Autore: Claudio Cordova

  • Falcomatà sospeso, rimpasto lampo per salvare la maggioranza

    Falcomatà sospeso, rimpasto lampo per salvare la maggioranza

    Come un sovrano che prova a salvare il salvabile con il nemico alle porte. A nascondere, magari bruciare, i documenti sconvenienti. Nelle ore antecedenti e successive alla condanna per il “caso Miramare”, Giuseppe Falcomatà ha fatto un po’ così. Il nemico non era alle porte. Ma il tempo stringeva comunque.

    La sospensione

    Alle 20.22 di ieri sera, sostanzialmente cinque ore dopo la sentenza pronunciata dal Tribunale, il prefetto di Reggio Calabria, Massimo Mariani, ha infatti comunicato la sospensione dalla carica del sindaco di Reggio Calabria. Poco dopo le 15, il Collegio presieduto da Fabio Lauria lo aveva condannato a un anno e quattro mesi per abuso d’ufficio. Punito per l’assegnazione diretta, senza un bando di evidenza pubblica, dell’ex albergo Miramare all’imprenditore Paolo Zagarella. Suo amico di vecchia data.

    Un provvedimento automatico, in forza della Legge Severino. Falcomatà, che è pure avvocato, già nel commento a caldo della sentenza lo dava per scontato. «L’Amministrazione andrà avanti», aveva però detto al folto numero di giornalisti presenti presso l’aula bunker di Reggio Calabria.

    La frenesia delle nomine

    Per questo si è adoperato parecchio. Circa un paio d’ore prima rispetto alla sospensione, Falcomatà, che, come è noto, è anche sindaco della Città Metropolitana, ha proceduto, da condannato in primo grado, alla nomina del nuovo vicesindaco metropolitano, Carmelo Versace. A essere colpito dalla sentenza (e, quindi, dalla Legge Severino) è infatti anche il fido avvocato Armando Neri, che, fino alla condanna, ha ricoperto il ruolo di vicesindaco metropolitano.

    Ma le nomine per Falcomatà erano un pensiero già da tempo.  Poco dopo le 14 (quindi sostanzialmente un’ora prima rispetto alla condanna) Falcomatà aveva già nominato il nuovo vicesindaco. Defenestrato in parte il professor Tonino Perna. Chiamato in pompa magna alcuni mesi prima, per dar lustro alla Giunta Comunale. Vicesindaco da esterno. Lui che aveva ricoperto ruoli importanti. Assessore con Renato Accorinti a Messina. Presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte. Ma, soprattutto, intellettuale riconosciuto e apprezzato in città.

    Parzialmente defenestrato perché Perna resta in Giunta. Con qualche delega minore. Al suo posto, Paolo Brunetti. Maresciallo della Guardia di Finanza. Una nomina che fa discutere. Perché Brunetti, negli anni, è stato assessore alla Depurazione e, oggi, all’Ambiente e al Ciclo Integrato dei Rifiuti. Che, in una città che patisce una cronica carenza idrica e che, in alcune sue zone, è letteralmente sommersa dall’immondizia, non è di certo un buon biglietto da visita.

    E, sicuramente, non un motivo per una “promozione”.

    Alla ricerca di uno “yes man”

    Ma, soprattutto, Paolo Brunetti non è un esponente del Partito Democratico, il partito di Giuseppe Falcomatà. Brunetti, infatti, da qualche mese ha aderito a Italia Viva. Tra i pochi a scegliere il partito di Matteo Renzi. Che in altre province – non ultima quella cosentina, del renziano per eccellenza, Ernesto Magorno – ha cifre di iscritti poco lusinghiere.

    Cosa si cela dietro questa scelta? Di certo Perna, per la sua storia di antagonismo, non poteva essere definito uno “yes man”. Non dava quindi sufficienti garanzie sulla linea da seguire in questi mesi. Perché, allora, accettare questa manovra al ribasso? Peraltro, Falcomatà era un po’ a corto di fedelissimi in Giunta. Non solo Neri, ma anche Giovanni Muraca è stato condannato nel processo “Miramare”. Proprio quel Giovanni Muraca candidato del sindaco alle ultime consultazioni regionali.

    Brunetti non ha un profilo nemmeno paragonabile a quello di Perna. Ma, di certo, offre più garanzie sulla linea da seguire. Ma non è un esponente del Pd. E, con Italia Viva che, a livello nazionale, sembra sempre più appiattita sulle posizioni del centrodestra, questo potrebbe non essere troppo gradito.

    Gioco di equilibri

    Insieme a Nicola Irto, Giuseppe Falcomatà è sicuramente uno dei giovani politici emergenti del Partito Democratico. Che, come ha dimostrato la scelta non troppo convincente di Amalia Bruni come candidata alla presidenza della Regione, ha diversi problemi nel ricambio generazionale. Nonostante gli anni da sindaco di Reggio Calabria non siano stati particolarmente esaltanti, Falcomatà rimaneva comunque uno dei giovani esponenti democratici più apprezzati.

    La condanna, seppur di primo grado, segna ora una prima, vera, brusca frenata nella carriera politica di Falcomatà. Ma la scelta di non designare come sindaco facente funzioni un esponente del Pd, magari un esterno, potrebbe nascondere qualcosa di molto interessante sotto il profilo politico.

    Innanzitutto, dice qualcosa sui rapporti che il sindaco (sospeso) di Reggio Calabria potrebbe avere con il proprio partito. Nelle ore successive alla condanna, infatti, Falcomatà ha incassato la solidarietà dell’Anci. Persino del sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, già Forza Italia e oggi Coraggio Italia. Ma nessun leader del Pd è intervenuto.

    Ma, ancor più interessante, forse, sarebbe la necessità di tenere compatta la maggioranza. Che, con un Comune decapitato, si sarebbe potuta anche sfaldare. E questo Falcomatà non lo vuole. E proprio nell’ultima settimana, la maggioranza consiliare aveva mostrato qualche preoccupante scricchiolio. In Commissione, alcune mozioni presentate dai consiglieri di maggioranza non erano passate, anche a causa del “fuoco amico” di altri colleghi di partito e di coalizione. Che, uscendo dall’aula, avevano fatto mancare il numero legale.

    Insomma, l’obiettivo è chiaro: evitare una escalation pericolosa.

    Fine?

    Sì, perché Falcomatà sogna già il ritorno. Innanzitutto per il ricorso pendente davanti alla Corte Costituzionale sulla Legge Severino. E poi per la possibilità di impugnare (con successo) il provvedimento di sospensione. In passato, infatti, da Luigi De Magistris a Vincenzo De Luca, tanti sono stati i politici che hanno vinto la battaglia amministrativa. Ironia della sorte, gli unici a non impugnare la sospensione, nella storia, sono stati Silvio Berlusconi e Giuseppe Scopelliti.

    Falcomatà, quindi, potrebbe tornare in sella molto presto qualora decidesse di opporsi alla Legge Severino. Per questo serviva mantenere la maggioranza compatta. Lo scioglimento del consiglio comunale avrebbe portato a un commissariamento che, con i soldi del PNRR in arrivo, sarebbe stato esiziale sotto il profilo politico.

    Ancor di più pensando che, appena un anno fa, Falcomatà è riuscito a essere riconfermato sindaco solo al ballottaggio. Sebbene il centrodestra esprimesse un candidato della Lega oggettivamente poco gradito alla cittadinanza. Un ritorno al voto, quindi, potrebbe avere esiti molto incerti.

    Ma, al momento, nonostante alcune uscite nazionali (su tutte, quella di Matteo Salvini) l’ipotesi non sembra essere contemplata. Di certo, Giuseppe Falcomatà non si aspettava un percorso del genere. Lui, figlio di Italo Falcomatà, sindaco della Primavera Reggina. Lui che era stato eletto sindaco dopo gli anni del “Modello Reggio”. E dopo la vergogna nazionale dello scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta.

    Lui che doveva risollevare Reggio Calabria. E che è stato travolto, come tanti, dall’onda della giustizia.

