Autore: Claudio Cordova

  • Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    La discarica d’Italia. E forse non solo. Questa è stata la Calabria. Non solo sotto il profilo degli accordi, i patti, le connivenze, tra il mondo criminale e pezzi deviati dello Stato. Non solo come laboratorio criminale, quindi. Ma in senso stretto. Un territorio “a perdere”, dove poter sperimentare le peggiori alleanze. E dove poter occultare scorie di ogni tipo. Ben oltre la “Terra dei fuochi”. Qui non parliamo di “monnezza”. Ma di rifiuti tossici. Di scorie nucleari. Di materiale radioattivo.

    Il carteggio

    Qualcosa che sarebbe iniziato già tra gli anni ’70 e ’80. Lo dimostra il fitto scambio di comunicazioni, di cui I Calabresi vi hanno già dato conto qualche settimana fa. Comunicazioni tra pezzi dello Stato. Servizi segreti, forze dell’ordine, magistratura. Ma, forse, non tutti giocavano nella stessa squadra.

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    Matteo Renzi ai tempi in cui guidava il Governo

    Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Fu la decisione dell’allora Governo presieduto da Matteo Renzi a far toccare con mano quanto fosse già nella conoscenza di diverse autorità investigative circa il traffico di rifiuti tossici e radioattivi che avrebbero avuto per teatro la Calabria. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di scorie nucleari sul suolo calabrese.

    Le note “riservate”

    Oggi è possibile documentare alla fine del 1992 la prima comunicazione ufficiale. Ma “riservata”. Come da DNA dei Servizi Segreti. È il 17 novembre 1992 quando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia. Rifiuti sotterrati lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria.

    I rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – «verrebbero sotterrati, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi». Addirittura, la nota dei Servizi individua anche il mezzo utilizzato per effettuare la manovra. Un camion del Comitato Autotrasportatori CAARM.

    Contestualizziamo: Cosa Nostra ha appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in quel terribile 1992. Ovviamente, tutta l’attenzione è concentrata, quindi, sulla potenza e sulle connivenze della mafia siciliana. E così, la ‘ndrangheta imperversa. Con soggetti, la cui importanza ci è ormai chiara solo da qualche anno.

    Il “Tiradritto”

    Uno di loro è il boss Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo. Catturato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2004. In quel periodo, invece, il “Tiradritto” è latitante. E “attivamente ricercato”, come si dice in gergo. Di lui si occupano anche i Servizi Segreti. Gli 007 segnalano come in cambio di una partita di armi, Morabito avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche. E, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania.

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    «Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde». Anni dopo, molti anni dopo, emergerà come in alcune zone di Africo vi sia un’incidenza tumorale e di malattie neoplastiche insensata per quel territorio. Privo di apparenti agenti inquinanti.

    Forse, a posteriori, quindi una spiegazione arriva proprio da quelle note “riservate” sul conto della ‘ndrangheta che conta. Perché quelle informative dei Servizi erano piuttosto circostanziate: «In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argilloso rimosso di recente. Verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno».

    Settemila fusti

    Gli atti desecretati alcuni anni fa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, mostrano anche come alla fine del 1994 i Servizi Segreti segnalassero l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel Vibonese. Lì esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa. Via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione arriva al Ros.

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    In quegli anni è molto attivo il ruolo del SISMI e del SISDE. Ciò che colpisce è che dietro questi affari, vi sia la “grande ‘ndrangheta”. Quella dei Cordì e quella dei Morabito per la Locride. I Mammoliti, da sempre clan importante a cavallo della provincia di Reggio Calabria e di quella di Vibo Valentia. Ma anche di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta. Le famiglie che più di tutti hanno contribuito al salto di qualità della criminalità organizzata calabrese. I Servizi Segreti segnalano infatti l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i De Stefano, i Tegano e i Piromalli.

    Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: «Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)».

    Via mare e via terra

    Altri tempi. Luoghi come Serra San Bruno e Fabrizia ancora indicano la dicitura della provincia di Catanzaro. Fatti che riemergeranno solo molti anni dopo. Più di venti. Delle scorie, invece, neppure l’ombra. Eppure l’intelligence parla anche di un traffico di uranio rosso. E sottolineano, nero su bianco, i primi incoraggianti riscontri info-operativi. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: «Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.). Nonché nel Vibonese».

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    Il porto di Odessa

    In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: «Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni. Il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir. Anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi».

    Il ruolo dei Servizi

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti anche le dichiarazioni del magistrato Alberto Cisterna. Per un determinato periodo, lavorerà al caso delle “navi dei veleni” e dei traffici di scorie sul territorio calabrese: «Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti. Questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell’attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione».

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    Sì perché – lo abbiamo visto – i Servizi c’erano eccome di mezzo: «Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i Servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo. Fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava. Quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D’accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro”.

    La versione del Sismi

    Abbastanza criptico (e inutile) il contributo del direttore del Sismi dell’epoca, il generale Sergio Siracusa: «Il Servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (…). Nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c’è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l’attività svolta. Vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell’Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia» dirà Siracusa.

  • Bazooka e AK47 dai Balcani: così il clan voleva uccidere un altro testimone

    Bazooka e AK47 dai Balcani: così il clan voleva uccidere un altro testimone

    Pronti a colpire ancora. Con armi da guerra. La cosca Crea di Rizziconi è una delle consorterie più feroci della ‘ndrangheta.  Il lavoro congiunto di tre Direzioni Distrettuali Antimafia lo dimostra ulteriormente. Dal profondo Sud, con il lavoro dei pm di Reggio Calabria. Al Nord, con le attività della Dda di Brescia. Fino al Centro, con la Dda di Ancona, competente territorialmente per il delitto.

    Tre Procure al lavoro

    Con le indagini congiunte, infatti, gli inquirenti sono convinti di aver fatto luce sul delitto di Marcello Bruzzese, consumato nel giorno di Natale del 2018 a Pesaro, nelle Marche. Un delitto gravissimo, realizzato in un giorno simbolo, il 25 dicembre. Come nelle migliori tradizioni di ‘ndrangheta. Reso ancor più inquietante dal fatto che Bruzzese risiedeva nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. Era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.

    Associazione di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi, reati questi ultimi aggravati dall’aver commesso i fatti al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta. Queste le contestazioni che gli inquirenti muovono agli indagati. I pm hanno spiccato un provvedimento d’urgente di fermo a carico di quattro persone: Vincenzo Larosa, Michelangelo Tripodi, Rocco Versace e Francesco Candiloro. Tutti, ad eccezione del primo, sono ritenuti organizzatori ed esecutori materiali del delitto.

    Il delitto Bruzzese

    Una falla pazzesca nel sistema di protezione. Le complesse verifiche condotte hanno consentito di accertare come nei periodi immediatamente precedenti all’omicidio gli indiziati avevano condotto minuziosi e ripetuti sopralluoghi per studiare le abitudini della vittima. Servendosi, in queste circostanze, di documenti falsi e di una serie di accorgimenti utili a impedire la propria identificazione.

    Il vasto compendio probatorio raccolto dalle attività condotte dal ROS, ha permesso di circoscrivere il movente dell’azione omicidiaria nella “vendetta trasversale”, nell’interesse della cosca Crea. Per la decisione collaborativa assunta da Girolamo Biagio Bruzzese nel 2003.

    All’omicidio del Natale 2018 va quindi attribuita una valenza strategica, in quanto necessario a rimarcare la perpetuazione dell’operatività della cosca Crea e della sua capacità di intimidazione. Nonché a scoraggiare, nell’ambito della consorteria, ulteriori defezioni collaborative.

    Pronti a colpire ancora

    Ma, paradossalmente, non è questo l’elemento più inquietante dell’inchiesta. Le indagini dei Carabinieri del Ros, infatti, avrebbero dimostrato come Vincenzo Larosa e Michelangelo Tripodi fossero soggetti a disposizione degli interessi del sodalizio. Larosa affiliato di vecchia data ai Crea. Il padre Carmelo avrebbe anche fornito un bunker per la latitanza di alcuni soggetti apicali del clan della Piana di Gioia Tauro. Sul conto di Tripodi, soggetto del Vibonese, pesano invece le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena, recentemente escusso anche nel maxiprocesso “Rinascita – Scott”, condotto dalla Dda di Catanzaro.

    L’ex sindaco di Rizziconi, Antonino Bartuccio, vive sotto scorta dopo le sue denunce contro la cosca Crea

    Ebbene, secondo l’inchiesta, Larosa e Tripodi stavano pianificando più attentati omicidiari nell’interesse di Domenico Crea. Anche come ritorsione per l’emissione della sentenza di condanna emessa il 12.12.2020 dalla Corte di appello di Reggio Calabria a carico di Teodoro Crea, Giuseppe Crea (cl.78) e Antonio Crea (cl. 63). Si tratta del procedimento “Deus”, con cui la Dda di Reggio Calabria ha dimostrato l’ingerenza del potente casato di ‘ndrangheta nell’amministrazione comunale di Rizziconi. In quell’occasione, si registrò la coraggiosa denuncia dell’allora sindaco Antonino Bartuccio, soggetto sgradito ai Crea. Da quel momento, Bartuccio vive sotto scorta insieme ai propri familiari. E potrebbe essere proprio lui uno dei soggetti nel mirino dei Crea.

    Le armi da guerra

    Alla conclusione, gli inquirenti arrivano valorizzando delle captazioni di tipo tecnologico che non si era potuto acquisire “in diretta”. Le conversazioni testimonierebbero l’astio degli affiliati dopo la sentenza d’Appello del processo “Deus”. Da quel momento, sarebbe scattata una corsa agli armamenti di tipo pesante. Un gruppo di fuoco agguerrito, nonostante i vertici della cosca siano da tempo detenuti in regime di 41 bis. Come ha spiegato il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri: «Sempre pronti “a dare soddisfazione” ai loro capi in carcere».

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    Il procuratore Bombardieri durante la conferenza stampa di oggi

    Un canale individuato per ottenere l’approvvigionamento di armi sarebbe stato il territorio dei Balcani. Sebbene non ritrovato in sede di perquisizione dai Carabinieri, gli affiliati fanno chiaro riferimento a un bazooka. Evidentemente in grado di poter colpire con successo anche un’auto blindata. Proprio come quella su cui viaggia Bartuccio insieme alla famiglia. Agli atti dell’inchiesta una conversazione in cui uno dei fermati, facendo riferimento a una sentenza della Corte d’Appello, diceva che ci voleva un AK47, un kalashnikov. E sparare à gogo.

    Insomma, sebbene il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto Gaetano Paci, mantengano ufficialmente il riserbo, appare pressoché scontato che uno degli obiettivi fosse proprio Bartuccio. Protagonista di una coraggiosa (e rara) denuncia e quindi da punire. Soprattutto dopo la dura sentenza d’Appello.

    «Due dei fermati erano pronti a commettere altri episodi delittuosi con la disponibilità di armi da guerra inquietanti. Stavano pianificando un altro delitto di un altro testimone di giustizia che aveva reso testimonianze» ha rivelato, la procuratrice distrettuale antimafia delle Marche, Monica Garulli.

  • La ‘ndrangheta unica mafia in tutti i continenti: ecco la mappa

    La ‘ndrangheta unica mafia in tutti i continenti: ecco la mappa

    Uno degli ultimi rapporti del progetto dell’Interpol I-Can, International Cooperation against ndrangheta documenta come la criminalità organizzata calabrese sia l’unica a essere presente nei cinque continenti del pianeta. E per presenza, non si intende certo una presenza sporadica o silente. Nei territori di tutto il globo, la ‘ndrangheta riesce a fare affari prettamente illeciti, quali il traffico di droga e di armi. Ma anche a inquinare l’economia apparentemente legale, con il riciclaggio in settori quali l’edilizia, la ristorazione, le strutture ricettive o il gioco d’azzardo. In alcuni luoghi riescono a eleggere anche i sindaci.

