Autore: Claudio Cordova

  • Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Sul suo sangue sarebbe stata edificata la pax mafiosa delle cosche di Reggio Calabria e della sua provincia. A distanza di trent’anni, non c’è ancora una verità univoca. Né sotto il profilo storico, né sotto il profilo giudiziario, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Una delle massime autorità uccise in Calabria a colpi d’arma da fuoco. Esattamente 30 anni fa. Oggi.

    Il delitto

    Difficile, forse impossibile, non innamorarsi del mare della Costa Viola, litorale tirrenico della provincia di Reggio Calabria. E di quel mare cristallino, che di notte si riempie di lampare, era profondamente innamorato il giudice Antonino Scopelliti. Originario di Campo Calabro, ma da anni operante a Roma, presso la Suprema Corte di Cassazione. Tornava proprio dal mare. Da quel mare. È il pomeriggio del 9 agosto 1991. I sicari lo raggiungono sulla strada che collega la Costa Viola a Campo Calabro. Le pallottole investono l’autovettura. E colpiscono alla testa il magistrato. L’auto non si ferma, sbanda e termina la propria corsa in una scarpata.

    Un “omicidio eccellente”. Due estati dopo quello dell’ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato. Un omicidio che fa tanto rumore. Sebbene Reggio Calabria e la sua provincia siano interessate da una sanguinosissima guerra tra cosche. E quindi abituate ai morti per le strade. Una guerra che, dopo l’omicidio di Nino Scopelliti, si fermerà. Come per incanto. Una pace immersa nel sangue di un alto magistrato. Sarebbe stato proprio l’omicidio Scopelliti il prezzo con cui le cosche reggine si sarebbero sdebitate rispetto all’interessamento di Cosa Nostra affinché si bloccasse la mattanza per le strade di Reggio Calabria.

    Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra, giunto al cospetto della Suprema Corte di Cassazione. Proprio quello istruito da Giovanni Falcone. E, quindi, a un passo dalla sentenza definitiva che avrebbe avvalorato il “teorema Buscetta”. Nino Scopelliti era in vacanza nella “sua” Campo Calabro. Ma anche nella canicola d’agosto aveva con sé le carte del Maxiprocesso. Le studiava.

    Gli interessi di Cosa Nostra

    La ‘ndrangheta avrebbe eseguito l’omicidio, sul proprio territorio, in segno di “ringraziamento” nei confronti della mafia siciliana. Cosa Nostra avrebbe avuto un ruolo determinante per la stipula della pace tra gli schieramenti De Stefano-Tegano-Libri e Condello-Imerti, che a partire dal 1985 si erano dati battaglia, lasciando sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.

    È questa la tesi più accreditata. Una sentenza che tuttavia nessun Tribunale ha mai scritto in maniera definitiva. L’omicidio del giudice Scopelliti è senza responsabili. Ancora oggi. Dopo 30 anni. Tante sono state, nel tempo, le ipotesi riguardanti i motivi che portarono all’omicidio del magistrato. Alcuni dissero che i Corleonesi avevano tentato di avvicinare il sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Volevano chiedesse la nullità del processo, come invocato dalle difese nei motivi d’appello, ma ricevettero un secco “no”. Per altri, invece, l’eliminazione di Scopelliti era utile affinché i tempi di decisione si allungassero eccessivamente. In quel modo sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. Una circostanza che avrebbe riportato in libertà centinaia di boss e affiliati alla mafia siciliana. E verosimilmente in latitanza.

    Le indagini e i processi

    In primo grado, l’impianto accusatorio regge con la condanna all’ergastolo di personaggi come Totò Riina, Bernardo Brusca, Pippo Calò e Pietro Aglieri. L’accusa però si dissolve in appello. Arrivando poi alla definitiva sentenza assolutoria in Cassazione. Poco o nulla, invece, si è fatto nei confronti degli esponenti della ‘ndrangheta. Sebbene gli inquirenti, negli anni, abbiano potuto contare sulle dichiarazioni di alcuni importanti collaboratori. Come Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Lauro parla di un confronto tra due boss di rango, Nino Mammoliti e Pasquale Condello. Mentre Barreca cita esponenti di spicco del clan De Stefano. Le cosche avrebbero tentato di avvicinare il magistrato in vista dell’ultimo grado di giudizio.

    Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso, Totò Riina su tutti. Il quale, peraltro, in Calabria era già stato. Ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito. Riina avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato. Rimasti impuniti i presunti mandanti. Invisibili, ectoplasmi, gli esecutori materiali.

    Un omicidio così eclatante, di una persona così in vista, non poteva essere deciso senza l’accordo degli esponenti principali della ‘ndrangheta reggina. Tanto le schiere dei Condello, quanto quelle dei De Stefano. Anche in virtù della nuova pace, dovevano essere informate del progetto. E non sarebbe nemmeno da escludere che su quella moto che seguiva l’auto di Scopelliti, vi fossero due killer scelti da entrambi gli schieramenti. Uno in rappresentanza dei condelliani, l’altro inviato dai destefaniani. Sicuramente personaggi spietati. Di comprovata e certa fiducia. E di rara abilità e precisione. I “migliori”.

    Nell’aprile del 1993, scattano le manette a carico dei componenti della Cupola palermitana. Arrestati anche i calabresi Antonino, Antonio e Giuseppe Garonfolo, come soggetti inseriti a livello verticistico nell’omonima organizzazione operante a Campo Calabro e collegata ai De Stefano. Arrestato anche Gino Molinetti, uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta. Le dichiarazioni dei pentiti mettono in luce il ruolo determinante di Cosa Nostra nella definizione della seconda guerra tra cosche del reggino. E, quindi, il conseguente credito acquisito presso i due schieramenti contrapposti.

    Per l’uccisione del giudice furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Uno contro Salvatore Riina e sette boss della “Commissione” di Cosa Nostra. E un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998. E successivamente assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000. Le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero quelle del boss Giovanni Brusca) non bastarono. Vennero giudicate discordanti.

    Speranza in fumo

    Un primo, vero, atto di pace tra i cartelli che fino al giorno prima si erano rincorsi, individuati e trucidati. Per le strade cittadine. In una vera e propria guerra. Combattuta con pistole, fucili di precisione, autobombe e bazooka. Un omicidio di livello altissimo, di cui solo poche persone avrebbero dovuto sapere. L’uccisione del giudice Scopelliti rappresenta, di fatto, uno spartiacque fondamentale nella storia della società reggina. E della ‘ndrangheta, diventata negli anni una delle più potenti e ricche organizzazioni criminali del mondo. Da quell’omicidio passano le nuove dinamiche criminali che hanno portato Reggio a vivere sotto una cappa. Quella della pax mafiosa.

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, e quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Una pianificazione che sarebbe avvenuta in un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani. Lì avrebbe partecipato lo stesso Matteo Messina Denaro.

    Un paio di anni fa, il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola farà ritrovare nelle campagne siciliane un fucile. A suo dire, sarebbe stata l’arma utilizzata per il delitto. Da qui la nuova indagine della Dda di Reggio Calabria, che coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche il boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano. Il gotha della ‘ndrangheta. Cui si aggiungono Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Ancora lui.

