Autore: Claudio Dionesalvi

  • Cosenza vecchia, una legge da 275 milioni di euro per salvarla

    Cosenza vecchia, una legge da 275 milioni di euro per salvarla

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    Una legge nazionale per Cosenza vecchia. A presentarla è la deputata pentastellata Anna Laura Orrico, firmataria insieme ai colleghi Alessandro Melicchio e Carmelo Massimo Misiti della proposta n° 3544, “Interventi per la tutela, il risanamento ambientale e la rigenerazione urbana, sociale ed economica del centro storico della città di Cosenza”.
    È noto che il quartiere da tanti anni versa in uno stato di abbandono e incuria. Questo degrado non è solo paesaggistico. Miete vittime nelle case e sulle strade. È una situazione che costituisce inoltre una minaccia per la pubblica incolumità.

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    Un angolo di Cosenza vecchia, tra antichi palazzi e crolli (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    La proposta di legge per Cosenza vecchia

    Preso atto di questa immensa problematica e delle notevoli potenzialità che emergerebbero dalla sua risoluzione, il primo rigo della proposta di legge suona come un passionale squillo di tromba, un appello alle sensibilità. E contiene tutto lo spirito dell’iniziativa: «ONOREVOLI COLLEGHI! – Il centro storico di Cosenza rappresenta un patrimonio storico-culturale straordinario del nostro Paese».

    Chiara la finalità dell’atto politico, enucleata nell’articolo 1: «La coesione e l’inclusione sociale, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio storico e culturale del centro storico di Cosenza, favorendo il riuso di complessi edilizi e di edifici pubblici o privati, in stato di degrado, di abbandono, dismessi o inutilizzati, incentivandone la riqualificazione fisico-funzionale, la sostenibilità ambientale e il miglioramento del decoro urbano e architettonico complessivo».

    Poteri al prefetto e 275 milioni in tre anni

    Per il raggiungimento degli obiettivi, l’articolo 2 conferisce pieni poteri al prefetto e disegna anche la struttura organizzativa che avrà a disposizione, “composta dal commissario straordinario, dalla cabina di regia per il coordinamento istituzionale, dalla segreteria tecnica di supporto e dal tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale”.
    Interessante “il coinvolgimento e la partecipazione di soggetti pubblici, privati, del Terzo settore e della cittadinanza attiva nei processi di coprogettazione degli interventi”, previsti dall’articolo 3.

    L’annosa questione degli edifici privati fatiscenti di Cosenza vecchia, sui quali l’amministrazione comunale non può o non vuole intervenire, è affrontata una volta per tutte all’articolo 10 della proposta di legge: «La struttura commissariale può procedere all’esproprio di beni immobili, fabbricati e terreni, situati all’interno ai sensi del comma 1 dell’articolo 6, che versano in stato di degrado, di abbandono o di rischio per la salute pubblica, quando, avvisati i proprietari, trascorsi inutilmente sessanta giorni dalla notifica, questi non comunicano l’intenzione di procedere al risanamento del bene. Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano anche nel caso in cui i proprietari non sono rintracciabili».

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Infine, il capitolo più delicato, relativo ai fondi pubblici da reperire e destinare alla maxiopera di risanamento e rilancio. È trattato nell’articolo 11: «È autorizzata la spesa di 150 milioni di euro per l’anno 2022, di 75 milioni di euro per l’anno 2023 e di 50 milioni di euro per l’anno 2024».

    La bella addormentata

    «Come mai tutti queste saracinesche sono abbassate?». Con teutonico accento e gli sguardi rivolti a corso Telesio, estasiate dalla bellezza della «Chìesa matre», appollaiate sul sagrato del duomo, due turiste tedesche interrogano Giulia, giovanissima studentessa calabrese di terza media, che con loro conversa in un perfetto inglese. La ragazza chiede supporto agli adulti: «Prof, questa non la so. Dimmi che cosa devo rispondere, così glielo traduco». Si rimane senza parole nel tentativo di spiegare ai forestieri com’è possibile che cotanta urbana bellezza sia appassita nel tempo.

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    Il duomo di Cosenza (foto A. Bombini) – I Calabresi

    E ci si aggrappa a quel poco che rimane in piedi e resiste: lo storico caffè Renzelli, la bottega di articoli religiosi di Umile Trausi e quella del maestro pittore Giuseppe Filosa, il rinato Shiva Shop del mitico “Rico” Mazzei, il palazzo Tarsia restaurato su iniziativa dei vulcanici e mai domi linguisti Marta Maddalon e John Trumper. Su corso Telesio e nei dintorni, quel poco di vita sociale e culturale che rimane è stato generato dalla libera e spontanea iniziativa di associazioni e privati cittadini.
    Ampie boccate d’ossigeno sono state originate dalle iniziative di Villa Rendano e dalla scuola estiva dell’Unical.

    La legge, i progetti e… Cosenza vecchia si svuota

    Di recente, il neosindaco Franz Caruso ha annunciato «l’affidamento della progettazione degli ultimi quattro interventi del Contratto Istituzionale Sviluppo».
    Riguarderanno la riqualificazione della Villa vecchia e delle altre aree verdi del centro storico, la sua fruibilità turistica, la riqualificazione di Piazzetta Toscano e la riapertura della Biblioteca civica. La notizia è stata accolta dai cosentini col tradizionale scetticismo.
    È un’incredulità più che motivata. Ed è corroborata dall’inquietante censura sull’argomento, imposta dagli uffici locali di certi apparati dello Stato.

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    L’ingresso della Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Aleggia la convinzione che un serio intervento istituzionale sia imprescindibile. Lo invocano intellettuali e professionisti. Lo chiedono con dignità e rabbia le cosentine e i cosentini rimasti a vivere nell’antica città. Erano 10.028 nel censimento Istat 2011. Oggi pare siano ridotti a poco più della metà. Sanno bene che Cosenza vecchia non avrebbe nulla da invidiare a centri storici come quelli di Matera, Ragusa e Lecce. Se la proposta di legge per Cosenza vecchia presentata da Anna Laura Orrico e colleghi, in questa o nella prossima legislatura, trovasse perlomeno il sostegno degli altri parlamentari calabresi e meridionali, potrebbe contribuire a riaprire una finestra di speranza su uno dei luoghi più suggestivi del meridione.

  • Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

    Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

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    Segregati in casa o rinchiusi in manicomio, in Calabria come altrove. Nel ‘900 le famiglie dei “matti” avevano poche alternative. Dovevano tenerli nascosti, rassicurare i condomini, sfuggire agli sguardi e alle occhiate compassionevoli. Oppure internarli. Non si era ancora imposta la necessità di un linguaggio meno incline alla barbarie. Non si discuteva se fosse più giusto chiamarli disabili, diversamente abili o persone con disabilità. Li definivano “spastici”, “handicappati”, “anormali psichici”. Questi termini coprivano un arco ampio di casi, dalla sindrome di Down al ritardo mentale, passando per le menomazioni fisiche e i disturbi della personalità. Addirittura qualcuno scambiava ancora le sofferenze cerebrali per possessioni demoniache.

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    Reggio Calabria: l’Istituto di rieducazione per anormali psichici, manicomio cittadino (foto Rosario Cassala)

    «Ti chiudo a Girifalco»

    Il paesino di Girifalco, a partire dalla seconda metà dell’800, divenne così un’antonomasia. Se Gorgonzola è sinonimo di formaggio e Verona evoca l’amore di Giulietta e Romeo, «ti chiudo a Girifalco» in Calabria voleva dire che non stavi bene con la testa e rischiavi di finire in manicomio. Oggi lo stigma del disagio psichico rimane. Chi ne soffre, tende a dissimulare. E i suoi parenti lo circondano con una silenziosa cappa protettiva.

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    Girifalco, un internato e un cane sdraiati nel cortile della struttura (foto Rosario Cassala)

    Eppure il clima intorno alle patologie psichiatriche sembra in parte mutato. Il merito è dei tanto vituperati anni Settanta: il decennio del “Vogliamo tutto” e dell’insurrezione contro i poteri dello Stato impose anche conquiste civili e diritti inediti: lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’interruzione di gravidanza. E la legge 180 del 1978, che poi ha portato alla chiusura dei manicomi.

    La Calabria da manicomio di Lombroso

    «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere», scrisse Franco Basaglia, padre della rivoluzione nell’ordinamento negli istituti psichiatrici.

    In Calabria il manicomio di Girifalco fu istituito nel 1881, quando le teorie di Cesare Lombroso si stavano radicando nel resto del Paese: la forma del cranio dei calabresi, le arcate sopraccigliari, l’irregolarità del volto e degli zigomi sarebbero segni evidenzianti la nostra natura di “razza criminale”. Lombrosiani furono i direttori del manicomio. A esso lo storico Oscar Greco ha dedicato un’opera monumentale, I demoni del Mezzogiorno (Rubbettino Editore).

    «Quando avviai la ricerca nell’archivio di Girifalco – spiega Greco, docente universitario di Storia contemporanea – provai sensazioni forti. Mi ritrovai tra le mani le cartelle cliniche, quindi la vita delle persone, le ingiuste detenzioni, gli assurdi principi lombrosiani in base ai quali furono internati tanti uomini e in particolare moltissime donne che di folle non avevano niente. Furono recluse solo perché non accettavano la condizione di madre, angelo del focolare e tutto ciò che nella cultura maschilista dell’epoca le relegava in una condizione di subalternità. In più, da calabrese prima ancora che da studioso, rimasi sbigottito dinanzi alle descrizioni aberranti delle caratteristiche somatiche dei malati».

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    In manicomio a Reggio Calabria si finiva pure per la propria identità non conforme alla morale comune (foto Rosario Cassala)

    La legge Basaglia e il lager calabrese

    Potrà sembrare strano, ma all’epoca erano proprio le convinzioni protosocialiste a ritenere valida questa catalogazione sociale di impronta razzista. La ricerca di Greco sta adesso riguardando la fase finale dell’esperienza di Girifalco, quella della sua chiusura. «Ci sono dei chiaroscuri. La legge Basaglia – prosegue Greco – affidava alle Regioni il compito di provvedere ai loro cosiddetti pazzi. Possiamo immaginare la Regione Calabria, con ancora l’eco della rivolta di Reggio, quali provvedimenti adottò negli anni successivi al 1978. Praticamente nessuno! Nel 1992 un deputato dei Verdi, Edo Ronchi, effettuò delle ispezioni. A Girifalco non lo lasciarono entrare, lui chiamò i carabinieri ed entrò con i militari nel manicomio. Scoprì un lager».

    Una vita da pazzi

    Da quel momento iniziò un «doloroso percorso di chiusura. Si rimossero le sbarre dalle finestre, però – continua Greco – mancava il personale che si occupasse di questi pazienti. Il manicomio non era più una struttura provinciale, bensì terra di nessuno. Si assistette a fughe e suicidi. Oggi sono rimasti circa 20 pazienti, perlopiù anziani. Alcuni di loro, quattro per la precisione, erano presenti già ai tempi dell’approvazione della legge Basaglia. Sono ormai istituzionalizzati in quel luogo. Per loro il tempo è stato scandito dai cicli dei diversi direttori. Quando con la memoria ripercorrono il passato, identificano ogni periodo con la qualità dei pasti nel refettorio, se si mangiasse meglio o peggio.