    Alla conquista dell’Europa

    Fu, soprattutto, la strage di Duisburg del Ferragosto 2007 a dimostrare la presenza pervasiva e pericolosa delle ‘ndrine nel cuore dell’Europa. Ma nel Vecchio Continente, la ‘ndrangheta faceva affari da diversi anni. Sfruttando anche una legislazione in larga parte inadeguata a contrastarla. Numerosi Paesi europei continuano infatti a fare ostruzionismo rispetto alle richieste di Strasburgo, che da oltre un decennio chiede di estendere ai Paesi membri il reato di associazione mafiosa, per poter contrastare le mafie in maniera globale. E non sono bastate nemmeno le pressanti richieste di Europol ed Eurojust.

    La ‘ndrangheta è presente sostanzialmente nei principali Paesi dell’Unione Europea. A partire dalla Germania della strage di Duisburg. A Singen, la polizia tedesca è riuscita anche a intercettare la riunione di un locale, che si svolgeva con le medesime modalità della casa madre calabrese. Il Baden-Württemberg come se fosse Platì o Isola Capo Rizzuto. E poi la Francia, dove, da sempre, sono di casa alcuni dei clan più importanti. Si pensi ai De Stefano e alla loro colonizzazione di Antibes, in Costa Azzurra. Ma anche la Spagna, dove, negli anni, hanno trovato rifugio numerosi importanti latitanti. Da ultimo, l’arresto del boss Domenico Paviglianiti, catturato ad agosto a Madrid.

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    Il porto di Rotterdam

    Giacomo Ubaldo Lauro negli anni ’70 e ’80 era un boss di primissimo livello della ‘ndrangheta. Poi, divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato di come, già oltre quarant’anni fa, smerciasse chili di droga nei Paesi Bassi. Proprio lì, dove le cosche sono riuscite a infiltrare anche il mercato dei fiori, vero vanto dello Stato frugale. Rotterdam e Anversa, del resto, sono da sempre porti aperti per le ‘ndrine. Esattamente come se ci trovassimo a Gioia Tauro. «L’uso sempre maggiore di spedizioni tramite container che fanno affidamento ai porti ad alto traffico di Anversa, Rotterdam e Amburgo hanno consolidato il ruolo dell’Olanda come punto di transito», si legge nel recente rapporto stilato sui traffici di droga dall’Europol.

    Il rapporto “Cocaine Insights” dell’Europol specifica inoltre come lo scorso anno, i sequestri complessivi di cocaina ad Anversa siano stati pari a 65,6 tonnellate. Le cosche egemoni sono proprio quelle che, da anni, controllano il territorio calabrese. Dai Bellocco di Rosarno, ai Nirta-Strangio di San Luca.

    Il Regno Unito

    Discorso a parte merita il Regno Unito. Lì, in maniera per adesso molto sottovalutata, le mafie riciclano miliardi e miliardi di sterline. Nella City di Londra, cuore pulsante della Borsa, broker della ‘ndrangheta si muovono già da anni. In maniera piuttosto incontrollata. «Il Regno Unito rappresenta da sempre, per la criminalità mafiosa, un’area di interesse per riciclare denaro, utilizzando società finanziarie e attività imprenditoriali» scrive la DIA in una recente relazione semestrale.

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    La City di Londra

    «Dalla Brexit un assist per le mafie» diceva qualche anno fa il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.  Un rapporto del 2019 della National Crime Agency britannica sosteneva che ben 100 miliardi di euro di capitali illeciti venissero “lavati” nella City di Londra.
    Le inchieste “Vello d’oro” e “Martingala”, condotte congiuntamente dalle Dda di Firenze e Reggio Calabria avrebbero aperto degli squarci di luce. Attraverso società cartiere nel Regno Unito e in altri Paesi, le cosche realizzavano attività di riciclaggio e di reimpiego di capitali illeciti.

    Le “zone franche”

    Spostandoci verso Est, il barbaro omicidio del giornalista Jan Kuciak ha dimostrato come i gruppi calabresi fossero molto forti e radicati in Slovacchia. Il giornalista stava proprio indagando sugli affari di alcuni imprenditori della provincia di Reggio Calabria, i Vadalà, e su alcuni incroci pericolosi con la politica nazionale. In luoghi del genere, la ‘ndrangheta continua ancora a muoversi con grande disinvoltura.

    In questi luoghi, prevalentemente le cosche riciclano denaro. Proprio grazie a queste relazioni oscure con il potere. Le attività predominanti sono quelle dell’edilizia e della ristorazione. Ma anche quelle dei vizi: e, quindi, le strutture ricettive di fascia alta, le rivendite di auto di lusso, il giro di prostituzione. Una nuova frontiera, recentemente documentata, è quella della formazione, con gli interessi nella gestione di corsi per il conseguimento di attestati professionali e di studio.

    All’interno del Vecchio Continente vi sono, notoriamente, alcune nazioni che sono dei veri e propri “porti franchi” per gli affari delle cosche. È il caso di Malta. Nella piccola isola britannica, le cosche riciclano denaro e sono assai attive, soprattutto con riferimento al gioco d’azzardo. Sono le indagini “Gambling” e “Galassia” a fotografare la situazione di un Paese che spesso si gira dall’altra parte. E che permette ancora eclatanti omicidi, come quello della giornalista Daphne Caruana Galizia. Nel Lussemburgo, poi, le cosche della Locride avrebbero messo in piedi già da tempo una fitta rete per gestire il riciclaggio di denaro sporco.

    Il Medio Oriente

    E poi ci sono i corridoi e i canali tradizionali. Traffico di hashish ed eroina che riguarda anche la Grecia, rotta di passaggio verso le coltivazioni di papavero del Medio Oriente. Ma anche i rapporti con i gruppi criminali dei Balcani per quanto concerne il traffico di droga e armi. Recentemente, l’ha dimostrato l’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria. All’inizio dell’anno è stato anche estradato in Italia Ardjan Cekini, considerato il referente dei Bellocco nei Balcani.

    Ruolo sempre crescente, poi, quello degli albanesi nel mercato della droga. Come testimonia, peraltro, il rapporto stilato dall’Europol. Ma, assicurano gli inquirenti, non si può parlare di una perdita del monopolio da parte delle ‘ndrine, ma di una maggiore forza degli albanesi (rispetto ad altri gruppi) di dialogare con la ‘ndrangheta per questo tipo di business.

    Già da metà degli anni ’90, inoltre, è noto il ruolo del consulente finanziario Sebastiano Saia. Costui sarebbe, da sempre, uomo di riferimento di uno dei più grandi narcotrafficanti della storia, Pasqualino Marando. Conosciuto in tutto il mondo, Marando sarebbe riuscito a entrare in contatto con il broker turco della droga, Paul Waridel, proprio grazie a Saia. Così, dunque, Marando avrebbe allargato i propri orizzonti. Già in quel periodo smerciava droga non solo in Sud America, ma anche in Medio Oriente, grazie ai rapporti con la famiglia pakistana Hafeez.

    Saia, catanese, capace di relazionarsi con mondi diversi anche grazie al suo basso profilo. Una vita da romanzo, sparsa in giro per il globo. Nel corso degli anni, verrà catturato anche a Londra. Tra il 2015 e il 2016 si sposta prima in Turchia e poi in Grecia dove viene arrestato ancora una volta per truffe internazionali. Scagionato totalmente nel 2018, fa perdere le sue tracce.

    L’America

    Scomparso nel 2001 nell’ambito della faida di Platì, Pasqualino Marando avrebbe per anni fatto affari di droga con tutto il Sud America. Insieme a Bruno Pizzata, ma, soprattutto, a Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, sono considerati i più grandi broker del narcotraffico di tutti i tempi. Ma l’elenco potrebbe essere pressoché infinito. È recentemente venuta a galla, con catture e fughe rocambolesche, la caratura criminale del boss Rocco Morabito, detto “Tamunga”, divenuto signore incontrastato in Uruguay dalla nativa Locride.

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    L’arresto di Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, in Colombia

    In generale, le cosche di ‘ndrangheta, da sempre, dialogano da pari a pari con i cartelli della droga del Sud America. Dalla Colombia al Messico, passando per il Brasile. Ma non c’è Stato latinoamericano in cui le ‘ndrine non abbiano messo radici. Gli uomini di ‘ndrangheta sono considerati infatti i più affidabili. Anche per l’esiguo numero di collaboratori di giustizia al proprio interno. Grazie a questo ermetismo e alla enorme liquidità economica, le ‘ndrine hanno scalzato nei rapporti di forza Cosa Nostra. Che, invece, fino agli ’80 faceva la parte del leone.

    Situazione simile anche negli Stati Uniti. Dove ormai Cosa Nostra recita un ruolo più marginale rispetto al passato. Scrive la DIA in un suo rapporto: «Non ultimo, avrebbe concorso a questo ridimensionamento anche la pressione esercitata da altre organizzazioni per il controllo del territorio, in particolare della ‘ndrangheta, che si starebbe sostituendo ai rivali siciliani nel controllo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. Allo stesso tempo, la ’ndrangheta sarebbe altrettanto attiva nel riciclaggio e nel reimpiego di capitali illeciti».

    Il Nuovo Mondo, del resto, è quello che, forse, nasconde meno segreti sull’infiltrazione delle cosche sul territorio. Vecchi ormai quasi di un secolo i rapporti tra la ‘ndrangheta e le famiglie mafiose emigrate oltreoceano. Secondo quanto messo nero su bianco dalla DIA, negli ultimi anni le cosche della Locride sarebbero in grande espansione soprattutto nello stato di New York e in Florida.

    Negli ultimi anni sono state in particolare le operazioni “New Bridge” e “Columbus” a dimostrare la pervasività delle ‘ndrine sul territorio a stelle e strisce. A essere colpite, tra le altre, le cosche Ursino, Morabito in contatto la storica famiglia mafiosa dei Gambino e sempre alla ricerca di nuove alleanze per il traffico di droga. Era un ristorante del Queens, a New York, la base operativa delle cosche. Il ristorante era gestito da un calabrese incensurato, Gregorio Gigliotti, originario di Serrastretta, nel Catanzarese. Un business, quello di cocaina (soprattutto) in cui erano coinvolti anche gli Alvaro, che avevano allargato gli orizzonti fino al Costa Rica.

    E poi c’è il Canada. In principio fu il “Siderno Group of Crime”. Decenni fa, ormai, i Commisso, storica cosca sidernese, spostarono molti dei propri interessi nel Paese dell’acero. Il meccanismo è sempre quello della riproduzione delle dinamiche locali su territori lontani. Le locali di ‘ndrangheta canadesi fornivano appoggi funzionali alla “casa madre”, per trafficare droga e riciclare denaro. In particolare, i carichi di cocaina prodotta in Colombia viaggiano attraverso il Venezuela. Per arrivare poi negli USA e in Canada. Tutte dinamiche cristallizzate nell’inchiesta “Crimine 2”, ma anche “Acero Connection-Krupy” e “Typograph–Acero bis”.

    La ‘Ndrangheta in Africa

    Terzo Mondo a chi? Anche l’Africa è un territorio in grande crescita per quanto concerne gli interessi di tipo ‘ndranghetista. Già nell’inchiesta “Igres” emerse il ruolo del narcos Vito Bigione, uomo potentissimo in Namibia, capace di svolgere il ruolo di anello di congiunzione tra narcos sudamericani, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Parliamo di fatti avvenuti tra il 2001 e il 2002. Quindi, sostanzialmente, vent’anni fa.

