ma anche diritti. Ci sono storie di rara indignazione, come quelle di Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli, che pur avendo maturato negli anni un rapporto di fedeltà nei confronti dell’azienda, a un certo punto si sono sentite costrette a chiedere l’intervento di un giudice.

    Concettina ha gli occhi vispi e un dolcissimo volto che s’imperla di lacrime quando rievoca i momenti più aspri della propria vicenda. «Sono stata assunta nel 2007 – racconta – e già l’anno successivo mi hanno assegnato il compito di coordinare il lavoro di altri colleghi. La direzione mi ha anche affidato incarichi di alta responsabilità, come recarmi in Albania per la start up di un nuovo call center». Come spesso accade, i problemi per Concettina iniziarono quando decise di tesserarsi a un sindacato.

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    Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli hanno intrapreso una battaglia legale contro Abramo Customer Care

    «Nel marzo 2017 – prosegue l’operatrice – fui eletta RSU per la Uilcom. Già negli anni precedenti, quando avevo mansioni di coordinamento, non volli esercitare pressione sui collaboratori a progetto, che non avendo un rapporto di subordinazione non possono essere inquadrati in turni lavorativi. Nel 2018, a tutti gli altri team leader l’azienda propose un avanzamento di livello, promuovendoli al quarto. A me no! Anzi, fui demansionata, mi imposero di tornare in cuffia».

    Così Concettina decise di fare causa. Il 7 luglio 2020 il giudice del Lavoro, Alessandro Vaccarella, le ha dato ragione, ordinandone l’inquadramento nel quinto livello. «È passato più di un anno – conclude la lavoratrice – ma l’azienda non ha ancora applicato la sentenza. Tutto ciò in me genera impotenza, frustrazione, crisi profonda. In tanti anni di lavoro, m’aspettavo un riconoscimento. Invece, ho ottenuto solo richiami verbali, richieste di rientro in presenza durante la pandemia. E tra i miei colleghi c’è stato pure chi mi ha consigliato di lasciare il sindacato».

    Ostilità verso le mamme

    Sulla scia di Concettina, anche la crotonese Francesca Passarelli ha deciso di ribellarsi. «Dopo essere tornata dalla maternità – racconta l’operatrice – ho avvertito un clima di totale ostilità nell’azienda, da parte dei superiori e persino dei colleghi. Due anni e mezzo di pressioni su di me, in molti casi documentate, finché non hanno messo in campo il demansionamento. Ti chiedono: “Ma vuoi proprio farlo l’allattamento? È preferibile non prendere astensione”. È così che inizia tutto. Se non rinunci ai tuoi diritti, la paghi. Se vuoi lavorare, crescere tuo figlio diventa insostenibile».

    Così, anche Francesca si è rivolta a un legale. «Ho trovato la forza di rinchiudermi in un’aula di tribunale – prosegue Passarelli – per difendere con le unghie e con i denti la mia dignità di mamma. Il procedimento sta proseguendo, tra vari rinvii. Si è un po’ allungato anche a causa della pandemia, ma io sono fiduciosa. Credo molto nella giustizia”.

    In caduta libera

    La competizione spietata delle altre imprese che delocalizzano e abbattono i costi, la deregolamentazione nella gestione delle commesse Telecom, l’abbassamento qualitativo delle prestazioni in smart working dal primo lockdown in poi, l’assenza di un programma di rilancio. Sarebbero queste le principali cause visibili della crisi che ha investito l’intero settore in Calabria.

    Per la Abramo CC il calo delle commesse sta comportando il collasso. Dalle 10mila chiamate giornaliere che nel 2019 gestiva per Telecom, si è scesi a 3mila. «Tim è certamente la commessa più solida e importante di Abramo – spiega Valeria Maria Tarasio, già team leader sulla commessa Vodafone -, ma negli ultimi anni anche il fatturato di Vodafone raggiungeva circa mezzo milione al mese, con 250 co.co.co che effettuavano chiamate in outbound».

    «Peccato – continua Valeria Maria – che il committente non si sia più fidato della condizione precaria di Abramo in concordato. E a partire da gennaio ha ridotto i volumi gradualmente, fino alla chiusura totale al 15 settembre. Ci hanno rimesso il posto circa 250 operatori, di cui 150 della sede di Montalto, alcuni dei quali lavoravano su questa commessa da più di 10 anni. Purtroppo, trattandosi di lavoratori precari, nessuna clausola di salvaguardia sociale ha potuto salvarli. L’intero staff è al momento in attesa di conoscere la propria sorte».

    Le attività sono transitate su altri partner di Vodafone, ma gli operatori di Abramo sono rimasti a spasso. Così non è andata, per esempio, con la commessa di HO mobile, assorbita a maggio da Transcom, operazione in cui sono state correttamente utilizzate le clausole sociali che hanno costretto Transcom ad aprire una sede a Rende e ad assorbire tutti i dipendenti operanti su questa commessa.

    Invece, per gli operatori rimasti al servizio della Abramo CC, i guai non sono finiti. La crisi dell’azienda ha provocato scompensi per centinaia di famiglie. In passato i pagamenti sono stati sempre puntuali, ma nel 2020 la situazione è mutata. Lo stipendio di ottobre non è mai stato corrisposto. Nello stesso anno è saltato pure il 30 per cento della mensilità di settembre. E a fine annata la tredicesima è stata calcolata solo su due mesi di prestazione. Oggi la cassa integrazione oscilla tra una media di cinque giornate mensili per i team leader e un massimo di quindici, come nel caso degli operatori della sede di Catanzaro.