  • “Miramare”: un anno e quattro mesi a Falcomatà. Il sindaco di Reggio sarà sospeso

    “Miramare”: un anno e quattro mesi a Falcomatà. Il sindaco di Reggio sarà sospeso

    Un anno e quattro mesi per il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Un anno per l’ex segretario generale e per assessori ed ex assessori. Tutti condannati per abuso d’ufficio, ma assolti dal reato di falso. Per tutti la pena è stata sospesa.

    Questa la decisione, dopo diverse ore di camera di consiglio, del Tribunale di Reggio Calabria. Il Collegio presieduto da Fabio Lauria ha letto il dispositivo di sentenza intorno alle 15.15.

    La sentenza

    Si conclude così il processo di primo grado sul cosiddetto “Caso Miramare”. Celebrato per far luce sull’assegnazione, con affidamento diretto, che la Giunta Comunale di Reggio Calabria fece alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”, dell’imprenditore Paolo Zagarella. Un’assegnazione che suscitò grande polemica politica e sociale in città. Perché Zagarella era unanimemente riconosciuto come un amico di vecchia data del sindaco.

    Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino. Questi era ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più esclusive e alla moda della città.

    La dialettica tra accusa e difesa

    Da qui, dunque, l’assegnazione diretta. Senza un bando di evidenza pubblica. «Il sindaco Falcomatà non solo non si è astenuto, ma è stato il vero regista dell’operazione» aveva detto l’accusa nel corso della propria requisitoria.  I pubblici ministeri Walter Ignazitto e Nicola De Caria avevano chiesto un anno e dieci mesi di reclusione per il sindaco di Reggio Calabria. Al termine della propria requisitoria, i rappresentanti dell’accusa ritenevano il primo cittadino responsabile dei reati contestati.

    Per tutti gli altri, la Procura aveva chiesto un anno e otto mesi di reclusione ciascuno. Oltre a Falcomatà e a Zagarella erano imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone. Tutti puniti con un anno di reclusione ciascuno e la sospensione della pena.

    La requisitoria

    La requisitoria della Procura, il 22 ottobre scorso. In questo mese, le arringhe difensive hanno provato in tutti i modi a smontare il costrutto accusatorio. Sostenendo come non vi fosse dolo nella condotta degli imputati. Né alcun illecito profitto per Zagarella. Dato che uno dei punti su cui ha sempre puntato la difesa era il fatto che per il Comune di Reggio Calabria quella delibera (poi ritirata) non avrebbe portato alcun esborso per l’Ente.

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    L’ex Hotel Miramare a Reggio Calabria

    L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà. E gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale. La prima, quella che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio

    L’inchiesta

    «Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.

    Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolta nell’inchiesta della Procura di Reggio Calabria. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera. Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura.

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    Margherita Eichberg

    La Procura aveva ritenuto di sostenere la penale responsabilità di tutti gli imputati, solo con un minimo distinguo di pena. Ma, certamente, un ruolo maggiore – morale e materiale – era riconosciuto ai due fedelissimi di Falcomatà, l’assessore Armando Neri e l’assessore Giovanni Muraca. Quest’ultimo, nell’impostazione accusatoria, sarebbe stato colui il quale avrebbe, di fatto, consegnato a Zagarella le chiavi per avere la disponibilità del “Miramare”. Forse anche in tempi antecedenti alla delibera stessa, come dichiarato proprio da Eichberg e dalle sue collaboratrici.

    La condannata

    Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione.  Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà. Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella.

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    Angela Marcianò durante l’ultima campagna elettorale

    Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.

    Cosa accadrà adesso?

    Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane primo cittadino del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.

    Stessa sorte, adesso, potrebbe avvenire per Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Avrebbe così una brusca frenata l’epopea politica del figlio d’arte reggino. Figlio, infatti, del sindaco della “Primavera Reggina”, Giuseppe Falcomatà diventerà primo cittadino dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.

    Ora, però, anche Falcomatà cade sotto i colpi di un’inchiesta giudiziaria. Con conseguenze politiche tutte da vedere. Il primo cittadino, infatti, sarà colpito dal provvedimento di sospensione del prefetto. Così come gli assessori in carica. Poi, si capirà se tutti decideranno di impugnare la decisione.

  • Garage ‘ndrangheta: le supercar delle ‘ndrine

    Garage ‘ndrangheta: le supercar delle ‘ndrine

    Ferrari, Porsche, Lamborghini, BMW: c’è stato un tempo in cui la ‘ndrangheta manteneva un profilo un po’ più basso, con i lussi ben celati. Magari all’interno di case sprovviste di facciata e con i mattoni ben in vista, espressioni di pregio del “non finito calabrese”. Oggi, invece, le nuove generazioni dei clan non disdegnano i lussi. E iniziano anche a ostentarli. Troppo presto per parlare di una “camorrizzazione” della ‘ndrangheta. Ma di certo le nuove leve delle ‘ndrine non disdegnano i motori rombanti. E con essi fanno anche tanti affari.

    Il traffico internazionale

    L’ultima scoperta, appena poche settimane fa, con l’arresto di 14 persone e il sequestro di oltre 13 milioni di euro in Germania. Tra i soggetti coinvolti, i fratelli Sebastiano e Giuseppe Pelle, esponenti dello storico casato di ‘ndrangheta. Un’inchiesta, quella portata avanti dagli inquirenti italiani e tedeschi, che ha riguardato una enorme frode fiscale internazionale nel settore del commercio di auto di lusso e un traffico di sostanze stupefacenti.

    Sebastiano Pelle risponde di frode all’Iva condotta attraverso società cartiere dal 2017 fino a qualche mese fa. Mentre Giuseppe Pelle sarebbe coinvolto in un traffico di sostanze stupefacenti, in particolare hashish. Gli inquirenti ipotizzano una frode Iva transfrontaliera, incentrata sulla vendita dei veicoli. Auto trasferite a varie società con sede in Italia, Belgio, Bulgaria, Francia e Portogallo. Ma secondo gli atti d’indagine «si tratta di trasferimenti soltanto apparenti, posto che i suddetti veicoli venivano in realtà venduti ad altre persone o società e, certamente in molti casi, essi rimanevano nel territorio tedesco, senza dare vita ad una reale transazione intracomunitaria».

    Gli affari

    Le indagini sul conto di Sebastiano Pelle porteranno anche a scoprire il traffico di droga gestito dal fratello Giuseppe in combutta con la famiglia Barbaro-Papalia. Proprio al nipote dello storico boss Rocco Papalia, il 32enne Domenico Sergi, al momento dell’arresto, avvenuto nel 2018, verrà anche sequestrata una Maserati Gran Turismo del valore di 100 mila euro rubata a una società di noleggio.

    Una Maserati GranTurismo

    Del resto, già da tempo, sia al Nord, che all’estero, la ‘ndrangheta cura con grande attenzione il settore dell’automotive di lusso. In generale, al pari dell’edilizia e della grande distribuzione, il mercato delle auto è un business storico. Proprio recentemente, il Gip di Reggio Calabria ha rinviato a giudizio i noti imprenditori Frascati, coinvolti nell’inchiesta “Mercato Libero”. Si tratta di un nucleo familiare attivo da decenni in riva allo Stretto e concessionario di marchi importanti come Honda e Mazda. Secondo la Dda di Reggio Calabria, i Frascati sarebbero un avamposto economico della potente cosca Libri.

    Nel maggio del 2019, nel corso di un’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Canada, tra i beni sequestrati (oltre a ville di lusso e Rolex) finirà anche una Ferrari del valore di oltre un milione di euro.  Due anni prima, un’inchiesta della Dda di Catanzaro si concentra sugli affari della ‘ndrangheta in Umbria. E, in particolare, di clan Trapasso e Mannolo di Cutro. Tra le società interessate, anche una con sede a Milano.