    Ancor prima, il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, “santista” della Locride, aveva reso importanti dichiarazioni sui traffici di armi, ma, soprattutto, di rifiuti tossici e radioattivi tra Italia e Somalia. Siamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quando la ‘ndrangheta avrebbe avuto un ruolo importante. Tutto si incastra nel periodo della missione umanitaria “Restore Hope”. Vicende inquietanti, di intrighi internazionali, che si intrecciano anche con l’uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. E con la morte sospetta del capitano di corvetta, Natale De Grazia, ufficiale della Marina Militare di Reggio Calabria, morto in circostanze sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    Negli anni gli affari si sono evoluti e anche i territori diversificati. Vi sono per esempio tracce importanti degli affari della ‘ndrangheta in Costa d’Avorio. Un’inchiesta di IRPI (Investigative Reporting Project Italy) dimostrò come il potente imprenditore dei rifiuti nel Lazio, Manlio Cerroni, si muovesse molto bene tra Senegal e Costa d’Avorio. Luoghi dove, ulteriormente crescente era ed è il ruolo dei calabresi. Appena pochi mesi fa, a maggio, tre persone sono state arrestate su mandato della Procura della Repubblica di Locri. L’accusa è quella di corruzione internazionale nei confronti di funzionari della Costa d’Avorio e trasferimento fraudolento di valori. L’ipotesi investigativa è quella che tutto potesse celare un interesse delle cosche nell’estrazione dell’oro. Dietro le compagini societarie ricostruite dagli inquirenti, infatti, troverebbe posto anche un soggetto considerato contiguo ai Marando di Platì.

    Recentemente, inoltre, alcuni collaboratori di giustizia hanno anche parlato dell’interesse della ‘ndrangheta per il coltan, che viene estratto in ingenti quantità nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un minerale preziosissimo, fondamentale, come è noto, per la fabbricazione dei cellulari.

    L’Asia e l’Oceania

    Ovviamente, tali, enormi, disponibilità finanziarie trovano spessissimo sponda importante in territori incontrollati o paradisi fiscali, quali Cipro, Singapore, Panama, Nuova Zelanda, Bahamas, Svizzera, Spagna, Austria. O, ancora, a Dubai, Isola di Man, Cayman e Seychelles. Non è un caso, infatti, che l’ex deputato di Forza Italia, Amedeo Matacena, considerato vicinissimo alle cosche, stia trascorrendo la propria latitanza dorata proprio a Dubai.

    E questi affari portano direttamente anche alla collaborazione tra cosche calabresi e triadi cinesi. Difficile, quasi impossibile, ricostruire i rapporti dei clan in Paesi così chiusi. Governati da dittature o simil dittature. È il caso della Russia, per esempio. Ma anche, evidentemente della Cina. Gran parte del coltan, infatti, finisce sul territorio dello stato della Grande Muraglia. E lì le organizzazioni criminali si spartiscono gli ingenti profitti. Gruppi criminali agguerriti, in cui sarebbe riuscita a insinuarsi anche la ‘ndrangheta, per quanto concerne il mercato delle armi.

    Ma la vera avanguardia sotto il profilo degli affari è Hong Kong. Lì, già dal 2014, vennero documentati gli affari del boss Giuseppe Pensabene, detto “Il Papa” del broker italo-svizzero Emanuele Sangiovanni. Secondo quanto emerso dalle indagini, in conti segreti di istituti finanziari della città-Stato asiatica sarebbero arrivati diversi milioni di euro appartenenti ai clan calabresi. C’è poi una recentissima indagine sul conto delle cosche crotonesi, in particolare sui clan Mannolo e Grande Aracri. Stando alle ricostruzioni della Guardia di Finanza, vi sarebbe anche un’operazione da circa 400mila euro effettuata tramite la filiale di Hong Kong della banca HSBC.

    Oltre alle disponibilità economiche, la vera forza della ‘ndrangheta è rappresentata dalle relazioni. In tutti gli stati del mondo dove è presente e dove incide, può contare su una fitta rete di professionisti, di broker, insospettabili “colletti bianchi”. Una delle nazioni più emblematiche, da questo punto di vista, è l’Australia. Lì, attraverso l’immigrazione avvenuta negli scorsi decenni, la ‘ndrangheta è riuscita a ricreare quasi una seconda Calabria. Numerosi gli episodi criminali, anche fatti di sangue che celano la mano delle ‘ndrine. Nel 2016, per esempio, venne ucciso il boss Pasquale Barbaro. Non a San Luca. Né a Cetraro. Ma a Sidney.

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    Il boss Pasquale barbaro, ucciso a Sidney

    In Australia, la ‘ndrangheta ha una forza così grande da riuscire anche a eleggere i politici. Un caso su tutti, quello di Domenico Antonio Vallelonga, per tutti Tony Vallelonga. Sindaco dal 1997 al 2005 della cittadina di Stirling, popoloso sobborgo di Perth, la capitale del Western Australia. Avrebbe rivestito un ruolo di vertice nel locale di appartenenza. È stato esponente di vari consigli regionali e presidente di importanti associazioni locali, di comitati comunitari e di alcune associazioni di cittadini italiani. Un recordman, eletto per ben quattro mandati. Anche con percentuali plebiscitarie. Originario di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, Vallelonga viene intercettato dai Carabinieri, all’interno della lavanderia “Ape Green”, centro nevralgico della cosca Commisso di Siderno.

    Perché è proprio questo uno dei segreti che consente alla ‘ndrangheta di essere presente (e incidere) sui cinque continenti. Mai perdere il contatto con la “casa madre” calabrese.

  • Droga, “colletti bianchi”, Covid e criptovalute: le ‘ndrine secondo la DIA

    Droga, “colletti bianchi”, Covid e criptovalute: le ‘ndrine secondo la DIA

    Mafie 2.0. Anzi, forse già 4.0. Presenti in tutto il mondo. Capaci di evolversi, di sfruttare le nuove emergenze e le nuove tecnologie. Ma, allo stesso tempo, anche colpite dall’azione repressiva delle forze dell’ordine. Emerge questo dalla Relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il report si riferisce al secondo semestre del 2020 e analizza le emergenze giudiziarie, ma anche sociali sui fenomeni mafiosi.

    Le tante facce delle mafie

    Il tratto caratteristico sottolineato dalla DIA è la capacità delle mafie di cambiare il proprio volto all’occorrenza. Senza perdere la propria forza intimidatrice di banda armata, la criminalità organizzata mostra però sempre di più il proprio volto “gentile”. Aspetto e comportamenti presentabili, per dialogare con mondi con cui non dovrebbe esserci alcun tipo di collegamento. Vale per tutte le mafie: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. E la crescente Sacra Corona Unita, che, tra tutte, è quella che mantiene di più il proprio volto selvaggio e spietato. Ma il dato sottolineato dalla DIA è la tendenza a sostituire «l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione di silente infiltrazione».

    Il report della DIA riprende le indagini effettuate, lungo la Penisola, dalle Dda. E sempre con maggior forza le indagini rimarcano «l’attitudine delle ‘ndrine a relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti».

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    Particolare spazio è dedicato alla realtà criminale della Capitale. “Roma città aperta”, davvero. Ma nel senso che lì riescono a penetrare sostanzialmente tutte le mafie. Che poi dialogano, proficuamente, con la criminalità locale e con le organizzazioni criminali straniere. «A un livello più strategico – si legge nel documento – condotte violente quali omicidi, tentati omicidi o gambizzazioni possono risultare funzionali a orientare o persino deviare significativamente il corso delle relazioni delinquenziali (anche datate) delle alleanze ovvero degli equilibri spesso labili e comunque sempre soggetti al business contingente».

    A Roma, mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno affari e riciclano denaro. Forti della maggiore capacità di occultamento e mimetizzazione. «La mancanza di un’organizzazione egemone con cui fare i conti e di contro l’elevato potenzialità del capitale sociale del territorio (in termini di presenze criminali, rete di professionisti, esponenti istituzionali, amministratori pubblici, politici locali e nazionali) sono fattori che uniti alle emergenze originate dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sicuramente possono favorire il reinvestimento dei capitali illeciti», segnala il documento di oltre 500 pagine.

    Le mafie e il Covid

    Più e meglio di chiunque, le mafie riescono a interpretare in anticipo i cambiamenti della società. E a sfruttare le emergenze. Di qualsiasi tipo. Si pensi alle infiltrazioni negli appalti dopo una catastrofe (su tutte, il terremoto de L’Aquila). Non fa eccezione, evidentemente, anche la pandemia da Coronavirus, che ha investito l’Italia e il mondo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ancora dalla relazione della DIA: «Il rischio di inquinamento dell’economia che è stato ulteriormente accentuato dalla crisi pandemica, nella capitale potrà comportare un ulteriore espansione delle condotte usurarie che potrebbero andare a intaccare non solo le piccole e medie imprese ma anche i singoli».

    Ancora una volta, viene presa Roma come esempio di quanto possa avvenire, però su tutto il territorio nazionale. «Non sono tuttavia da sottacere quelle condotte violente opera di soggetti criminali emergenti che si presentano alla lente degli analisti e degli investigatori come funzionali alla conquista di porzioni di territorio per la gestione delle piazze di spaccio degli stupefacenti il cui approvvigionamento resta tendenzialmente appannaggio di camorra, ‘ndrangheta e in misura minore di cosa nostra con gruppi di criminalità straniera, in particolare albanese, che si stanno sempre più affermando nel settore».

    I Calabresi aveva già effettuato un’inchiesta sulla capacità della ‘ndrangheta di sfruttare il welfare. Dai bonus spesa Covid, al Reddito di Cittadinanza. Una tendenza che adesso viene sottolineata anche dalla DIA. «La spregiudicata avidità della ‘Ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l’organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate». L’affermazione della DIA richiama diverse indagini che hanno visto personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: dalle famiglie Accorinti del Vibonese, a quelle crotonesi, come i Mannolo oppure i Pesce e i Bellocco di Rosarno. O alle famiglie di San Luca.

    ‘Ndrangheta regina del narcotraffico

    Le analisi focalizzano la visione «globalista» della ‘ndrangheta. La relazione della DIA utilizza proprio questo termine per documentare come le ‘ndrine si siano stabilite in numerosi Paesi del mondo e siano capaci di dialogare da pari a pari con i produttori di droga dell’America Latina. La relazione censisce i gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.

    San Giusto Canavese (Torino) e Lonate Palazzolo (Varese), Lona Lases (Trento) e Desio (Monza e Brianza), Lavagna (Genova) e Pioltello (Milano). Sono solo alcuni dei “locali” di ‘ndrangheta al nord. Luoghi lontani dalla “casa madre” calabrese, dove, comunque, le ‘ndrine avrebbero messo radici. La Direzione investigativa antimafia nella sua Relazione semestrale al Parlamento conta ben 46 “locali” nelle regioni settentrionali. Sono 25 in Lombardia, 14 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.

    Ritorna quindi il concetto di holding, capace di ripulire gli enormi capitali illeciti, frutto dei traffici di droga. Proprio nel mercato della droga, la ‘ndrangheta continua a essere leader a livello internazionale. Una visione, quella della DIA, che va a cozzare con quanto messo nero su bianco pochi giorni fa dall’Europol. Che, invece, dava un ruolo in grande crescita alle organizzazioni criminali albanesi.

    «Non più impermeabile»

    Un aspetto molto importante sotto il profilo investigativo ma, forse, anche sociale è quello che la DIA rileva sul fenomeno delle collaborazioni con la giustizia. Il “pentitismo” da cui, per tantissimo tempo, la ‘ndrangheta è rimasta pressoché immune. Si legge nella Relazione Semestrale: «Non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell’organizzazione mafiosa».

    Le indagini, evidenzia la Relazione, danno conto «dell’ampio e pressoché inedito squarcio determinato dall’avvento sulla scena giudiziaria di un numero sempre più elevato di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia». E anche «esponenti di primo piano hanno scelto di rompere il silenzio».

    ‘Ndrangheta e “colletti bianchi”

    Il timore è quello di sempre. La conquista di ampie fette di mercato da parte delle cosche. «Le ‘ndrine – si legge nel documento – potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria”.

    In particolare, «secondo un modello collaudato, la criminalità organizzata calabrese persisterebbe nel tentativo di accreditarsi presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale, nel verosimile intento di subentrare negli asset proprietari e nelle governance aziendali al duplice scopo di riciclare le proprie disponibilità di illecita provenienza e inquinare l’economia legale impadronendosi di campi produttivi sempre più ampi».