    La Regione assente

    I sindacati non hanno mai avuto vita facile in questo settore. L’anno scorso i confederali promossero un bizzarro sit-in domenicale davanti all’azienda, convocandolo soltanto la sera prima. Adesso lamentano la mancata consegna di un piano industriale, sebbene il nuovo direttore generale, Giovanni Orestano, lo avesse promesso nel marzo 2020. All’epoca si prospettava l’alternativa di un’espansione dell’azienda in settori diversi dalle telecomunicazioni, come quello assicurativo oppure nel finanziario. Ciò non è avvenuto.

    «Fino ai primi mesi del 2019 tutto sembrava rose e fiori, nonostante una certa miopia nella gestione del personale e nelle scelte strategiche. Poi l’azienda Abramo ha iniziato la sua parabola discendente, motivandola con un notevole calo di volumi della Commessa Tim, che equivale al 70% del suo fatturato milionario annuo», raccontano gli operatori aderenti al sindacato Cobas. «A ogni inizio mese speriamo di non ricevere messaggi aziendali come successo a fine 2020, quando siamo stati informati del blocco dei pagamenti. Da qualche mese – proseguono i dipendenti – è attivo un tavolo di crisi presso il MISE, alla presenza di tutti i soggetti possibilmente coinvolti, comprese le istituzioni locali e regionali».

    «La Regione Calabria – proseguono – è l’unica che non ha mai partecipato ai tavoli convocati. Né con il suo presidente né con l’assessore o un membro della giunta regionale, né con un dirigente del settore Lavoro. E questo fa rabbia. Soprattutto sapendo che fra 20 giorni il consiglio regionale sarà rinnovato e questa gente verrà nuovamente rieletta. Crediamo sia necessario che le grandi aziende che fanno capo alla filiera vengano messe spalle al muro. Internalizzare i servizi di contact center – concludono i Cobas – è l’unica soluzione per poter fornire sicurezza occupazionale, salari dignitosi e inquadramenti contrattuali adeguati a tutti noi che ci troviamo periodicamente a fare i conti con i cambi d’appalto o con crisi aziendali di questo tipo».

    Brutte nuove

    Nelle ultime ore, due notizie hanno suscitato ulteriore sconforto tra i lavoratori. Non ha niente di incoraggiante l’annuncio “Vendesi” apparso on line sul capannone che da anni a Montalto ospita la Abramo CC, sebbene da più parti ci si affretti a segnalare che lo stabile è in vendita già da tempo per recuperare liquidità. Dal faccia a faccia tra i vertici dell’azienda e i rappresentanti sindacali, giovedì scorso, è emerso che si andrà verso l’amministrazione straordinaria, con udienza a Roma il 13 ottobre. E che Poste italiane pagherà direttamente gli stipendi fino al 1° dicembre, data di scadenza della commessa. Se qualche azienda deciderà di acquisire Tim, in blocco o per singola attività, tutti auspicano l’applicazione della clausola di salvaguardia sociale. Garantirebbe l’assorbimento dei dipendenti della Abramo CC.

    Altrettanta preoccupazione ha scatenato un post, circolato nelle chat, che attesterebbe la volontà dell’azienda di costruire “un nuovo team per il sito sloveno” e verificare la disponibilità degli operatori a farne parte. I più ottimisti intravedono nell’annuncio la semplice possibilità che si aprano condizioni per lavorare oltre l’Adriatico. I critici sbuffano: «Mentre qua non si sa neanche se paga gli stipendi, all’estero apre nuove attività». Gli scettici sono sicuri che si tratti di fake news. Ma nella “società artificiale”, purtroppo, “ciò che deve accadere accade”.

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

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    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

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    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

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    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

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    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Il film-maker arbëreshë contro i luoghi comuni à la Muccino

    Il film-maker arbëreshë contro i luoghi comuni à la Muccino

    Davide Imbrogno è una delle menti artistiche più interessanti che siano sbocciate negli ultimi anni nelle Calabrie. Esperto di comunicazione e pubblicità, film-maker, scrittore, sceneggiatore, ha viaggiato tanto, mantenendo solidi legami con la propria terra d’origine. Di recente ha realizzato un cortometraggio nel quale in tanti vedono un’alternativa intelligente alla bucolica e pseudoromantica rappresentazione offerta dal costosissimo corto del regista Muccino, finanziato dalla regione Calabria.

    Il titolo del tuo cortometraggio Me Shëndet in arbëreshë significa “Con Salute”. È anche un messaggio augurale verso un pianeta che negli ultimi anni s’è riscoperto malato?

    «In lingua arbëreshë è usanza salutare il prossimo dicendo Rri mirë, ovvero “stammi bene”, e l’altra persona, come consuetudine risponde Me Shëndet” “con salute”. Infatti è proprio uno scambio di battute che ho riportato sul finale del corto. Augurare di star bene al prossimo credo sia un concetto di umanità, oggi più che mai da ribadire. È un pianeta ammalato sotto tutti i punti di vista il nostro: ecologico, salute delle persone – questa pandemia ne è l’esempio più lampante – ma soprattutto è ammalato nelle relazioni verso il prossimo. L’individualismo è forse la malattia peggiore. Mi piace pensare che ognuno di noi possa avvertire l’esigenza di augurare al prossimo di star bene».

    Davide Imbrogno, filmaker di San Benedetto Ullano
    Davide Imbrogno, film-maker di San Benedetto Ullano
     Cosa significa valorizzare luoghi e culture originarie in un tempo attraversato dal sovranismo identitario?