    Ma mesi dopo, anche quest’ultima speranza di arrivare a una verità storica e giudiziaria, sembrerà tramontare quasi definitivamente. Gli accertamenti eseguiti sul fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola fatto ritrovare da Avola non danno alcun esito. Arma troppo vecchia. Ossidata e incrostata. Le sue pessime condizioni strutturali non consentirebbero, quindi, di poter effettuare tutti gli esami previsti. Verrebbe meno, così, una prova regina utile alla ricostruzione del delitto.

  • ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    «In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».

    Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.

    ‘Ndrangheta e religione

    La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.

    Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.

    Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.

    In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».

    Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.

    Colluso o martire? Don Giovanni Stilo

    Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».

    Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.

    Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo con l’onorevole Fanfani».

    Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente.  Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comune appartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».

    Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.

    Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».

    Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa

    Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.

    Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.

    Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.

    È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria.  La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.

    «I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.

  • Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    La sua è una storia da romanzo. Sotto il profilo criminale, inizia ormai decenni fa, con i primi crimini di ‘ndrangheta e l’avvio del traffico internazionale di stupefacenti. Dal punto di vista giudiziario, invece, raggiunge l’apice proprio due anni fa. Era l’agosto del 2019. Ora Domenico Paviglianiti è stato nuovamente arrestato. Lo scorso 3 agosto, i carabinieri di Bologna e la polizia spagnola lo hanno scovato a Madrid, dove l’uomo, 60enne, era latitante.

    Uno dei principi del narcotraffico internazionale

    La sua carriera criminale si dipana tra gli anni ’80 e gli anni ’90.È in quel periodo che Paviglianiti si guadagna l’appellativo di “boss dei boss”. Dall’area grecanica della provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti è diventato uno dei broker del narcotraffico internazionale più potenti e longevi della storia.

    Da sempre considerato un elemento apicale della sua cosca, tuttora attiva e potente nei comuni di San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri nel Reggino. Ma con ramificazioni importanti in Lombardia e, ovviamente, in Sud America per la gestione dei traffici di droga.

    La sua cosca si è sempre inquadrata nell’alveo dello schieramento “destefaniano”. Fin dai tempi della seconda guerra di ‘ndrangheta, che tra il 1985 e il 1991 insanguinò con oltre 700 morti la provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti ha sposato la causa dei De Stefano. La cosca che, più di tutte, ha modernizzato la ‘ndrangheta.

    La complessa vicenda giudiziaria

    Su di lui pende un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti per 11 anni, 8 e 15 giorni, emesso il 21 gennaio dalla Procura di Bologna per i reati di associazione di tipo mafioso, omicidio e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Dall’ottobre 2019 aveva lasciato l’Italia, rifugiandosi in Spagna.

    Proprio da quel 2019, in cui, nell’arco di due mesi, verrà arrestato e scarcerato diverse volte. Fino a diventare uccel di bosco.

    Paviglianiti, condannato all’ergastolo, era stato catturato in Spagna nel 1996. L’estradizione era stata concessa a condizione che l’Italia non applicasse il carcere a vita. In quel periodo, infatti, l’ordinamento spagnolo non prevedeva il “fine pena mai”.

    Per questo motivo venne condannato a 30 anni, che, nell’agosto 2019 (anche per via di alcune riduzioni) risultavano già scontati. I suoi legali, infatti, avevano rilevato come a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Da qui la scarcerazione.

    Ma, dopo due giorni, un successivo ricalcolo portò a un nuovo ordine di carcerazione. Paviglianiti venne così nuovamente arrestato, quando ancora non aveva lasciato il Nord Italia, dove era detenuto. Poi, la scarcerazione nell’ottobre dello stesso anno. Liberato, nel giro di due mesi, due volte per fine pena.

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    Di nuovo in pista?

    Adesso il nuovo arresto. In Spagna i carabinieri sono arrivati seguendo le tracce di alcuni familiari. Il concreto sospetto degli investigatori è che Paviglianiti avesse ripreso in mano il business del traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

    Quando è stato preso era da solo ma ci sono accertamenti in particolare su una donna sudamericana. I contatti con il Sud America spingono infatti gli inquirenti a ritenere che Paviglianiti fosse ritornato a essere il potente broker del narcotraffico che era prima della lunga detenzione.

    Piuttosto sospetto, in tal senso, il fatto che quando il boss è stato bloccato in strada, nei pressi della propria abitazione di Madrid, avesse con sé sei cellulari in un borsello, seimila euro in contanti e documenti falsi con un’identità portoghese.

  • Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Sono passati 41 anni. Senza verità. Senza giustizia. Sono le 10.25 del 2 agosto 1980 quando l’orologio della stazione di Bologna si ferma. La deflagrazione, il boato, le fiamme, i brandelli umani. Il bilancio: 85 vittime e oltre 200 feriti. Il più grave atto terroristico (per proporzioni) del secondo dopoguerra, uno degli ultimi degli anni di piombo. Proprio quegli anni di piombo ancora da riscrivere – giudiziariamente e non solo – per i collegamenti tra entità oscure e occulte. Dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, alla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974, fino alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974.

    Massoneria, servizi deviati e ‘ndrangheta

    Un intreccio inquietante tra terrorismo, soprattutto di matrice neofascista, servizi segreti deviati, logge coperte (su tutte la P2), comitati d’affari di altissimo e raffinatissimo livello, criminalità organizzata. In particolare, la ‘ndrangheta, per decenni sottovalutata, avrebbe avuto un ruolo centrale in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia. La strage della stazione di Bologna non fa eccezione.

    Proprio recentemente è iniziato il processo a carico di Paolo Bellini, ex membro di Avanguardia Nazionale, ma anche soggetto con collegamenti importanti all’interno della ‘ndrangheta. Per la criminalità organizzata calabrese compirà almeno una decina di omicidi. Oggi è alla sbarra insieme all’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel per depistaggio. Con loro anche Domenico Catracchia, amministratore di alcuni immobili di via Gradoli a Roma usati come rifugio dai Nar. Risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Tra gli imputati ci sarebbe dovuto essere anche l’ex capo del Sisde di Padova, Quintino Spella, nel frattempo deceduto.

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    L’ex capo della Loggia P2, Licio Gelli

    È proprio questo l’intreccio perverso e indicibile. Per la bomba alla stazione di Bologna sono stati già condannati definitivamente gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Tutti puniti in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, individuati quali mandanti, finanziatori o organizzatori. Di Licio Gelli sappiamo molto (ma non tutto) circa le trame della sua Loggia Propaganda 2. I nomi di Ortolani (banchiere intrallazzato con lo IOR), D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni) e Tedeschi (giornalista e politico) formano (ma non completano) il quadro a tinte fosche.

    La colonna di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria

    Non lo completano. Perché è quasi tutto da delineare il coinvolgimento delle mafie e, in particolare, della ‘ndrangheta. Il processo a carico di Bellini ci sta provando. In una delle ultime udienze prima della pausa estiva, l’ex esponente di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, Vincenzo Vinciguerra, ha parlato di «accordo organico» tra destra eversiva e ‘ndrangheta. «La ‘Ndrangheta vedeva Avanguardia come una forza che poteva mettersi contro lo Stato», ha aggiunto Vinciguerra.