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    La relazione semestrale della Dia

    Anche i settori commerciali di interesse sono quelli di sempre: dalle costruzioni agli autotrasporti, passando per la raccolta di materiali inerti. E poi, ancora, ristorazione, gestione di impianti sportivi e strutture alberghiere, commercio al dettaglio. E, ovviamente, il settore sanitario. «Si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più  bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere», scrive ancora la DIA. Eccola la sinergia tra mafie e colletti bianchi: «Incaricati di curare le importazioni di carbo-lubrificanti dai Paesi dell’Est Europa, gestire la distribuzione dei prodotti sull’intero territorio nazionale attraverso società-filtro create ad hoc per attestare attraverso falsa documentazione il fittizio assolvimento degli adempimenti tributari e in tal modo riciclare i capitali di provenienza illecita messi a disposizione dai sodalizi mafiosi».

    «La ‘Ndrangheta esprime un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche». Perché, oltre alla smisurata capacità economica, la vera forza della ‘ndrangheta, sono le relazioni. Quelle che le permettono di entrare nei palazzi del potere, di dialogare con mondi (anche occulti) con cui sarebbe dovuta entrare in contatto: «Grazie alla diffusa corruttela vengono condizionate le dinamiche relazionali con gli enti locali sino a controllarne le scelte, pertanto inquinando la gestione della cosa pubblica e talvolta alterando le competizioni elettorali».

    Le criptovalute

    Proprio grazie ai professionisti al proprio servizio, le cosche riescono anche a cogliere e interpretare le varie opportunità offerte della globalizzazione. «Avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia si orientano verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) nei quali imprenditori riconducili alla criminalità organizzata, e grazie alla costituzione di società sedenti nei paradisi fiscali, creano un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere notevoli guadagni e in particolare di riciclare in maniera anonima cospicue quantità di denaro».

    Denari che poi si muovono in giro per l’Europa e per il mondo. Sia nel Vecchio Continente, con Svizzera, Lussemburgo e Malta. Sia in altre zone del pianeta, come Dubai, Seychelles, Hong Kong, sono disseminati paradisi fiscali o, comunque “zone franche”. Dove la ‘ndrangheta opera finanziariamente in maniera pressoché incontrollata. E nella gestione dei suoi business ricorre sempre più spesso «a pagamenti con criptovalute quali i Bitcoin e più recentemente il Monero, che non consentono tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario».
    Ecco la ‘ndrangheta 2.0. Che corre veloce, però. Quindi, forse, è già ‘ndrangheta 4.0.

  • Calabria: non è una regione per donne

    Calabria: non è una regione per donne

    Accoltellata a morte dal marito. Il barbaro femminicidio di Sonia Lattari, 43enne, assassinata dal marito, Giuseppe Servidio a Fagnano Castello, nel Cosentino, riapre il dibattito sulla condizione delle donne in Calabria. Discriminate, ghettizzate, con minori opportunità di accesso al mondo del lavoro e alle istituzioni. E, spesso, vittime di violenze o uccise.

    I numeri su omicidi e violenze

    In un anno, in Italia, sono state uccise 105 donne. È il 38% degli omicidi volontari. Il dato emerge dall’annuale dossier del ministro dell’Interno. Il periodo di riferimento del dossier è quello che va da agosto 2020 a luglio 2021.

    Sonia Lattari è la quarta donna uccisa in Calabria dall’inizio dell’anno per mano di partner o ex compagni. Spesso il delitto si consuma al termine di un periodo, più o meno lungo, di violenze fisiche e psicologiche. Se, infatti, il numero di vittime in Calabria non registra picchi particolarmente significativi rispetto alla media nazionale, ciò che preoccupa sono i cosiddetti “reati spia”. Quelli, cioè, che possono preludere a un epilogo ancor più drammatico. «In questo momento in Procura abbiamo un numero elevatissimo di denunce per reati di violenza di genere ed è un trend che è in crescita». Ad affermarlo il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo.

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    Sonia Lattari insieme al marito, oggi accusato di averla uccisa a coltellate

    Ma non sempre si denuncia. La stessa Sonia Lattari, nel passato, aveva subito percosse dall’uomo. Ma non aveva denunciato. «Troppe volte ematomi e ferite vengono giustificati in termini non credibili, quando arriva la polizia sul luogo delle violenze. E allora invitiamo a denunciare, perché abbiamo tutta una struttura di supporto per affrontare i drammi di queste persone, se si affidano a noi», aggiunge Spagnuolo.

    Antonella Veltri, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza, dà una chiave di lettura diversa: «Le donne stanno dimostrando grande resistenza. Ma le donne non denunciano perché con il sistema attuale si ripropongono a una vittimizzazione secondaria».

    La donna in Calabria

    Oltre ai casi di violenza diretta, ciò che preoccupa è la condizione generale della donna in Calabria. A cominciare da quella lavorativa. Il mercato del lavoro calabrese che sino al 2019 mostrava un lieve ma costante recupero, nel mese di giugno 2020 registra un arresto di tale trend positivo. A certificarlo il rapporto sull’economia della Calabria della Banca d’Italia. Ovviamente su tale situazione, molto ha inciso la pandemia da Covid-19. Ma a pagare sono sempre le “solite” categorie. La riduzione della occupazione ha riguardato principalmente la fascia di lavoratori di età compresa tra 15 e 29 anni. E la componente femminile.

    Nel 2018 per l’Italia aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea. Che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali. A livello nazionale si riduce il gap tra uomini e donne. Questo per effetto della contrazione nel periodo del tasso di occupazione maschile. Ma il divario è più elevato rispetto alla media europea. Tra il 2008 e il 2018, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile il Mezzogiorno, già molto lontano, perde ulteriormente terreno. Attestandosi al 30,5 del 2018.

    Numeri già non lusinghieri. Che, nella nostra regione, peggiorano ulteriormente. Secondo quanto riportato nel Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027 «la Calabria esprime un tasso di occupazione del 31%, di oltre 30 punti inferiori alla media europea». Sempre nel medesimo Documento, l’individuazione delle cause di tali numeri inquietanti: «La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è legata in buona parte alla carente disponibilità di servizi di cura e assistenza (anche, ma non solo, per la prima infanzia), insufficienti investimenti nelle politiche di welfare e di conciliazione tempi di lavoro/tempi di vita, rigidità organizzative del lavoro, squilibrio persistente nel riparto del lavoro di cura all’interno della famiglia».

    La rete antiviolenza smantellata

    In Italia, il reato di femminicidio è stato introdotto solo nel 2013. La legge 19 luglio 2019, introduce talune disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Ed è l’occasione per chiarire il funzionamento del sistema penale per la tutela delle vittime di femminicidio. Il cosiddetto “Codice Rosso”. Negli ultimi 10 anni, in Calabria sono circa 100 le donne uccise.

    «Vorrei superare lo stereotipo calabrese del vittimismo. La situazione delle donne in Calabria rispecchia grossomodo quello che avviene a livello nazionale. Ma vorrei che su questo si interrogassero anche gli uomini. Non c’è stata una presa di coscienza maschile. Che io invece invoco», afferma ancora Antonella Veltri.

    Nonostante il Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027, individuasse precisamente entità e cause della condizione di svantaggio in cui versa la donna in Calabria, è stata di fatto smantellata la rete di consultori familiari, presidi socio sanitari e centri antiviolenza. Tutte strutture che potrebbero prevenire delitti. Ma che potrebbero contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne.

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    Uno striscione di protesta contro la panchina rossa installata di fronte alla questura di Cosenza
    Nessun segnale dalle istituzioni

    Tali strutture necessitano di figure professionali quali psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. Ma sono stati colpiti dalla scure del Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria. Sul punto, Antonella Veltri chiede un impegno a tutte le istituzioni: «Non ha senso sbandierare le belle panchine rosse, su cui andiamo a fare accomodare le donne vittime di violenza. Chiedo quindi che venga data forza ai centri antiviolenza. Essi sono l’avamposto per contrastare tutto questo».

    Ma la cartina al tornasole di quanto manchi una presa di coscienza, soprattutto culturale, è data dalla scarsa partecipazione alla vita pubblica delle donne. Anche il Consiglio regionale della Calabria è, da sempre, un “affare” quasi esclusivamente per uomini. E anche le imminenti Regionali (che porteranno al voto con la doppia preferenza di genere). Anche su questo, Antonella Veltri ha un’idea controcorrente: «Sono sempre stata contraria alle Pari opportunità, ma la doppia preferenza può essere, effettivamente, un facilitatore. Non mi piace, ma vedremo cosa accadrà. Insisto, però: le donne non sono messe nelle condizioni di dimostrare il proprio valore».

    La lista delle “zoccole”

    Non si perde l’occasione, però, di dimostrare, anche pubblicamente, un presunto disvalore femminile. Sarebbe infatti grottesco, se non fosse parimenti inquietante, quanto accaduto qualche giorno fa a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria. Sui muri del paese della Piana di Gioia Tauro, infatti, è apparsa quella che è stata battezzata la “lista delle zoccole”.

    A segnalare l’accaduto, un’attivista cosentina del Collettivo Fem.In (lo stesso che incastrò l’allora commissario alla sanità, Giuseppe Zuccatelli con le sue dichiarazioni no-mask). Sul punto è intervenuta anche l’amministrazione comunale di Cinquefrondi, entrando in contatto con le autorità. Nel tentativo di individuare il responsabile o i responsabili delle continue affissioni notturne. Ma anche i cittadini si sono organizzati in vere e proprie “ronde” per scovare chi, tra i 6500 abitanti di Cinquefrondi abbia ideato questa lista offensiva e discriminatoria.

    Un elenco di donne, con tanto di nomi e cognomi, additate come “zoccole”. Un pratica che viene ormai praticata da tempo, avendo trovato anche una connotazione sociologica: “slut shaming”. La vergogna pubblica nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali. O nel modo di vestire. Donne di facili costumi, quindi. O, comunque, degne di riprovazione. Soprattutto per ragioni di tipo sessuale. Ma non solo. Alle malcapitate viene affibbiato ogni tipo di insulto. «Leggi, ma non strappare», il messaggio di accompagnamento.

  • ‘Ndrangheta e narcotraffico: il codice numerico criptato per comunicare

    ‘Ndrangheta e narcotraffico: il codice numerico criptato per comunicare

    Comunicavano solo in forma scritta e con un sofisticato codice numerico. E così riuscivano a scambiarsi le informazioni necessarie per inondare poi l’Europa di droga. Cocaina, soprattutto. Ma non solo. Per questo l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria si chiama “Crypto”. Perché non è stato affatto semplice per i militari della Guardia di Finanza decifrare le stringhe numeriche che, di volta in volta, i membri dell’organizzazione transnazionale si scambiavano per concordare carichi e cifre del business illecito.

    Come nasce l’inchiesta

    Sono 57 gli arrestati tra persone finite in carcere e altre agli arresti domiciliari. Accusati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. L’operazione è stata eseguita tra Calabria, Sicilia, Piemonte, Puglia, Campania, Lombardia e Valle d’Aosta. Contestualmente, i finanzieri hanno dato esecuzione al sequestro preventivo d’urgenza di beni, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Per un valore complessivo stimato in 3.767.400,00 euro.

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    Uno degli immobili sequestrati nell’operazione Crypto

    Un’inchiesta che prende le mosse da un altro blitz di qualche anno fa: l’operazione “Gerry” consentì nel 2017 di sgominare una complessa consorteria criminale, composta da soggetti di vertice delle ‘ndrine Molé-Piromalli e Pesce-Bellocco. Operanti, rispettivamente, a Gioia Tauro e Rosarno.

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    Il lussuoso bagno di una delle case finite tra i beni sotto sequestro

    In particolare, nell’ambito della operazione “Jerry” si identificavano gli usuari di utenze ritenute di fondamentale importanza per l’accertamento di un nuovo e diverso fenomeno criminale di rilevante spessore in tema di traffico organizzato di sostanze stupefacenti. Dall’analisi di queste utenze “coperte”, è nata l’inchiesta “Crypto”.