    «La parola identità è un termine bellissimo. Attraverso l’identità ognuno di noi si distingue dall’altro. Le persone, i luoghi, le comunità, senza identità non avrebbero la propria cultura, le proprie tradizioni. Ma oggi la parola identità viene strumentalizzata spesso dalla politica. L’identità viene confusa con il concetto di difesa dei confini e questo ci induce a pensare, e credere, che le identità altrui siano quasi una minaccia per la nostra. Credo che bisogna solo essere consapevoli di ciò che siamo, e, questo, deve portarci ad esser consapevoli di comprendere il prossimo. Nel corto ho parlato di accoglienza, di confronto. Non a caso partendo dall’identità arbëreshë – ho voluto inserire all’interno del film altre culture, altre storie – apparentemente differenti dalla nostra. La comunità di San Benedetto Ullano da anni accoglie il prossimo, ne è un esempio il lavoro magistrale che sta compiendo lo Sprar accogliendo ragazzi provenienti da tutto il mondo. E anche loro sono stati protagonisti del corto. San Benedetto è stato un luogo che cinquecento anni fa ha accolto gli arbëreshë in fuga, oggi accoglie ragazzi che provengono dall’Africa, dal Pakistan ecc. Credo che questo sia uno degli aspetti principali dell’identità di San Benedetto Ullano: accogliere il prossimo. Non trovi meraviglioso tutto questo?».

    Personaggi del corto di Imbrogno in costume tradizionale di San Benedetto Ullano
    Personaggi del corto di Imbrogno in costume tradizionale di San Benedetto Ullano
    Non sono pochi i registi teatrali e cinematografici, nonché i fumettisti – mi riferisco a quelli non indigeni -, che negli ultimi anni sono venuti quaggiù a descrivere le Calabrie o ad ambientarvi i loro lavori. Riproponendo scenari da Grand Tour, alcuni ne hanno inquadrato la componente selvatica, altri quella malavitosa, pochi sono andati però alla ricerca di una bellezza scevra da riflessi esotici o maligni. Ma è davvero così complesso ascoltare e far parlare questi territori?

    «Non credo sia così complesso, dipende da ciò che si vuole narrare. Credo che si possa fare del marketing territoriale senza cadere nello stereotipo dei paesaggi – stile servizio televisivo da trasmissione pomeridiana come “Geo e Geo” (con tutto il rispetto per la trasmissione). I paesaggi, le bellezze mozzafiato le possiede la Calabria, e le possiedono i luoghi di tutto il mondo. Puoi far vedere ogni bellezza, da quella paesaggistica a quella culturale, cercando di raccontare il tutto con un punto di vista differente da quello comune. Altrimenti rischiamo di finire nello stereotipo. Non è ciò che fai vedere o ciò che racconti, la differenza sta nel “come” esponi un luogo. Non sono un documentarista e non sarei capace di realizzare un documentario. Amo raccontare un luogo attraverso le sensazioni che quel luogo mi trasmette. Ad esempio nel film, a metà racconto, la protagonista si imbatte in un sogno. Per uno spettatore che non conosce San Benedetto Ullano e la cultura italo-albanese può apparire che quelle immagini siano frutto della mia fantasia. In realtà quelli sono luoghi, tradizioni, persone, costumi, canti arcaici appartenenti alla nostra cultura. Avremmo potuto far vedere il tutto attraverso delle immagini di reportage. Invece lo abbiamo fatto attraverso un linguaggio onirico. Magari piacerà, o magari no, ma il concetto non è se piace o non piace, il concetto è quello di mostrare le cose attraverso la scelta di un lessico che sia differente rispetto a quelli usati e strausati fino ad oggi. Questo crea la differenza tra un’opera o un’altra. Al di là di qualsiasi valore estetico».

    L'incrocio tra culture raccontato nel cortometraggio di Davide Imbrogno
    L’incrocio tra culture raccontato nel cortometraggio di Davide Imbrogno
    Questo tuo ultimo film, al di là di qualsiasi tentazione polemica, rappresenta anche una risposta al cortometraggio del regista Muccino. Ti è piaciuto il suo lavoro commissionato dalla Regione?

    «Non era la mia intenzione dare una risposta al corto di Muccino. Sarei un megalomane se pensassi questo. In primis vista la differenza di budget e quindi di strumentazione, produzione ecc. e di esperienza e talento che un regista come Muccino possiede. Detto ciò… il corto di Muccino non mi è piaciuto. E non solo per tutti gli stereotipi presenti nel racconto, ma soprattutto perché c’è sempre il concetto che dobbiamo essere noi “calabresi” a spiegare al prossimo cosa siamo e chi siamo – il personaggio di Raoul Bova che rientra in Calabria spiega e mostra alla compagna la nostra terra. È forse questo lo stereotipo più grande: spiegare agli altri chi siamo e cosa possediamo, facendolo apparire migliore rispetto a tutto il resto. Il bergamotto lo abbiamo solo noi e nessun altro! Penso che non ci sia forma di campanilismo peggiore».

    Se fosse toccato a te il compito di realizzare il corto di Muccino, quali linguaggi e contenuti avresti scelto?

    «Lo avrei raccontato attraverso “gli altri”. Non attraverso i calabresi. Mi sarebbe piaciuto fare una ricerca di tutte quelle persone, donne e uomini, provenienti da altre parti del mondo che hanno scelto per un motivo di vivere qui. Perché lo hanno fatto? Mi sarebbe piaciuto fare un corto sulle scelte altrui. Perché hai scelto di venire a vivere in Calabria? E attraverso le loro risposte, sono sicuro che si sarebbero mostrati paesaggi, cultura, luoghi, atmosfere, amore – perché ognuno di questi aspetti magari rappresenta il motivo di una scelta. Vedi, nel cortometraggio Me Shëndet tra i protagonisti c’è il mio amico Josh Gaspero, editore statunitense. Che dopo aver trascorso una vita in giro per il mondo, frequentando il jet set di New York, Los Angeles ecc. vent’anni fa ha scelto di venire a vivere ad Altomonte (CS), abbandonare la sua vita, la sua nazione, per trasferirsi in un borgo della Calabria. Penso che ci siano tante storie simili a quella di Josh. Sarebbe bellissimo raccontarle, e spiegare il perché di queste scelte. Perché si possa scegliere di vivere in un luogo piuttosto che in un altro, a maggior ragione se quel luogo non ti ha dato i natali».