    E Bellini è accusato di essere il “quinto uomo” della bomba alla stazione. Oltre alle tre condanne definitive, infatti, ce n’è un’altra, finora di primo grado, a carico di Gilberto Cavallini. Bellini è stato proprio un uomo forte di Avanguardia Nazionale. La stessa Avanguardia Nazionale che aveva rapporti soprattutto con la ‘ndrangheta di Reggio Calabria.

    In riva allo Stretto, Avanguardia Nazionale aveva, a partire dalla fine degli anni ’60, una colonna formidabile. Ineguagliabile in qualsiasi altra parte del Paese. Proprio la ‘ndrangheta doveva essere di fatto l’esercito armato attraverso cui si sarebbe dovuto attuare il Golpe Borghese. Siamo alla fine del 1969. Pochi mesi dopo, nel luglio del 1970, scoppierà la rivolta di Reggio, quella del “Boia chi molla”, fagocitata dagli ambienti di destra.

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    Un’immagine dei Moti di Reggio del 1970

    Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie: tutti nomi che nulla avrebbero dovuto avere a che fare con il territorio. A Reggio Calabria, invece, erano di casa. Soggetti che legano il proprio nome alla notte della Repubblica.
    Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio. I processi, però, lo hanno sempre visto assolto per non aver commesso il fatto o per insufficienza di prove.

    Dall’Italia al Sud America

    Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, per cui vengono condannati i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie, invece, si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano.

    Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari– appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano. Proprio nel periodo prodromico del golpe intensifica la frequentazione della Bolivia. E, dopo la realizzazione del golpe, ottiene addirittura una collocazione stabile e ufficiale presso lo Stato Maggiore dell’Esercito boliviano, quale assessore del VII Dipartimento: carica di tale importanza, che gli dava l’opportunita di incontri diretti con il Capo dello Stato […]

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    Saluti romani attorno alla bara di Stefano Delle Chiaie

    […] Delle Chiaie comincia a prender quota in quello Stato, dove la polizia militare imperversa. Capo di Stato Maggiore della Marina è l’ammiraglio Massera, piduista e addirittura visitatore dello stabilimento industriale di Gelli in Castiglion Fibocchi. Licio Gelli ha stretti rapporti con i servizi argentini. […]

    La penetrazione del potere gelliano in Argentina, tende dunque ad assumere le medesime caratteristiche e ad attingere livelli non inferiori a quelli dell’analoga penetrazione nella realtà italiana». Per questo, scrivono infine i giudici di Bologna «il collegamento Gelli-Delle Chiaie non si presenta come una possibilità, più o meno plausibile, ma costituisce una necessità logica».

    P2 e ‘Ndrangheta

    Lo stesso Vinciguerra, nel corso degli anni, dichiarerà che timer dello stesso lotto di quelli impiegati per l’eccidio di Piazza Fontana erano stati utilizzati anche per «far saltare i treni che portavano gli operai a Reggio Calabria per una manifestazione sindacale». Siamo proprio nel periodo del “Boia chi molla”. E uno dei soggetti più influenti sarebbe appunto Delle Chiaie.

    Sono gli anni in cui la P2 governa un sistema caratterizzato dalla presenza di metastasi in molti dei gangli fondamentali della vita istituzionale, sociale ed economica, dalla magistratura alle grandi case editrici, dai giornali all’alta burocrazia, fino ai partiti politici. Tuttavia, l’aspetto più inquietante e profondo della penetrazione piduista era rappresentato dalla presenza sistematica e monopolistica di uomini iscritti alla P2 ai vertici delle Forze Armate e soprattutto dei Servizi di Sicurezza.

    I Servizi con grembiule e cappuccio

    Interessante, sul punto, un atto giudiziario che infine è stato confermato e divenuto definitivo. Nella sentenza della Corte di Assise di Bologna del 11 luglio 1988, sulla strage della Stazione, viene affermato che: «Nello stesso volger di tempo, nell’ambito di altro procedimento pendente, avanti all’autorità giudiziaria milanese per l’affare Sindona, il 17 marzo 1981 i giudici istruttori Turone e Colombo disponevano un sequestro nell’abitazione e negli uffici di pertinenza del capo della loggia massonica P2, Licio Gelli.

    In Castiglion Fibocchi, la Guardia di Finanza sequestrava, tra l’altro, oltre a una lista degli iscritti alla Loggia P2, tutta una serie di documenti che denunciavano in quali attività e di quale rilievo la Loggia era implicata […] Occorre rilevare sin da ora che risultarono iscritti nelle liste sequestrate fra gli altri, i seguenti nominativi: prefetto Walter Pelosi, capo del Cesis; generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi; generale Giulio Grassini, direttore del Sisde; generale Pietro Musumeci, capo dell’Ufficio Controllo e Sicurezza del Sismi».

    E c’è anche chi sostiene che, anche dopo lo scioglimento, in seguito alla approvazione della“Legge Anselmi”, la P2 non si sia mai effettivamente dissolta. E che abbia continuato, con altro nome, con altre vesti, a perseguire i propri scopi eversivi. Non è un caso che l’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ipotizzasse questi oscuri accordi.

    Si è conclusa però in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie, mafiosi come Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste. Ma non arriverà nemmeno in aula, con l’archiviazione del fascicolo.

  • ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    La componente riservata della ‘ndrangheta esiste e ha deciso (e decide) le sorti della vita politica, economica e sociale della popolazione. Lo ha stabilito con la sentenza di primo grado del maxiprocesso “Gotha” il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto da Silvia Capone.

    Condanne e assoluzioni per i politici

    In particolare, in riva allo Stretto sono stati inflitti 25 anni di reclusione per Paolo Romeo, 13 anni per Alberto Sarra. Ma è clamorosa l’assoluzione di Antonio Caridi. Il Tribunale ha quindi accolto l’impianto accusatorio portato avanti dalla Dda di Reggio Calabria, seppur con alcune assoluzioni inaspettate. Un teorema accusatorio ambizioso quello portato avanti dalla Procura in quel periodo retta da Federico Cafiero De Raho, oggi procuratore nazionale antimafia.

    Sarebbe stato l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo, con un passato nell’estrema destra, al vertice della masso-‘ndrangheta. Romeo avrebbe infiltrato le Istituzioni a ogni livello. Da quelle più strettamente locali, fino ai livelli più alti. Si inquadra in tal senso la condanna inflitta in primo grado all’ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra. Mentre è assolutamente una sorpresa quella per l’ex senatore Totò Caridi.

    Nell’impostazione accusatoria, peraltro, non solo Sarra e Caridi, ma anche l’ex sindaco reggino ed ex governatore, Giuseppe Scopelliti sarebbe stato diretto dalla volontà di Paolo Romeo. Scopelliti, pur evocato numerose volte, non risultava comunque tra gli imputati del maxiprocesso alla componente riservata della ‘ndrangheta.

    Il prete e gli avvocati

    Pur trattandosi, per il momento, di una sentenza soltanto di primo grado, quella del processo “Gotha” potrebbe segnare una svolta nella lotta giudiziaria ai livelli più alti e alle connivenze più oscure della criminalità organizzata calabrese. Nello stralcio celebrato con il rito abbreviato (e, quindi, già arrivato alla sentenza d’appello) è infatti già stato condannato l’altro soggetto ritenuto come l’eminenza grigia della ‘ndrangheta: l’avvocato Giorgio De Stefano, legato da vincoli parentali con lo storico casato reggino, ma considerato (al pari di Romeo) una mente raffinatissima capace di fare da collante tra l’ala militare dei clan e i livelli riservati.