    L’organizzazione transnazionale

    Sono in tutto 93 i soggetti indagati appartenenti alle famiglie Pesce e Bellocco. Riconducibili alle famiglie Cacciola-Certo-Pronestì, che avevano messo in atto una ramificata organizzazione criminale transazionale volta al traffico di stupefacenti. Caratterizzata da marcati profili operativi internazionali, capace di pianificare ingenti importazioni di cocaina dal Nord Europa (Olanda, Germania, Belgio) nonché dalla Spagna e di “piazzarla” in buona parte delle regioni italiane: Lombardia, Piemonte, Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia ed Emilia Romagna. Ma anche all’estero, come Malta.

    Il modus operandi dell’associazione consisteva nel reperire lo stupefacente dai paesi fornitori. Da lì veniva trasportato a Rosarno, via terra, occultato in autovetture appositamente predisposte e con improbabili “doppifondi”. E successivamente, grazie alla vasta ramificazione dell’organizzazione criminale, venivano rifornite molteplici “piazze di spaccio” italiane.

    L’uomo della Dominica

    Il gruppo criminale operava a stretto contatto con un cittadino della Repubblica Dominicana, Humberto Alexander Alcantara. Questi tramite la sua attività d’intermediazione, assicurava contatti diretti con fornitori sudamericani stabilitisi in varie parti d’Europa. In Germania, poi, operava anche Domenico Tedesco, residente ad Hattersheim (Germania). Costui forniva appoggio logistico quando i referenti dell’organizzazione si recavano in territorio tedesco. Altro aspetto fondamentale dell’indagine è nei rapporti instauratisi con altre consorterie criminali, in special modo in Calabria e in Sicilia. Tra i gruppi criminali importante era quello del Torinese, che faceva capo a Vincenzo Raso, originario di Rosarno, ma stabilitosi lì. Particolarmente intensi, poi, i rapporti con la città di Catania, grazie a Francesco Cambria, esponente di spicco del “Clan Cappello”. Ma la rete comprendeva anche le città di Siracusa, Benevento e Milano.

    È indicativa (e inedita), la creazione di una rotta per far giungere la cocaina anche in territorio maltese. Più nello specifico, nel febbraio 2018, Ivan Meo (soggetto vicino al clan Cappello) e due soggetti non identificati, che facevano da “staffetta”, si recavano, via mare, da Pozzallo a Malta. Lì consegnavano sostanze stupefacenti e, come provento della cessione, Meo riportava in Italia circa 50mila euro, che venivano sequestrati. Le indagini hanno dimostrato, poi, che tra i rosarnesi e le altre associazioni criminali si era creata una vera e propria sinergia. Sebbene nella quasi totalità dei casi le ingenti partite di narcotico partissero dalla Calabria per approvvigionare i vari acquirenti. Quest’ultimi, in alcuni casi, “ricambiavano il favore” provvedendo a rifornire di stupefacente gli stessi rosarnesi. O rifornendo un altro gruppo mediante l’intermediazione degli stessi.

    Le comunicazioni criptate

    I soggetti, deputati alla pianificazione delle importazioni e al successivo smistamento della droga sul territorio nazionale, operavano in un’ottica prettamente aziendale, che poteva contare sull’utilizzo di SIM tedesche. Ma anche sulla possibilità di recuperare e modificare ad hoc numerose autovetture. Dotate di complicatissimi doppifondi, così da renderle praticamente “impermeabili” ai normali controlli su strada da parte delle Forze di Polizia.

    Le indagini hanno cristallizzato l’uso della consorteria di numerose SIM tedesche che, da Rosarno, comunicavano in maniera “citofonica” con altri cellulari con numerazione tedesca sparsi sul territorio nazionale. Per “citofonica” si intende una comunicazione unicamente bidirezionale. Molto difficile, quindi, da essere individuata. Con la decriptazione di tale messaggistica, è stato possibile trarre significative indicazioni sul modus operandi.

    Queste SIM senza intestatari rendevano ancor più difficile l’identificazione degli usuari delle diverse utenze. Inoltre, gli indagati comunicavano esclusivamente tramite SMS, evitando che potesse palesarsi la loro voce.Tutto per evitare un eventuale riconoscimento. E spesso utilizzando un molteplice livello di “protezione” costituito da messaggi contenenti codici numerici predefiniti. A ogni lettera dell’alfabeto corrispondeva un numero, assegnato apparentemente senza logica alcuna. Molto complicato, quindi, individuare la “parola 0”, da cui poi tentare di decifrare tutto il resto.

    Un fiume di droga

    L’inchiesta della Guardia di Finanza ha permesso di arrestare 10 corrieri della droga e di sequestrare circa 80 kg di cocaina, che una volta immessa in commercio avrebbe fruttato all’organizzazione più di 4 milioni di euro. Sequestrati poi svariati chili tra marijuana ed hashish. Inoltre, dall’attività d’indagine è emerso che, tra l’aprile e il novembre del 2018, l’organizzazione criminale ha movimentato, oltre a quelli sequestrati, altri 140 kg di cocaina. Insomma, quella individuata è solo una minima parte dei flussi controllati dalla ‘ndrangheta.

    Il pizzino

    Nel corso della conferenza stampa di stamattina il procuratore capo Giovanni Bombardieri ha spiegato i problemi incontrati nel corso dell’indagine. «L’interpretazione di questo codice e’ stata davvero molto difficoltosa. Si trattava di messaggi che recavano solamente dei numeri senza nessuna indicazione o punteggiatura. Grazie all’abilità degli investigatori è stato possibile dare un significato a questi numeri, che peraltro oggi hanno trovato riscontro in un pizzino, sequestrato, riportante il codice attraverso cui i numeri vengono abbinati alle lettere».

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    I procuratori Paci, Bombardieri e Lombardo insieme agli ufficiali della Guardia di Finanza in conferenza stampa

    A fornire ulteriori dettagli i due aggiunti Giuseppe Lombardo e Gaetano Paci. «L’operazione “Jerry” aveva già ricostruito un quadro del narcotraffico internazionale. In quella prima esecuzione erano emerse due utenze criptate che erano state lasciate da parte per poi tornare nell’odierna indagine», le parole di Lombardo. «Il fatto che sia un’indagine per narcotraffico non deve sminuire il senso perché si tratta di indagini che richiedono un approccio e un contrasto di livello molto elevato anche a fronte dei mezzi di natura tecnologica utilizzati», il commento di Paci.

    I soggetti per cui è stata disposta la custodia cautelare sono:

    1) Alcantara Humberto Alexander, 1976

    2) Battaglia Giuseppe, 1972

    3) Benzi Gianfranco, 1945

    4) Cacciola Giuseppe, 1989

    5) Cambria Francesco, 1984

    6) Cavarra Francesco, 1960

    7) Certo Domenico, 1994

    8) Certo Nicola, 1987

    9) Coco Orazio, 1978

    10) Fedele Rocco Antonino, 1972

    11) Fedele Salvatore, 1974

    12) Gullace Antonio, 1981

    13) Liistro Carmelo, 1990

    14) Marigliano Alessandro, 1981

    15) Martello Alessio, 1990

    16) Mazzei Andrea, 1984

    17) Mero Matteo, 1984

    18) Modeo Walter, 1975

    19) Paladino Marco, 1985

    20) Paletta Antonio, 1984

    21) Paletta Gennaro, 1990

    22) Pati Giampiero, 1980

    23) Pati William, 1970

    24) Penza Antonio Marco, 1983

    25) Pitarà Santo, 1971

    26) Pizzo Giulio, 1990

    27) Pizzo Maurizio, 1964

    28) Porcaro Roberto, 1984

    29) Pronestì Bruno, 1979

    30) Raso Alessandro, 1972

    31) Raso Vincenzo, 1981

    32) Scalise Alessandro, 1992

    33) Stelitano Antonio, 1982

    34) Stelitano Lorenzo, 1986

    35) Suriano Francesco, 1979

    36) Tedesco Domenico, 1959

    37) Trombetta Giuseppe, 1993

    38) Varone Francesco, 1987

    39) Viola Gianfranco, 1971

    40) Vitale Fabio, 1974

    41) Vitale Franco, 1977

    42) Vitale Giuseppe, 1969

    43) Zagame Rosario, 1972

    Agli arresti domiciliari, invece,  si trovano:

    44) Cacciola Rocco, 1995

    45) Chindamo Michele, 1991

    46) Cirelli Paolo, 1946

    47) Giovinazzo Pasquale,1964

    48) Guerra Massimiliano, 1969

    49) La Pietra Giorgio, 1978

    50) Mazzanti Massimiliano, 1972

    51) Meo Ivan, 1988

    52) Montagono Stefano,1988

    53) Nasso Marialuisa, 1985

    54) Pescetto Giuseppe, 1973

    55) Pronestì Simone, 1992

    56) Talarico Alessandro, 1965
    57) Villani Alessandro, 1978
  • Trasformisti, parenti e borderline: le Regionali nella Circoscrizione Sud

    Trasformisti, parenti e borderline: le Regionali nella Circoscrizione Sud

    Cambi di casacca, contesti relazionali equivoci, parentele imbarazzanti con la ‘ndrangheta o con altri politici non graditi per la candidatura. Chi si aspettava un cambiamento di logiche nella scelta dei candidati al prossimo Consiglio Regionale della Calabria nella Circoscrizione Sud, sarà rimasto molto deluso. A essere maggiormente interessati dal fenomeno sono i due principali schieramenti in contesa. Il centrodestra, alla fine confluito interamente su Roberto Occhiuto. E una parte del centrosinistra, Pd e Movimento 5 Stelle, che appoggiano Amalia Bruni. In mezzo, nel tentativo di non essere stritolati, il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. E l’ex governatore, Mario Oliverio.

    Il centrodestra

    Tra i cavalli di battaglia del candidato governatore Occhiuto ci sono quelli delle “liste pulite”. Addirittura – dice – andando oltre gli stringenti criteri della Commissione Parlamentare Antimafia. Ma anche il concetto di “liste rigenerate”. Ma è davvero così?

    In Forza Italia, nella Circoscrizione Sud troviamo tra i candidati il presidente uscente del Consiglio Regionale, Giovanni Arruzzolo. Non indagato, viene menzionato spesso nelle carte d’indagine dell’inchiesta “Faust”. Indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro la famiglia Pisano di Rosarno. Costola del potente casato dei Pesce che, insieme ai Bellocco si divide da sempre Rosarno.

    A proposito di Bellocco e Rosarno, imbarazza non poco la candidatura di Enzo Cusato nei ranghi della Lega. È il consuocero del presunto boss Rocco Bellocco, la figlia ha sposato Domenico, figlio del presunto capoclan. La scelta stride coi proclami del commissario regionale del Carroccio, Giacomo Francesco Saccomanno. Che da settimane inonda le redazioni di comunicati stampa sulla lotta della Lega allo strapotere dei clan.

    Ma torniamo a Forza Italia. Tra i candidati spicca il nome del giovane imprenditore Giuseppe Mattiani. Già alle scorse Regionali aveva ottenuto un buon risultato, pur non risultando eletto. La famiglia Mattiani negli scorsi anni fu anche interessata da un cospicuo sequestro di beni per presunte connivenze con i clan. Ma riuscirà a dimostrare la propria estraneità, ottenendo la restituzione degli averi.

    Risulta invece indagata, con richiesta di rinvio a giudizio, Patrizia Crea, già assessore comunale a Melito Porto Salvo. La Giunta di cui era anche vicesindaco, infatti, avrebbe assegnato un immobile di proprietà comunale a una università privata, provocando quindi un ingiusto vantaggio alla stessa. Ma non solo. La Procura di Reggio Calabria in un’altra inchiesta la sospetta (insieme ad altri membri dell’allora Giunta Comunale) di falso in bilancio. In ultimo, risulta indagata perché non si sarebbe astenuta in Giunta nel voto di una delibera che, sostanzialmente, promuoveva la sorella ad un incarico superiore. Ovviamente in seno all’Amministrazione Comunale melitese.