    Una McLaren Ma3

    E lì, gli inquirenti trovano di fronte un campionario di auto di livello elevatissimo. Tra le altre vetture sequestrate, una Lamborghini “Huracan” da 200mila euro e una “Aventador”, che invece si aggira sui 350mila euro. E poi una McLaren “MA3” da 300 mila euro, un paio di Ferrari cabrio e una “812 Superfast” (anche qui siamo sui 300mila euro), poi Bentley e Rolls Royce. Ma anche Audi e Mercedes. Che in quel garage sembrano quasi utilitarie. Un parco auto da 4 milioni di euro.

    Nel maggio scorso, la Procura di Asti ha chiuso il cerchio su una presunta associazione criminale che si muoveva tra Cuneo, Torino e Asti. Un giro internazionale illecito di auto di lusso (tra cui Bmw e Mercedes) e documenti di circolazione. Con un obiettivo: “ripulire” in giro per l’Italia i mezzi usati in vari crimini in mezza Europa, agevolando anche la ‘ndrangheta.

    Il garage di lusso della ‘ndrangheta

    Nel settembre 2021 l’arresto, dopo tre anni di latitanza, del 39enne Giuseppe Nacci, ricercato a livello internazionale per una condanna a 11 anni per reati di bancarotta fraudolenta, tentata estorsione e associazione a delinquere. Uomo ritenuto in affari con la famiglia Flachi, esponenti di spicco della ‘ndrangheta al Nord. Nel 2018, poco prima di darsi alla macchia, era stato fermato a Montecarlo a bordo di una Lamborghini bianca e con addosso dei documenti poi rivelatisi falsi.

    Anni prima, al clan degli Zingari, nel Cosentino, la Dda sequestrò una Ferrari 360 Modena (valore circa 150mila euro), una Chevrolet Camaro (oltre 40mila euro), Smart fourfour (25mila euro), Land Rover, Mercedes ml ed Aston Martin il cui valore complessivo ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro. Nel processo “Rinascita-Scott”, il pentito Andrea Mantella definisce “un mito” il boss vibonese Saverio Razionale: “Girava per Vibo con una Lamborghini Diablo”. Una supercar prodotta dall’azienda italiana in nemmeno 3.000 esemplari tra il 1990 e il 2001. Oggi vale tra i 150mila e i 200mila euro.

    Una Ferrari F430

    All’imprenditore Pasquale Capano, nativo di Belvedere Marittimo, in provincia di Cosenza, ma residente da tempo a Roma, la DIA sequestrerà beni per oltre 50 milioni di euro, ritenendolo uomo assai vicino alla potente cosca Muto di Cetraro. Oltre a ville con piscina e lussi di ogni tipo, nel suo garage, anche una Ferrari F430. Quando era in commercio si partiva da circa € 175.000 per la coupé e da circa 200.000€ per la Spider. Ma non solo: anche un fuoristrada Hummer 6000 di cilindrata, una Mercedes classe E (circa 50mila euro di valore), una Bmw X5 (70mila euro a listino).

    L’auto di Franco Muto

    A proposito di Franco Muto. Siamo ben lontani dalla sua tipologia di auto. Il “re del pesce” di Cetraro è considerato uno dei boss più carismatici del panorama criminale. Uno dei pochi, fuori dai confini della provincia di Reggio Calabria, così autorevole da potersi relazionare con il “Crimine di Polsi”. Entra ed esce dalle cronache giudiziarie da quarant’anni.

    Il 21 giugno 1980 viene ucciso Giannino Losardo, consigliere comunale del Partito comunista di Cetraro, nonché attivista antimafia. Gli inquirenti sostengono che i mandante sia proprio lui, Franco Muto. Ma sarà assolto in primo e secondo grado e la sentenza è passata in giudicato. Il pentito Fonti lo tirerà in ballo anche con riferimento all’affondamento della motonave Cunsky, carica di rifiuti tossici e radioattivi. Ma la vicenda verrà chiusa con grande solerzia.

    Alcuni mesi fa, la sua autovettura fu anche messa in vendita all’asta sui portali Classic Driver e Bring a trailer. Né Ferrari, né Lamborghini. E nemmeno Maserati o Mercedes. L’auto di Franco Muto era un’Alfa Romeo “Alfetta 2000”. Una berlina sportiva di classe medio-alta prodotta tra il 1972 e il 1984 dalla casa milanese Alfa Romeo nello stabilimento di Arese.

    L’Alfetta 2000 di Franco Muto finita all’asta online

    Attenzione a definirla un’auto “banale”. L’Alfa Romeo del 1980, infatti, era totalmente blindata. Dai vetri rinforzati anche col plexiglass, alle ruote in acciaio da 15’’. Dotata persino di un interfono. Nell’annuncio, al limite del grottesco, veniva sottolineato come l’auto fosse appartenuta a «un noto membro della mafia italiana». Un’auto in vendita a poco meno di 20mila euro. E il pacchetto comprendeva anche gli ordini impartiti dal boss all’interno della vettura.

  • Crolla tutto quando costruisce la “Edil ‘Ndrangheta Spa”

    Crolla tutto quando costruisce la “Edil ‘Ndrangheta Spa”

    «Secondo lui dice non va bene. Perché noi al Morandi con questo materiale l’abbiamo fatto… e casca tutto». È solo uno dei tanti passaggi, parimenti inquietanti, che emergono dalle intercettazioni captate dagli inquirenti nell’ambito dell’operazione “Brooklyn”. Con questa indagine la Dda di Catanzaro non solo è convinta di aver dimostrato l’infiltrazione delle cosche nelle opere pubbliche del capoluogo. Ma anche l’impiego di materiale scadente, con il conseguente rischio per i cittadini.

    Il ponte di… “Brooklyn”

    Sei misure cautelari nell’operazione eseguita dalla Guardia di Finanza. Che sostiene come il gruppo imprenditoriale della famiglia Sgromo fosse un punto di riferimento della cosca Iannazzo di Lamezia Terme. Dalle conversazioni registrate emergerebbe l’impiego nelle lavorazioni di un tipo di malta di qualità scadente. E quindi più economica di quella inizialmente utilizzata: «A me serve nu carico 488 urgente, altrimenti devo vedere… devo mettere quella porcheria di******* qui sui muri eh…, che c’hanno stoccato per Catanzaro nu… nu bilico… però vorrei evitare ste simbrascugli…», afferma il direttore tecnico dei lavori. «Eh… fai… fai… fai… fai una figura di merda… perché quel prodotto non funziona», risponde il rappresentante della ditta fornitrice. Quei materiali, dicono testualmente gli indagati intercettati, «fanno cagare».

    «Qua crolla tutto», aggiungono in un’altra intercettazione. Tra le opere costruite con questo materiale scadente c’è il viadotto Bisantis. Lo conoscono tutti come “Ponte Morandi”, dal nome del progettista: l’ingegnere Riccardo Morandi, padre anche del ponte di Genova che crollò il 14 agosto del 2018 provocando 43 vittime. Parliamo della principale strada di accesso a Catanzaro, un ponte ad arco costruito su una sola arcata in calcestruzzo. Per l’altezza, è il secondo ponte in Europa con quelle caratteristiche.

    ‘Ndrangheta e appalti

    Lo spaccato inquietante emerso con l’inchiesta “Brooklyn” non è, purtroppo, un caso isolato. Sia in Calabria, sua terra di origine, che nel resto d’Italia, la ‘ndrangheta si è inserita o ha tentato di farlo nella gestione degli appalti e subappalti pubblici. Lo fa in vari modi. Dalla “classica” imposizione della tangente, sotto forma di mazzetta di denaro, all’aggiudicazione dei lavori tramite aziende apparentemente “pulite”. O, ancora, l’imposizione delle maestranze. Ma anche la fornitura di materiali. O quello che potremmo definire l’indotto: dai servizi mensa per gli operai alle lavanderie.

    Gli appalti pubblici, da sempre, sono un bocconcino prelibato per le cosche. E l’infiltrazione mafiosa è una delle principali obiezioni che vengono poste contro la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. Ma questo è solo un esempio. La ‘ndrangheta, da sempre, pasteggia grazie ai grandi appalti pubblici. Dagli eterni lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, passando per la SS106. Per rimanere in Calabria. Ma le indagini hanno dimostrato le infiltrazioni in EXPO 2015 a Milano. E gli appetiti sulla TAV.