    Tra le altre persone condannate, l’avvocato Antonio Marra (17 anni), considerato il braccio destro di Romeo, ma anche l’ex, onnipotente, dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Reggio Calabria, Marcello Camera, anche se punito solo con 2 anni di reclusione a fronte della richiesta di 13 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto l’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa. Condannato invece l’ex rettore del Santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, don Pino Strangio. Il prete avrebbe fatto parte della rete relazionale occulta di Romeo.

    In particolare, l’avvocato Marra avrebbe svolto il “lavoro sporco” di confidente con le forze dell’ordine. In tal senso, si inquadrerebbe il ruolo di Marra nella presunta “trattativa Stato-‘ndrangheta” per arrivare ad alcuni arresti dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, che si inquadrava nella sanguinosa faida di San Luca. Trame non completamente chiarite, in cui emergerà il ruolo di alcuni appartenenti del Ros dei Carabinieri, ma anche dello stesso prete don Strangio. Rapporti con i Servizi Segreti di cui era esperto il commercialista-spione, Giovanni Zumbo, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione.

    Il procedimento è durato diversi anni, con centinaia di udienze all’interno dell’aula bunker di Reggio Calabria. La Dda di Reggio Calabria si è avvalsa anche delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, che hanno tratteggiato il legame oscuro e indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti deviati.

    Le decisioni del Tribunale di Reggio Calabria:

    Vincenzo Amodeo assolto

    Domenico Aricò assolto

    Vincenzo Carmine Barbieri 3 anni e 4 mesi

    Marcello Cammera 2

    Amedeo Canale assolto

    Demetrio Cara assolto

    Antonio Caridi assolto

    Carmelo Cartisano 20 anni

    Francesco Chirico 16 anni

    Giuseppe Chirico 20 anni

    Saverio Genoese Zerbi – deceduto

    Salvatore Primo Gioè 16 anni e 6 mesi

    Paolo Giustra 2 anni

    Giuseppe Iero assolto

    Antonio Marra 17 anni

    Maria Angela Marra Cutrupi assolta

    Angela Minniti 2 anni e 8 mesi

    Teresa Munari assolta

    Domenico Nucera assolto

    Domenico Pietropaolo assolto

    Giovanni Pontari assolto

    Giuseppe Raffa assolto

    Rosario Giuseppe Rechichi 3 anni e 6 mesi

    Giovanni Carlo Remo assolto

    Paolo Romeo 25 anni

    Alberto Sarra 13 anni

    Andrea Scordo assolto

    Giuseppe Strangio 9 anni e 4 mesi

    Rocco Antonio Zoccali assolto

    Giovanni Zumbo 3 anni e 6 mesi

    Alessandro Delfino 5 anni

  • Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, nella recente pubblicazione di Danilo Chirico “Storia dell’anti-‘ndrangheta” parla così dell’occasione che la pandemia da Coronavirus e la crisi economica potranno rappresentare per le mafie e, nello specifico, la ‘ndrangheta. La crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, sia nei settori tradizionali «come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, rifiuti, imprese di costruzioni» sia in quelli che «appaiono particolarmente lucrosi come il commercio di mascherine o il turismo». Non è solo un’ipotesi fondata sull’esperienza: sono già almeno «trenta le situazioni sospette intercettate, con società che sono state costituite all’estero che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose o ’ndranghetiste».

    Ma se il “contagio” dell’economia è storia vecchia di almeno 50 anni, quello delle somme più precisamente riguardanti il welfare in tempo di Covid, è stato, fin da subito un obiettivo perseguito dalla ‘ndrangheta. Due misure, su tutte, hanno rappresentato in questi mesi di pandemia una boccata d’ossigeno per numerose famiglie in difficoltà economica: il Reddito di Cittadinanza e i Buoni Spesa Covid. E su entrambe la ‘ndrangheta ha messo le mani.

    Le mani sul reddito di cittadinanza

    La relazione della Direzione Investigativa Antimafia nel 2020 contiene testualmente: «Nel semestre è emerso un ulteriore aspetto comprovante l’ingordigia ‘ndranghetista in spregio alla situazione emergenziale vissuta dal contesto sociale calabrese appena descritto, in totale distonia con le ingenti risorse economiche a disposizione delle consorterie, anche attraverso le richieste del reddito di cittadinanza».

    La appropriazione indebita dei membri dei clan del reddito di cittadinanza è al centro anche della polemica politica tra i sostenitori della misura, il Movimento 5 Stelle in primis, che ne ha fatto un simbolo, e gli “abolizionisti”. Sono numerosi gli episodi censiti negli ultimi mesi.  Il 15 marzo del 2021 la Guardia di Finanza scopre 86 “furbetti” del Reddito di Cittadinanza. Truffa da oltre 700mila di euro. Una quindicina di costoro ha anche condanne per reati di ‘ndrangheta. L’hanno ottenuto semplicemente omettendo il proprio trascorso giudiziario. E i sussidi sono arrivati.

    Si tratta, evidentemente, di appetiti (soddisfatti) che non riguardano solo la ‘ndrangheta. Anche le altre mafie, Cosa Nostra su tutte, si sono accaparrate somme ingenti. In un unico caso, siamo nello scorso aprile, la cifra ammonta a oltre 600mila euro. Questo perché, unitamente alla ‘ndrangheta, Cosa Nostra è l’organizzazione mafiosa che maggiormente fa del controllo del territorio un marchio di fabbrica. Depredare il welfare, infatti, non è solo una questione di introito economico. In questo modo si (ri)afferma la superiorità sullo Stato. Storicamente, i grandi boss della ‘ndrangheta puntano e ottengono (indebitamente) l’indennità di accompagnamento dall’INPS o accedono (altrettanto indebitamente) ai sussidi previsti dalla Legge 104.

    Un affare per la ‘ndrangheta che conta

    Il Reddito di Cittadinanza viene approvato all’inizio del 2019. La ‘ndrangheta si organizza ben presto. In circa un anno viene documentato come esponenti di grande rilievo delle cosche Piromalli e Molè di Gioia Tauro siano riusciti ad ottenere il sussidio. Si tratta di persone condannate per reati di ‘ndrangheta, talvolta all’ergastolo e detenuti in regime di 41 bis. Ma anche sorvegliati speciali, con le rispettive consorti. Danno erariale da 280 mila euro.  A infiltrarsi nelle maglie del welfare in tempo di pandemia non sono ladruncoli da quattro soldi, ma  bdella ‘ndrangheta. Non solo i Piromalli e i Molè, ma anche i Pesce e i Bellocco, come mostrato da altre inchieste.

    Le indagini documentano le ruberie di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta, come i Tegano e i Serraino di Reggio Calabria. Ma anche i figli di Roberto Pannunzi, considerato il “Pablo Escobar italiano”, uno dei più importanti narcotrafficanti della storia, capace di dialogare da pari a pari con i cartelli sudamericani. Non è un caso che anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, sta portando alla sbarra i rapporti tra cosche e massoneria, risultino tra gli imputati soggetti percettori del reddito di cittadinanza.