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    Nel cortile del manicomio di Reggio Calabria (foto Rosario Cassala)

    Fuori da lì non hanno più parenti. Se uscissero, chi se ne prenderebbe cura? Non concepiscono una vita diversa da quella della clinica psichiatrica, perché le loro esistenze si sono svolte al suo interno. Hanno perso una dimensione della libertà, anche se mi chiedono come si stia fuori. Un paziente, in particolare, mi dice spesso che i veri pazzi siamo noi, quelli che viviamo all’esterno, nel cosiddetto mondo dei normali».

    Il paese della follia

    Un ulteriore radicale cambiamento di scenario potrebbe avvenire dal prossimo 1° luglio, quando a Girifalco aprirà la Residenza Esecuzione Misure Sicurezza, attigua all’ex manicomio. In Calabria ce n’è già una.
    «C’è grande attesa. Su questo tema – chiarisce Greco – la comunità è spaccata. Girifalco tiene molto a essere riconosciuto come paese della follia. E ne va orgoglioso. Anche in anni precedenti alla Basaglia, promosse un inedito modello di integrazione. La Rems è diversa. Non ci sono i pazzi “buoni”, bensì quelli potenzialmente “cattivi”, provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che si sono macchiati di crimini. È un carcere a tutti gli effetti, un’istituzione totale. Grandi sbarre, recinzioni altissime, videosorveglianza. Gli abitanti di Girifalco hanno dovuto accettare questo tipo di struttura e sperano che, come è già avvenuto un secolo fa col manicomio, la Rems possa diventare anche un’occasione di lavoro».

    Lo stereotipo capovolto

    Questo Comune ha saputo ribaltare i pregiudizi regnanti intorno al disagio psichico. Sin dall’inizio, infatti, la direzione del manicomio favorì la coesistenza dei pazienti col resto della popolazione e un percorso terapeutico fondato sulle porte aperte e sull’ergoterapia, cioè il trattamento basato sul lavoro collettivo. «È un paese che vive – conclude lo storico – e si è costruita una sua identità nel rapporto con la follia. Ha pure istituito un premio letterario che ha scelto la pazzia come tema. È stato ideato dallo scrittore Domenico Dara.
    I suoi primi romanzi, per esempio Appunti di meccanica celeste (Nutrimenti Edizioni), sono ambientati a Girifalco. È la sua Macondo».

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    Un uomo rinchiuso a Girifalco mostra i suoi appunti (foto Rosario Cassala)

    Prigionieri del silenzio

    Un eccezionale lavoro di ricerca sulle immagini e i corpi è stato realizzato da un altro calabrese, il fotografo Rosario Cassala. Negli anni Ottanta produsse un reportage negli istituti calabresi che all’epoca si chiamavano ancora di “igiene mentale”. In quello di Reggio, tanto per citare uno dei nomi delle pazienti, fu ricoverata da giovane persino la mistica Natuzza. Cassala ha voluto guardare negli occhi gli internati.

    «In un manicomio – racconta il fotografo – sono entrato per la prima volta da bambino. C’era un mio zio ricoverato. Contro il volere di tutti, lo andai a trovare. Ci ritornai perché avevo avuto l’impressione che a queste persone mancasse l’anima, che fossero state private della dignità. In tutti questi anni ho mantenuto riservate le foto, perché alcune riviste le pubblicarono in modo strumentale, ripetendo la solita lamentazione retorica sulla Calabria degradata. Fingevano di non sapere quanto in realtà sia più complessa e vasta la problematica del disagio psichico. Così mi decisi a far sparire queste fotografie. Dopo 37 anni ho iniziato a tirarle fuori. Ormai rientrano nel patrimonio storico. Parlano da sole».

    Uno spettacolo che non si dimentica

    All’epoca in cui entrò nelle strutture psichiatriche, assistette a scene traumatizzanti. «Soffrii tantissimo. C’erano persone – spiega Cassala – che mangiavano le proprie feci, altre legate mani e piedi ai letti di contenzione. Sebbene avessero questi comportamenti anomali, mi soffermai molto sulla loro serietà. Diversi pazienti si trovavano in manicomio non perché soffrissero davvero di un disagio psichico. Erano senza famiglia oppure avevano litigato con qualcuno, erano andati in escandescenze e così li avevano buttati lì.

    Mia nonna fu molto forte, riuscì a riportare fuori mio zio, suo figlio. Ma fu uno dei pochi. Quando continuai ad andare dentro, lui era stato ormai dimesso. Avrei potuto darmi pace: ormai il problema che avevamo in famiglia, era risolto. Invece continuai a recarmi in quei luoghi. La mia vita è rimasta segnata da quell’esperienza. Ma non me ne sono pentito. Sono orgoglioso di essere riuscito a rendere evidenti quelle persone nella loro corporeità, rispettandole».

    I Basaglia di Cosenza

    In giro per la Calabria non sono poche dunque le sensibilità come quelle dello storico Oscar Greco e del fotografo Rosario Cassala, maturate in anni di approccio diretto. Pochi sanno, per esempio, che nel secolo scorso, tra i primi a inquadrare questa problematica con lo sguardo dell’amore, del rispetto e della dignità umana, furono Piero Romeo e Padre Fedele Bisceglia. Molto conosciuti, a Cosenza e oltre, per il loro ruolo di leader del tifo organizzato, per i viaggi solidali in Africa e il sostegno fattivo agli indigenti, sinora non è mai stato approfondito l’approccio al disagio mentale che ebbero all’interno della mensa dei Poveri, sorta negli anni Ottanta su corso Mazzini a Cosenza e poi trasferita nei pressi del santuario del Crocifisso. Oltre a un piatto caldo e a un letto per non trascorrere la notte all’aperto, nell’Oasi Francescana tantissime persone fragili trovarono amicizia, ascolto, accompagnamento.

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    Un uomo ricoverato a Girifalco (foto Rosario Cassala)

    Piero aveva un album delle loro fotografie. Lo custodiva con scrupolosa riservatezza. E tra uno scatto e l’altro, inseriva la propria immagine e quella di tanti altri suoi amici, concittadini che presumevano di essere “normali”. Ai volontari e agli ultrà cresciuti intorno a lui, ai pochi che le mostrava, amava ripetere che dietro ognuna di quelle foto c’erano delle storie umane profonde. E che di ogni persona bisognava imparare a interpretare il linguaggio e le richieste. Guai a farsi beffe di loro: «Il confine è sottile. Lo oltrepassiamo ogni giorno. E nemmeno ce ne accorgiamo».

     

    Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dal reportage “Prigionieri del silenzio – Viaggio nei manicomi calabresi” di Rosario Cassala. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo.

  • Taglia e cuci alla meno peggio: la Sanità malata in salsa bruzia

    Taglia e cuci alla meno peggio: la Sanità malata in salsa bruzia

    Li vedi entrare e uscire dai reparti, stremati da ritmi di lavoro estenuanti. Nell’ospedale dell’Annunziata di Cosenza, medici, infermieri e OSS attraversano silenziosi i corridoi e le stanze che fino a due anni fa pullulavano di gente. Prima della pandemia, più che un ospedale sembrava un fumetto di Jacovitti. Poi le misure anti-Covid hanno fatto sparire lo spumante e i pasticcini al varco di Ostetricia, le parmigiane di melanzane per i degenti a Geriatria, i capannelli intorno alle bottigliette piene di caffè fumante davanti alla sala operatoria. Insieme ai familiari dei pazienti, però, è sparita la maggior parte del personale tagliato dalle politiche di “austerità”.

    L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    Sanità a Cosenza, il dottore dov’è?

    Solo a Cosenza nella sanità non si bandiscono da anni concorsi per posti a tempo indeterminato. Ciò rende poco attrattiva la partecipazione di giovani medici e infermieri che trovano fuori regione le risposte che cercano in termini di sbocchi professionali. Il piano aziendale prevede per la Gastroenterologia 11 medici (10 + primario). Nel corso degli anni i medici sono rimasti in 6 (5 + 1) e non c’è stato avvicendamento tra pensionati e nuovi assunti. Questo ha portato a una riduzione delle attività ambulatoriali e a un dimezzamento dei posti letto. Ce n’erano 21, ora sono 11. Ciò comporta un mancato decongestionamento del Pronto Soccorso che non sa dove ricoverare le persone richiedenti cure specialistiche. Vi stazionano per giorni e giorni, con ovvi disservizi. Pochi giorni fa si è verificato che era presente un solo medico per 36 pazienti.

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    I sindaci della provincia durante la protesta velleitaria all’ingresso dell’ospedale di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Il vero problema, dunque, è la mancanza di personale, aggravato da attrezzature obsolescenti, non sostituite. Alcuni dei medici dell’ospedale dell’Annunziata si sono formati per una metodica denominata ecoendoscopia per la quale l’azienda ha anche investito risorse economiche (stage all’Ismett e al San Raffaele), ma non è mai stato acquistato un ecoendoscopio. Altri reparti, come Medicina Interna, raggiungono risultati encomiabili in termini di prevenzione e diagnosi del tumore alla tiroide o al fegato, ma non potendo coprire un’utenza così vasta, migliaia di pazienti si riversano nelle strutture private. Molti devono recarsi spesso fuori regione o di recente a Reggio Calabria dove hanno investito in attrezzature e personale, realizzando i concorsi a tempo indeterminato.

    Possibile che nella stessa regione ci sia questa difformità? Ai commissari rotanti bisognerebbe chiedere quante sono le unità mediche e infermieristiche aggregate in totale nei vari reparti dell’ospedale di Cosenza, e in ciascuno di essi, dall’insediamento del presidente Occhiuto alla Regione, cioè dall’ottobre 2021 ad oggi. Quanti erano 5 anni fa e quanti sono adesso i medici e gli infermieri? Sono in programma acquisti di nuove strumentazioni per reparti come quello di Medicina Interna? A quanto ammontano le risorse impiegate negli ultimi 5 anni?

    Il vizietto del TSO

    In altri settori, come Psichiatria, si propongono in continuazione TSO e ricoveri ripetuti a brevissima distanza di persone con patologie croniche, che sul territorio non trovano risposte e contesti adeguati. La gestione dei pazienti è spesso completamente a carico delle famiglie, quasi sempre formate da genitori anziani. Ciò fa lievitare i costi e le patologie diventano sistemiche nel contesto familiare. Per quanto riguarda i posti convenzionati nelle cliniche, sono pochissimi. I malati psichiatrici non hanno lo stesso decorso degli anziani nelle RSA. Cinicamente parlando, non muoiono frequentemente, perché non soffrono di patologie organiche. Questo fa sì che i letti convenzionati siano un miraggio per chiunque, perché i posti non si “liberano” mai. Ciò crea una disuguaglianza enorme fra chi può pagare la retta e chi invece rinuncia al ricovero.

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    Vincenzo Carlo La Regina, commissario straordinario dell’Asp di Cosenza

    La rotazione dei commissari, disposta di recente da Occhiuto, ha fatto slittare l’audizione dei vertici di Asp e Ao in commissione regionale Sanità. Ai direttori La Regina e Mastrobuono non è stato quindi possibile chiedere quali siano stati negli ultimi anni gli interventi concreti (per esempio, assunzioni all’interno del Csm) per potenziare i servizi territoriali dedicati alla salute mentale. Quante sono nel territorio della provincia di Cosenza le unità operative nell’assistenza domiciliare e nel supporto alle famiglie dei pazienti psichiatrici? È in programma l’assunzione di nuovo personale?

    “Fascicolo sanitario? E che cos’è?”