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    Un incidente sulla SS 106 nei pressi di Corigliano-Rossano

    Un po’ in tutti i casi, la costante è rappresentata dalla durata dei lavori. Più il cantiere rimane aperto, più le cosche possono arricchirsi. innanzitutto grazie l’ormai nota “tassa ambientale”, ossia l’estorsione da pagare per “non avere problemi” unanimemente indicata dai collaboratori di giustizia con il classico 3% sull’importo dei lavori. E poi per la ‘ndrangheta c’è la possibilità di poter lucrare il più possibile sull’appalto in sé. Anche tramite l’utilizzo di materiali scadenti. Che, ovviamente, fanno abbassare sensibilmente i costi di realizzazione. Per questo il caso del ponte Morandi a Catanzaro e dell’inchiesta “Brooklyn” è tutt’altro che isolato.

    La Salerno-Reggio Calabria

    Nel 2016 su mandato della Procura della Repubblica di Vibo Valentia vengono sequestrati otto chilometri della Salerno-Reggio Calabria. L’autostrada A3 (oggi A2-Autostrada del Mediterraneo) è stata interessata da eterni lavori di ammodernamento. Praticamente fin da subito dopo l’inaugurazione, avvenuta negli anni del boom economico.

    Secondo le indagini il tratto che comprende i viadotti del torrente Mesima sarebbe stato costruito con materiale scadente e senza i necessari studi idraulici. Nel decreto di sequestro, emesso nell’aprile 2016, il percorso del torrente Mesima è considerato «pericolosamente incidente sulle pile in alveo». Nella relazione stilata per la Procura si chiedeva urgentemente di mettere in sicurezza quel tratto. Che, tuttavia, non è stato mai chiuso. Con la stessa Anas che fu nominata custode giudiziaria del sequestro e che, a più riprese, ha garantito uno scrupoloso controllo sull’arteria.

    L’ingegner Fiordaliso

    La questione lavori dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria è strettamente collegata alla posizione dell’ingegnere Giovanni Fiordaliso, al centro delle inchieste “Cumbertazione” e “Waterfront” perché considerato un professionista vicino alle cosche di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. E, in particolare, alla famiglia Piromalli tramite il nucleo familiare dei Bagalà. Recentemente, tuttavia, il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti.

    Fiordaliso è coinvolto nella veste di ingegnere funzionario ANAS e direttore dei lavori e RUP nell’ambito di varie commesse pubbliche in materia, tra l’altro, di ammodernamento e adeguamento di tratti autostradali della Salerno/Reggio Calabria. Sarebbe stato, secondo gli inquirenti un «indefettibile tassello strumentale all’infiltrazione nel settore degli appalti pubblici di cartelli imprenditoriali connotati da contiguità mafiosa ed il cui contributo si traduceva in plurime e reiterate condotte corruttive, a fronte delle quali traeva ingenti profitti ed utilità di vario genere».

    Interessato anche da un sequestro di beni, l’ingegnere non è solo alla famiglia ‘ndranghestista dei Bagalà, ma anche all’imprenditore Domenico Gallo. Quest’ultimo, uomo forte nel settore della bitumazione, secondo alcuni passaggi tecnici, avrebbe anche fornito materiale inferiore rispetto a quello previsto dall’appalto.

    I lavori sulla SS106

    Altrettanto infiniti i lavori che hanno interessato e interessano la SS106 jonica. Quella che, tristemente, è conosciuta come “strada della morte”. Anche in questo caso le dinamiche sono simili a quelli della Salerno-Reggio Calabria. Anche sulla strada che porta fino a Taranto le cosche hanno spartito territorialmente gli introiti da incassare sui lavori.

    Il sospetto di lavori effettuati senza rispettare i requisiti minimi o con materiale scadente è forte. Un’inchiesta di qualche anno fa, denominata “Bellu lavuru”, partirà proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino di Palizzi, avvenuto il 3 dicembre 2007. Secondo le indagini, l’opera sarebbe venuta giù perché realizzata in difformità alle prescrizioni dettate dalla Relazione Tecnica e Strutturale e dal Piano Operativo di Sicurezza del Progetto Esecutivo. Nonché a quanto disposto dal Capitolato Speciale di Appalto, quale allegato al contratto d’appalto. Difformità che avrebbero causato la perdita di stabilità del versante scavato ed il riversamento dello stesso sulle opere in fase di realizzazione. Interessate dalle indagini le cosche Morabito, Bruzzaniti-Palamara, Maisano, Rodà, Vadalà, Talia.

    tiradritto
    Il boss Giuseppe Morabito

    L’inchiesta coinvolgerà uomini della ‘ndrangheta, ma anche funzionari dell’Anas, sostenendo una elevata soglia di approssimazione nell’esecuzione dei lavori, la cui qualità si è rivelata inferiore a quanto prescritto negli atti progettuali che presiedevano e dovevano orientare la realizzazione della grande opera.  «È proprio un bellu lavuru», dicono i parenti di Giuseppe Morabito, meglio conosciuto come “il Tiradritto”.  All’anziano capomafia, recluso nel carcere di Parma in regime di 41 bis, annunciano l’appalto per i lavori di ammodernamento della Strada Statale 106 jonica ed in particolare la costruzione della variante al centro abitato del comune di Palizzi.

    La ‘ndrangheta al Nord

    Ma, come detto, tutto ciò non riguarda solo la Calabria. Qualche tempo fa, nel corso di un’intervista, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha definito «buona» la salute di cui gode la ‘ndrangheta al Nord. Perché anche lì la criminalità organizzata tende a ricostruire le medesime dinamiche della “casa madre”. Non solo per quanto concerne rituali e gerarchie, ma anche quando si parla di affari e di modalità di fare affari.

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    «Nel mondo dell’edilizia le ‘ndrine sono sempre state molto presenti: offrendo manodopera a basso costo, garantendo lo smaltimento dei rifiuti, rifornendo cemento depotenziato. Gli imprenditori del Nord che si sono adeguati, oggi non possono dire di non sapere o di non aver capito. Spiego: se per anni i tuoi fornitori ti offrono un materiale a 100 e i nuovi arrivati te lo danno a 60, c’è qualcosa che non va. È evidente», ha aggiunto Gratteri.

    L’amalgama

    È stata la Dda di Genova, con un’inchiesta di qualche anno fa denominata “Amalgama”, a dimostrare come le dinamiche siano le medesime anche per i lavori al Nord. In quel caso, il focus investigativo si concentrò sul Terzo valico, la linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Milano e Genova. Un’opera da 6,2 miliardi. Un grande affare in cui il regista dell’operazione è il consorzio Cociv, ovvero i colossi delle costruzioni italiane: Salini Impregilo, Condotte e Civ. Una storia di flussi di denaro enormi e di corruzione, anche attraverso il reclutamento di escort. Con il solito, inquietante, dubbio sul materiale utilizzato: «Il cemento sembra colla», si dicono due degli indagati intercettati,

    È un’inchiesta con nomi altisonanti. Tra le persone rinviate a giudizio, c’è Ercole Incalza, ex capo della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, indagato e poi prosciolto nell’inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. C’è Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa, detenente la partecipazione di maggioranza nel consorzio Cociv. Ma c’è anche Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato ed ex presidente di «Infrastrutture Spa», società a partecipazione pubblica costituita per il finanziamento delle Grandi Opere. Originario di Reggio Calabria, è coinvolto insieme al figlio imprenditore Giandomenico.

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    Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa

    Tutti avrebbero formato un “amalgama”, da qui il nome dell’inchiesta. Espressione presa a prestito dalle parole dell’imprenditore Domenico Gallo. Sì, ancora lui, l’imprenditore calabrese già coinvolto nell’inchiesta “Cumbertazione” e destinatario di un sequestro di beni. «Chi fa il lavoro, la stazione appaltante, i subappaltatori, deve crearsi l’amalgama, mo è tutt’uno… Perché se ognuno – dice Gallo intercettato – tira e un altro storce non si va avanti. Quando tu fai un lavoro diventi parte integrante di quell’azienda là e devi fare di tutto perché le cose vadano bene, giusto?». L’intercettazione è agli atti del processo. Processo che è a forte rischio prescrizione. I termini scadranno nel marzo 2022.

  • Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    «Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l’oggetto sia per l’estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali». Qualche anno fa, la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta da Gaetano Pecorella, arrivò a questa inquietante conclusione. Lo fece dopo mesi, anni, di indagini. Di acquisizioni documentali. Di audizioni. Tutto per provare a riaprire qualche file ormai archiviato sulle oscure vicende delle “navi dei veleni”. Che, come abbiamo visto, intrecciano i propri tragici destini con la Calabria. Ma anche con l’Africa. Rendendo tutto un grande, gigantesco, affare internazionale.

    «Ragioni inconfessabili”

    In queste vicende parlano più i morti dei vivi. Sul grande business di rifiuti e armi degli anni ’80 e ’90 tutti i diretti interessati o semplici sospettati, hanno sempre mantenuto riserbo o, nel migliore dei casi, vaghezza. Nomi che abbiamo imparato a conoscere. Da Giorgio Comerio a Giancarlo Marocchino. E, allora, parlano molto di più i morti. I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia. Ma anche il capitano della Marina Militare, Natale De Grazia. Morto in circostanze misteriose proprio mentre indagava su questi traffici.  Dopo la sua morte, di fatto, non vi sarà più una vera, compiuta, inchiesta su queste vicende.

    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    E la Commissione Ecomafie lo scrive chiaramente: «Ne è un esempio significativo l’indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull’apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d’azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta “ignoranza ufficiale” dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite».

    Doppi, tripli e quadrupli giochi

    Sul ruolo dei Servizi ci siamo soffermati molto in queste settimane. Un ruolo tuttora mai chiarito. E che, proprio per questo, alimenta dubbi e scenari inquietanti su cui solo di rado si apre qualche squarcio di luce. C’è un percorso, una rotta, infatti, che lega Trapani a Reggio Calabria. C’è, soprattutto, un nome, quello di Aldo Anghessa, un uomo dei servizi segreti che partecipa, negli anni, a diverse operazioni di intelligence. Negli anni ’80, per ordine della procura di Massa Carrara, finisce anche in carcere. Sospettato di essere vicino al clan siciliano dei Minore. Un’ipotesi accusatoria mai verificata. E, quindi, nessun processo.

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    Il giornalista Mauro Rostagno

    Il nome di Anghessa compare dunque a Trapani, ma anche a Reggio Calabria. Tutte faccende che risalgono proprio agli anni ’80. Commercio di armi nel filone siciliano, mentre in Calabria si sarebbe occupato di traffici di scorie radioattive. Secondo alcune fonti, le presunte compravendite di armi in cui sarebbe stato coinvolto Anghessa sarebbero le stesse scoperte dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a causa di tanta curiosità.

    La «lobby affaristico-criminale»

    Agli atti della Commissione Ecomafie, vi sono anche le audizioni di alcuni dei membri del pool di cui Natale De Grazia era la punta di diamante. Uno di questi membri, un carabiniere, afferma che Anghessa sarebbe entrato in contatto con il pm titolare del fascicolo, Francesco Neri. Al magistrato avrebbe prospettato la possibilità di poter dare un contributo fondamentale alle investigazioni: «Anghessa, fece intendere – siamo nella prima fase – che era disponibile a segnalare a noi l’arrivo di una nave contenente rifiuti radioattivi. L’avrebbe fatto per gentilezza, come forma di confidenza. Era noto che Aldo Anghessa avesse praticato traffici simili, non in relazione ai rifiuti, ma alle armi».

    Nel periodo della sua detenzione, Anghessa qualcosa la dice. Lo spione considerato vicino ai clan (ma mai condannato), parla dei traffici delle navi dei veleni che riguardano soprattutto la Calabria. Anghessa conferma diversi sospetti: «A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e materiali strategici nucleari».

    Inattendibile

    Ma i riscontri bollano Anghessa come inattendibile. Un ciarlatano, insomma. Tempo dopo, però, lo stesso carabiniere racconta di essere stato protagonista di un episodio: «Un bel giorno, mentre mi stavo prendendo un caffè, si è presentato un signore che mi ha detto: “Io sono il collaboratore di Aldo Anghessa: volevo avere notizie”. Gli ho risposto che non lo conoscevo e che, se avesse voluto, era lui che avrebbe dovuto venire da me, che io non avevo niente da dirgli. Questo è il tentativo che hanno fatto per agganciarmi. La mia definizione che aveva mezzi e uomini a disposizione deriva da questo contatto che avevo ricevuto».

    “Alfa Alfa”. Sarebbe stato questo il nome in codice di Aldo Anghessa nei Servizi: «In quella circostanza – dice ancora davanti alla Commissione Ecomafie – capii che c’era troppo movimento alle spalle di questo personaggio: nonostante gli arresti domiciliari uomini, telefoni, macchine a disposizione».

    Ultimo atto: la Cunsky

    Inattendibile Anghessa. Inattendibile, come abbiamo già visto, Francesco Fonti. Il “santista” della ‘ndrangheta della Locride che, fin quando parla di strutture criminali, di reati comuni e di ‘ndrangheta pura, viene creduto. Quando allarga il suo racconto alle “navi dei veleni” depotenzia, quasi automaticamente, la portata delle sue dichiarazioni.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso

    Il colpo finale alla sua credibilità arriva dalla vicenda della nave Cunsky, affondata al largo di Cetraro. Fonti dichiarerà di aver affondato personalmente la nave, facendola colare a picco con un’esplosione di tritolo. Ma dopo una serie di indagini, curate, in particolare, dall’allora assessore regionale all’Ambiente, Silvio Greco, il ministro Stefania Prestigiacomo, unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, “chiuderanno il caso”. Tutti uniti nel dichiarare che il relitto investigato in quei mesi altro non era che un residuato bellico. Eppure alcune immagini sembravano chiare circa i fusti sospetti contenuti nella stiva.

    L’ennesimo intreccio

    Un destino comune. Il caso si chiude, proprio come quelli su cui indagava De Grazia. La Cunsky come la Rigel o la Jolly Rosso. Ma anche stavolta sono molti ad alimentare dubbi sulla bontà degli accertamenti svolti dal Ministero. Accertamenti che non coinciderebbero affatto con quelli dall’assessore Greco e dal procuratore di Paola, Bruno Giordano. Oggi deceduto. Ma in quel periodo tra i pochi a provare a mettere nuovamente a sistema i dati che si conoscevano sulle “navi dei veleni”. Non ci riuscirà. Il caso Cunsky verrà chiuso in fretta e furia. Lasciando molti dubbi.

    Soprattutto sulle coordinate. Ritenute non corrispondenti. Il Governo, infatti, incaricherà l’armatore Pietro Attanasio, con la sua Nave Oceano, di effettuare i rilievi. Rilievi che smentiranno quelli disposti dalla Regione, riportando anche all’attenzione la presunta vicinanza di Attanasio al noto avvocato inglese David Mills. Noto perché coinvolto nel processo di corruzione in atti giudiziari in cui l’ex premier Silvio Berlusconi è stato “salvato” dalla prescrizione. Lo stesso Mills, peraltro, a detta di un rapporto di Greenpeace del 1997 sarebbe stato legato in rapporti d’affari con l’ingegner Giorgio Comerio.
    L’ennesimo intreccio. Vero o reale. Ma che alimenta la coltre di sospetti. Che in queste vicende è ancora oggi più fitta che mai.

  • Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    «Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso». L’incipit messo nero su bianco dalla Commissione Ecomafie alcuni anni fa è tutto un programma. Un programma di insabbiamenti, di trame oscure, forse anche di depistaggi.