    A dicembre 2020 invece la Guardia di Finanza di Crotone scopre che fra i “furbetti” c’era un esercito di picciotti, luogotenenti e boss di Alfonso Mannolo, arrestato nel 2019 come elemento di vertice del clan di San Leonardo di Cutro e accusato di associazione mafiosa, traffico di droga, riciclaggio, estorsione e usura. Febbraio 2021: tra le persone individuate dalla Guardia di Finanza, c’è anche un soggetto condannato in via definitiva nell’ambito del processo “Kyterion”, come affiliato alla potente cosca dei Grande Aracri.  In un altro caso, siamo a maggio 2021, scoperto dall’Autorità Giudiziaria vibonese, l’importo delle somme indebitamente ottenute, ammonta a 225mila euro. Si parla, complessivamente, di diversi milioni di euro.

    La ricchezza in tempo di Covid

    L’altra grande forma di accaparramento di denaro pubblico nel periodo della pandemia è rappresentata dai Buoni Spesa Covid. Una forma di sussidio istituita nel corso della prima ondata della pandemia e su cui la ‘ndrangheta, già nel luglio 2020, aveva messo le mani. Sono 45mila gli euro intascati indebitamente dagli uomini del clan grazie al Decreto Rilancio. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Milano, si è concentrata sugli appetiti di tre aziende riferibili alla ‘ndrangheta del Crotonese. Ancora una volta ai Grande Aracri.

    Alla fine del 2020, 186 denunce in provincia di Reggio Calabria per indebite percezioni sui Buoni Spesa Covid. Un terzo degli indagati risulta avere legami di parentela con soggetti appartenenti a ‘ndrine o a famiglie di interesse investigativo. Il totale delle irregolarità riscontrate comprende un danno erariale complessivo di circa 357mila euro. E si è scongiurata, per il tratto a venire, un’ulteriore perdita di circa 127.000 euro. Somme che gli uomini e le donne di ‘ndrangheta avrebbero altrimenti incassato.

    Si tratta, se possibile, di cifre e proporzioni ancor più grandi rispetto a quelle del Reddito di Cittadinanza. Recentemente, in provincia di Vibo Valentia sono scattate circa 300 denunce per buoni spesa direttamente dai Comuni a persone che autocertificavano il proprio stato di difficoltà economica sulla base di bandi stilati dagli stessi enti locali. Tra questi, diversi affiliati alle cosche. Sono così emerse una serie di irregolarità per un danno erariale complessivo di oltre 100mila euro. Uno degli ultimi casi è di metà maggio 2021. Coinvolge 478 denunciati e tra essi molti affiliati alla ‘ndrangheta vibonese. Per loro sono arrivati 70mila euro, senza che ne avessero diritto.

    Il lockdown per fare affari

    Le mafie e la ‘ndrangheta in particolare sanno sfruttare ogni occasione. Anche i lunghi periodi di lockdown e la pandemia sono diventati occasione per lucrare. Ancora dalla relazione della DIA: «Il lockdown ha rappresentato la ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti della economia legale e negli apparati della pubblica amministrazione».

    Sempre in “Storia dell’anti-‘ndrangheta” di Danilo Chirico si dà conto di quanto messo nero su bianco dall’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, istituito dal Ministero dell’Interno. Gravi le affermazioni che sostengono come le mafie (e, in primis, la ‘ndrangheta) stiano tentando di «accedere illecitamente alle misure di sostegno all’economia», di ottenere il pagamento di prestazioni sanitarie in favore di aziende “mafiose” o collaterali ai clan e di svolgere servizi utili ad affrontare la pandemia (per esempio la sanificazione delle strutture).

  • A scuola di truffa: le “Note dolenti” di Cinquefrondi

    A scuola di truffa: le “Note dolenti” di Cinquefrondi

    La scuola come un’azienda. Dove, quindi, è possibile truffare per proprio tornaconto. È un vero e proprio “sistema” quello che avveniva all’interno dei Liceo Musicale di Cinquefrondi. A farlo emergere, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Palmi, eseguita dai carabinieri. “Note dolenti” il nome del fascicolo. Iscritte nel registro degli indagati cinque persone. Insegnanti, ma anche lo stesso dirigente scolastico del plesso.

    Indagata la preside

    Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, truffa ai danni del Ministero dell’Istruzione e abuso d’ufficio i reati contestati dal pubblico ministero Daniele Scarpino. Gli inquirenti parlano di «un illecito sistema di false, forzate e irregolari iscrizioni di studenti finalizzato a indurre in errore le articolazioni territoriali del Ministero della Pubblica Istruzione». Tutto «per costituire le prime classi anche senza un numero minimo di iscritti, o falsificando o non svolgendo le prove obbligatorie di ammissione, e quindi consentendo un ingiusto profitto di retribuzione ad alcun insegnanti».

    Tra le persone indagate, Francesca Maria Morabito, dirigente scolastico del plesso di Cinquefrondi, a sua volta costola del Liceo “Giuseppe Rechichi” di Polistena. Morabito, due mesi fa, è stata eletta presidente dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Dai dati ufficiali riportati su istruzione.it, emerge come il Liceo di Cinquefrondi abbia cinque classi per 69 alunni. Una media di 13 alunni per classe.

    L’ingiusto vantaggio in almeno due anni scolastici

    Analisi documentali e testimonianze per ricostruire le condotte, che si sarebbero perpetrate nel corso di almeno due anni scolastici. Le indagini avrebbero dimostrato come nei test attitudinali di ingresso per l’anno scolastico 2019/2020, la commissione esaminatrice, composta dal dirigente scolastico e altri docenti in servizio presso l’istituto formativo, abbia falsificato il verbale pubblico di commissione.

    Sarebbe stata attestata l’idoneità di alcuni alunni che neanche si erano presentati alle prove valutative. Successivamente, al fine di avere un numero minimo di studenti, gli stessi alunni sarebbero stati forzatamente iscritti alla classe prima. Così il Ministero dell’Istruzione sarebbe caduto in errore. Nelle successive comunicazioni, infatti, la classe risultava composta da un numero di studenti superiore a quello reale. E così, si stilava un orario di lezioni comprensivo di ore di insegnamento per alunni in realtà inesistenti.

    Una circostanza che si sarebbe ripetuta anche nel successivo anno scolastico, il 2020/2021. In questo caso, la dirigente scolastica, nonostante uno specifico obbligo di legge, non avrebbe consapevolmente costituito la commissione esaminatrice e non indetto le preordinate prove per la verifica delle competenze musicali degli aspiranti studenti. Questa, infatti, è una condizione necessaria ai fini dell’iscrizione. Così facendo, quindi, la dirigente scolastica avrebbe formalmente istituito la classe. Ma era solo una formazione “di carta”, che avrebbe così permesso ingiusti vantaggi patrimoniali ad insegnanti non di ruolo. In un caso, addirittura, la stessa dirigente si sarebbe illegittimamente sostituita all’identità di un genitore di una alunna minorenne. Tutto al fine di compilare e registrare fittiziamente la domanda di iscrizione.