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    Giuseppe Neri tenta il bis alla Regione ricandidandosi con Fratelli d’italia

    Situazione pesante, pur senza alcuna indagine formale a suo carico, per Giuseppe Neri. Consigliere regionale uscente e ricandidato nei ranghi di Fratelli d’Italia. L’inchiesta “Eyphemos” portò all’arresto di Domenico Creazzo. Consigliere regionale in manette ancor prima di insediarsi a Palazzo Campanella. Erano numerosi i riferimenti a Neri. E a contesti di ‘ndrangheta. Stando alle conversazioni intercettate di alcuni indagati, Neri avrebbe pescato sotto il profilo elettorale in ambienti malavitosi. Addirittura, si criticava l’ipocrisia politica di Neri che ostentava, ma solo a parole, il suo “amore” per la legalità. Mentre proprio la ‘ndrangheta sarebbe stata il suo interlocutore privilegiato durante la campagna elettorale. Tutto per il tramite di un intermediario. Che conosceva, a differenza del parente sostenuto, quei territori e le famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro.

    Il centrosinistra

    Nella lista del Pd, da segnalare la candidatura del poliziotto Giovanni Muraca. Assessore a Reggio Calabria, viene sponsorizzato dal sindaco Giuseppe Falcomatà. Il problema è che entrambi risultano a processo per il cosiddetto “Caso Miramare”. Dibattimento agli sgoccioli sul presunto affidamento diretto di un immobile di pregio a una semisconosciuta associazione culturale riferibile a un amico di vecchia data del sindaco.

    Incredibile, invece, come l’ex assessore regionale Nino De Gaetano sia riuscito a infiltrare nuovamente il Pd. Ci riesce dopo essere stato, di fatto, messo alla porta per le sue vicissitudini relazionali e giudiziarie. L’accostamento (senza un’indagine formale a suo carico) ad ambienti di ‘ndrangheta del potente casato dei Tegano in primis. E poi il coinvolgimento (anche con gli arresti domiciliari) nell’inchiesta “Erga Omnes”, sullo scandalo dei rimborsi del Consiglio Regionale. De Gaetano penetra nuovamente il Pd. Lo fa attraverso il suo figlioccio politico, quell’Antonio Billari già subentrato a Palazzo Campanella dopo le dimissioni di Pippo Callipo. Un soggetto di rientro. Nella precedente esperienza era nei ranghi di Articolo 1.

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    Antonio Billari, uomo di fiducia di Nino De Gaetano

    Ma c’è qualcuno che cambia: il Movimento 5 Stelle. Che nella sua lista della Circoscrizione Sud (a sostegno di Amalia Bruni) candida Annunziato Nastasi. Non nuovo alle competizioni elettorali in provincia di Reggio Calabria. In un’indagine della Dda di Reggio Calabria di qualche anno fa era possibile leggere le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Ambrogio. Un tempo organico alla ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo, Ambrogio parlò agli inquirenti dei rapporti tra ‘ndrangheta e politica nell’Area Grecanica. «I Paviglianiti appoggiavano Nastasi», raccontò. Si riferiva all’allora vicesindaco di Melito Porto Salvo. E alla potente famiglia di San Lorenzo. Nastasi, comunque, non venne mai indagato. Ma il “vecchio” Movimento 5 Stelle, forse, non lo avrebbe comunque mai candidato.

    Gli uscenti

    Ovviamente c’è una sfilza di uscenti che intendono mantenere il proprio posto a Palazzo Campanella. A cominciare dal Pd, dove a tutto si pensa tranne che al rinnovamento. Con l’eterno Mimmetto Battaglia, buono per ogni stagione e alla ricerca dell’ennesima candidatura. Si gioca comunque per il terzo posto. Con la speranza di ottenere due scranni in Consiglio Regionale. E subentrare quando il primo degli eletti (quasi certamente il candidato in pectore Nicola Irto) dovesse eventualmente spiccare il volo verso il Parlamento. Ancora, nella lista “Amalia Bruni Presidente”, il consigliere uscente Marcello Anastasi. E l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Nino Liotta.

    Anche nelle liste a sostegno di de Magistris sono tanti i nomi noti che provano a pescare il jolly. In primis, ovviamente, l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Ma anche il consigliere comunale Saverio Pazzano, già candidato a sindaco di Reggio Calabria. E poi la consigliera comunale di Gioia Tauro, Adriana Vasta. Entrambi candidati in DeMa. O il sindaco di Campo Calabro, Sandro Repaci, la consigliera comunale di Taurianova, Stella Morabito. E, ancora, l’ex amministratore unico di Atam, Francesco Perrelli, e la già candidata a sindaco di Reggio Calabria, Maria Laura Tortorella. Tutti nella lista “De Magistris Presidente”.

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    L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano

    Nel ritorno per eccellenza, quello di Mario Oliverio, non possono mancare i nomi noti. Come l’imprenditore Francesco D’Agostino, patron di “Stocco & Stocco”. Uscito bene da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria e ora nuovamente pronto a rientrare a Palazzo Campanella. Nella lista ulteriori nomi già presenti (peraltro non con risultati particolarmente lusinghieri) in altre competizioni elettorali. L’avvocatessa Giuliana Barberi, con un passato in Fincalabra proprio negli anni di Oliverio presidente. E poi quel Rosario Vladimir Condarcuri, animatore del giornale La Riviera. E assai vicino all’ex sindaco di Siderno, Pietro Fuda, sciolto per infiltrazioni della ‘ndrangheta.

    Logiche assai simili nel centrodestra. Dove nelle liste c’è un sovraffollamento di Piana di Gioia Tauro e Locride, a discapito di Reggio Calabria città. I nomi forti nella Locride sembrano essere quelli del sindaco di Locri, Giovanni Calabrese (candidato in Fratelli d’Italia) e Raffaele Sainato, uscente candidato in Forza Azzurri e reduce dall’archiviazione ottenuta nell’inchiesta “Inter Nos”.

    Resta da capire, per esempio, chi sarà il candidato sostenuto dal plenipotenziario Francesco Cannizzaro. Il deputato forzista potrebbe, abilmente, aver lasciato i piedi in numerose paia di scarpe. Nella Lega, spiccano i nomi del sindaco facente funzioni di Villa San Giovanni, Maria Grazia Richichi. Ma è in Forza Italia la vera bagarre. Oltre ai già citati Arruzzolo e Mattiani, c’è l’uscente Domenico Giannetta a rimpolpare la lotta interna alla Piana di Gioia Tauro.

    Parenti ed eterni ritorni

    Nel sovraffollamento della Piana di Gioia Tauro, da segnalare in Forza Italia la candidatura di Carmela Pedà. Sorella proprio dell’ex sindaco di Gioia Tauro, Peppe Pedà. Anch’egli ex consigliere regionale. Pasquale Imbalzano (già consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Calabria) è figlio di Candeloro Imbalzano. Per anni uomo forte della politica reggina, con incarichi amministrativi al Comune e poi consigliere regionale.

    Curiosa la posizione di Serena Anghelone. Figlia di Paolo Anghelone, già assessore comunale nel centrodestra. Sorella di Saverio Anghelone, che invece è stato assessore comunale col centrosinistra. Ora si candida in prima persona, nuovamente col centrodestra. Sempre nel centrodestra, troviamo la candidatura di Riccardo Ritorto. Già sindaco di Siderno, arrestato e condannato in primo grado per vicinanza alla ‘ndrangheta. Lo ha assolto la Corte d’Appello. E adesso prova a ritornare in pista.

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    La leghista Tilde Minasi

    Disseminati, poi, nelle varie liste del centrodestra, una lunga serie di “Scopellitiani” di ferro. Nostalgici della stagione politica del “Modello Reggio”, finita male con l’arresto dell’ex sindaco reggino ed ex governatore. Nella Lega, la consigliera regionale uscente Tilde Minasi, che con Giuseppe Scopelliti è stata per anni assessore comunale a Reggio Calabria. E poi l’ex consigliera comunale Monica Falcomatà, anche lei per anni nella cerchia di Scopelliti. E poi vicina al consigliere regionale Alessandro Nicolò. Oggi imputato per ‘ndrangheta. Infine, l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Peppe Sergi. Tra le persone più vicine a Scopelliti. Oggi, però, si candida con Noi con l’Italia, la formazione di Maurizio Lupi, che punta a essere la sorpresa delle Regionali 2021 in Calabria.
    Che, però, assomigliano maledettamente a tutte le altre.

  • Cimitero SS 106, la strada della morte che fa gola ai clan

    Cimitero SS 106, la strada della morte che fa gola ai clan

    Negli ultimi 25 anni ha registrato oltre 9.500 incidenti, circa 25mila feriti e oltre 700 vittime. Così la Statale 106 Jonica si è guadagnata il tragico appellativo di “strada della morte”. Le ultime due vittime, a Riace, nell’ennesimo drammatico incidente: il brigadiere dei carabinieri, Silvestro Romeo, e sua moglie, Giusy Bruzzese.

    Una strage infinita

    Una lingua d’asfalto che si estende per 491 chilometri, da Reggio Calabria a Taranto. Di questi, ben 415 si trovano nel territorio calabrese. Percorre infatti tutta la costa jonica della Calabria, Basilicata e una parte della Puglia. La istituì il Fascismo nel 1928 con questo percorso: Reggio Calabria – Gerace – Punta di Stilo – Catanzaro Marina – Crotone – Innesto con la n. 108 presso Cariati – Innesto con la n. 19 presso Spezzano Albanese. Parliamo di una strada fondamentale, non solo per lo spostamento privato, ma anche per il trasporto merci. In aree importanti della Calabria, quali la Locride, lo Ionio Catanzarese, la Sibaritide e il Crotonese.

    Il bilancio degli incidenti e, di conseguenza, di vittime e feriti, potrebbe essere ancor più drammatico. Ma, in Italia, solo dal 1996 esiste un sistema di rilevamento che censisce i sinistri e la mortalità sulle strade del nostro Paese. Già da anni, secondo gli studi congiunti di ACI e Istat, è considerata la strada più pericolosa d’Italia.

    106-incidenteA tenere una tragica conta delle vittime e a chiedere giustizia e interventi strutturali è, da anni, l’associazione Basta vittime sulla SS 106. Almeno un morto al mese tra il 2014 e il 2018. E ben 200 vittime in sette anni. Con la morte del brigadiere Romeo e della moglie, è salito a 15 il numero delle vittime nel 2021. Quindi, siamo già oltre l’inquietante media. Si è rivelato un dato fuorviante il calo degli incidenti (circa del 20%) nel 2020. Con le vittime scese a 11, mai così poche dal 1996. Ma era tutto dovuto, evidentemente, alle restrizioni emesse per contenere la pandemia da Coronavirus. E, quindi, alla ridotta mobilità. Con il ritorno alla “normalità”, la SS 106 ha ricominciato a uccidere come e più rispetto agli altri anni.

    Le carenze strutturali della SS 106

    «La Statale 106 è una strada inadatta a gestire gli attuali volumi di traffico. Su una strada progettata – ad esempio – per gestire mille automezzi l’anno su cui però, nella realtà, ne abbiamo 10.000 è molto probabile che accada un incidente stradale e, quindi, ci siano più vittime e feriti» spiega l’ingegnere Fabio Pugliese, che è presidente di Basta vittime sulla SS 106 e autore del libro “Chi è Stato?” sul tema .

    Le inadeguatezze strutturali dell’arteria sono sotto gli occhi di tutti coloro che l’abbiano percorsa almeno una volta. Una sola carreggiata per senso di marcia per lunghi tratti. Ma anche l’assenza di spartitraffico che dividano le due direzioni e che “invoglia”, quindi, a sorpassi spericolati e spesso fatali. Taglia paesi, frazioni, in cui l’imprevisto, l’attraversamento pedonale e veicolare è sempre possibile e inaspettato. Un percorso a ostacoli in cui è facile trovare sulla propria strada un trattore, un cavallo, un ciclista. Persino persone a piedi.