    Le indagini di Natale De Grazia

    La Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti presieduta in quel periodo da Gaetano Pecorella (vicepresidente Alessandro Bratti) tentò di aprire qualche squarcio di luce sul lavoro del capitano di corvetta Natale De Grazia, morto in circostanze misteriose alla fine del 1995, mentre indagava sulle cosiddette “navi dei veleni”.

    De Grazia era entrato nel pool di investigatori messo insieme dal magistrato Francesco Neri. L’ipotesi inquietante su cui indagava la Procura di Reggio Calabria era un presunto affare internazionale che avrebbe visto un giro di “carrette del mare”, cariche di scorie nucleari da inabissare nel Mediterraneo. Anche al largo delle coste calabresi. Natale De Grazia indagava proprio su questo. Era l’elemento di spicco del pool. Quello più abituato ad andare per mare. E che conosceva meglio il mare. Il suo mare.

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    Il capitano Natale De Grazia

    «La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine».

    Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili sull’ultimo viaggio di Natale De Grazia. Quello verso La Spezia. Per indagare sul conto di una nave, la Latvia. Una di quelle “carrette del mare”. O, meglio “navi dei veleni”.

    Quante sono le navi dei veleni?

    La Latvia è una delle sospette “navi dei veleni”. Non la più famosa. Rigel. Rosso (ex Jolly Rosso). E, più recentemente, Cunsky. Questi alcuni dei nomi più noti. Quella relazione di qualche anno fa della Commissione Ecomafie rende un po’ più solidi alcuni dei sospetti già paventati da anni dalle associazioni ambientaliste. Legambiente, su tutte.

    Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell’associazione ambientalista alla magistratura reggina sull’interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal capitano Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti.

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    Nell’inchiesta portata avanti dal pool un nome ricorrente è proprio quello dell’ingegner Giorgio Comerio. Quello che, come abbiamo visto, aveva predisposto un progetto per l’insabbiamento nei fondali soffici di “penetratori” carichi di scorie. Un uomo da romanzo, lo abbiamo definito. Il nome di Comerio si incrocerebbe con quello di una delle navi più tristemente famose: la Rosso. Il sospetto di molti è che la motonave della linea Messina fosse una delle “navi dei veleni” che dovevano affondare con il loro carico di morte. E che solo un curioso disegno del destino la fece spiaggiare sulla spiaggia di Formiciche, ad Amantea. È il 14 dicembre del 1990. Comerio, infatti, negli anni si sarebbe interessato all’acquisto della motonave. Una trattativa, quella con gli armatori Messina, che non si concretizzerà, ma che, secondo gli inquirenti, poteva, in qualche modo, ricollegarsi al presunto traffico di scorie radioattive.

    La seconda è una motonave affondata al largo delle coste calabresi, la Rigel. E sarebbe stato ancora una volta il capitano Natale De Grazia a scoprire il collegamento. Nel corso di una perquisizione all’interno dello studio dell’ingegnere, infatti, De Grazia avrebbe trovato un’agenda, con una strana scritta alla data 21 settembre 1987: «lost the ship». La frase, tradotta, significa «la nave è persa». Comerio smentirà sempre ogni possibile collegamento, ma il 21 settembre 1987, ci sarà solo una nave “persa”. La Rigel. Fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. In quella stessa perquisizione all’interno dello studio di Comerio (ma anche in questo caso l’ingegnere smentirà) il capitano De Grazia ritroverebbe anche delle carte che avrebbero a che fare con la Somalia e la morte della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin.

    Il ruolo dei Servizi

    Un uomo da romanzo. Noir, evidentemente. Giorgio Comerio, infatti, secondo alcune fonti, avrebbe anche ospitato in un appartamento, forse non di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Altro nome che, con la sua P2, si lega ad alcune delle storie più inquietanti e drammatiche della storia d’Italia.

    Vicende oscure. In cui, in un modo o nell’altro, sarebbero entrati i Servizi Segreti. Con il Sismi il pm Neri, titolare del fascicolo, avrebbe avuto una interlocuzione costante. Sia per la richiesta di informazioni e documenti su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta. Dal traffico di rifiuti radioattivi a quello di armi e agli affondamenti di navi, solo per fare qualche esempio.

    Nelle 308 pagine scritte da Pecorella e Bratti emerge inoltre come il Sismi, nel solo 1994, avesse speso ben 500 milioni di lire per i servizi d’intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Ma, secondo diverse fonti e testimonianze, la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria.

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    Il centro Enea di Rotondella in Basilicata

    Una di queste audizioni è quella del colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato. Elemento prezioso nelle indagini, soprattutto con riferimento alle presunte attività illecite che ruotavano attorno alla centrale ENEA di Rotondella, in Basilicata: «In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio».

    Poi, la scoperta: «Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo».  

    La fonte anonima

    Gli inquirenti, quindi, si sarebbero scontrati contro un muro di gomma. Con la costante idea di essere spiati. Un’idea che emerge dalle testimonianze raccolte dalla Commissione Ecomafie. Un’idea che, dicono le persone a lui vicine, aveva anche Natale De Grazia. Che muore in circostanze sospette. Proprio mentre sembrava vicino alla verità. O, almeno, a una parte di essa.

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti che qualche anno fa si occupò della vicenda vi è anche una fonte anonima. Che parla proprio di quell’ultimo viaggio di De Grazia: «[…] il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con [OMISSIS] con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. […] Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, […] È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. […] questa nave […] era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia […]».

    Quel viaggio di Natale De Grazia, dunque, aveva un’importanza strategica nell’indagine. Perché la Latvia non era meno importante, nel presunto sistema criminale, rispetto a Rosso o Rigel. E sembrava nascondere molti più segreti di quanto si potesse immaginare. Infine, dal racconto della fonte anonima:«Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia».

  • “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    Un anno e dieci mesi di reclusione. Questa la richiesta formulata dai pm Walter Ignazitto e Nicola De Caria nei confronti del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Il processo è quello sul cosiddetto “Caso Miramare”, con cui la Procura reggina persegue il presunto affidamento diretto dell’ex albergo di lusso effettuato dalla Giunta Comunale alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”.

    Gli imputati e le richieste dell’accusa

    Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino Paolo Zagarella. Questi è ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più “in” della città.

    Ma il pm Ignazitto è stato netto: «Il ‘Miramare’ doveva andare a un amico del sindaco: Paolo Zagarella. Non solo non si è astenuto, ma è stato il vero registra dell’operazione». Tuttavia, mano “leggera” nella richiesta: un anno e dieci mesi, considerando lo stato di incensuratezza.

    Per tutti gli altri, la Procura ha chiesto un anno e otto mesi di reclusione. Oltre a Falcomatà e a Zagarella sono imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone.
    Per tutti, quindi, la Procura di Reggio Calabria ha richiesto la condanna.

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    Un momento dell’udienza di oggi a Reggio Calabria
    I fatti contestati

    Al centro dell’inchiesta, la delibera della Giunta comunale con cui l’Amministrazione affidava all’imprenditore Paolo Zagarella, titolare dell’associazione “Il Sottoscala”, la gestione temporanea del noto albergo Miramare. Da tempo chiuso.

    L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà e gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio.

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    L’ex Hotel Miramare a (Reggio Calabria

    Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolto nell’inchiesta del pm Walter Ignazitto. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera.

    «Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.

    Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura. «Si tratta di un processo sul modo in cui deve intendersi la funzione pubblica, con imparzialità e trasparenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria.

    La grande accusatrice

    Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione.  Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà.

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    Angela Marcianò durante l’ultima campagna elettorale

    Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella. Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.

    Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane sindaco del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati alla carica di primo cittadino. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.

    Verso la sentenza

    Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Ora, però, rischia un pericoloso passo falso, poco più di un anno dopo la riconferma come sindaco di Reggio Calabria. I fatti contestati, però, si riferiscono al suo primo mandato. Quelli dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.

    Un avvio difficile, accidentato, in cui il primo obiettivo è capire se e come evitare il dissesto economico-finanziario. Ma uno dei primi atti dell’Amministrazione Falcomatà è quello di eliminare il Miramare dai beni di proprietà del Comune in vendita. Così come voluto dalle Amministrazioni di centrodestra prima e dalla terna commissariale poi.