    Pubblica istruzione da spolpare

    Nella provincia di Reggio Calabria sono numerose le scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza di numeri richiesti, come abbiamo mostrato con il reportage di Vincenzo Imperitura sulla Locride. Così si accorpa l’intero percorso formativo in un’unica classe. Soprattutto per quanto concerne le scuole medie. Diverso quanto accaduto al Liceo Musicale di Cinquefrondi.

    Sì, perché tale sistema/meccanismo avrebbe comportato un ingiusto profitto in favore di alcuni insegnanti, anche non di ruolo. Retribuzione stipendiale per lezioni individuali mai effettuate, oltre che ulteriori eventuali vantaggi in termini di punteggi e graduatorie. Così, dunque, la Pubblica amministrazione, anzi, la Pubblica istruzione, diventa una mammella da succhiare, una torta da dividere, carne da spolpare. Grazie una gestione burocratica e amministrativa illecita, che avrebbe portato illegittime retribuzioni ad insegnanti ed altri docenti, di ruolo o non. Una illecita alterazione del sistema di assunzione, distribuzione e pagamento delle ore di insegnamento.

  • Così la ‘ndrangheta affossa le principali mete turistiche della Calabria

    Così la ‘ndrangheta affossa le principali mete turistiche della Calabria

    Un recentissimo studio condotto da Demoskopika ha quantificato in 2,2 miliardi di euro la stima dei proventi della criminalità organizzata derivante dalla infiltrazione economica nel comparto turistico italiano. Di questi, ben 810 milioni sarebbero ad appannaggio della ‘ndrangheta: il 37% degli introiti complessivi. A seguire la Camorra con 730 milioni (33%) e la mafia con 440 (20%) e criminalità organizzata pugliese e lucana con 220 (10%).

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    I dati elaborati da Demoskopica mostrano il peso della criminalità organizzata nell’economia turistica

    Più volte, nei convegni, nella letteratura sul tema, si sono dette o lette le frasi, più o meno testuali, «la ‘ndrangheta penalizza il turismo» oppure «la ‘ndrangheta frena lo sviluppo della Calabria». Sembrano frasi vuote. Da cultori della materia. E anche studi come quelli di Demoskopika appaiono ai più numeri vuoti. Quasi teorici. Ma non è così. Perché la ‘ndrangheta è riuscita e riesce a condizionare l’economia turistica delle principali mete calabresi. Da Tropea e Pizzo Calabro, passando per Diamante e Praia a Mare, fino ad arrivare a Soverato e Isola Capo Rizzuto.

    Il caso Scilla

    L’ultimo caso, emblematico, è di pochi giorni fa. Un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria, denominata “Lampetra” ha documentato il controllo asfissiante che le famiglie Nasone e Gaietti avevano sull’economia illegale e legale di Scilla. Una perla sul mar Tirreno in provincia di Reggio Calabria.

    Lì, le due cosche che, da sempre, si dividono il territorio non solo gestivano il mercato della droga e il giro delle estorsioni. Ma, cosa ancor più inquietante, si infiltravano nell’economia legale. Dagli atti dell’inchiesta, infatti, emerge l’interesse degli affiliati per le assegnazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari. Una circostanza non di poco conto.

    Per svariati motivi. In primis, perché Scilla è stata quasi sempre vista e dipinta come una sorta di isola felice, dove lo strapotere della ‘ndrangheta non raggiungeva i picchi delle roccaforti storiche. E poi perché gli stabilimenti balneari sono uno degli aspetti più importanti dell’economia scillese, che si alimenta e vive grazie a quei tre o quattro mesi estivi in cui si può far valere la spinta turistica. Insomma, la ‘ndrangheta va quindi ad attingere al polmone vitale del sostentamento della comunità.

    La Costa degli Dei

    E sono molteplici gli episodi che dimostrano l’interesse e l’ingerenza delle cosche vibonesi sui due luoghi più iconici del turismo calabrese: Pizzo Calabro, ma, soprattutto, Tropea. Un ruolo egemone, ovviamente, è rivestito, da sempre, dal potente casato dei Mancuso. Ma in quei luoghi, il turismo viene strozzato anche dai La Rosa, che ai Mancuso sono federati.

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    Anche Tropea, eletta borgo più bello d’Italia in questo 2021, deve fare i conti con i clan locali

    Fin dal 2012 vengono, ciclicamente, effettuate operazioni di polizia che certificano l’ingerenza delle cosche nel settore turistico. Un controllo che può essere esercitato attraverso il metodo più “classico” e basico, quello dell’estorsione, ma anche attraverso meccanismi più raffinati, come quelli della intestazione fittizia. Nel 2016, l’inchiesta “Costa Pulita” poi scaturita in un processo che, in primo grado, ha portato a numerose condanne. Dagli hotel ai villaggi vacanze, passando anche per la gestione dei traghetti turistici. Le cosche non lasciavano nemmeno le briciole in quei luoghi: da Parghelia a Briatico. Purtroppo, a distanza di tre anni dalla sentenza di primo grado, il processo d’appello è iniziato appena un mese fa.

    E, invece, la ‘ndrangheta corre. Corre veloce, quando c’è da fare affari e denaro. Tra le numerose condotte che il maxiprocesso “Rinascita-Scott” sta ricostruendo c’è la rete di relazioni, anche di natura massonica, su cui la cosca Mancuso poteva contare. Anche per il progetto di un enorme complesso turistico alberghiero da costruire a Copanello di Stalettì, considerata la perla dello Jonio catanzarese. E poi, gli interessi su un villaggio Valtur di Nicotera Marina, nel cuore della Costa degli Dei, a poca distanza proprio da Tropea.

    Gli uomini giusti al posto giusto

    Per raggiungere i propri obiettivi, la ‘ndrangheta sempre più spesso punta su professionisti, uomini cerniera, colletti bianchi. Per sbrogliare la vicenda nel Catanzarese, i Mancuso si affidano allavvocato ed ex senatore di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, considerato un uomo forte della massoneria deviata.

    Nell’ambito dell’inchiesta “Imponimento”, sono stati inoltre sequestrati i villaggi Napitia a Pizzo Calabro e Garden Resort Calabria a Curinga. In quell’indagine, in cui è finito anche l’ex assessore regionale al Lavoro, Francescantonio Stillitani, sarebbe stata documentata l’ingerenza delle cosche Anello e Fruci di Filadelfia. Il focus della Guardia di Finanza si è concentrato sulle aziende che avrebbero fatto da schermo alla ‘ndrangheta, per permetterle di gestire quelle strutture di lusso.

    La recente inchiesta “Alibante”, condotta sempre dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, avrebbe invece dimostrato la rete di protezioni di cui godeva la famiglia Bagalà nel Medio Tirreno Catanzarese. «Opachi legami» è scritto nelle carte d’indagine, che avrebbero consentito ai Bagalà di crescere a dismisura negli affari. Puntando anche sul settore turistico. Grazie a un cospicuo numero di prestanome, i Bagalà avrebbero messo le mani su una serie di strutture e villaggi turistici. Soldi, tanti. Ma anche location per svolgere summit di ‘ndrangheta o nascondere latitanti. E, anche in questo caso, viene documentata la presenza di uomini giusti al posto giusto, nelle amministrazioni comunali, per superare eventuali ostacoli o lungaggini burocratiche. E da altre indagini emergono anche gli appetiti sui porti turistici di Soverato e Badolato, sempre nel Catanzarese.