    In questo delirio disorganizzativo, è passato inosservato il fascicolo sanitario elettronico. Sebbene sia stato attivato, nei reparti oncologici di ospedali come quello di Cosenza i malati di tumore devono ogni volta raccontare da capo ai medici la propria storia. In Calabria, per questioni di mera sopravvivenza, si ricorre all’autodiagnosi e all’anamnesi autogestita permanente, con immaginabili conseguenze. Sarebbe interessante sapere quali risorse abbiamo impegnato negli ultimi tre anni per formare il personale sanitario in materia di lavoro a rete e gestione della digitalizzazione dei dati.

    È evidente che tra di loro le diverse strutture sanitarie non comunicano. Inoltre numerosi esami diagnostici (per esempio, la calcitonina) sono stati sospesi. Disagi enormi in territori vasti come quello cosentino comporta l’assenza del reparto Senologia. In assenza di interventi istituzionali, la società civile si è dovuta organizzare da sola. Non è casuale che un’associazione come Onco MED, senza scopo di lucro e con obiettivi come la diffusione della cultura della prevenzione oncologica attraverso uno studio medico multidisciplinare gratuito per indigenti, nel 2021 abbia registrato 550 accessi in studio, 10 interventi domiciliari, 500 percorsi di cura e 528 esami diagnostici.

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    Volontari di Oncomed nel centro storico di Cosenza

    Mentre la pandemia si appresta ad andare in vacanza, la sanità pubblica in Calabria – specie a Cosenza – non smette di sanguinare. Dilaniato dal trasferimento di fondi e funzioni ai privati, mutilato da tagli alla spesa, affossato dai ripetuti commissariamenti, il sistema sanitario calabrese attende che diventino atti concreti i roboanti annunci della nuova giunta regionale. Gli ospedali di Trebisacce e Praia non hanno ottenuto riattivazioni di reparti. Dei centri Covid non ne è stato reso attivo neanche uno.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha detto che ci sarebbero risorse disponibili per coprire 2500 posti, ma le strutture amministrative burocratiche ospedaliere sono adeguate a sviluppare nei tempi dovuti i concorsi e le assunzioni? E la volontà politica c’è? Il commissario La Regina ha eseguito 87 stabilizzazioni. Sono la classica goccia nell’oceano, se pensiamo che nel 2022 nell’Asp di Cosenza sono programmati 300 pensionamenti.

    Sanità a Cosenza, il peccato originale di Adamo

    La provincia bruzia, per estensione e abitanti, da sola costituisce più del 40 per cento del territorio regionale. Dal 2007, da quando le aziende sanitarie e ospedaliere furono accorpate e da 11 passarono a 5, è sprofondata in un abisso. Tra gli artefici del provvedimento, Nicola Adamo, all’epoca vicepresidente della giunta regionale. Il provvedimento fu approvato di notte. L’Asp di Cosenza amministra 150 Comuni, quella di Crotone 27.

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    Nicola Adamo è stato anche vicepresidente della Regione Calabria

    La conclusione è che nessun essere umano può essere in grado di governare l’Asp (e la sanità) di Cosenza. Il direttore generale o commissario che dir si voglia ha infatti sotto di sé una pletora di personaggi che non prendono ordini da lui, bensì dai rispettivi protettori politici. L’emergenza quotidiana da gestire ogni giorno propone vertenze, carenza di fondi e visite della Guardia di finanza. C’è poi il problema dei costi. Una siringa non può costare un prezzo diverso in province differenti della regione. Gli ambiti territoriali sono vasti, disegnati male, ingestibili.

    Intanto a Rossano proseguono i lavori per la realizzazione dell’ospedale “della Sibaritide”. Bisognerà capire da dove arriveranno le risorse per attivarlo. I fondi per il cemento sono stati reperiti. Quelli per i medici mancano da anni. I nuovi (molti dei quali, vecchi) commissari nominati per le varie aziende sanitarie e ospedaliere avranno gli strumenti per fornire risposte alle tante domande dei calabresi senza sanità? Oppure continueranno a lasciarsi cullare dall’ignavia? E che fine ha fatto il progetto del nuovo ospedale finanziato da anni?

  • Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

    Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

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    A Serra Spiga, in via Popilia e nel centro storico non si ode più il festoso vociare dei laboratori creativi per bambini. Dopo 25 anni di attività, dal 31 dicembre 2021, sono chiuse le ludoteche. Palazzo dei Bruzi tace. La priorità è rimettere in ordine il traffico sconquassato dal precedente sindaco archistar. I diritti sociali possono attendere. Prosciugate le casse, nel bilancio comunale gli unici soldi che non finiranno mai sono quelli destinati a coprire gli stipendi di consulenti e assessori.

    Le ludoteche e il sogno di Mancini

    C’erano una volta le ludoteche di quartiere. Le aprì il sindaco Giacomo Mancini, quando ancora le amministrazioni comunali offrivano spazi e momenti di gioco, ascolto, doposcuola e vacanza ai figli dei più poveri. C’è stato un tempo in cui Cosenza nei servizi delicati pareva una delle città all’avanguardia nel meridione. Erano ancora servizi gratuiti, il Comune li finanziava e non scaricava sul buon cuore del volontariato le attività che in una società cosiddetta “civile” dovrebbero essere di competenza delle istituzioni.

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    Bimbi delle ludoteche alla Villa Vecchia di Cosenza

    Alla fine degli anni novanta il vecchio sindaco socialista volle pure che la Biblioteca dei ragazzi sorgesse proprio sotto le finestre della sua stanza a Palazzo dei Bruzi. Sapeva che presidiare con la cultura i quartieri popolari è un investimento sociale, un modo per arginare la solitudine infantile che alleva criminalità. Per Mancini quello era il biglietto da visita di Cosenza. Il municipio, così, da burocratico scatolone di cemento diveniva luogo propulsore di cittadinanza.

    E lo chiamano centro “sinistra”

    Poi, negli anni zero, venne la giunta Perugini e la chiuse, la biblioteca. In generale, badò soprattutto a rieducare la popolazione alla fruizione dei servizi a pagamento. Tagliò le residue spese del welfare locale, motivando questa scelta con la più classica delle lamentazioni: «I soldi sono finiti». E immolò tutto sull’altare della privatizzazione, osannando il project financing di cui ancora oggi si fatica a intravedere il costrutto. Dagli stadi di calcio alla sanità, dalle infrastrutture ai servizi, fiumi di denaro pubblico finiscono nelle casse dei privati che fingono di investire risorse e si appropriano di spazi comuni.

    Un altro nevralgico polo aggregativo per minori, la Città dei ragazzi, fu in parte riconvertito. Per assegnarlo, la giunta Pd concepì una gara d’appalto ai livelli del ponte sullo stretto di Messina. I nuovi aspiranti gestori si videro costretti a costituirsi nientemeno che in Associazione Temporanea d’Impresa. Nel decennio successivo, l’amministrazione Occhiuto la riconcesse alle associazioni Teca, Don Bosco e Cooperativa delle donne, costrette spesso a sopperire con fondi propri alle deficienze istituzionali.

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    Cosenza, l’ingresso della Città dei ragazzi (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Due anni fa, gliela riaffidò con inedita solerzia: le associazioni si erano procurate da sole i fondi per mettere in funzione e potenziare la struttura, avendo vinto un bando promosso dalla fondazione Con i bambini per fronteggiare la povertà educativa. Chissà se gli Occhiutos erano già consapevoli che di lì a poco i due terzi dell’area della Città dei ragazzi avrebbero ospitato alcune delle scuole cittadine sballottate dalla pandemia.

    Ludoteche e istituzioni: distrazione o indifferenza?

    E se in questi ultimi venti anni la Città dei ragazzi ha vissuto fasi convulse e discontinuità, negli altri quartieri le ludoteche erano riuscite comunque a sopravvivere, pur tra i tagli dei fondi, le temporanee sospensioni e i sacrifici dei loro operatori. Ma da cinque mesi non esistono più.
    «Ancor prima della scadenza dell’affidamento, lo scorso dicembre, abbiamo scritto al sindaco, tramite pec, per chiedere un incontro sulla questione, ma siamo ancora in attesa di essere convocati. Abbiamo scritto anche alla consigliera che ha la delega sull’educazione, ma anche in questo caso non abbiamo avuto risposta», denuncia Mimma Ciambrone, due lauree, una in Storia ed una in Scienze dell’educazione; operatrice storica e socia della Cooperativa delle donne, lavora nei quartieri dal 1997.

    Attività in una delle ludoteche di quartiere chiude dal 31 dicembre scorso

    «Sospendere i servizi a metà anno scolastico – spiega Ciambrone – rappresenta un danno irreparabile per molti bambini e bambine. Li seguiamo quotidianamente. Nelle ludoteche comunali, oltre i servizi ludici ed educativi, monitoriamo il percorso scolastico dei nostri bambini, sostenendoli con l’attività di doposcuola, in stretta relazione con le scuole di riferimento. Si tratta di colmare gap formativi importanti, cercando anche di sperimentare metodologie di apprendimento innovative ed efficaci al fine di scongiurare il rischio di dispersione scolastica. Ora più che mai, dopo le conseguenze devastanti dell’emergenza sanitaria, sia dal punto di vista della socialità che degli apprendimenti, sarebbe stato importante investire sui servizi che nei territori contrastano la povertà educativa».

    Sensibilità cercasi

    La disattenzione parte da lontano e non è una questione riferibile solo al presente. Negli anni sono stati svuotati i capitoli di bilancio destinati ai servizi educativi tutti, e non solo alle ludoteche.

    «Noi abbiamo la convinzione – prosegue l’operatrice – che una città che non investe sui cittadini più giovani difficilmente possa investire sul presente e sul futuro delle comunità. I bambini e le bambine sono un parametro di riferimento ineludibile per misurare l’efficacia delle politiche educative e sociali. La questione infatti è soprattutto politica. C’è la necessità di sedersi attorno a tavoli in cui si possa discutere in modo autentico delle politiche educative e sociali. Le amministrazioni devono sentirsi in dovere di co-programmare e co-progettare con il terzo settore e con l’intera comunità educante. Solo così possono essere superati gli ostacoli, anche di natura economica, che rischiano di invalidare percorsi virtuosi per la nostra collettività».

    Meron Mulugeta, mamma di bimbi utenti delle ludoteche

    «Diversamente, il tutto rischia di tradursi – continua – in una erogazione sterile e a singhiozzo di servizi che non vengono messi a sistema e che non producono benessere per i territori. A cosa e a chi serve, ad esempio, aprire le ludoteche sei mesi all’anno? I servizi educativi hanno bisogno di continuità. L’interlocuzione con chi governa la città è fondamentale, dobbiamo superare questo anno zero in cui chi governa non ha forse nemmeno piena contezza dell’importanza di alcuni servizi educativi».

    Perdere il lavoro, dopo 25 anni di strada

    Nella cooperativa e presso le ludoteche comunali operano 15 educatori. Al momento i contratti sono tutti sospesi. «Questo – conclude Ciambrone – è un fatto gravissimo. Ma non solo dal punto di vista occupazionale. Il problema è anche qui politico. Noi non ci sentiamo solo un posto di lavoro che si perde. Ci sentiamo depositarie di competenze educative precise che intendiamo mettere a disposizione della comunità in cui viviamo. In questi 25 anni siamo entrate, con cura e delicatezza, nella vita di migliaia di famiglie, cercando di lavorare sulle risorse insite nei territori, cercando di fare emergere processi di empowerment indispensabili per maturare cambiamenti reali nei contesti di riferimento. Per questo noi non ci percepiamo come un semplice problema occupazionale. Ci sentiamo soggetti autorevoli per poter dare vita a percorsi virtuosi e non più procrastinabili di co-costruzione di politiche educative efficaci».
    Per lunedì mattina alle 10 è previsto un presidio di protesta ai piedi del municipio per ottenere le risposte non ancora arrivate. Sarà la volta buona?