    Posso chiederti quanto è costato produrre “Me Shëndet”?

    «È un corto low budget. Il comune di San Benedetto ha aderito ai contributi per la tutela e la valorizzazione delle lingue e del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche e storiche della Calabria – il contributo è stato di circa duemila e quattrocento euro. Il resto ho deciso di co-produrlo io, ringraziando anche tutto il cast tecnico ed artistico – che hanno creduto nel progetto e mi hanno agevolato nella realizzazione del film, condividendo il progetto. È un’opera realizzata con meno di 10 mila euro totali».

    In quali contesti circolerà? Dove e come sarà visionabile?

    «Per prima cosa la divulgazione sul web. Oggi è la forma di divulgazione mediatica che con costi bassi ti permette di divulgare al meglio, geo localizzando e “targettizzando” il tuo pubblico di riferimento. Inoltre abbiamo l’intenzione di portare il corto fuori attraverso la partecipazione a festival e non solo, ma anche coinvolgendo centri linguistici e multiculturali esteri».

    Di recente hai sposato la bellissima Sonia Tiano. Auguri! La tua musa è cantante ricca di talento e musicoterapeuta. Nella cura delle ataviche malattie sociali della Calabria, quanto possono contribuire la musica e le arti in genere?

    «Sarà felicissima mia moglie per questa domanda! Ti ringrazio. Credo che le arti siano non uno dei rimedi, ben sì siano il “Rimedio”. L’arte, non solo per coloro che la producono, ma soprattutto per coloro che ne usufruiscono (traendone beneficio), è lo strumento che può far scaturire nell’essere umano la curiosità. La curiosità è la chiave di volta. Pensa al mito della Caverna di Platone, pensa ad Ulisse. Platone faceva dire a Socrate, nell’Apologia “senza curiosità l’esistenza non è umana vita…”. Solo attraverso di essa possiamo approfondire, capire e cercare le soluzioni a tutte le malattie sociali che ci circondano. Auguro a tutti noi tanta curiosità, e che essa possa scaturire dall’arte, dalla cultura e dalla consapevolezza priva di qualsiasi forma di campanilismo di ciò che siamo e di ciò che vogliamo divenire».

  • Lina, una Rosa con le spine che pungono le mafie

    Lina, una Rosa con le spine che pungono le mafie

    Da ospite di una casa famiglia ad attrice protagonista del film Una femmina, che già suscita interesse ancor prima di uscire nelle sale cinematografiche. Poco più che ventenne, nata a Cariati, cresciuta a Cosenza nella struttura d’accoglienza “Madre Elena Aiello”, le suore ricordano Lina Siciliano con sincero affetto. E ne rimarcano la grande maturità nell’accompagnare la crescita dei suoi sei fratelli minori, anch’essi “figli” di una casa che da ormai quasi un secolo è divenuta famiglia per tantissimi minori in difficoltà.

    Una nuova vita

    Diretto dal regista Francesco Costabile, prodotto da Attilio De Razza, Pierpaolo Verga e Giampaolo Letta di Medusa, Una femmina è ispirato al libro Fimmine ribelli (Rizzoli) di Lirio Abbate, che insieme ad Edoardo De Angelis ne è anche sceneggiatore. Lina Siciliano interpreta Rosa, la ragazza che concentra nella propria vicenda le storie di donne calabresi ribelli alla ‘ndrangheta. In particolare, la tragedia di Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, uccisa nel 2011 dai suoi parenti che la costrinsero ad ingerire acido muriatico.

    lina-siciliano
    Lina Siciliano

    Lina oggi si è trasferita a Napoli, dove vive una storia d’amore con Fabio, uno stupendo ragazzo, e insieme hanno messo al mondo un bellissimo figlio. Non si è montata la testa. «Certo che mi piacerebbe continuare a fare l’attrice – spiega Lina – ma per il momento la mia è una vita fatta anche di sacrifici che sono orgogliosa e felice di compiere. Sono mamma quasi a tempo pieno. Ogni mattina lavoro come cassiera in un supermercato e il pomeriggio dedico tutta me stessa al bambino. Con un’entrata sola, non si riesce a farcela, così siamo in due a lavorare».

    Dalla casa famiglia al set

    L’esperienza in casa famiglia fortifica il carattere, ma rende laceranti sia i vuoti di affetto che le assenze materiali di beni e mezzi per condurre un’esistenza dignitosa. «Quando qualcosa manca – prosegue – lo si sente ancor di più. Io sono molto grata al regista Francesco Costabile che venne in casa famiglia per il casting. Dopo un primo provino, ce ne furono un secondo e un terzo. Alla fine arrivò una telefonata e seppi che ero stata scelta per interpretare Rosa, la protagonista di Una femmina. Un’altra persona fondamentale durante la realizzazione del film, che mi è stata molto vicina nel training, è la mia coach Assunta Nugnes».

    Per Lina non è stato difficile immedesimarsi nel personaggio: «Rosa ha avuto il coraggio di riscattarsi ed uscire dalla bolla, dalla prigione familiare, in cui si trovava. Dopo aver scoperto, grazie al suo intuito, la terribile verità che le era stata nascosta sin da bambina, ha trovato la forza di emergere dal marciume, con ogni mezzo necessario».