    A ridosso dei comuni, infatti, si è sviluppata una urbanizzazione abitativa e commerciale selvaggia. Edilizia sciatta e confusa. Spesso incompleta. A nascondere il mare. Dato che in mezzo corre anche quell’unico binario con treni del vecchio millennio. Zero regole che, purtroppo, poi portano a tanti, troppi morti.  Per non parlare, poi, delle condizioni idrogeologiche della carreggiata, che spesso si sbriciola al primo temporale un po’ più aggressivo.

    Gli eterni lavori

    La politica, però, continua a ignorare la drammatica situazione della SS106. Non c’è governo, indipendentemente dal colore politico, che non si sia impegnato per interventi strutturali. Che, tuttavia, sono rimasti solo annunci. Solo per fare due esempi: sotto la gestione del Governo Draghi, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) non ha rilasciato nemmeno una delibera in cui vengano destinati fondi per la Statale Jonica. E degli oltre 200 miliardi del Recovery Fund, con il conseguente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, non è stato destinato alla “strada della morte” in Calabria neanche un centesimo di euro. Eppure si continua a parlare di ponte sullo Stretto di Messina.

    Intanto, la SS 106 continua a essere un cantiere continuo. Ma di interventi per piccoli tratti e a macchia di leopardo. Nessun progetto di ammodernamento strutturale. Stando a quanto comunicato dall’Anas, che è competente sull’arteria, l’intervento più cospicuo (sia sotto il profilo economico, che chilometrico) riguarda il tratto di strada tra Sibari e Roseto Capo Spulico. Oltre 1,3 miliardi di euro per lavori che dovrebbero terminare nel 2026. Dovrebbero. Il condizionale è d’obbligo perché per molti altri punti si è in ritardo siderale. Tra studi di fattibilità e appalti che non partono, tratti fondamentali da riammodernare restano fermi nelle inaccettabili condizioni attuali. Dal collegamento Catanzaro-Crotone alla variante di Palizzi, nella Locride, completata solo in parte.

    L’immancabile ombra delle ‘ndrine

    E su quegli eterni lavori, la ‘ndrangheta ha sempre dimostrato grande appetito. Del resto, più restano aperti i cantieri su una grande opera, più è possibile “mangiare”. Lo dimostrano i lavori che hanno interessato, per decenni, la Salerno-Reggio Calabria. Dove le cosche imponevano la tangente del 3%, sceglievano le maestranze e controllavano le ditte che operavano in subappalto.

    Il meccanismo è simile anche sul versante jonico. Lo dimostrano le numerose indagini che hanno provato, negli anni, ad arginare le fameliche voglie dei clan. Che non solo lucrano sugli appalti, ma, spesso, costruiscono a basso costo. Aumentando i rischi strutturali. L’inchiesta “Bellu lavuru”, della Dda di Reggio Calabria, nacque proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino nella variante di Palizzi. Due tronconi con decine di arrestati e processi infiniti per accertare non solo le infiltrazioni della ‘ndrangheta e, nello specifico delle famiglie Morabito-Bruzzaniti-Palamara, e Maisano, Rodà, Vadalà e Talia. Ma anche la complicità di funzionari pubblici e dipendenti di Condotte S.p.a..

    Anni dopo – siamo nel 2012 – l’inchiesta “Affari di famiglia”, che sosteneva come le cosche Latella, Ficara e Iamonte si dividessero (con precisione scientifica al chilometro) la competenza sul tratto da Reggio Calabria a Melito Porto Salvo. Nel marzo del 2021, interviene anche la Procura di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Con l’operazione “Coccodrillo” gli inquirenti sostengono l’esistenza di una joint venture tra le famiglie Mazzagatti di Gioia Tauro e Arena di Isola Capo Rizzuto per aggiudicarsi gli appalti delle grandi opere pubbliche. Tra questi, la costruzione di alcuni macrolotti della SS 106 Jonica, nei territori delle province di Catanzaro e Crotone.

    Nel 2018, la deputata di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro, presentò anche una interrogazione parlamentare per accendere l’attenzione sui tanti danneggiamenti e le tante intimidazioni legate ai lavori pubblici per la realizzazione della nuova Statale 106 tra Roseto Capo Spulico e Sibari. Nell’interrogazione indirizzata al Ministro della Giustizia, Ferro sottolineava che «episodi criminali recentemente consumatisi nella Sibaritide sono collegati all’imminente canterizzazione dei lavori di rifacimento del tratto della Statale 106: un progetto da 1.300 milioni di euro, sette anni di lavoro, oltre 1.500 posti per carpentieri, minatori, muratori, ruspisti e manovali».

    Proprio quel megalotto che, ancora oggi, rappresenta il principale tra i cantieri sulla 106. Ancora lontano dalla chiusura. Come molti altri. E altri ancora che devono essere ancora aperti. E ai lati di quella carreggiata sbilenca e incompleta, tanti mazzi di fiori e piccole lapidi che ricordano i tanti incidenti sulla “strada della morte”.

  • Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    «L’attacco criminale al patrimonio naturale della terra di Calabria ha interessi precisi e individuabili. C’è necessità di massimo impegno nel controllare il territorio ed individuare mandanti ed esecutori di questa tragedia». Il sindaco di Napoli e candidato alla presidenza della Regione, Luigi De Magistris, ne è sicuro. Dietro l’ondata di incendi che, ormai da settimane, investe la Calabria, vi sarebbero una strategia e un disegno. De Magistris, tuttavia, non indica alcunché di ulteriore rispetto alla grave affermazione. Elementi che, al momento, non sembrano essere concreti.

    I boss e la montagna

    Ma c’è un dato certo: da decenni, ormai, i boschi calabresi sono stati conquistati dal crimine. Comune e organizzato. Non può essere dimenticato il sangue versato nell’ambito della “faida dei boschi” scoppiata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 tra le famiglie di ‘ndrangheta nel territorio montano a cavallo delle province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Che poi ha avuto una recrudescenza anche negli anni 2000, con gli ultimi delitti fino al 2013.

    Gli incontri riservati

    Negli anni e progressivamente, lo Stato ha lasciato, centimetro dopo centimetro, ettari ed ettari di macchia calabrese. Che è diventata terreno congeniale per effettuare incontri riservati di ‘ndrangheta, come dimostrato fin dal 1969 con il summit di Montalto, dove cosche e destra eversiva progettavano piani criminali. O per nascondere latitanti. Magari per sotterrare armi ed esplosivi. O per installare enormi e fiorenti coltivazioni di marijuana. I ritrovamenti, da parte delle forze dell’ordine, sono pressoché quotidiani. Ed è quindi, impossibile, fornire un quadro d’insieme su un fenomeno gigantesco.

    Le vacche sacre

    L’intervento sui boschi, in Calabria, ha percorso due strade. Prima l’antropizzazione delle campagne. Con interventi che le hanno disboscate e devastate. Poi la desertificazione del territorio, che, quindi, ha portato a migliaia di ettari sostanzialmente incontrollati. O, meglio, controllati dal crimine organizzato, soprattutto. La ‘ndrangheta. Anche il fenomeno delle “vacche sacre”, sempre in maggiore aumento, si inquadra in questo sistema in cui i boschi e le campagne sono ormai lasciati alla mercé del crimine e del malaffare.

    Il re della montagna

    Non è un caso che, negli anni, l’Aspromonte, più che scenario di bellezze paesaggistiche, ambientali e animali, sia stato prima teatro di numerosi sequestri di persona. Dove, peraltro, si sono sperimentate le peggiori alleanze e trattative tra Stato e ‘ndrangheta. Poi ambienti ideali dove nascondere i latitanti. E, infatti, uno dei boss più importanti che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, Rocco Musolino, era soprannominato il “re della montagna”. Il suo feudo era Santo Stefano in Aspromonte, lì dove Gambarie doveva diventare una grande meta turistica e sciistica. E dove, in alta stagione invernale, non funziona nemmeno la seggiovia. Don Rocco Musolino, massone, in contatti di affinità con alti magistrati, è morto alcuni anni fa. Senza condanne definitive per ‘ndrangheta. Nel proprio letto, come nelle migliori tradizioni criminali.

    Il business dei terreni

    Quando, poco prima di Ferragosto, il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, è sceso in Calabria per monitorare la drammatica situazione di quei giorni, ha stimato in circa 11mila gli ettari bruciati sul territorio. Ovviamente, nei dieci giorni successivi il dato è certamente aumentato. Anche se non possediamo cifre ufficiali.

    È indubitabile che la maggior parte dei roghi sia di origine dolosa. Ma è ormai sempre più marginale il fenomeno dei piromani isolati, che appiccano il fuoco a causa della loro patologia e che amano crogiolarsi nel disastro causato. Molto più preoccupante è ciò che può riguardare i tentativi di lucro sui terreni. E, ovviamente, un territorio in larghi tratti incontrollato e disabitato, dove è ormai saltato da anni il sistema di controllo, anche un piccolo focolaio viene scoperto in enorme ritardo. Quando la situazione è già ampiamente compromessa.

    Le autorizzazioni in Regione

    Poco più di un anno fa, gli investigatori hanno effettuato un accesso agli atti degli uffici della Regione Calabria, per verificare se i tagli effettuati nei boschi calabresi siano in numero superiore rispetto alle autorizzazioni rilasciate. Un meccanismo abbastanza rodato è quello delle aste boschive per poter lucrare sulla vendita del legame.

    Le ‘ndrangheta tra i boschi della Sila

    L’altopiano della Sila e suoi boschi sono zone franche. I controlli pressoché inesistenti. E, quindi, bocconcini succulenti per la ‘ndrangheta.  Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro avrebbe dimostrato come i boschi della Sila fossero nella loro totalità ad appannaggio delle cosche di ‘ndrangheta. Con il monopolio del taglio boschivo. Perché l’enorme fenomeno di disboscamento abusivo delle foreste calabresi non indica un’assenza di controllo di quei luoghi. Bensì l’esatto opposto. Se si taglia, se si disbosca, se si porta via la legna, è perché qualcuno lo permette. Accadeva in Sila con gli imprenditori Spadafora, coinvolti nel maxiprocesso “Stige”. Anche grazie alla presunta complicità del maresciallo Carmine Greco, ex comandante della stazione forestale di Cava di Melis, nel Comune di Longobucco. Un soggetto attorno a cui ruotano vicende torbide che hanno coinvolto o sfiorato anche magistrati.

    Il lucro sui terreni bruciati

    Proprio dalle carte raccolte sul conto di Greco, emergerebbe il ruolo degli Spadafora in un affare che riguarda l’acquisizione di un bosco molto grande. Che era stato recentemente aggredito da un incendio. Ecco il meccanismo di lucro sui terreni bruciati. L’area, per essere tagliata, aveva bisogno di una autorizzazione regionale. Che doveva poi prevedere anche la possibilità di una nuova semina per il rimboschimento. L’interesse dei gruppi criminali sui terreni interessati dagli incendi è fatto notorio, anche attraverso stime al ribasso dei terreni. Dietro il disastro che ad agosto ha (fin qui) causato sei vittime in Calabria, potrebbe esserci proprio questo business. Sempre in uno dei filoni d’indagine sul conto di Greco, degli Spadafora e della ‘ndrangheta dei boschi, è stata ritrovata contabilità occulta riguardante i profitti realizzati col traffico di materiale nelle centrali a biomasse.

    Un forestale ogni 190 abitanti

    Figure mitologiche. Al centro di scandali, ma anche tanta ironia sul web. Sono gli operai forestali calabresi. Uno studio di qualche anno fa, aveva dimostrato come fossero in un numero più elevato rispetto ai Rangers canadesi. Con proporzioni tragicomiche: un forestale ogni 190 abitanti, a fronte di un Rangers ogni 7800 abitanti.  Figure istituite per risanare il suolo calabrese, devastato dalle alluvioni degli anni ’50. Ma la Sila, l’Aspromonte e il Pollino non sembrano aver beneficiato di tali figure. Anzi. Ogni anno il governo centrale doveva rifinanziare il settore e, ciclicamente, si aveva notizia di sprechi, malversazioni. Infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle schiere infinite.