  • Sì, la scuola è tutta un quiz. E neanche i prof di ruolo lo passano

    Sì, la scuola è tutta un quiz. E neanche i prof di ruolo lo passano

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    Maledette prove scritte del concorso per la scuola! Avrebbero voluto superarle in tanti: insegnanti precari in servizio già da anni, ricercatori universitari senza prospettive di carriera accademica, aspiranti docenti che si sono preparati all’esame negli istituti privati di formazione. Niente da fare. Non avranno una cattedra stabile. Sono stati bocciati quasi tutti e tutte.

    Come si svolge il concorso per la scuola

    In diversi edifici scolastici si svolgono in questi giorni gli esami per assumere i nuovi professori che occuperanno le cattedre calabresi: 431 nelle medie e 506 per le superiori. Cinquanta sono le domande a quiz; ciascuna risposta giusta vale due punti per un totale di 100. La soglia minima del punteggio per vincere è 70 punti. Quindi chi commette più di 15 errori è respinto.

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    Le classi di concorso presentano una varietà di quesiti attinenti ai contenuti delle rispettive materie didattiche. Per esempio, se si aspira a insegnare Lettere nelle scuole medie, bisogna individuare l’opzione giusta nel questionario a risposta multipla su argomenti di storia, geografia, letteratura, grammatica, informatica e inglese. In caso di superamento del test scritto, nell’orale il candidato dovrà impostare una lezione su un argomento estratto a sorte il giorno prima.

    Un esperimento con i docenti a tempo indeterminato

    Nella redazione de I Calabresi abbiamo ideato un esperimento, sottoponendo a 30 docenti già di ruolo la prova scritta dell’esame di Lettere nelle medie. Le nostre “cavie” sono insegnanti originari di varie zone del Paese, in servizio nelle scuole pubbliche di regioni differenti. A ciascuno abbiamo garantito l’anonimato e imposto due regole: rispettare i canonici 100 minuti di tempo per completare il quiz, astenersi dal consultare motori di ricerca e testi. Le domande scelte per l’esperimento non sono clonate dai tantissimi simulatori digitali presenti sul web, sui quali si sono esercitati i candidati nelle settimane precedenti la prova. I quiz simulati risultano spesso ingannevoli, perché troppo agevoli rispetto al concorso.

    Le domande poste da I Calabresi sono quelle vere, cioè mutuate dalla prova scritta effettiva, svoltasi in questi giorni. Il risultato è inquietante: soltanto quattro docenti di ruolo su 30 sono riusciti a superare la nostra simulazione d’esame. Tutti, compresi i pochi capaci di azzeccare le risposte giuste, hanno espresso forti perplessità sulla maggior parte dei quesiti.

    MAD, GPS: una vita da precari

    Dunque saranno davvero in pochissimi gli idonei a sostenere le prove orali. I volti dei candidati respinti già sprizzano rabbia, delusione, rammarico. In Calabria, come in altre regioni, non ce l’ha fatta la stragrande maggioranza dei partecipanti: tra l’80 e il 90%. Tantissimi sono meridionali, ma insegnano a intermittenza nelle scuole del nord, dove si sono trasferiti per trovare lavoro. Nei pullman e nelle macchinate che li riportano a casa, mugugnano gli aspiranti professori. Ricostruiscono a memoria il puzzle delle domande, individuano i grossolani errori commessi dagli esperti che hanno concepito alcune delle risposte opzionali.

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    Uno dei quesiti sbagliati presenti nel test

    Sono furiosi i reduci dal concorso. Li senti brontolare le farraginose etichette del sistema scolastico italiano. La maggior parte di loro proviene dalle GPS, che non sono il Global Position System, cioè un sistema satellitare, bensì le Graduatorie Provinciali Supplenze. L’omografia dell’acronimo rivela il dramma umano e lavorativo di doversi orientare in un guazzabuglio di punteggi, repentine convocazioni, sedi remote in cui catapultarsi per andare a effettuare una sostituzione poco remunerativa, eppur preziosa ai fini del punteggio.

    In provincia di Cosenza può capitare di fare lezione al mattino a Scalea e nel pomeriggio partecipare a un collegio docenti a San Giovanni in Fiore: un viaggio giornaliero di due ore e 15 minuti, con una differenza d’altitudine di 1049 metri. Tanti altri concorrenti hanno vissuto il calvario delle MAD, che tradotto dall’inglese significherebbe “pazzo”, ma in questo caso è la Messa a Disposizione ed esprime con efficacia il rischio di impazzire quando ci si avventura nel vorticoso cammino per divenire insegnante, passando dalla gavetta o addirittura, in alcuni casi, dal clientelismo.

    Concorso per la scuola: tutti contro i quiz

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    Andrew Bevacqua

    Frattanto gli uffici legali preparano i ricorsi e sui cosiddetti “social” impazzano le polemiche. I candidati dell’esame denunciano le astrusità e l’inadeguatezza delle domande a risposta multipla, trovando conforto nei pareri degli esperti di didattica. Per Andrew Bevacqua, redattore della rivista Registro Sconnesso e insegnante di Lettere nella secondaria di primo grado, «il reclutamento a queste condizioni è mortificante. Non c’è visione. Non c’è prospettiva».

    L’orale del 2018

    Cesare Lemme, docente di Storia e Filosofia nelle scuole serali, ricorda i termini in cui si svolse il concorso nel 2018: «Superai la prova scritta. All’orale mi chiesero la dimostrazione pratica che sarei stato capace di spiegare in classe i sofisti. Prima di esporre gli aspetti centrali della tematica, esordii dicendo che in chiave contemporanea i pensatori di questa corrente filosofica potrebbero essere rintracciati tra i giornalisti, gli spin doctor, i venditori della Vaporella e gli influencer. Non l’avessi mai detto! La commissaria aveva un approccio algoritmico, non la prese bene e mi intimò di attenermi ai contenuti, insinuando che io stessi giocando con le parole. Per sdrammatizzare, le feci notare che in fondo proprio questa pratica era uno dei nuclei focali della sofistica. A quel punto, lei minacciò di buttarmi fuori. Mi salvai in corner, elencando subito le date di nascita di Protagora e Gorgia, peraltro presumibili ma non certe. Vidi che negli occhi della commissaria si era accesa in extremis una luce di approvazione. Fui promosso. Non credo che fosse severa. L’avevano formata per valutare soprattutto il nostro livello di conoscenza nozionistica. A me però era parso un controsenso già il fatto di concepire domande a risposta multipla nell’esame scritto di filosofia».

    Con l’inglese non va meglio

    Dello stesso parere è Silvia Minardi, docente di Inglese nei licei, ricercatrice presso l’università per Stranieri di Siena, presidente nazionale dell’Associazione LEND, una degli esperti del Centro Europeo di Lingue Moderne del Consiglio d’Europa di Graz per il programma 2016-2019.

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    Silvia Minardi

    «A chi ha pensato che un test a scelta multipla fosse la soluzione migliore – spiega Minardi – diciamo che questa scorciatoia favorisce la “semplificazione” tanto cara ad alcuni ministri, ma non dà alcuna importanza ad aspetti importanti della professione. E soprattutto non sembra tenere in alcun conto il bagaglio di chi, magari, qualche esperienza nella scuola l’ha anche fatta. Ho avuto modo di vedere i quesiti del concorso ordinario per la lingua inglese. Io credo che sia importante conoscere il Quadro (QCER_CV) soprattutto nei suoi principi chiave. Si tratta di uno strumento fondamentale per noi docenti di lingua. Ma mettere tra i quesiti del test numerose domande sulle differenze tra B1.1 e B1.2 è del tutto inutile: un insegnante deve saperlo usare il Quadro, deve poterlo consultare ogni volta che serve per programmare, per preparare o adattare materiali, discutere con i colleghi di prove comuni e predisporre strumenti di valutazione coerenti con alcune scelte».

    Un’impostazione che non convince

    «A cosa serve – continua Minardi – saper riconoscere se un determinato descrittore appartiene ad un livello o ad un altro? E perché inserire quesiti sugli incipit di opere famose? Quanti degli aspiranti candidati insegneranno letteratura? E perché pensare oggi che insegnare lingua significhi necessariamente possedere una ampia erudizione letteraria Si tratta di una prova del tutto inutile – prosegue Minardi – che avrebbe dovuto essere sostituita da uno scritto volto a sondare la capacità di usare conoscenze in chiave didattico-metodologica: ma in questo caso, occorre ovviamente investire sulla correzione. Servono commissari disposti a correggere le prove accettando, come è accaduto nelle precedenti tornate, poco più che una pacca sulla spalla».

    Cosa bisognerebbe fare allora? «Ad un sistema di questo tipo preferiamo un sistema basato su un reclutamento che avviene al termine di un percorso formativo ad hoc. Nel nostro Paese manca da anni un sistema di formazione iniziale degno di un Paese moderno: ogni governo e ogni ministro ha, di fatto, cambiato il sistema di reclutamento stravolgendo quanto fatto dal proprio predecessore, da quando l’allora ministro Gelmini chiuse le esperienze delle SIS, le scuole che, all’interno delle università, si occupavano di formare i futuri docenti. Questi oggi sono i risultati».

    Mariastella Gelmini

    Il vecchio concorso per la scuola

    Tra le docenti di ruolo in servizio da una ventina d’anni, che si sono prestate al nostro esperimento, c’è chi ricorda l’ultimo concorso svoltosi nel ‘900. «Nel ’99-2000 – racconta Emilia P. – ci sottoposero una prova scritta. Dovemmo sviluppare una classica traccia. Era una complessa analisi testuale, un saggio breve di semiologia. Bisognava davvero dimostrare di saper scrivere, conoscere gli autori, contestualizzarli, analizzarne le opere. Chi si era predisposto a copiare, non ci riuscì. Era difficile servirsi di cartucciere e cirannini.

    Per evitare che gli esaminatori favorissero i raccomandati, ci ordinarono di inserire le nostre generalità in una busta chiusa e separata dal foglio protocollo. Intimarono di astenerci anche dall’apportare minime correzioni al nostro compito. In presenza di segni che in qualche modo potessero risultare messaggi criptati e renderci riconoscibili dai membri della commissione, la prova sarebbe stata annullata. Bloccarono i cellulari all’ingresso. Non fu possibile lo schifo avvenuto pochi giorni fa: in tanti sono stati lasciati liberi di copiare dagli smartphone.

    Adesso non mi meraviglia che abbiano sostituito quel modello di esame con i quiz. Da almeno 20 anni nell’università si studiano spezzatini di materie. I classici non si leggono più. Gli studenti sono valutati a suon di crediti e debiti. E per capire se le scuole funzionino, bombardano i nostri alunni con le prove Invalsi.
    Così li addestrano pure per i test a risposta multipla che dovranno affrontare in futuro. Sulla conoscenza prevale l’algido requisito della competenza. Ai governi neoliberisti conviene due volte ricorrere ai quiz: risparmiano i soldi delle commissioni giudicanti e mantengono appesa una sacca di precariato scolastico, che costa meno e deve tappare i buchi».

  • Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Un tappetino disteso sull’asfalto, il radiolone con le casse sparate “a palla”. Quattro ragazzi si contorcono a turno. E il marciapiede sembra prendere vita nei loro corpi modellati in pose impossibili, al ritmo di una voce che perentoria declama versi su basi ripetute. È il rap, la poesia della strada. Mai vista prima una scena simile in Calabria e regioni confinanti. I cosentini si fermano, osservano incuriositi. È il 1984 quando in città compaiono per la prima volta i B-boy, la break dance, l’hip hop e la street art. I muri spogli di edifici periferici e centrali ospitano vistosi graffiti colorati che appaiono all’alba, suscitando l’interesse dei passanti e il furore di qualche capo-condomino.

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    La street art è arrivata in Calabria

    I pionieri di rap e hip hop

    «Si usciva con radio in spalla a ballare in strada nonostante la pioggia e il freddo. Qualcuno la chiamava ciutìa – racconta Carmelo Gervasi, uno dei pionieri calabresi di questa cultura – ma per noi era magia. Il nostro immaginario era ispirato a film come Flashdance, Electrik boogaloo, Wild style, Breakin’ e Beat street. Avevamo letto il libro Spraycan Art. Ascoltavamo dischi dei Melle Mel, Run Dmc, Whoudini. Per noi l’hip hop significava poter danzare sulle sonorità fuori dai canoni. Lo sport che praticavamo era scovare qualcun altro che avesse le stesso nostro sentimento. C’erano Ramon con la sua fibbia personalizzata e Lugi col capello afro, mezzo popiliano e mezzo etiope. Loro hanno fatto da catalizzatori. Ramon ha aperto la strada a tutti i graffitari, Lugi è da sempre un modello per i rapper nostrani. Se oggi si parla di street dance, graffiti o rap in Calabria si deve solo a loro».

    Le prime crew che fecero scuola

    Mentre gli altri interpreti locali delle sottoculture giovanili apparivano a volte statuari, bloccati nelle pose museali della piazza Kennedy degli anni Ottanta, i giovanissimi B-boy erano dinamici, creativi, carichi di significati inediti per le latitudini meridiane. «La prima crew fu la Southern Style, composta da Ramon, Rak e Dedo. Poi – spiega Amaele Serino – venimmo noi, prima Mexicani e poi Jolly artist crew composta da Tiskio, Simo e J.D. Tutto ruotava nei quartieri di via Panebianco, Bosco de Nicola e l’ultimo lotto di via Popilia. I nostri luoghi di riproduzione sociale erano piazza Kennedy, il C.S.A. Gramna e il garage di Simo. All’epoca ci sembrava strano fare rap in lingua italiana; ascoltavamo Public Enemy, Beastie boys, N.W.A, Run DMC».

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    Writers nel quartiere Bosco De Nicola

    «Le prime controversie – continua Amaele – nacquero tra noi Mexicani e i Portoricani di Commenda e alcuni nostri graffiti furono sfregiati. Oggi è tutto diverso. Il writing e il bombing hanno lasciato il posto alla street art, a un nuovo modo di lanciare messaggi, anche se noi lo abbiamo sempre fatto, la tag c’era, ma non aveva più il significato dell’esserci come individuo, originario del Bronx». Tra i breaker più qualificati spiccava Giannone che nel mondo ultrà assumerà un insolito nome di battaglia: Tonno Nostromo.

    Dai murales cancellati a Banksy e Jorit

    All’inizio, quando questa forma di arte apparve sui muri della città, ci fu pure chi si affrettò a cancellare i murales, addirittura considerandoli atti di vandalismo. E in alcuni casi i rapper cosentini furono costretti ad arrivare allo scontro fisico con altre “bande”. Oggi i graffiti riscuotono rispetto e ammirazione. Artisti come Banksy sono celebrati in tutto il mondo. C’è pure qualche amministrazione comunale che destina spazi alla street art e ne finanzia la realizzazione. Rende ha accolto un’opera del grande Jorit. Ma, all’opposto, il perbenismo strisciante e la mania del decoro urbano perseguitano i writer, cancellando i loro lavori e multandoli.

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    Il murales commissionato a Jorit dal Comune di Rende durante la fase di realizzazione

    Ramon ricostruisce le difficoltà dei primi anni: «Io ricordo due momenti fondamentali della nostra storia: anzitutto gli inseguimenti tra noi graffitari e gli agenti di polizia. E parlo di inseguimenti veri e propri, con alcuni di noi catturati e portati in centrale e qualche poliziotto che cadeva e si infortunava nella foga dell’inseguimento, e il mitico concerto al Gramna in cui suonarono i membri della posse di Bologna, i Sangue Misto, tra cui Neffa e Gruff. Quella volta noi facemmo una figura ottima».

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    Cosenza, il concerto del 1992 al Gramna

    Ampollino rap: la Woodstock di Calabria

    Negli anni Novanta il movimento si allargò. Coinvolse ragazzi geniali come il compianto Dj Marcio. Nacque la South Posse. Il festival Ampollino Rap fu la Woodstock di Calabria. Una sera salì sul palco Frankie hi-nrg mc. Su base sincopata declamò i versi della sua Fight da faida: «Cosenza Potenza carne morta in partenza consacrata alla violenza senza opporre resistenza». Il testo non piacque per nulla al numeroso pubblico che si sentì offeso. Fischi, insulti, qualcuno minacciò di salire sul palco per tirare giù con la forza il rapper torinese.

    Sangue Misto (e chillum) all’Ampollino Rap del 1994

    Balzò su Dj Lugi, chiese rispetto per Frankie e lo ottenne dai tantissimi ragazzi provenienti dalle terre più remote della regione. Poi, improvvisando, ingaggiò con lui una sfida a colpi di rime. Lo convinse che i suoi versi raccontavano il sud in modo superficiale, aderente al mainstream, distante dalla realtà. Potenza del Rap: la serata finì in un abbraccio collettivo e sincere strette di mano. Della capacità dell’hip hop di penetrare le coscienze si è accorto di recente pure qualche insegnante nelle scuole. Ci sono professori che lo adoperano come strumento didattico.

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    La South Posse

    Doctor M, un primario graffitaro

    A Cosenza i rapper storici, attivi all’interno del collettivo Brò Crew 360, sono protagonisti di attività istruttive imperniate sull’uso dello spray. Nei workshop tematici realizzati nella Città dei Ragazzi, docente d’eccezione è stato anche Mario Verta. Nell’arte di strada si chiama Doctor M e di giorno fa un delicato lavoro: primario del reparto Gastroenterologia nell’ospedale dell’Annunziata. «Mario è molto bravo nel catturare l’interesse dei ragazzi. Un giorno – prevede Amaele – l’hip hop diventerà materia di studio nelle scuole. Oggi più di prima ha una connotazione socio educativa. E dopo 50 anni possiede ancora, nella sua essenza, la potenza comunicativa del riscatto sociale».

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    La Brò Crew 360

    Animali di strada

    In questi giorni la Brò Crew 360 espone nella Galleria Arte Indipendente Autogestita su corso Telesio una mostra dal titolo ANIMALI, visitabile fino al prossimo 24 aprile. I temi sono quelli di sempre: nessuna discriminazione, lotta contro le ingiustizie, educazione del dissenso, salvaguardia dell’ambiente e delle altre specie viventi. La spray art riproduce su pannelli lo sguardo e il punto di vista che queste creature hanno maturato su di noi, cioè sulla specie cosiddetta sapiens.

    «La mostra – spiega la crew – dà voce agli animali che ci accompagnano lungo la nostra esistenza, non soltanto come compagni, ma come esseri viventi capaci di aprirci gli occhi e il cuore. Il nostro egoismo e il nostro specismo non ci autorizzano a dominare la natura e il mondo in maniera assoluta; anche noi siamo esseri viventi destinati a morire. Il bisogno di comunicare sarà sempre una priorità per il genere umano. Più crescerà il disagio, maggiore diverrà questo bisogno. Nella G.A.I.A. si espongono gli animali. Per loro non c’è giusto o sbagliato. Forse è ciò che cerchiamo anche noi».

  • Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Da sempre in Calabria le persone affette da patologie trattabili con la cannabis vivono un calvario senza fine. E nelle altre regioni la situazione non è migliore. La normativa proibizionista su coltivazione, vendita ed uso ricreativo finisce per penalizzare i pazienti che ne fanno richiesta. Tantissimi di loro aspettano di sapere cosa dirà stasera la Consulta sull’ammissibilità del referendum che vorrebbe far decidere agli italiani se introdurre o meno la possibilità di coltivare cannabis per uso personale.

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    Allo stesso modo, tantissimi e qualificati sono gli studi scientifici, tra i quali le ricerche condotte sin dagli anni Settanta dal medico Giancarlo Arnao, che sostengono l’efficacia dei preparati a base di canapa nel trattamento dei sintomi di gravi patologie come glaucoma, sclerosi multipla, Alzheimer, epilessia, traumi cerebrali ed ictus, sindrome di Tourette, glioblastomi, artride reumatoide, morbo di Crohn, colite ulcerosa. Inoltre è un efficace antiemetico in chemioterapia e coadiuvante nella terapia del dolore e nella stimolazione dell’appetito nell’AIDS.

    Cannabis, un primato tutto calabrese

    La Calabria vanta pure un singolare primato. È calabrese il primo paziente ad aver ottenuto in Italia il diritto di impiegare la preziosa infiorescenza per curarsi. Quella di Gianpiero Tiano è una battaglia estenuante, iniziata 30 anni fa. Nel 1992 rimase vittima di un terribile incidente stradale. Durante la lunga convalescenza, scoprì che il violento trauma gli aveva provocato una grave forma di epilessia. Aveva letto un articolo sulla cannabis come valida alternativa ai farmaci tossici. Decise così di provare assumendo dei quantitativi minimi e si rese conto che le infiorescenze della pianta funzionavano: le crisi epilettiche erano sparite. Già in quegli anni, però, le pene previste per chi la maneggiava erano altissime.

    Non potendo acquistarla, decise di coltivarla come prezzemolo, basilico e mentuccia. È noto che alle latitudini di Calabria la marijuana cresce rigogliosa. La conferma scientifica è arrivata pochi anni fa, quando uno studioso calabrese, il geologo Giovanni Salerno, ha realizzato un’accurata mappa dei siti calabresi ideali per la produzione di cannabis. All’epoca Gianpiero versò pochi semini nei vasi esposti alla finestra del balcone di casa, a San Giovanni in Fiore. Dal terreno spuntarono 6 germogli. Ma ben presto ricevette la visita dei carabinieri, forse allertati da qualche delazione. Così gli costarono care quelle piantine appena sbocciate. Finì in carcere, nonostante le sue precarie condizioni di salute.

    Cannabis e Giustizia, l’impresa di Mazzotta

    In primo grado il tribunale di Cosenza lo condannò. I giudici non ammisero che la documentazione presentata dalla difesa avesse valore probatorio. Ma in appello, difeso dal geniale e coraggioso avvocato Giuseppe Mazzotta, la sentenza ridusse la pena sospesa e per la prima volta riconobbe che Tiano aveva realizzato la minicoltivazione non per spaccio, bensì per un uso terapeutico. Quel testo era destinato a fare giurisprudenza. Negli anni successivi, innumerevoli sono state le sentenze assolutorie dei tribunali italiani nei confronti di persone che hanno deciso di coltivare in proprio, e per uso esclusivamente personale, la pianta tabù.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ottenuto un dispositivo non criminalizzante, a Gianpiero rimaneva però il problema di come approvvigionarsi della sostanza, vista la rigorosità della permanente normativa proibizionista. Si fece allora promotore di una battaglia civile. Scrisse lettere aperte ai parlamentari, nel 1999 fu tra i fondatori dell’associazione Cannabis terapeutica, trovò un valido sostenitore nel professore Andrea Pelliccia dell’università La Sapienza, che gli prescrisse l’uso dei preparati a base di THC, il principio attivo della cannabis.