    Genitori degeneri e figli migliori di loro

    Il familismo ‘ndranghetista spesso contribuisce ad arruolare quei giovani che non hanno avuto solidi riferimenti familiari in fase di crescita. «Non bisogna però pensare che tutti abbiano lo stesso destino. Sono diverse – precisa Lina – le storie dei ragazzi allevati in casa famiglia. Non sempre si tratta di situazioni difficili provocate da condizioni di indigenza economica. A volte ci sono persone incapaci di dare affetto ai propri figli. Alcuni genitori non avrebbero voluto neanche generarli. Così, nella loro mentalità degenerata, le strutture d’accoglienza diventano discariche. Vi gettano queste giovanissime vite, tanto poi ci sarà qualcuno che provvederà a crescerle. Io ancora oggi non riesco a spiegarmi come si possa lasciare un figlio, una parte di sé. Però non è detto che i bambini abbandonati in casa famiglia debbano poi somigliare, nello stile di vita e nelle scelte, ai propri genitori».

    Non ha cattivi ricordi degli anni trascorsi con le suore del “Madre Elena Aiello”. «Al contrario, nella memoria conservo momenti bellissimi. È chiaro – chiarisce Lina – che ogni ospite sente la mancanza dell’amore che solo un papà e una mamma possono trasmettere. Manca il bacio della buonanotte, mancano i sentimenti più vivi, quelli primordiali. Eppure noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare educatrici che ci hanno trattato come se fossimo davvero figli loro. A me hanno dato la possibilità, oltre che di andare a scuola, anche di iscrivermi ai corsi di danza e all’università».

    Una spina che punge la ‘ndrangheta

    La parola passa ora alle sale cinematografiche ed ai festival. Il primo grande appuntamento è a Berlino, dove a febbraio 2022 alla presentazione ha riscosso il successo della critica e dei presenti. Dal 17 febbraio farà il debutto nelle sale italiane. Se anche il grande pubblico gradirà Una femmina, il volto di Lina Siciliano potrebbe assurgere a simbolo delle Calabrie come terre capaci di ribellarsi, non proprio identificabili con la regione che ha finanziato un costosissimo cortometraggio del regista Gabriele Muccino. A riflettersi nello sguardo austero e deciso di Rosa, piuttosto, sarebbe la terra di Marcello Fonte, cresciuto nel quartiere Archi di Reggio Calabria, premiato nel 2018 a Cannes per la sua magistrale interpretazione del “Canaro” in Dogman. E, forse, le spine di questa Rosa potrebbero anche contribuire a graffiare la millenaria egemonia culturale delle ‘ndrine.

     

     

  • Multe “pazze” ai residenti, a Cosenza è caos nelle Ztl

    Multe “pazze” ai residenti, a Cosenza è caos nelle Ztl

    Sarebbero più di tremila le multe “pazze” spedite in questi giorni ai cosentini residenti in ZTL. Contravvenzioni salatissime, con sanzioni che superano i 100 euro, sono recapitate a mezzo raccomandata a centinaia di famiglie che abitano nel centro cittadino. L’accusa è di aver violato i divieti di sosta e transito nelle zone a traffico limitato. Ma quasi tutti i destinatari della cartolina verde sono muniti di permesso regolarmente esposto dietro il parabrezza della propria automobile.

    Porte chiuse al Comando

    Dal municipio non si sono degnati sinora di emettere un comunicato per dare spiegazioni sulla valanga di verbali illegittimi. E il silenzio sta provocando non pochi disagi e preoccupazioni, soprattutto tra le persone anziane e disabili. L’accesso al Comando della polizia municipale non è consentito al pubblico fino al 31 luglio. Inoltre, a causa della scarsezza di personale, spesso al telefono non risponde nessuno.

    Come presentare ricorso

    Inoltrandosi nel labirinto delle reti informali, si apprende però che oltre a poter spedire (come indicato nel verbale) un’email a documentale.cosenza@pec.it, i ricorsi in autotutela devono essere inviati via pec a comunedicosenza.poliziamunicipale@superpec.eu.

    Problemi tra pubblico e privato

    Sulle cause del disservizio non esiste una versione ufficiale, ma pare che ci sia un problema nel “ribaltamento” dei dati. Si chiama così in gergo tecnico il versamento da un anno all’altro dei numeri di targa delle automobili munite di parking card e permesso di sosta temporanea in ZTL. Il bug nel sistema deve essersi verificato tra l’ufficio Mobilità del Comune e la società privata di gestione dei dati.

    Dal portale del Comune di Cosenza si apprende che concessionaria del “Servizio e hosting per applicativi in uso al comando della polizia locale 2019-2020” è la Verbatel. Non è dato sapere se sia questa l’azienda tuttora impegnata nell’aggiornamento della banca dati alla quale attingono i vigili quando dalle videocamere a circuito chiuso rilevano un’infrazione e la verbalizzano.

    Di certo, a fare due conti, la sola spedizione delle raccomandate recanti le multe illegittime è costata migliaia di euro. Ma, si sa, le dissestate casse di Palazzo dei Bruzi possono permettersi questo e altri sperperi. Tanto c’è ancora chi si ostina difendere l’affidamento ai privati dei servizi comunali.

  • Scuola: pensavo fosse aiuto, invece era l’Invalsi

    Scuola: pensavo fosse aiuto, invece era l’Invalsi

    «È arrivato l’esito del tampone dei colleghi del corso B?». «Si è positivizzata quella ragazza della terza E». «Hanno intubato il papà del mio alunno». «Dobbiamo chiedere al DSGA di comprare un nuovo termometro. Questo qua non funziona». «C’è un alunno che mi è sparito in DAD ed è sempre assente pure in presenza».
    Nei primi mesi della scorsa primavera, ci siamo resi conto che a scuola era cambiato persino il nostro lessico. Nei corridoi non si parlava più di scrutini, visite guidate e libri di testo. Senza volerlo, ci eravamo ospedalizzati.