    «Solo qui ho avuto problemi»

    Il meccanismo non si discosta molto da territorio a territorio. A svelare le dinamiche del territorio crotonese è il pentito Dante Mannolo, coinvolto nell’inchiesta “Malapianta” e Infectio. Mannolo ha raccontato come funziona lo sfruttamento dei villaggi turistici. Da Porto Kaleo a Serenè. Aste pilotate e investimenti delle varie famiglie del Crotonese. Su tutte, ovviamente i Grande Aracri di Cutro. Che poi impongono anche i fornitori. «Ho villaggi turistici in tutta Italia e solo qui ho avuto problemi» ha detto in aula l’imprenditore Fabio Maresca, proprio con riferimento al villaggio Serenè.

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    Capo Colonna

    Ma, anche in questo caso, si tratta solo delle vicende più recenti. Perché gli affari dei Grande Aracri o degli Arena nel settore turistico crotonese hanno radici profonde. E le inchieste hanno documentato i desideri, spesso realizzati, su opere importanti. Quali porto turistico di Le Castella, ma anche su Capo Colonna, tesoro archeologico a Isola Capo Rizzuto. L’inchiesta “Borderland”, di alcuni anni fa, ha dimostrato come i Trapasso di San Leonardo di Cutro, costola dei Grande Aracri, riuscissero a estendersi fino alla confinante Botricello (in provincia di Catanzaro) per rastrellare le estorsioni sui villaggi turistici affacciati sul tratto di costa ionica compreso tra Crotone e Catanzaro.

    Terre di confine

    Il settore turistico è da sempre un terreno privilegiato per i grandi clan. Non solo per gli introiti che fa incassare, ma anche per il prestigio che porta essere i padroni delle strutture più esclusive del territorio di competenza criminale. Lo insegna Franco Muto, il “re del pesce” di Cetraro, che per trent’anni ha inquinato il settore turistico e inondato di droga l’Alto Tirreno Cosentino. Il suo ruolo, già esplicitato, negli anni, da numerosi collaboratori di giustizia, viene tratteggiato a tutto tondo con l’inchiesta “Frontiera”, che mostra lo strapotere sulle attività ricettive, ma anche la forza monopolistica sul mercato ittico, che, ovviamente, coinvolgeva la distribuzione nei ristoranti e che si spingeva addirittura fino al Cilento. La droga commercializzata dal clan Muto scorreva a fiumi nelle zone turistiche e balneari del Cosentino: da Diamante a Praia a Mare, passando per Scalea.

    Terre di confine, Scalea e Praia a Mare. In estate, nelle bellissime spiagge di fronte all’Isola di Dino è più facile sentir parlare napoletano che calabrese. Anche sotto il profilo criminale. A Praia a Mare, ‘ndrangheta e camorra convivono tranquillamente. Storica la presenza dei Nuvoletta, uno dei clan più noti della camorra, in passato alleati anche dei Corleonesi.

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    L’isola di Dino

    Così, quindi, si arriva a quelle cifre e quelle percentuali messe nero su bianco da Demoskopika. Perché quei rapporti sono il frutto delle attività concrete, vive, della ‘ndrangheta sul territorio. Quel territorio devastato e abbandonato. Come gli edifici in costruzione, che dovevano essere strutture ricettive, ma che sono stati bloccati dalle indagini ancor prima di sorgere per l’infiltrazione ‘ndranghetista. O come villaggi e resort abbandonati dopo il sequestro dalla parte della magistratura. Un abbandono che alimenta il falso mito sulla ‘ndrangheta che “dà posti di lavoro”. E intanto, centinaia di chilometri di spiagge incontaminate e mare cristallino, come nella Locride, risultano abbandonate, allo stato brado. Non un lido, non un camping o un villaggio. Chilometri e chilometri di nulla. Terra bruciata.

  • Ponte o traghetti? Sullo Stretto resta puzza di ‘ndrine

    Ponte o traghetti? Sullo Stretto resta puzza di ‘ndrine

    Una delle obiezioni più pratiche che oppongono i “no ponte sullo Stretto” è quella della sua inutilità per il collegamento delle due sponde dello Stretto. Basterebbe, a detta di costoro, implementare una rete efficace di traghetti e trasporto marittimo. Sulla carta, certamente un’idea condivisibile. Ma la pratica è ben altra cosa. La società Caronte & Tourist che si occupa del servizio di traghettamento dello Stretto da Villa San Giovanni a Messina, opera di fatto in regime di monopolio da decenni. Questo, ovviamente, comporta costi molto alti per l’attraversamento. Per intenderci, un biglietto di andata e ritorno per un’utilitaria arriva a costare 40 euro per il percorso nelle 24 ore. E il prezzo sale ancor di più se lo stacco tra un viaggio e l’altro si allunga.

    Ma c’è dell’altro rispetto al tema del ponte sullo Stretto e dei traghetti. La società, valutata mezzo miliardo di euro, è recentemente finita in amministrazione giudiziaria in seguito a un’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria. I pm antimafia reggini sostengono che la ‘ndrangheta abbia infiltrato la Caronte&Tourist. In particolare, le potenti famiglie Buda e Imerti, già protagoniste della seconda guerra di ‘ndrangheta, avrebbero da tempo controllato quasi tutto. Parliamo infatti dell’azienda più grande che opera sul territorio reggino, con circa 1200 dipendenti. La Caronte & Tourist ha un capitale sociale di euro 2.374.310,00 e vanta numerose partecipazioni in altre società, insieme alle quali svolge, in massima parte, servizi di navigazione. Non solo sullo stretto di Messina, ma anche in ulteriori tratte tra la Sicilia e altre destinazioni. Il provvedimento emesso dai magistrati è mirato proprio a “bonificare” i vari settori su cui le cosche avrebbero esteso i propri tentacoli: dalla ristorazione alla ditta per le pulizie e la disinfestazione.

  • Ponte sullo Stretto, torna la gallina dalle uova d’oro

    Ponte sullo Stretto, torna la gallina dalle uova d’oro

    Per qualcuno è un’opera strategica, per altri, invece, il ponte sullo Stretto è una infrastruttura irrealizzabile. Gli ambientalisti dicono che devasterebbe irreversibilmente il territorio e la fauna marina. Altri ancora, poi, che sarebbe solo un favore alle mafie, dato che ingrasserebbe tanto Cosa Nostra quanto la ‘ndrangheta. È un tema ciclico. Sia sotto il profilo politico, che sotto quello economico. E, come vedremo, anche sotto quello criminale. Il tema della costruzione del ponte sullo Stretto torna costantemente. A intervalli irregolari, ma torna.

    La linea di Roberto Occhiuto

    La possibilità di collegare la sponda reggina con quella messinese, divise da soli tre chilometri di mare, è qualcosa di cui si parla da tempo immemore. Almeno da quarant’anni sotto il profilo politico. Ma qualcuno si è sforzato di trovare traccia anche nella storiografia antica. La prima proposta di realizzazione di un ponte è datata 1866, allorquando il ministro dei Lavori Pubblici Jacini incarica l’ingegnere Alfredo Cottrau, tecnico di fama internazionale, di studiare un progetto di ponte tra le due sponde.
    In questi mesi di pandemia si è spinto molto anche affinché il progetto entrasse nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il costo del progetto è di circa 4 miliardi (3,9 per la precisione) per coprire una distanza di 3,3 km su una delle zone più a rischio sismico d’Italia.