    Nel 2001 presentò alle autorità competenti formale richiesta ed ottenne che il sistema sanitario importasse le infiorescenze da un’azienda olandese. Nel 2002, nel summit sulle droghe a Genova, insieme ad altri attivisti dell’associazione fu ricevuto dal ministro della Salute, Umberto Veronesi, e gli consegnò un libro bianco sul diritto negato di assumere cannabis ad uso terapeutico.

    Cannabis e appetito

    «Oggi – denuncia Gianpiero Tiano – mi sembra d’essere tornato al punto di partenza. Non c’è nessun neurologo che me la prescriva. Il medico di famiglia non ne vuole sapere. Conosco tanti altri pazienti calabresi che, come me, sono costretti a compiere clamorose azioni di protesta per tornare a sollevare il problema. Ritengo che i principali ostacoli al riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis derivino dagli interessi delle multinazionali farmaceutiche che per tutelare i loro famelici profitti, nella nostra regione pilotano medici, gruppi di pressione e apparati politici contrari a questa prospettiva.

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    «Una cura alternativa a base di cannabinoidi – prosegue Tiano – sarebbe competitiva nei confronti di altri costosissimi farmaci già impiegati per certe patologie. Inoltre, più difficile è ottenere la canapa, maggiori sono i profitti delle farmacie galeniche, le uniche abilitate a preparare i prodotti a base di cannabis. Per capire l’entità dei profitti, si pensi che nel biennio 2015 – 2017 tra Lamezia, Catanzaro e Crotone il costo di questi preparati è aumentato del 400%. Gli stessi consiglieri regionali che in anni passati sono stati promotori di iniziative politiche in Calabria si sono rivelati una delusione, un bluff. Volevano solo farsi pubblicità proponendo assurde spending review preventive, ma è chiaro che non avevano la minima intenzione di raggiungere un obiettivo che sarebbe prima di tutto sanitario». Dietro uno scontro in apparenza ideologico, dunque, si muovono ben altre manovre. È risaputo che la marijuana provoca appetiti non solo alimentari.

  • Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    «Con tutti questi contagi e la paura di infettarci, stavolta il lockdown ce lo siamo imposto da soli». Amara è la considerazione del tabaccaio in uno dei vicoli del centralissimo Corso Mazzini a Cosenza. Prima della pandemia la sua attività dipendeva anche, ma non solo, da tabagisti e ludopatici. In queste settimane sono le uniche creature che vede comparire davanti al bancone. Ma se le dipendenze sono resilienti, le altre forme di consumo cedono il passo. Strade deserte, abbassate le saracinesche, pub semivuoti, dalle 8 di sera viaggiano soprattutto bici e motorini dei rider, mentre qualche pattuglia della polizia rovista tra i pochi locali aperti per scovare avventori sprovvisti del fastidioso green pass. »È come se la gente avesse frequentato un corso di formazione accelerato per consumare a distanza», medita sconsolato il titolare di uno dei pochi negozi di calzature superstiti.

    Dalla soppressata al sushi

    Nel giro di due anni sono mutati gli stili di vita. Non più soltanto i ragazzi, ma intere famiglie calabresi, come milioni di altre nel mondo occidentale, sono passate dalla soppressata al sushi, comprano su internet, divorano serie TV sulle piattaforme digitali, praticano fitness in casa, lavorano e studiano davanti al PC. Le nuove attività trainanti sono l’e-commerce, il food delivery, l’e-learning, l’infotainment. Fuori da monitor e display, tutto sembra destinato a sparire o a traslocare in periferia. Se ne sono accorti i gestori di cinema, teatri e piscine, ma soprattutto i commercianti degli storici negozi di abbigliamento nei principali centri urbani: chiusi, falliti, assorbiti dai franchising che spuntano ovunque.

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    Un rider effettua una consegna a domicilio

    Lavoro e pandemia

    Il coronavirus ha contribuito tanto a cambiare il volto delle attività lavorative in moltissime città e nei loro dintorni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Regional science and urban economics sulle conseguenze economiche della pandemia, di cui sono coautori Augusto Cerqua e Marco Letta, ricercatori del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, in alcune zone della Calabria e di altre regioni meridionali i posti di lavoro sarebbero addirittura in crescita. «Se vogliamo capire la rilevanza di questi dati – spiega Cerqua – dobbiamo saperli interpretare. Siamo pervenuti a tale conclusione osservando le differenze quantitative tra la situazione com’è e quella che ci aspettavamo che si sarebbe verificata se il coronavirus non fosse piombato nelle nostre vite. In sostanza, abbiamo confrontato i numeri degli occupati nei settori dei servizi e delle manifatture dopo il primo anno di Covid con le aspettative che avevamo nel 2019 per la fine del 2020 se la pandemia non fosse mai avvenuta».

    Augusto-Cerqua
    Augusto Cerqua, coautore insieme a Marco Letta dello studio pubblicato su Regional science and urban economics

    La sorpresa: Calabria meglio del previsto

    In effetti eravamo abituati a veder crescere il lavoro al centro-nord, mentre nel sud, in base alle indicazioni degli anni precedenti, si prevedeva un ulteriore calo dei livelli occupazionali. Nelle zone più periferiche, di solito si perdono posti perché chi le abita tende a emigrare. «Invece, in alcune aree la pandemia ha in parte frenato questi fenomeni migratori. Inoltre – aggiunge Cerqua – i sussidi concessi dal governo hanno incentivato i posti di lavoro. In Calabria si è verificato in media un lieve calo, ovviamente soprattutto nei servizi e nel turismo, ma rispetto alle previsioni è andata molto meglio della media italiana. È diventato difficile operare in tutte quelle attività che richiedono contatti tra tante persone, come hotel, stabilimenti balneari, ristoranti, bar, e in generale tutti gli esercizi commerciali. Al contrario, chi poteva lavorare da casa è stato meno danneggiato dal punto di vista occupazionale ed economico. Soprattutto sono state penalizzate le aree che esportano. Ne ha risentito moltissimo chi esportava in Russia e altri Paesi dell’est. Nella prima fase pandemica è diminuito il trade in generale, anche all’interno dell’Europa, perché si era diffusa una paura che il contagio potesse viaggiare anche con gli oggetti».

    Periferie alla riscossa

    Tuttavia, a differenza del passato, questa crisi non viene dal manifatturiero. Se la confrontiamo con la grande recessione, quando le più danneggiate furono le aree povere e le manifatture, stavolta ne hanno risentito, ma non tanto quanto i servizi. «La nostra analisi riguarda i territori, non i singoli individui. Chi non ha il paracadute – precisano i due studiosi – è stato pesantemente colpito. Eppure, determinati settori sono cresciuti. Pensiamo al farmaceutico. E dal punto di vista geografico, si sono arricchite le aree non turistiche. Potrebbero beneficiare di questa situazione le zone periferiche. C’è stata infatti una riscoperta delle località più remote, una tendenza a uscire dalle città, abitare in case con giardino, vivere in siti più aperti. Ecco perché potrebbe scaturirne una tendenza a rivitalizzare i territori periferici».

    Il lavoro in Calabria dall’inizio della pandemia

    La Calabria nello studio pubblicato su “Regional science and urban economics”. I differenti colori si riferiscono al divario tra i posti di lavoro che si prevedevano, prima della pandemia, per il dicembre 2020, e i dati concreti che si sono poi registrati. In rosso scuro le zone dove la riduzione dei posti di lavoro ha superato il 10%, in giallo le aree con un ribasso sotto il 2,5%, in verde le aree dove i livelli di occupazione si sono mantenuti stabili o si è rilevata una crescita.

    In Calabria la mappa tracciata dallo studio effettuato dai due economisti censisce 44 sistemi locali del lavoro, cioè aggregazioni di centri abitati che l’Istat disegna sulla base del fatto che tendenzialmente la maggior parte delle persone vi lavora e vive. Sono quindi gruppi di Comuni scelti in base agli spostamenti lavorativi dei residenti. Stando ai dati elaborati dai due studiosi, Cosenza e zone limitrofe fanno registrare – 2% di occupati nei servizi e circa + 2% nel manifatturiero. Lamezia subisce un bel calo trainato dai servizi: -6,5%, mentre la manifattura esprime un aumento del 3,5%, Reggio Calabria –4% nei servizi e +1,4% nelle manifatture. Fanno registrare segni positivi anche Bovalino, Bianco e Melito Porto Salvo. Gioia Tauro addirittura +8% sul manifatturiero, rispetto alle stime di quel che sarebbe successo senza Covid. Corigliano-Rossano -3% in entrambi i settori. Cassano allo Ionio e Cirò Marina -4% sui servizi. Catanzaro come San Giovanni in Fiore e Scalea: impatto nullo perché le due voci si equilibrano, Soverato –2%, Paola –1%. Tropea è andata peggio di tutti: calo nei servizi pari a -8,5%.

    Un futuro diverso

    Cosa consigliare dunque alle piccole imprese fallite e ai commercianti rovinati da queste due annate terribili? Quelli che sono ancora in grado di provare a risollevarsi, in quali settori potrebbero investire? Gli autori della ricerca hanno pochi dubbi: «Non crediamo che ci sarà un ritorno alle città. Chi potrà, preferirà vivere nelle aree esterne ai grandi e medi centri. In ufficio, invece di andarci cinque giorni a settimana, ci si recherà magari una o due volte. In tanti lavoreranno in una città ma vivranno in un’altra. Prima della pandemia tutto ciò era meno praticabile. I servizi di food delivery oggi si trovano nei grandi centri urbani, ma presto saranno allargati alle aree marginali. I settori che potranno beneficiare dei nuovi stili di vita e consumo saranno quelli legati alle produzioni biologiche. Stiamo assistendo a un forte focus sulle fonti di energia e sull’economia sostenibile. Col PNRR ci sarà un’accelerata su questi temi. Quindi, in prospettiva, aprire un bar nel centro di Cosenza non parrebbe una grande idea».

    Quanto durerà?

    Rimangono da capire la durata e la qualità delle nuove occupazioni generate dalla pandemia. Cioè se alcuni sistemi locali galleggino in virtù dei contratti a tempo determinato e degli occupati stagionali, occasionali, saltuari. Sono queste le forme del lavoro riconteggiate all’infinito, com’è abitudine dei recenti governi d’impostazione neoliberista, esperti nel truccare il pallottoliere pur di fare bella figura. Se è abbastanza chiaro quali siano i soggetti che si stanno arricchendo, non è difficile immaginare che in diverse zone della Calabria gli investimenti nei settori in crescita provengano anche dai residui salvadanai della vecchia rendita fondiaria riconvertita e dalle inesauribili casse della multiforme malavita nostrana. Ma tra i commercianti c’è anche chi prova a rialzarsi sulle proprie gambe. Con dignità.

  • C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    Smascherare chi ha devastato la sanità pubblica in Calabria, garantire a tutte e tutti il diritto alla salute. Era una delle ultime volontà di Gino Strada, medico senza confini e fondatore di Emergency. E vuole farlo anche C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia. Il lungometraggio propone, tra le tante, anche le voci del regista britannico Ken Loach e del cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, che incorniciano gli abissi della sanità calabrese in una tragedia dalle dimensioni globali. La negazione delle più elementari prestazioni sanitarie nella nostra periferica terra è inserita nel più vasto fenomeno della privatizzazione predatoria, imposta dal neoliberismo in tutto il pianeta.