    Era il prezzo da pagare, pur di riaprirla dal vivo, la scuola. E quasi rimpiangevamo gli abituali problemi del tempo pre-Covid. Prima del 2020, quando una classe rimaneva “scoperta” per pochi secondi, te ne accorgevi dal fracasso che sentivi provenire dall’interno. Invece, distanziamento e mascherine hanno azzerato pure l’agrodolce frastuono che spumeggia da un’aula imbottigliata di ragazzi quando al cambio dell’ora salta il tappo del prof.

    Tuttavia, la scuola siamo riusciti a rimetterla in piedi. È chiaro che il rischio di contagi non si può annullare, ma basta un po’ di fantasia, pochi accorgimenti e si riduce tantissimo. Sebbene sia davvero difficile insegnare senza giochi didattici, laboratori e gite scolastiche, ci siamo adattati. «Adesso è così, ma passerà», ci dicevamo.
    Così, dove è stato possibile, abbiamo trasferito banchi, cattedre e lavagne all’aperto. Entusiasti i ragazzi e le ragazze, sono tornati a sorridere sotto le mascherine. In palestra, la collega di Scienze motorie ha dovuto rinunciare alle attività di gruppo, eppure in qualche modo ha mantenuto in movimento gli alunni con il training e gli sport individuali.

    Docenti? No, Invalsi

    Tra aprile e maggio 2021, in tutte le segreterie e nelle presidenze delle scuole alla prese con quarantene, classi spezzate e telefonate di genitori isterici, intravedendo l’ormai prossima conclusione di un tortuoso anno scolastico, i primi timidi sospiri di sollievo per aver scampato il rischio di focolai Covid sono stati mozzati dalla domanda di sempre: a settembre dal Miur ci manderanno i docenti per coprire tutte le classi?
    E il Ministero come ha risposto a questa istanza? Semplice, ci ha mandato le prove Invalsi, i diabolici quiz che in teoria dovrebbero misurare qualità e quantità dell’insegnamento attraverso il grado di apprendimento raggiunto dagli studenti.

    Fin qui, non ci sarebbe nulla di anomalo. In fondo, ad inviarci i quiz è lo stesso Stato che un anno fa acquistava cacciabombardieri F35 mentre gli ospedali erano al collasso. Il problema però è che la “somministrazione” (si dice proprio così in gergo scolastico, quasi fossero medicine) delle prove Invalsi, ogni anno, destabilizza l’organizzazione delle singole scuole, impegnando migliaia di docenti in procedure digitali snervanti ed avulse dalla didattica, distraendoli dal reale compito che dovrebbero svolgere: insegnare. Soprattutto in quei mesi difficili, a molti di loro le Invalsi hanno impedito di stare vicini, per quanto fosse possibile, ai ragazzi.

    Dai banchi a rotelle alle colonie estive

    E lo show dei vertici della scuola pubblica italiana è andato oltre. Avrebbero potuto e dovuto eliminare gli adempimenti burocratici più insulsi: i vari PTOF, RAV, GLI, PEI, NIV. Invece, li hanno pretesi tutti! E mentre il mondo intero guardava con sospetto il vaccino Astrazeneca, ce lo siamo fatto iniettare con bramosia. Una volta tanto accomunati ai “poliziotti proletari decantati da Pasolini”, ci è toccato pure leggere e sentire che ancora una volta noi insegnanti saremmo dei “privilegiati”, perché ci è stato somministrato prima di tutti gli altri cittadini.

    Nelle scuole medie, per molti di noi è stato disposto il richiamo della vaccinazione con 10 giorni d’anticipo rispetto ai tempi prestabiliti, pur di evitare che eventuali effetti collaterali complicassero lo svolgimento degli esami di terza, ridotti a una pantomima. Poco male. Non ha desistito la tecnocratica catena di comando che a suo tempo ideò i banchi a rotelle. Invece di rispondere alle domande di tanti presidi sulle modalità organizzative per riavviare la didattica dal vivo e in sicurezza a settembre, ci ha mandato i soldi per aprire le colonie estive, ammantando questa pietistica prassi con le solite paroline magiche: “rinforzare, potenziare, competenze, recuperare”.

    Quale Dad senza connessione?

    Frattanto, la Regione ci bombardava di ordinanze e distribuiva tablet, fingendo di non sapere che nel Paese in coda alla classifica degli Stati dell’UE per accesso ad internet, la Calabria è la meno connessa di tutte le regioni: soltanto il 67% delle famiglie riesce a navigare on line. Se ne sono accorti a fine anno scolastico tanti insegnanti ultras della bocciatura, che avrebbero voluto conteggiare le assenze effettuate dai loro alunni in DAD, pur di motivarne la non ammissione all’anno successivo. In fase di prescrutini qualcuno ha fatto notare che per impugnare una bocciatura dinanzi a un giudice, e ottenerne l’annullamento, basterebbe la perizia di un tecnico informatico attestante la precaria connessione nell’abitazione dell’alunno bocciato.

    Anche di queste problematiche si discuteva nei corridoi delle scuole italiane nella primavera scorsa. Tra gli insegnanti nei quartieri popolari e nelle periferie, in tanti si chiedevano soprattutto come recuperare i ragazzi e ragazze che hanno abbandonato le lezioni nei mesi della pandemia. Sono gli stessi alunni che negli anni prima della pandemia era stato faticoso ma appagante riportare tra i banchi. E adesso sono spariti di nuovo, marginalizzati da un virus che si accanisce sulla povertà ed alimenta ignoranza. Ma di tutto ciò ai tecnocrati assoldati dal Miur non interessa niente. Bisogna fare i quiz e recarsi genuflessi all’oracolo dell’Invalsi.