    La tesi della difesa

    La difesa di tutti gli imputati è stata quella di voler rilanciare quello che, unanimemente, viene considerato uno dei “gioielli di famiglia” della città. E che tale affidamento (poi saltato, per via del putiferio politico e giudiziario) non avrebbe comportato alcun esborso per l’Ente. Ma, anzi, una possibilità di rilanciare la struttura a “costo zero” con eventi di vario genere.

    Tesi che, evidentemente, non sembrano aver convinto i pm Ignazitto e De Caria, che hanno formulato le richieste di condanna: “Il ‘gioiello di famiglia’ trasformato in un affare di famiglia’ con palesi violazioni di legge” hanno detto infine i pm.

    Adesso la girandola delle arringhe difensive. Con la sentenza per Falcomatà&co che dovrebbe arrivare il 19 novembre. E, in caso di condanna, potrebbe far scattare la sospensione dovuta alla “Legge Severino”. Facendo piombare la città in una fase politica tutta da decifrare.

  • Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.

    I rilievi sui terreni con valori altissimi minerali e idrocarburi

    Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.

    Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere

    L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.

    La conferenza stampa dell’operazione “Mala Pigna”. Terzo da sinistra il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.

    Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.

    L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli

    sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.

    I professionisti al servizio del clan

    Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente “pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.

    Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.

    Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.

    Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita

    È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.

    Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.

    In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.

    «Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»

    Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.

    «Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è Marco Petrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.

    Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato.  Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».

  • Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Territori da sempre in guerra e per questo incontrollati. L’Iraq e la Somalia da un canto. La Calabria, dall’altro. Guerre diverse, evidentemente. Ma lo stesso destino di vaste aree dove poter mettere in atto alcuni traffici illeciti. Sicuri che, soprattutto in quegli anni ’80-’90, tutto sarebbe rimasto sotto traccia. Avvolto nell’ombra e nel silenzio.

    Ilaria Alpi e Natale De Grazia: destini incrociati

    Iraq e Somalia sono anche i Paesi che incrociano il proprio destino con le indagini portate avanti sul traffico di scorie radioattive dai magistrati di Matera e Reggio Calabria. E incrociano i loro destini (e le loro tragiche fini) anche Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Due persone che – in luoghi diversi e con modalità diverse – probabilmente seguivano le stesse tracce.

    Documento desecretato in merito a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Muoiono a distanza di un anno e mezzo. Ilaria Alpi, giornalista del TG3, uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Con lei, trucidato anche l’operatore, Milan Hrovatin. Natale De Grazia muore in circostanze sospette il 13 dicembre del 1995, a Nocera Inferiore. Entrambi indagavano sulle cosiddette “navi dei veleni”. Carrette del mare. Imbottite di rifiuti tossici. Di scorie radioattive e nucleari.

    Navi che a volte giungevano fino all’Africa. Per scaricare in quei luoghi abbandonati il proprio carico di morte. Altre volte, invece, venivano fatte colare a picco al largo delle coste calabresi.    

    Il capitano Natale De Grazia
    L’ingegner Giorgio Comerio

    Un nome ricorrente è quello di Giorgio Comerio. Nel corso di una perquisizione nella sua abitazione a Garlasco, infatti, il pool di investigatori comandato dal capitano Natale De Grazia troverà un fascicolo con la scritta “Somalia”. In quella cartella, secondo quanto riferito, si sarebbe trovato del materiale riguardante la morte di Ilaria Alpi. Un certificato di morte o un lancio di agenzie. Le testimonianze sono discordanti. E il dubbio resta.

    La Somalia, quindi, entra a pieno titolo tra le rotte “calde” per il traffico di scorie radioattive. Le regioni del Nord Africa, infatti, sembrano essere la sede privilegiata di destinazione dei rifiuti altamente tossici. Il tema, dunque, è quello delle “navi a perdere”, in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall’ingegner Giorgio Comerio. Con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi.

    Documento desecretato in merito alla Oceanic Disposal Management

    Ingegnere con sede operativa a Garlasco, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare. Dello smaltimento delle scorie nucleari. Con la ODM Comerio ha un progetto: inabissare le scorie radioattive in acque dai fondali profondi e soffici, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori. Questi, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. Una proposta respinta da tutti gli Stati a cui l’ingegnere si rivolgerà. Almeno ufficialmente.

    Le indagini su Comerio e la sua ODM

    Ma secondo qualcuno Comerio avrebbe potuto mettere in piedi il proprio progetto in maniera autonoma. Secondo Legambiente, infatti, «Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo».

    Documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    La vita di Giorgio Comerio è piuttosto avventurosa. Negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina. Iscritto alla Loggia di Montecarlo, sarebbe un elemento legato ai servizi segreti. Anche se lui smentirà sempre fermamente. Maria Luigia Giuseppina Nitti è la compagna dell’ingegnere dal 1986 al 1992. Nel 1995 ai carabinieri che indagano sui presunti traffici di rifiuti radioattivi dichiara: «Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo in Italia, nella primavera del 1993, si assentò dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini». Ma anche in questo caso, per Comerio queste sarebbero tutte stupidaggini.

    Altro documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    Di Comerio parla anche quel Carlo Giglio, la fonte “Bill”, che ha raccontato alcuni dettagli, mai verificati giudiziariamente, su quegli anni. Giglio racconta di presunti rapporti con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”.

    Il pool di investigatori di Natale De Grazia perquisisce l’abitazione di Comerio, a Garlasco. E ritrova un serie molto lunga di dati: «Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi». È in quell’occasione che sarebbe stata anche recuperata la documentazione riferibile alla morte di Ilaria Alpi.

    La rotta somala

    Ed è qui che si incrociano le indagini di Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Un personaggio chiave sarebbe Giancarlo Marocchino. È lui uno dei primi a intervenire sul luogo del delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È uno degli ultimi a vedere il materiale di lavoro che Ilaria Alpi portava con sé. Che poi scomparirà nel nulla.

    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Marocchino, secondo alcune risultanze, avrebbe gestito un traffico di rifiuti in Somalia. Uomo molto influente in Somalia, attivo in una serie di affari e attività a Mogadiscio. Acquisendo un grande potere economico e militare: «Chiunque voglia andare in Somalia e rimanere vivo, segnatamente a Mogadiscio, deve farsi proteggere da lui» dirà in un’audizione uno dei magistrati che indagherà sull’imprenditore.

    Ancora dall’audizione: «Marocchino, da decenni operante con buon successo a quanto pare in Somalia, una realtà difficile nella quale credo che si debba essere bravi a operare, ma anche ad avere qualche forma di copertura istituzionale, sopravviveva benissimo. (…) Questo signore, in quel periodo e a mano a mano nel corso di quell’anno o due che seguimmo l’indagine, portava avanti la costruzione di un suo porto nella zona di El Man che avveniva sotto gli occhi di tutti in una zona che aveva poche insenature naturali. Una costa abbastanza piatta, formata a un certo punto da un serie di moli. I container erano posizionati tatticamente in modo perpendicolare alla linea litoranea di spiaggia. Riempiti, si dice, con inerti e protetti dall’erosione e dalla furia del mare, da montagne di macigni posti intorno».

    All’ombra del Partito Socialista

    Affari che si sarebbero mossi all’ombra del Partito Socialista dell’epoca. Come racconta la Commissione parlamentare sul duplice delitto Alpi-Hrovatin. Quel Giampiero Sebri, per anni uomo di grande rilievo e vicino a Bettino Craxi. Sebri definisce così Marocchino: «Era un nostro uomo, uomo di fiducia si intende, chiaramente, per quanto riguarda i traffici di rifiuti tossici-nocivi e anche traffici d’armi».