    L’ultimo a (re)iscriversi al gruppo di sostenitori del ponte sullo Stretto è Roberto Occhiuto. Oggi vicepresidente dei deputati di Forza Italia ma, cosa ancor più rilevante, candidato alla presidenza della Regione Calabria per il centrodestra. «Un collegamento stabile e veloce tra Calabria e Sicilia rappresenta per noi una priorità nazionale. Il ponte non servirebbe solo a 7 milioni di cittadini calabresi e siciliani, ma a tutto il Mezzogiorno e al Paese intero. Sarebbe un viatico di sviluppo, lavoro, crescita e turismo», ha detto all’inizio di luglio, commentando la decisione del Governo presieduto da Mario Draghi, che ha riformulato la propria linea. Impegnandosi, di fatto, al reperimento di risorse per la realizzazione dell’opera.
    Arrivando da Occhiuto, la battaglia pro ponte diventa quindi più di un documento programmatico per il candidato favorito per la vittoria delle prossime Regionali.

    Quanto è già costato il ponte sullo Stretto

    Un’idea. Una chimera, forse. L’atto più concreto riguardante il ponte sullo Stretto è l’esproprio effettuato, ormai qualche decennio fa, ad alcuni malcapitati proprietari dei terreni dove dovrebbe passare l’opera. Che ha già bruciato parecchi quattrini. Per la realizzazione era stata costituita anche una società: la Stretto di Messina SpA. Siamo nel 1981. Nei primi anni ’80, infatti, si inizia a parlare, concretamente, della realizzazione del collegamento tra le due sponde. E allora ci si muove: nella Stretto di Messina, infatti, gli azionisti sono lo Stato e Anas. E, nonostante del ponte non ci sia nemmeno una pietra, l’opera è già costata parecchio: 300 milioni di euro se si considera quanto sborsato per i dipendenti e per varie vicende burocratiche legate agli appalti.

    Ma la cosa più grottesca (e tipicamente italiana) è che la società Stretto di Messina continua a gravare sul bilancio dello Stato, sebbene sia in liquidazione dal 2013. Per la precisione, costa 1500 euro al giorno. Il calcolo è presto fatto: oltre mezzo milione di euro l’anno. E poi, ovviamente, lo stipendio dal commissario liquidatore, le parcelle per i revisori dei conti e una serie di costi incredibili e inspiegabili per una società che non ha mai operato e che ora è ferma da quasi un decennio. Ma non finisce qui.

    Durante uno dei governi presieduti da Silvio Berlusconi, che con Forza Italia è sempre stato uno dei fautori del ponte, la gara d’appalto per la realizzazione dell’opera venne vinta da Impregilo. E ora Impregilo chiede circa 700 milioni di euro in un contenzioso che farebbe aumentare ancor più il bilancio da capogiro dell’opera mai costruita. Da qui, l’ormai nota cantilena dei pro ponte: «Costa meno realizzarlo che non realizzarlo».

    L’impatto ambientale del ponte

    Una delle battaglie più veementi poste contro la costruzione del ponte sullo Stretto è ovviamente quella degli ambientalisti. Da anni Legambiente (ma non solo) si sgola per dimostrare, tramite studi e relazioni, come la costruzione di un’opera così invasiva potrebbe sconvolgere l’ecosistema dello Stretto di Messina. Anche recentemente, le associazioni ambientaliste hanno sottolineato l’insostenibilità del progetto del 2010, che oggi si vorrebbe rilanciare.
    Si tratta di uno studio effettuato dal General contractor Eurolink (capeggiato da Impregilo), da parte del Webuild (società composta da Impregilo-Salini e da Astaldi) di un ponte sospeso ad unica campata della lunghezza di 3.300 metri, sostenuto da torri alte 400 metri. Quella proposta fu abbandonata dopo che Eurolink non produsse, nel marzo 2013, gli approfondimenti economico-finanziari e tecnici richiesti, recedendo dal contratto con la concessionaria Stretto di Messina SpA. Che poi fu messa in liquidazione.

    Da sempre, gli ambientalisti sottolineano come il ponte sullo Stretto sorgerebbe in una delle aree a maggiore rischio sismico del Mediterraneo. Su tutti, basti ricordare il terribile sisma che colpì Messina e Reggio Calabria nel 1908. Gli scavi necessari per l’opera a unica campata potrebbero poi incidere pericolosamente sul delicato equilibrio territoriale dei versanti calabrese e siciliano. Infine, lo Stretto di Messina è caratterizzato da un’alta biodiversità. I più recenti studi localizzano ben dodici siti delle Rete Natura 2000, tutelati dall’Europa ai sensi delle Direttive Habitat e Uccelli.

    Gli appetiti delle cosche 

    Da sempre, infine, l’idea del ponte sullo Stretto sembra ingolosire molto le cosche. Non solo quelle di ‘ndrangheta. Ma anche, ovviamente, gli omologhi siciliani di Cosa Nostra per il versante messinese. A dirlo sono le sentenze irrevocabili. Dal 1985 al 1991, infatti, la provincia di Reggio Calabria verrà interessata da una sanguinosissima guerra di ‘ndrangheta. A fronteggiarsi, due schieramenti agguerritissimi: l’uno, facente capo al cartello De Stefano-Tegano-Libri, l’altro agli Imerti-Condello. Una mattanza durata sei anni che terminerà nel 1991, dopo circa 700 morti ammazzati sull’asfalto, con l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in Cassazione nel maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
    Una guerra che sarebbe nata (anche) per gli appetiti mafiosi delle famiglie ‘ndranghetiste sul ponte. In quel periodo, infatti, si parla con maggiore insistenza dell’opera.

    Nel 1982 il Gruppo Lambertini presenta alla neonata società concessionaria, la Stretto di Messina S.p.A., il proprio progetto di ponte. Nello stesso anno il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Claudio Signorile, annuncia la realizzazione di «qualcosa» «in tempi brevi». Due anni più tardi si ripresenta agli italiani con una data precisa: «Il ponte si farà entro il ‘94». Nel 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi dichiara che il ponte sarà presto fatto. La Stretto di Messina S.p.A. il 27 dicembre 1985 definisce una convenzione con ANAS e FS. Proprio nel 1985, quando si avviano le ostilità tra le ‘ndrine. E forse non è un caso che la guerra inizi proprio da Villa San Giovanni, località ancor più centrale di Reggio Calabria per la costruzione del ponte.

    «Tra le ragioni alla base della “guerra di mafia” che ha interessato l’area di Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, sembra esserci anche il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del ponte sullo Stretto», riportano le sentenze ormai definitive. Il ponte sarebbe stato, dunque, il casus belli. Ma anche uno dei motivi della pace, sancita con la garanzia di Cosa Nostra. Come spiega il collaboratore di giustizia Filippo Barreca: «Anche i siciliani presero posizione nel senso che andava imposta la pace fra le cosche del reggino, essendo in gioco grossi interessi economici la cui realizzazione veniva compromessa da quella guerra. Mi riferisco al ponte sullo Stretto nonché alle opere pubbliche che dovevano essere appaltate su Reggio Calabria».