     

  • Guarascio, il signore dei rifiuti andato nel pallone

    Guarascio, il signore dei rifiuti andato nel pallone

    Non ci sono più gli imprenditori di una volta. In provincia è finito il tempo in cui qualcuno inventava un prodotto o un servizio, lo lanciava sul mercato e se aveva successo ne traeva profitto, dando lavoro in maniera più o meno onesta a un po’ di persone. Dalla fine dello scorso millennio ovunque si è affermata una nuova leva di aziende che fanno dell’intermediazione il loro punto di forza. Assorbono risorse pubbliche per ruminarle in attività indipendenti dalla forbice tra domanda e offerta. In Messico li chiamano “coyote”.

    Le fonti di energia più o meno rinnovabili, lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, il calcio e la sanità hanno tra di loro qualcosa in comune. Essendo beni e servizi che comportano una domanda inesauribile, le imprese impegnate in questi settori possono dettare le condizioni dell’offerta. È la più classica delle cornucopie.
    A quale delle due tipologie di imprenditori appartiene Eugenio Guarascio? A quella classica, dei produttori di farina, vino o liquori, che in provincia di Cosenza non sono mai mancati? Oppure alla nuova leva delle imprese sagaci? Egli stesso, nella sua autobiografia, così ama definirsi: «lungimirante».

    Calcio e spazzatura, un binomio ad alto rischio

    Tutti sanno che esiste un forte legame tra il football cosentino dell’era Guarascio e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Proprietaria del Cosenza Calcio è infatti la 4el Group, con sede a Lamezia Terme. Come tutte le holding, essa controlla altre società che possono far parte di un unico processo produttivo oppure operare in settori indipendenti. Ed è proprio qui che sta il problema.

    L’errore più grave che il signor Guarascio abbia commesso in questi anni consiste nel “modus operandi”, per usare un termine caro a un’altra delle società da lui guidate: la Hexergia che mette a disposizione il suo «know how, come general contractor, per realizzare insieme alle imprese locali l’efficientamento energetico richiesto dal superbonus 110%».

    Sempre nobili propositi, quindi, subordinati però alla circolazione di fondi pubblici. Pensare di poter gestire una società di calcio come un’azienda di smaltimento dei rifiuti è un atto di presunzione. Già tanti, in altri contesti geografici, lo hanno pagato caro. E con essi, soprattutto, a farne le spese sono state le tifoserie legate ai colori di quelle società. Retrocesse, fallite, in alcuni casi cancellate dal panorama calcistico nazionale.

    La strana coppia

    Fu il sindaco Mario Occhiuto, all’inizio dello scorso decennio, a instradare male Guarascio. Gli propose di assumere la guida di un cammino, quello del Cosenza Calcio, che da ormai tanti anni sbandava tra fallimenti, inchieste giudiziarie e conduzioni avventuriere. L’appalto da circa 8 milioni di euro per lo smaltimento dei rifiuti, a suo tempo aggiudicato alla società Ecologia Oggi di Eugenio Guarascio, certificava la sua capacità potenziale di “far girare i soldi”. E chi, se non un uomo dotato di questa disponibilità economica, potrebbe accollarsi un’impresa ardua come una società calcistica dalla tormentata storia recente? Occhiuto ha però tralasciato di spiegare a Guarascio che il football è una cosa, l’immondizia un’altra.

    La trattativa tra Guarascio e… Guarascio

    Anche il calcio produce energia rinnovabile, ma è una fonte sociale. Oltre a denaro e pallonate sforna simboli, miti, relazioni, linguaggi e comportamenti non sempre monetizzabili. Ed è l’unico campo della vita pubblica e dell’economia sottoposto al controllo popolare. Se in Italia la politica, la sanità e la scuola riscuotessero lo stesso livello di attenzione e monitoraggio che la cittadinanza riserva al calcio, questo Paese forse potrebbe divenire una democrazia meno incompiuta. È improbabile che un gruppo spontaneo di cittadini si organizzi per studiare il bilancio del Comune di Cosenza. Di solito si delega questo compito ai consiglieri, la maggioranza dei quali lo fa poco e male.

    «È opportuno aver dato corso alla transazione su una parte di credito vantato dal Cosenza Calcio nei confronti di Ecologia Oggi, tuttora top sponsor della società, derivante appunto da sponsorizzazione, di ben 450mila euro? In pratica si è fatta una transazione con se stesso, del tutto lecita per carità, ma opportuna?»

    Invece nulla sfugge ai tifosi sinceri. Inchiodanti, tanto per formulare un esempio, sono le domande di recente poste dal blog La Bandiera rossoblù a Eugenio Guarascio in merito al bilancio della società rossoblu nel 2018: «È opportuno aver dato corso alla transazione su una parte di credito vantato dal Cosenza Calcio nei confronti di Ecologia Oggi, tuttora top sponsor della società, derivante appunto da sponsorizzazione, di ben 450mila euro? In pratica si è fatta una transazione con se stesso, del tutto lecita per carità, ma opportuna? […] Presidente, da un’attenta analisi dei conti societari si evince che, a fronte di un risparmio maniacale sul lato sportivo che ha contraddistinto il Suo operato da quando è amministratore del Cosenza Calcio, certificato dai budget più bassi della categoria che annualmente mette a disposizione dei Suoi collaboratori, si registra probabilmente uno spreco in altri settori, dove i costi per servizi e oneri diversi di gestione rappresentano quasi la metà delle uscite societarie e risultano essere di gran lunga superiori rispetto a società che hanno costi più consistenti».