    Marocchino ha sempre definito calunnie tali affermazioni. E non ha mai subito procedimenti giudiziari concernenti tali accuse. Dichiarazioni, quelle di Sebri, messe nero su bianco in atti parlamentari ufficiali. Ma che non troveranno sbocco giudiziario. Ed è una costante di queste storie.  Un altro personaggio particolare è, in tal senso, quel Guido Garelli, pugliese, ma ammanicato con mezzo mondo. Al pubblico ministero Francesco Basentini, un giorno Garelli dirà di essere stato ammiraglio di un non meglio precisato esercito dell’Autorità Territoriale del Sahara Occidentale. E dignitario di un servizio d’intelligence che avrebbe operato nell’interesse del Regno Unito. Con base a Gibilterra. Garelli è in possesso di tripla cittadinanza: jugoslava, italiana e del Sahara Occidentale. È testimoniato in atti giudiziari come entrasse a Camp Darby senza bisogno di particolari permessi. Camp Darby è una base militare statunitense in Italia, nel territorio comunale di Pisa. Sarebbe considerata dalla US Army il distaccamento militare più importante d’Europa. Il più grande arsenale Usa all’estero.

    Un uomo in contatto con i servizi segreti italiani, con quelli statunitensi e con quelli africani. Dopo la morte di Ilaria Alpi, Guido Garelli finisce anche in carcere a Ivrea per ricettazione. Nel periodo in cui è detenuto, rilascia alcune dichiarazioni piuttosto interessanti: «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent’anni. La regia di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde. Vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

    Le dichiarazioni di Francesco Fonti

    Di Marocchino parlerà anche il collaboratore di giustizia. Francesco Fonti. Oggi deceduto. Fonti dichiara di averlo conosciuto a Milano nel 1992. Il collaboratore, infatti, ricorda l’interesse della ‘ndrangheta nel traffico di rifiuti radioattivi. Tutto avrebbe inizio nel 1982 su iniziativa di Giuseppe Nirta che, all’epoca, era il boss del territorio di San Luca. Nirta ne avrebbe dunque parlato con Fonti facendo i nomi di alcuni importanti uomini politici dell’epoca che gli avrebbero proposto di stoccare bidoni di rifiuti tossici. E di occultarli in zone della Calabria da individuare.

    A quel punto, sempre secondo il collaboratore, vi sarebbero stati diversi summit in cui avrebbe partecipato il gotha della ‘ndrangheta. Dagli Iamonte di Melito Porto Salvo ai Morabito di Africo. In seguito a questi incontri, tra i luoghi scelti per gli interramenti, verrebbe esclusa la Calabria. Nella primavera del 1983 Fonti sarebbe stato poi mandato a Roma da Sebastiano Romeo, nel frattempo succeduto a Nirta, per incontrare Giorgio De Stefano. Si tratterebbe dell’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta. Ritenuto elemento di collegamento tra l’ala militare delle ‘ndrine e i mondi occulti. Servizi Segreti e massoneria.  

    Secondo il collaboratore, De Stefano disse che il posto ideale per interrare i rifiuti tossici all’estero era la Somalia. E gli avrebbe organizzato un incontro con Pietro Bearzi, allora segretario generale alla Camera di commercio per la Somalia. Questi avrebbe garantito il suo aiuto. Anche Craxi – a detta del pentito – sarebbe stato al corrente della cosa. Ma non avrebbe seguito il tutto personalmente. Lasciando che se ne occupassero i servizi segreti. Alla domanda del pubblico ministero sul perché non avesse parlato prima di queste vicende, la risposta di Fonti è stata che non se ne era ricordato essendo tantissime le vicende da lui vissute.

    Anche per questo, probabilmente, Fonti sarà infine dichiarato del tutto inattendibile.

  • Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Cosa resta di tutte quelle trame [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA]? Poco o nulla sotto il profilo processuale e giudiziario. Molto, sotto il profilo storico. Un contesto nebuloso, perché i protagonisti di quelle trame si muovono a livelli altissimi. Potenti multinazionali, Stati stranieri, faccendieri e centri di potere. E, ovviamente, la criminalità organizzata.

    Le indagini di due distinte autorità giudiziarie hanno potuto solo in parte delineare quel contesto, anche per la vastità dei territori toccati. Dalla Calabria alla Basilicata, passando per il Piemonte, se ci riferiamo solo al territorio nazionale. Ma con il coinvolgimento di uno Stato straniero, perennemente in guerra: l’Iraq.

    Il supertestimone

    Percorsi e intrecci pericolosi ricostruiti anche, qualche anno fa, dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, firmata da Gaetano Pecorella e Alessandro Bratti. Fili difficili da riannodare. Anche perché è difficile ricostruire il contesto affaristico-criminale di quel periodo a distanza di alcuni lustri.

    pecorella_rifiuti_radioattivi

    Nel caso dell’Iraq, i passaggi sulla presunta gestione dei centri Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli) verranno tratteggiati da un funzionario dell’ente, Carlo Giglio. Questi chiederà espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito. Dopo aver appreso dalla stampa che la Procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria.

    Il centro Enea di Rotondella

    L’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) è un impianto nucleare italiano costruito tra il 1965 e il 1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Un centro che da sempre è gravitato anche nell’orbita statunitense.

    rotondella_rifiuti_radioattivi

    Il racconto di Giglio è inquietante. Secondo il funzionario, la registrazione degli scarti nucleari era truccata. Per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Agli atti della Commissione Ecomafie rimane anche la grande paura dell’ingegner Giglio. Con la sua opera ispettiva si attirerà anche le ire della proprietà dei centri Enea di Rotondella e Saluggia. Denunce per diffamazione e calunnia.

    Iraq e Calabria: una storia di armi e rifiuti

    Giglio parla poi di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Le dichiarazioni di Giglio agli atti della Commissione riguardano una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari.

    In quel periodo, peraltro, giunge anche la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele, a Reggio Calabria. il sospetto era che trasportasse materiale radioattivo. Scorie di rame di altoforno, in particolare.

    durazzo_porto
    Il porto di Durazzo

    La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività scompare dai rilevamenti. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. L’inquietante ipotesi è che la nave si sia disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.

    Una joint venture internazionale, in cui, però, l’avamposto italiano sarebbe stato rappresentato dalle due principali organizzazioni criminaliCosa Nostra e ‘Ndrangheta. La scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirata. Solo la mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al Sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per tali traffici.

    pizzimenti

    «Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti», si legge agli atti della Commissione Ecomafie.

    L’ingegnere Carlo Giglio

    Affermazioni riservate. Gravissime. Che tirano in ballo colossi industriali, Stati stranieri e centri di potere internazionali. Per questo, negli anni, si prova a proteggere Giglio, cui gli investigatori assegnano lo pseudonimo “Bill”. Un luogo chiave, quindi, sarebbe il centro Enea di Rotondella. Nelle sue affermazioni, Giglio-Bill sostiene la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”.

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    Una nave carica di sostanze chimiche partita dall’Italia con destinazione ufficiale il Venezuela, ma approdata in Siria

    L’ipotesi investigativa paventa l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ’80/’90) destinati ai paesi del Terzo Mondo, in particolare Iraq, Pakistan e Libia, per la produzione di ordigni atomici. Tutto anche grazie all’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel. Nonché la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi.

    Iraq e massoneria deviata

    A detta di Giglio, infatti, anche l’Italia avrebbe disperso in mare le scorie radioattive: «L’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando», afferma l’ingegnere-ispettore. Giglio diventa un testimone prezioso per le indagini congiunte delle Procure di Reggio Calabria e Matera. I risvolti investigativi delle inchieste sulle “navi dei veleni” e delle presunte trame attorno al centro Enea, infatti, vanno a intrecciarsi.

    Un ente, l’Enea, che, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate da Giglio ai magistrati Francesco Neri e Nicola Maria Pace, sarebbe stato infiltrato dalla massoneria: «Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici».

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    Un passaggio della relazione firmata da Pecorella e Bratti

    Proprio partendo dalle dichiarazioni di Giglio, il procuratore di Matera, Nicola Maria Pace, farà acquisire una serie di documenti. Da cui risulterà che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene. Accertando, poi, che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno. Le accuse di Giglio, comunque, non saranno mai provate dal punto di vista processuale.