    Dopo il successo del film PIIGS, che nel 2017 ha ricostruito le nefaste conseguenze delle politiche economiche di austerità europea, a suo tempo realizzato insieme a Mirko Melchiorre e Adriano Cutraro con la voce narrante di Claudio Santamaria, il regista crotonese Federico Greco torna nella propria terra per evidenziare una delle sue piaghe peggiori. A I Calabresi, lui e Melchiorre narrano in anteprima contenuti e retroscena della loro inchiesta sullo sfacelo sanitario. Al centro del film, la vicenda emblematica dell’ospedale di Cariati, chiuso per effetto del commissariamento della sanità in Calabria. Da più di un anno è occupato dagli attivisti dell’associazione Le Lampare e da migliaia di altri cariatesi in segno di protesta.

    ospedale cariati
    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
    Raccontare il mondo partendo dalla Calabria

    «Tutto nasce nel novembre dell’anno scorso – spiegano Greco e Melchiorre -, quando Gino Strada fu chiamato in Calabria per l’emergenza Covid. Abbiamo lavorato con lui un paio d’anni fa. Quello era solo l’inizio di un progetto più ambizioso: raccontare la devastazione della sanità pubblica in Italia e nel mondo, a partire dalla Calabria. Ottenuto l’OK da parte di Gino, Simonetta Gola e tutta Emergency ci hanno anche sostenuto finanziariamente, oltre a starci molto vicini. Dopo aver seguito Gino a Crotone, abbiamo proceduto con un approfondimento. Un giorno, tornando a Roma, ci siamo fermati a Cariati per conoscere gli occupanti dell’ospedale. All’inizio pensavano che noi fossimo della Digos ed erano molto straniti. Non gli piacevamo. Poi hanno capito che eravamo persone sincere e volevamo davvero fare ciò che dicevamo. La loro storia ci è piaciuta tantissimo. Siamo stati insieme in quest’ultimo anno almeno una volta al mese per tre o quattro giorni, quindi abbiamo seguito tutto l’arco narrativo».

     

    cover piigs

    Come PIIGS, anche questo documentario si basa su due binari paralleli. Uno è la microstoria de Le Lampare, l’altro focalizza il macrolivello, cioè l’analisi di quel che succede nel mondo nella privatizzazione della sanità. Intervengono nomi autorevoli, come l’epidemiologo inglese Michael Marmot (OMS) e il sociologo svizzero Jean Ziegler (ONU). «Abbiamo l’aspettativa di portare il lavoro nei festival internazionali nella prossima primavera. Poi – proseguono gli autori – sarà nei cinema, in Tv e sulle piattaforme. Dobbiamo fare i conti con la chiusura delle sale cinematografiche a causa della pandemia. Quest’anno abbiamo un calo del 45 % degli spettatori nelle sale. Un’ecatombe! Se continua così, nel 2022 non riaprirà il 30 % dei cinema».

    Epoche a confronto

    Il titolo C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia propone un sottotitolo: Giakarta sta arrivando. Mirko Melchiorre e Federico Greco spiegano che «questa frase minacciosa apparve nel 1970 in Cile sui muri di Santiago e in alcune lettere recapitate ai militanti del Partito comunista cileno dopo l’elezione di Salvador Allende. Si riferiva al massacro di circa tre milioni di comunisti, avvenuto a Giakarta, in Indonesia, nel 1965. In precedenza, il presidente indonesiano Sukarno aveva espresso la volontà di proteggere il suo Paese dalla predazione delle multinazionali statunitensi e londinesi. Ma nel ’66 ci fu il golpe militare di Suharto, durante il quale furono uccise da 500mila a tre milioni di persone con modalità atroci. Quindi, quando fu eletto Allende, la CIA avvertì che in Cile sarebbe accaduto quanto era già avvenuto in Indonesia.

    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile
    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile – I Calabresi

    Noi riteniamo che Giakarta metaforicamente stia arrivando in Italia,e in Europa grazie alla globalizzazione. L’operazione ha avuto un momento di svolta nel 2011, con l’avvento del governo di Mario Monti; oggi grazie a chi all’epoca a Monti conferì pieni poteri. È ovvio che non parliamo di golpe militare in Italia. Gli obiettivi però sono gli stessi: la predazione dei servizi e degli asset pubblici, la privatizzazione non solo della sanità, ma anche dell’acqua pubblica e di tanti altri settori nevralgici della nostra società».

    Dall’Inghilterra di Ken Loach alla Lombardia

    Nel documentario è Ken Loach a ricostruire l’analoga storia del sistema sanitario pubblico inglese, nato nel ’48 già con il verme delle privatizzazioni. «Successe la stessa cosa negli anni Ottanta in Italia – proseguono i due film maker -. Nel ’78 il primo ministro della sanità fu Renato Altissimo, un liberale, appartenente a uno dei partiti che il sistema sanitario pubblico non lo avrebbe voluto. Oggi, prendiamo per esempio la Lombardia: la narrazione dominante sostiene che questa regione sarebbe sempre stata un’eccellenza, ma noi abbiamo intervistato Maria Elisa Sartor, docente universitaria a Milano e autrice di un libro di 800 pagine, che racconta la privatizzazione della sanità lombarda. Guarda caso, la pandemia ha provocato più danni nella regione in cui il sistema pubblico non esisteva, perché quasi tutto in precedenza è stato privatizzato.

    Ken Loach
    Ken Loach chatta con gli autori durante la lavorazione del film – I Calabresi

    È una regione che ospita un sesto della popolazione italiana, ma ha fatto registrare un quinto dei contagiati e un quarto dei morti per Covid. Questo è dovuto al fatto che il sistema sanitario, dopo essere stato privatizzato dai Formigoni e dai Maroni, è indecente. I proprietari dei grandi gruppi che investono sull’oro delle Residenze Sanitarie Assistenziali, focolai del contagio, hanno comprato testate giornalistiche in perdita. Per esempio, De Benedetti, tessera “onoraria” numero 1 del PD, con la KOS Spa è un grandissimo proprietario di strutture sanitarie private. Viene spontaneo chiedersi a cosa gli siano serviti giornali in perdita come la Repubblica. E non solo a lui.

    Tanti sono gli editori di giornali che da anni producono articoli di aspra critica del sistema sanitario pubblico, a favore di quello privato. Ciò accade in Calabria, ma ovunque. Negli anni Ottanta in Italia avevamo più di 500mila posti letto, oggi meno di 200mila. L’emergenza pandemica non sarebbe stata così devastante se avessimo avuto il numero dei posti letto tagliati dalle riforme del ’92, dalla cosiddetta sinistra: prima Monti, poi Renzi. La responsabilità ricade soprattutto sulle scelte del PD negli ultimi 20 anni».

    Davide contro Golia

    Nelle loro inchieste, i due registi cercano di andare sempre alle origini dei problemi: la globalizzazione, il Washington consensus, il filantrocapitalismo. «Tocca lottare – concludono Mirko Melchiorre e Federico Greco – contro un mostro che è ciclopico, sta ad altezze siderali e non sappiamo nemmeno di preciso chi sia. Eppure, come dice Ken Loach, a volte colui che sembra Davide, può divenire più potente di Golia. Il vero gigante, se riesce a estendere le lotte e intrecciarle, è Le Lampare di Cariati, la sua occupazione dell’ospedale. Con Gino Strada realizzammo due interviste, una a Crotone e l’altra a Milano. Parlava con entusiasmo de Le Lampare. Aspettava solo un cenno per andare a gestire un ospedale in Calabria: quello di Cariati mi sembra il più adatto, disse».

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    Gino Strada, medico e fondatore di Emergency
    La Calabria come set

    Tra le immagini scolpite nella memoria visiva dei due film maker, la terapia subintensiva a Crotone: «Emergency la ha gestita per alcuni mesi. Abbiamo vissuto situazioni emozionanti nella tragicità come nella speranza. Una su tutte? La gioia di persone in età avanzata, quando gli infermieri annunciavano loro che il tampone era finalmente negativo e potevano tornare a casa».

    Riprese a Cariati
    Un momento delle riprese a Cariati – I Calabresi

    Federico Greco è così riuscito a fare i conti con la propria terra: «Ci torno ogni estate, da 50 anni. Non avevo mai visto, però, Crotone da un punto di vista professionale, non ci ero mai sbarcato con la telecamera in spalla. E questo mi ha fatto vedere Crotone e la Calabria come non le avevo mai osservate. Così ho sciolto le resistenze verso tutto ciò che non va. Adesso ci verrei a vivere e a morire. Con tutte le persone che abbiamo incontrato, gli attivisti de Le Lampare, Mimmo, Cataldo, Michele, Mimmo Massaro, Ninì Formaro, siamo diventati fratelli. È nata un’amicizia per tutta la vita. Come dice Michele Caligiuri, Cariati è il posto più bello del mondo».

  • Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Lorenzo Rossi è un divulgatore scientifico. Romagnolo, studioso e ricercatore, è coordinatore e responsabile nel Museo di scienze naturali di Cesena. Il suo canale Youtube, CriptoZoo, è seguitissimo. In poco tempo ha richiamato più di 22mila follower che crescono con un ritmo di mille al mese. In esso racconta verità scientifiche sulle creature misteriose, gli animali forse estinti o forse no, che abiterebbero ancora in remote zone del pianeta. Così, per una forma di ribaltamento del ruolo, il grande esperto di mostri marini, yeti e big foot è divenuto il più temuto avversario di chi crede nella loro esistenza.

    Nei suoi video su Youtube, partendo dalla storia degli avvistamenti di questi “criptidi”, documenta e confuta in modo minuzioso il carattere solo fantastico di tanti presunti incontri ravvicinati. A Cosenza negli ultimi anni è venuto due volte per presentare i suoi libri. Ad accoglierlo e ascoltarlo si è radunato un nutrito pubblico composto da bambini, mattacchioni, docenti universitari, curiosi e appassionati di criptozoologia. Gli intrecci tra antropologia, storia, paleontologia, mitologia e scienze naturali rendono piacevole e interessante ogni suo racconto che così stimola lo studio e l’approfondimento interdisciplinare. Lorenzo ha con la Calabria un rapporto molto sentimentale.

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    Il criptozoologo Lorenzo Rossi
    In un suo viaggio in Sila, pochi anni fa, ha indagato sugli avvistamenti di una specie ritenuta estinta in quest’area geografica. Cosa ha scoperto?

    «Ero interessato a delle storie sulla presenza della lince. Mi era stato riferito che in una macelleria di San Giovanni in Fiore, fino a qualche decennio fa, era esposta una lince imbalsamata e che sarebbe stata abbattuta nella Sila greca. Ho trovato riscontro, ma nessuna prova. In macelleria mi hanno detto: “Sì, sì, avevamo questo reperto, ma purtroppo dopo la morte di nostro padre abbiamo buttato via molti degli oggetti che gli erano appartenuti, tra i quali anche quella lince impagliata”».

    Perché è attratto dalla Sila?

    «La Sila e le foreste casentinesi sono a mio avviso i luoghi più belli da un punto di vista dell’interesse naturalistico in Italia. Ed è molto affascinante non solo per la presenza del lupo, che è diventata iconica, ma anche per il ritorno della lontra in alcune zone».

    Ci sono state segnalazioni confermate?

    «Sì, la lontra è una specie in espansione ed è presente, per esempio, nel fiume Lese. Può arrivare anche a vivere in bacini artificiali».