    Mario & Eugenio, nemiciamici

    Ecco perché Occhiuto avrebbe dovuto essere più chiaro col suo amico Eugenio tanti anni fa, a costo di apparire brusco e perentorio. Invece, il loro sodalizio non è mai entrato davvero in crisi. I rapporti tra i due non si sono incrinati tutte le volte che Ecologia Oggi ha tardato nel retribuire i suoi dipendenti. Né quando la città ha vissuto giornate di emergenza nella raccolta dei rifiuti. Guarascio ha scaricato le responsabilità su Palazzo dei Bruzi, che in questi anni di soldini gliene ha versato tanti, al di là dei fisiologici e congeniti ritardi della pubblica amministrazione. La base d’asta del capitolato d’appalto prevede 6.696.321 euro solo per la retribuzione del personale. Ai costi di gestione delle attrezzature (mastelli, carrellati ecc.) sono destinate 152.943 euro. Soltanto per le buste se ne spendono 252.240 e 1.351.787 in automezzi.

    Il loro rapporto di amicizia si è ricomposto anche dopo lo scaricabarile in mondovisione, all’indomani della figuraccia galattica rimediata il 1° settembre 2018, quel Cosenza-Verona che avrebbe dovuto consacrare il ritorno della città in serie B, invece non si disputò e finì 3-0 a tavolino per gli scaligeri a causa dell’impraticabilità del manto erboso, un evento inedito nella storia del calcio italiano.

    Il progetto del nuovo stadio del Cosenza

    E Mario ed Eugenio non hanno litigato nemmeno quando il sindaco propose all’imprenditore un oneroso investimento nel project financing che avrebbe dovuto partorire il nuovo stadio “San Vito-Marulla” a gestione privata. Il progetto sfumò forse anche per l’incapacità di trovare un attore locale. Del resto, Guarascio era stato chiaro sin dall’inizio. Lui di calcio capisce poco e niente. Avrebbe svolto il suo “compitino” riportando la squadra nel professionismo ma lasciandola galleggiare. Si sarebbe guardato bene dall’effettuare spese pazze, badando soprattutto a mantenere in equilibrio il bilancio societario.

    Cambia la categoria, non il modus operandi

    La svolta è avvenuta inattesa, quasi per caso o comunque in conseguenza di quello che all’unanimità è stato definito un “miracolo sportivo”: la promozione in serie B del Cosenza 2017-18, allenato da mister Braglia. È stato a quel punto che Guarascio s’è reso conto di quanto possa divenire redditizio questo “settore” della sua holding.

    Peccato, però, che abbia coltivato l’assolutistica pretesa di mutuare il modus operandi dalla sua impresa attiva nello smaltimento dei rifiuti: poche le risorse impegnate nella valorizzazione del personale e nella comunicazione, scarsissimo rischio negli investimenti, strategia del salvadanaio, massimo del risultato da ottenere col minimo sforzo economico. Nei rifiuti questo è possibile, nel calcio no.

    Tutta colpa dei cosentini

    Sia Guarascio che Occhiuto diranno che se in città la raccolta differenziata non sempre è svolta in modo “europeo”, e le nostre strade spesso sono punteggiate da mini-discariche condominiali, la colpa non è né del Comune né di Ecologia Oggi. Ma a entrambi bisognerebbe chiedere se le campagne di sensibilizzazione pubblica per favorire il corretto svolgimento della raccolta differenziata, previste e finanziate dal capitolato d’appalto, siano state effettuate davvero in modo incisivo. Perché è chiaro che se la cittadinanza fosse stata educata alle buone pratiche, maggiore sarebbe la domanda di mastelli, sacchetti per il conferimento e ritiro degli oli esausti a domicilio.

    Se la richiesta dall’utenza non c’è, sebbene il servizio sia predisposto, l’erogatore non è tenuto a procedere con l’erogazione del servizio, quindi può risparmiare sui costi di lavorazione. Quanti mastelli e quante buste rimangono “nella pancia” di Ecologia Oggi perché nessuno ne fa richiesta? Eppure appaltante e appaltatore dovrebbero avere interesse a incentivare la differenziata. Nel capitolato Palazzo dei Bruzi riconosce a Ecologia Oggi detrazioni per 668.450 euro di ricavi annui derivanti dal conferimento di materiali riciclabili alle piattaforme Conai.

    A beautiful mind

    Riversare questa “filosofia” da imprenditore stop and go nel football è il vero peccato mortale del signor Guarascio. Nello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, quando un dipendente è inviso ai superiori o poco compatibile con l’azienda, lo si licenzia. Nell’impresa del pallone questa prassi è impraticabile. Contano i risultati sul campo, altrimenti l’enciclopedia mondiale del calcio non conterrebbe le sacre icone di Paul Gascoigne e George Best. E dalle nostre parti, non avremmo mai potuto osannare talenti come Michele Padovano e Marco Negri.

    Nella valorizzazione dell’immondizia si può fare a meno di una figura geniale come Ilenia Caputo che aveva contribuito notevolmente a costruire il brand Cosenza Calcio. E si può rinunciare ad assumere un direttore generale. Nel football del terzo millennio si ha bisogno più di siffatte figure che del pallone per giocare. Ma questo a Guarascio nessuno lo ha spiegato. E siccome egli stesso definisce la propria mente «brillante e carismatica», è chiaro che ritiene di non aver bisogno di consiglieri.

    È un vero peccato. Quel che manca a lui come a tanti imprenditori del nostro tempo è una formazione umanistica. Se l’ecologico patron avesse letto Pasolini, Galeano, Desmond Morris o i nostri Francesco Gallo e Francesco Veltri, chissà, forse il Cosenza avrebbe meritato sul campo la permanenza in serie B.