    Clientele e prebende

    Trenta, forse quarantamila i forestali calabresi nei tempi d’oro. Come in ogni grottesca vicenda calabrese, la realtà si mischia alla leggenda. Attualmente sarebbero 3.000 gli operai che dipendono da Calabria Verde, l’azienda regionale che ha assorbito l’Afor. E poi circa altre 1700 unità tra i Consorzi di bonifica e i parchi. Insomma, molti di meno rispetto al passato. Ma costerebbero ancora circa un milione e mezzo di euro all’anno. E hanno un’età media di 60 anni. Segnalati, raccomandati. Talvolta con precedenti penali. Imboscati. Nel vero senso della parola. Al di là delle cifre, il problema è concettuale. I boschi calabresi (e ciò che ruota attorno a essi) sono stati, ancora una volta, una camera di compensazione per piazzare i propri uomini. Per fare clientele e pagare prebende. E, ovviamente, anche la ‘ndrangheta ha pasteggiato.

    Le nomine dei Parchi

    Le nomine dei presidenti dei Parchi, di scelta politica, spesso non mettono al riparo dalle ingerenze del potere. E tutto ciò, poi, porterebbe a una gestione talvolta carente, talvolta pedestre. Se si pensa che il Piano Antincendi del Parco Nazionale dell’Aspromonte, oggi presieduto da Leo Autelitano, verrà completato solo il 6 agosto scorso. Quando già le fiamme avevano avvolto ettari ed ettari di territorio. Degli 11mila ettari in fumo comunicati da Curcio prima di Ferragosto, ben 5.400 sarebbero quelli bruciati solo in Aspromonte.

    Le presunte pressioni sul presidente del Parco

    Sono di alcuni mesi fa le dichiarazioni rese in aula nel processo “Gotha” dall’ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino. Ha riferito delle presunte ingerenze dell’allora consigliere regionale della Calabria e oggi deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro, per la nomina del Direttore del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Sponsorizzando un soggetto, nonostante questi non avesse i requisiti necessari per essere inserito nella terna di persone da sottoporre al Ministro per la nomina. Bombino avrebbe ricevuto pressioni sia da destra che da sinistra, anche su un soggetto ritenuto vicino all’ex assessore regionale, Demetrio Naccari Carlizzi: «Non volevo una persona locale alla direzione del Parco, perché temevo che più che rispondere al territorio potesse rispondere ai propri sponsor» – dirà in aula.

    Attività predatoria sui fondi

    Sempre in quell’occasione, l’ex presidente del Parco parlerà di una «assegnazione clientelare dei fondi» gestiti dall’Ente Parco. Secondo il suo racconto, in passato, le attività non venivano promosse secondo piani organici ma, al contrario, erano i singoli Comuni che, tramite associazioni e/o cooperative, richiedevano finanziamenti per attività di loro esclusivo interesse.  L’ex presidente del Parco parlerà anche di «attività predatoria» sui fondi e di un metodo per «fregare l’ente pubblico per interessi localistici».

    Forse il disastro dei boschi calabresi potrebbe avere come causa anche questo tipo di dinamiche.

  • Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Da quattordici anni a questa parte, la Germania e l’Europa sembrano aver imparato molto poco nel contrasto al crimine organizzato. Eppure, la strage di Duisburg fece “scoprire” a tutto il Vecchio Continente la presenza oppressiva, pericolosa, sanguinaria della ‘ndrangheta.

    Scorre il sangue a Duisburg

    È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007 quando sul suolo tedesco, a Duisburg, restano sull’asfalto in sei. Davanti al ristorante italiano ”Da Bruno” nell’inferno di piombo rimasero uccisi Tommaso Venturi che aveva appena compiuto 18 anni, i fratelli Francesco e Marco Pergola di 22 e 20 anni, Francesco Giorgi appena 17enne, Marco Marmo di 25 anni, e Sebastiano Strangio di 39 anni.

    Secondo quanto accertato dagli investigatori, quella sera nel ristorante non era stato soltanto festeggiato il compleanno di Venturi. Ma anche la sua ammissione nella ‘ndrangheta, avvenuta con la maggiore età. La cerimonia della “copiata”, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra. Il santino di San Michele Arcangelo, ritrovato proprio addosso a al 18enne Venturi. Vengono falciati da oltre 70 colpi. Tra cui, quello finale, alla testa.

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    Giovanni Strangio, considerato la mente del commando che agì a Duisburg

    Un eccidio che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    Una scia di sangue iniziata nel 1991

    Una mattanza che la vulgata fa iniziare con un banale scherzo di trent’anni fa, protraendosi però, con una lunghissima scia di sangue, per decenni tra le famiglie contrapposte Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Quel massacro fece conoscere a tutti la pericolosità della ‘ndrangheta, che, da decenni, ha allungato i propri tentacoli in Germania, nei Paesi Bassi, in Francia, nel Regno Unito, in Svizzera, in Spagna e in Austria. In questi luoghi le ‘ndrine agiscono quasi del tutto indisturbate, con il traffico di droga e di autovetture. Ma anche con il riciclaggio di denaro attraverso aziende e locali. Forte la presenza di San Luca, con le famiglie Romeo-Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Ma anche i Farao-Marincola di Cirò (Crotone) e i Pesce-Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria).

    Una lunga scia di sangue nata con il lancio di uova tra famiglie “rivali” nel Carnevale del 1991. La violenza, nei mesi antecedenti a Duisburg, coinvolse il boss Francesco Pelle, in quel periodo 32enne, detto ‘Ciccio Pakistan’, che perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò ordinando la strage di Natale del 2006 in cui morì una donna, Maria Strangio. Per errore. Il vero obiettivo, fallito dai sicari, era il marito Gianluca Nirta.

    Gli uomini “cerniera”

    Quella mattanza sul suolo tedesco sembra non aver insegnato nulla alla Germania e all’Europa. Le normative con cui i singoli Paesi contrastano il crimine organizzato continuano a essere inadeguate. E carenti anche i collegamenti investigativi tra Stati. Ma per le mafie non esistono confini. Soprattutto per la ‘ndrangheta. Nei mesi successivi alla strage di Duisburg si attiverà soprattutto l’Autorità Giudiziaria italiana: la Dda di Reggio Calabria chiuderà il cerchio con diversi tronconi dell’inchiesta “Fehida”.

    Negli anni, il processo “Gotha” ha anche ricostruito (seppur con una sentenza di primo grado) le trame che seguirono quei mesi di sangue. Un contesto torbido in cui membri dell’Arma dei Carabinieri, del Ros, in particolare, sarebbero stati in contatto con uomini di ‘ndrangheta e soggetti “cerniera”. Patteggiando per arrestare alcuni latitanti.

    I protagonisti sono l’avvocato Antonio Marra, considerato trait d’union tra lo Stato e le cosche, e l’ex parroco di San Luca e rettore del Santuario di Polsi, don Pino Strangio. Ambedue condannati in primo grado nel maxiprocesso “Gotha”. I due avrebbero svolto un ruolo di intermediazione, con l’accordo di alcuni ‘ndranghetisti di rango, per interloquire con canali ritenuti “non istituzionali”. Tutto al fine di acquisire notizie utili per la cattura di alcuni latitanti “sanlucoti”. In particolare Giovanni Strangio, poi arrestato dalla Polizia in Olanda.

    Rapporto intenso quello tra Marra e don Strangio. I due avrebbero interloquito, talvolta in maniera equivoca e torbida, con alcuni membri del Ros dei Carabinieri. In quegli anni, almeno fino all’arrivo di Giuseppe Pignatone a capo della Procura di Reggio Calabria, funzionava in quel modo in riva allo Stretto. Marra e don Strangio sarebbero stati elementi di collegamento. Pedine di un sistema fatto di accordi, confidenze e soffiate e in cui si trovavano magistrati, ‘ndranghetisti, forze dell’ordine e membri dei servizi segreti.

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    La Trattativa Stato – ‘Ndrangheta

    In una conversazione intercettata, don Pino Strangio fornisce a un appartenente del Ros i nominativi dei “sanlucoti” per i quali erano stati intrapresi determinati accordi per suo tramite. ‘Ndranghetisti che la Squadra Mobile identifica in Antonio Romeo, classe 1947, detto “Centocapelli” e considerato affiliato alla ‘ndrangheta di San Luca, in quel periodo detenuto a Parma; Antonio Romeo, classe 1957, detto “Il Gordo”, latitante a seguito dell’operazione denominata “Super Gordo” dai primi mesi del 2005, veniva tratto in arresto da personale del Commissariato di P.S. di Bovalino (RC) coadiuvato da personale del Commissariato di P.S. di Siderno (RC) in data 28.5.2008); Fortunato Giorgi, cognato di Romeo “Centocapelli” e inserito a pieno titolo nella consorteria dei Romeo alias “Stacchi”, legati a quella dei Pelle alias “Gambazza”.

    I carabinieri che interloquirono con Marra e don Strangio negli anni finiranno pure sotto inchiesta. Ma alla fine otterranno un’archiviazione. Quello che il processo “Gotha” avrebbe dimostrato è il fatto che lo Stato avrebbe trattato per arrivare ad alcuni risultati investigativi che placassero la mattanza. Mettendo sul piatto della bilancia il trasferimento di carcere di alcuni detenuti.

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    In quegli anni, il Ros dei carabinieri aveva due anime. Una di queste credeva alla strategia secondo cui si dovesse attingere alle fonti confidenziali per arrivare ad alcuni risultati investigativi. Fonti che, quasi sempre, chiedono qualcosa in cambio. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, sarebbero stati proprio i membri del Ros a contattare Marra per penetrare il territorio di San Luca. E per stringere il cerchio su alcuni latitanti. E poi il legale si sarebbe rivolto a don Pino Strangio. Il prete è, in quel periodo, rettore del Santuario della Madonna di Polsi. È, quindi, molto ben inserito sul territorio della Locride.

    L’accordo salta

    Marra e don Strangio avrebbero anche interloquito con alcuni magistrati. Anche se non si scoprirà mai il contenuto di tali interlocuzioni. Secondo le intercettazioni a carico dell’avvocato Antonio Marra si sarebbero anche tenuti degli incontri a San Luca. In quella sede sarebbero stati presi accordi con alcuni ‘ndranghetisti. Proponendo a essi vantaggi e favori in cambio di un aiuto per la cattura di alcuni latitanti. Tra cui, appunto, quella di Strangio.

    Funzionava così. Del resto, lo testimoniano anche le indagini sul conto della famiglia Lo Giudice. Negli stessi anni, la cosca aveva rapporti privilegiati con forze dell’ordine e magistrati. Lo stesso avvocato Marra viene definito dai carabinieri che interloquivano con lui una fonte preziosa sul territorio. Nel doppiogioco tra Stato e ‘ndrangheta, evidentemente: «Aveva delle conoscenze…».

    Nel post strage di Duisburg si tentò di fare lo stesso. Ma nel frattempo, in riva allo Stretto è arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone. L’accordo salta, anche perché i carabinieri che avevano imbastito la trattativa subiscono il trasferimento. Marra non la prende benissimo, parlando al telefono con un altro membro dell’Arma, distaccato ai Servizi Segreti: «Ora sono in un mare di guai perché… per due cose, primo perché là ora, ora non so che cazzo dirgli di tutte le cose che siamo andati a dirgli, e a fare…eee… sembra poi che li abbiamo presi per il culo».

    Così si conclude una trattativa, su cui, ancora, restano alcuni punti interrogativi: «A me non me ne fotte niente… cioè a dire io posso pure andare a san Luca a dirgli “guardate! sono una massa di buffoni, i soliti sbirri, dicono le cose e non le mantengono!».