    Anche nei tre laghi artificiali, Cecita, Arvo e Ampollino?

    «Sì, al Cecita è stata segnalata».

    È significativo, perché se l’aria della Sila è accreditata come la migliore d’Europa, purtroppo pare che l’acqua dei bacini artificiali sia molto contaminata.

    «Fino a poco tempo fa la lontra era un indicatore della qualità dell’acqua. Oggi invece si è notato che pur di sopravvivere riesce a insediarsi in luoghi che sono gli ultimi in cui ti aspetteresti di trovarla. Se finiscono gli spazi a lei congeniali, prova a vivere dove può. Non ho elementi conoscitivi sulla qualità dell’acqua in questi laghi. È tuttavia un buon segnale che la lontra ci sia. Anche se le condizioni del lago non sono ideali, è comunque migliore di altri contesti acquatici, se questo animale decide di abitarvi».

    Qualche anno fa, a proposito dei ricorrenti avvistamenti di una strana creatura sul Pollino, “lu scurzune ccu li ricchie” (il serpente con le orecchie), ha fornito una spiegazione molto attendibile e interessante. Potrebbe esporla?

    «Molte di queste storie riguardano tutto l’arco alpino e quello appenninico. Tanti avvistamenti di “serpente baffuto” o “serpe-gatto” possono nascere dalle osservazioni della lontra. È un animale che vive per la maggior parte del tempo in acqua. Se la osserviamo nell’atto di nuotare, col pelo liscio, lucido e nero, può sembrare un grosso serpente. Quando cammina a terra, si muove spostandosi a balzi. Un tratto che viene descritto a proposito di questi presunti strani serpenti con le orecchie e i baffi sarebbero i fischi. E sappiamo che la lontra li emette».

    Sul Pollino alcuni dicono che vivano lungo i fiumi e scavino le tane lungo le sponde. Sappiamo che anche la lontra si comporta così, quindi diventa abbastanza compatibile con gli avvistamenti. È normale che quando una figura entra nell’immaginario, sebbene la sua presunta esistenza si basi su qualcosa di reale, poi prende vita a sé».

    C’è anche chi ha ipotizzato che i serpenti, quando fanno la muta, possano avere delle scaglie sulla testa ed essere quindi scambiati per animali sconosciuti.

    Sì, ma la mia idea è che la base reale di questi avvistamenti sia la lontra».

    Tra i suoi studi recenti, uno dei più interessanti riguarda l’estinto lupo siciliano. Era simile ai lupi della Sila e del Pollino?

    Su questa popolazione l’ultimo studio sui genomi completi è ancora in corso e lo sta conducendo l’università di Copenhagen. Sembra che il lupo siciliano derivi dalla popolazione appenninica. Alla fine dell’era glaciale, il ponte di terra tra Calabria e Sicilia si interruppe ed è probabile che gli ultimi esemplari di questo lupo proveniente dalla Calabria siano rimasti isolati laggiù. Così, in questi 20mila anni, si sono differenziati anche visibilmente. Il lupo siciliano era più piccolo di quello appenninico e privo delle strisce nere sugli avambracci. Anche il suo colore risultava molto particolare».

    Come nasce l’interesse per il lupo siciliano?

    Tutta la nostra ricerca è iniziata perché per caso ci siamo imbattuti nei diari di un naturalista siciliano, il Minà Palumbo, che descriveva i lupi siciliani di un colore “lionato”, cioè quello del leone. I lupi dell’Appennino non hanno questo colore. Quindi siamo andati a cercare gli esemplari imbalsamanti nei vari musei italiani. Ce ne sono pochissimi. Uno al museo della Specola di Firenze, uno al museo di scienze naturali di Palermo, uno al museo di Termini Imerese e due al museo di Terrasini. Questi lupi sono gialli. Al museo della Specola hanno conservato anche il cartellino, scritto a suo tempo da un grande studioso delle scienze naturali italiane, Enrico Giglioli: “Esemplare mirabilissimo per la mancanza delle strisce negli avambracci e per il colore giallo chiaro”. Quindi già nell’800 aveva intuito queste differenze».

    Gli studi sul lupo a quale periodo risalgono?

    Non è mai stato studiato in Italia in modo approfondito, fino agli anni Sessanta, quando nell’Appennino iniziò a estinguersi. Nel frattempo, già dagli anni Trenta, il lupo siciliano si era estinto. Noi abbiamo descritto questa nuova sottospecie, denominandola Canis lupus cristaldii, in onore di un professore siciliano di anatomia comparata, Mauro Cristaldi. Adesso aspettiamo la conferma degli studi sul Dna, perché non tutti sono d’accordo sul fatto che si tratti di una sottospecie».

    Ogni tanto i cacciatori sostengono di aver avvistato delle linci tra i boschi dell’Aspromonte. È verosimile che ne esistano ancora in Calabria oppure questo animale qui si è estinto?

    Già affermare che “esistono ancora” sarebbe un passo grande. Il problema di base è se siano mai esistite in epoca storica. Da quel che sappiamo, empiricamente gli ultimi resti di lince risalgono all’età del bronzo. C’è però una sterminata bibliografia di naturalisti italiani e stranieri, che riportano resoconti, in Calabria, come in altre regioni attraversate dall’Appennino, sulla presenza di un animale che viene chiamato a volte “gattopardo”, altre “lupo cerviero”, “felipardo”, lonza”, descritto come una lince. Da qui nasce l’ipotesi affascinante sulla sopravvivenza di questa specie fino all’800 o addirittura all’inizio del ‘900. Una ricerca è stata effettuata anche dal già direttore del parco d’Abruzzo, Franco Tassi. Purtroppo sono state raccolte testimonianze, toponimi, riferimenti, ma mai una prova fisica concreta».

    L’ha cercata solo a San Giovanni in Fiore?

    No, sono stato anche in un bar nei pressi del lago Arvo, dove un carabiniere mi aveva rivelato d’aver visto un’altra lince imbalsamata».

    E c’era davvero?

    Ho trovato il bar e prima di entrare ho scattato una foto e l’ho mandata al carabiniere per verificare che fosse proprio quello. Lui mi ha risposto di sì. Allora sono entrato nel bar, ma si trattava di un gatto selvatico imbalsamato. Gli ho chiesto prima se il bar fosse quello, perché altrimenti avrebbe potuto dire che effettivamente era un gatto selvatico ma si trattava di un altro bar».

    Non si fidava del testimone?

    Certo che mi fidavo! Però so che i ricordi, a volte, cambiano nella nostra mente».

    Dopo il ritrovamento dei resti di Elephas antiquus sulle sponde del lago Cecita, lo studioso Domenico Canino ha ravvisato dei collegamenti con “l’elefante di Campana”, il megalite che a pochi chilometri dal lago sarebbe stato scolpito da una misteriosa civiltà, migliaia di anni fa. Lei non è d’accordo. Perché?

    Finché non sono d’accordo io, non è importante, però esiste un’intera comunità scientifica che ritiene l’elefante della Sila niente più e niente meno di una roccia erosa dalle condizioni atmosferiche. Non c’è una pubblicazione scientifica a sostenere che questa pietra sia stata scolpita da mano umana. Chi promuove una tesi contraria dovrebbe produrre una pubblicazione che indichi questa possibilità. Nutro grande rispetto nei confronti dell’architetto Canino. Io però questo elefante non ce lo vedo. La specie in questione si chiamava elefante “dalle zanne dritte”, ma ciò non significa che le avesse come quelle del monolite di Campana. E poi c’è un problema: quando sarebbe stato scolpito?».

    Però sulle rive del lago Cecita è stato scoperto il fossile di un elefante.

    Ma se nei pressi di Loch Ness io scopro resti di plesiosauro, non vuol dire che ci sia questa specie. Significa che 65 milioni di anni fa i plesiosauri ci furono, ma all’epoca il lago nemmeno esisteva. Non basta dire che se c’è il fossile di quell’animale, nei paraggi qualcuno lo abbia potuto scolpire, perché il fossile risale a un’era in cui non esisteva una civiltà capace di farlo. Dunque sicuramente non si può affermare che quell’animale sia servito da modello quando era vivo».

    Lorenzo Rossi e il monolite a forma di elefante a Campana
    Si potrebbe, piuttosto, ipotizzare che qualcuno lo abbia scolpito ispirandosi ai fossili?

    Sì, c’è però un problema: ricostruire con precisione un animale dai resti fossili non è stato mai facile, tantomeno lo fu nel passato remoto. Determinante è la data di estinzione. Canino sostiene che questo elefante si sarebbe estinto 12mila anni fa. In realtà, in Europa si estinse molto prima, da 50 a 34mila anni fa. Se un giorno scoprissimo che invece si è estinto poche migliaia di anni fa, cambierebbe tutto».

    Ci sono altre sculture simili nel resto del mondo?

    Mi vengono in mente, per esempio, quelle di Göbekli Tepe, in Turchia. Sono datate dai 9500 agli 8mila anni fa. Un elefante in Sila, che anticipi questa civiltà, non lo vedo probabile. Se si dimostra, sarebbe una scoperta incredibile. Però mi chiedo: una civiltà così avanzata avrebbe mai potuto lasciare tracce di questo tipo, senza che di essa rimanesse nient’altro?».

    Nel libro “Guida alla Calabria misteriosa”, lo scrittore Giulio Palange riporta le voci popolari sull’improbabile coccodrillo avvistato lungo le sponde del fiume Crati, in contrada Soverano a Bisignano, in provincia di Cosenza. Lei ha sempre confutato, dati alla mano, l’esistenza del cosiddetto mostro di Loch Ness in Scozia. Nel 2006, ha effettuato un sopralluogo in Mongolia settentrionale per studiare di persona le misteriose tracce sulla sabbia, lasciate da una creatura non identificata lungo le sponde del lago Hargyas Nuur. Rispetto a quest’ultimo caso, è più possibilista?

    Che tristezza! A due giorni di viaggio dal lago, fui costretto a tornare indietro, perché mi ammalai e stavo malissimo. È molto grande e pescoso. Potrebbe quindi ospitare grossi animali. Nessuno ha indagato ulteriormente queste tracce. Potrebbe trattarsi dei lastroni di ghiaccio che sospinti dal vento approdano a riva. Comunque, se dovessi cercare dei mostri nei laghi, è lì che andrei».

    Un paio di anni fa, ha curato la pubblicazione di un libro, non ancora tradotto in italiano, che raccoglie diversi saggi di scienziati e ricercatori sul rapporto tra umanità e resto del regno animale. Il tema è di grande attualità, in tempo di sindemia e zoonosi. Il libro era stato pensato prima del 2019?

    Il titolo è “Problematic wildlife, volume 2”. Quando ci si occupa di ambiente, conservazione, rapporto tra fauna e animali, qualche previsione si può fare. Questa pandemia non è stata una sorpresa. Sapevamo che sarebbe arrivata dalla Cina. La gente comune non ascolta finché non è troppo tardi e poi è capace di negare persino l’evidenza. Siamo in ritardo atroce sulle pandemie, sul riscaldamento globale e su tante altre problematiche».

    Sta lavorando a un nuovo libro?

    Sì, racconterò i motivi storici che hanno spinto negli anni Ottanta alcuni studiosi ad effettuare ricerche su dinosauri ancora vivi in Africa. Può sembrare molto buffo. In realtà ci sono serie motivazioni storiche alla base di quelle ricerche. Mi piace parlare del rapporto tra la pseudoscienza e la scienza. Sarà un viaggio tra i dinosauri, quasi senza parlare di loro».