Autore: Claudio Cordova

  • Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Caos calmo nella gauche reggina: Falcomatà, i social e quel congresso… Irto d’ostacoli

    Una condanna, ormai di circa tre mesi fa, che non ha sostanzialmente nulla sotto il profilo istituzionale. Un dibattito politico inesistente. L’ombra, tuttora alta, che le ultime elezioni comunali possano essere state viziate da brogli elettorali. Sfiducia dei cittadini crescente, con la conseguenza che persino un consiglio comunale aperto – espressione più alta della partecipazione – vada pressoché deserto, trasformandosi in una farsa. E il Pd che annaspa, nonostante il nuovo corso di Nicola Irto. Con il rischio dei “soliti noti” nei ruoli che contano.

    Tre mesi dopo

    Di tempi bui, Reggio Calabria ne ha vissuti tanti. Dalla guerra di ‘ndrangheta tra gli anni ’80 e ’90, quando a imporre il coprifuoco era la paura delle ‘ndrine e non le restrizioni per il Covid, agli anni del “Modello Reggio”, culminati con lo scioglimento del consiglio comunale per contiguità con la ‘ndrangheta.

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    L’ex presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti

    Quello attuale, invece, è certamente uno dei periodi più apatici della storia recente di una città che, solitamente, si è sempre divisa un po’ su tutto. Reggio Calabria è passata dalla centralità regionale, avuta negli anni di Giuseppe Scopelliti, a un ruolo sempre più marginale. Ma come si può avere un’importanza esterna se non si riesce nemmeno a discutere internamente? Ormai il reggino medio sembra aver perso anche la voglia di alzare le barricate. E per una popolazione che di quelle del “Boia chi molla” ha fatto il proprio vessillo è preoccupante.

    Il sindaco Giuseppe Falcomatà, infatti, è stato condannato ormai circa tre mesi fa per il cosiddetto “Caso Miramare”. Una decisione di primo grado che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino, in forza della Legge Severino. Da quel giorno, però, nulla sembra essere cambiato. Falcomatà ha deciso di non dimettersi. Ha piazzato, poche ore prima di essere condannato, un anonimo assessore alla carica di facente funzioni. Quel Paolo Brunetti che, in due mesi e mezzo, ha tirato a campare.

    Dov’è la politica?

    «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», diceva Giulio Andreotti. Può darsi. Ma nella sindacatura, seppur da facente funzioni, di Brunetti non si ricorda al momento un provvedimento simbolo. Anzi no, uno sì. La chiusura delle scuole per il riacutizzarsi della pandemia da Covid-19. Brunetti è stato l’unico sindaco di una grande città calabrese a optare per questa scelta. Né Catanzaro, né Cosenza e nemmeno le più piccole Vibo Valentia e Crotone o Lamezia Terme avevano preso questa decisione. Brunetti è andato in controtendenza. Forse anche perché “imboccato” da uno dei tanti post pubblicati su Facebook dal sindaco sospeso, Falcomatà, che quasi invocava la chiusura degli istituti. Il risultato è che, dopo pochi giorni, il Tar, investito della questione da alcuni genitori, ha dato torto all’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, disponendo la riapertura delle scuole. Con il Comune che non ha nemmeno impugnato il provvedimento.

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    Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare”

    Falcomatà ancora sindaco sui social

    L’impressione è che Brunetti sia lì a tentare di tener calda la poltrona di Falcomatà, in attesa che questi possa ritornare al proprio posto esaurita la sospensione. Il primo cittadino sospeso, peraltro, non ha quasi mai smesso di parlare da sindaco tramite i propri seguitissimi social. Ha visionato cantieri, ha, come detto, reso pubblica la propria posizione circa la gestione della pandemia. Recentemente ha anche stigmatizzato l’inciviltà di alcuni reggini che, continuamente, che insozzano il waterfront, una piazza o una scalinata. Ma, a proposito di decoro e civiltà, non ha inteso dimettersi dopo la condanna di primo grado. Né, ancor prima, per lo scandalo dei presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni che lo hanno riconfermato primo cittadino.

    L’ombra dei brogli a Reggio Calabria

    Sì perché un po’ ovunque, tra il serio e il faceto, in città si parla della grave vicenda che ha portato Reggio Calabria sulle prime pagine di tutti i media nazionali. In riva allo Stretto, ha semplificato molta stampa, avrebbero “votato anche i morti”. Un’inchiesta ancora aperta. La Procura di Reggio Calabria non ha infatti ancora chiuso le indagini su quanto accaduto nel settembre 2020.
    Ma, al netto delle facili e ironiche narrazioni, da quanto fin qui emerso, sarebbe consolidato lo scenario di una macchina amministrativa che non solo non ha gli anticorpi per resistere a tali disfunzioni ma che, anzi, le avrebbe avallate. Eppure, a distanza di mesi dall’esplosione del caso, nulla è stato fatto.

    Il consiglio comunale aperto: una farsa

    Uno dei primi a sollevare la questione, fu il massmediologo Klaus Davi, da anni impegnato in città. Con la sua lista, Davi non entrò in consiglio comunale per una manciata di voti. E, fin da subito, segnalò una serie di presunte anomalie. Fu uno degli ultimi rantoli del dibattito politico cittadino. Poi, il nulla. Con la voglia dei cittadini di partecipare, di incidere sul processo democratico, ormai pari allo zero.

    Alcuni mesi fa un Comitato spontaneo – “Reggio non si broglia” – ha chiesto la celebrazione di un consiglio comunale aperto per discutere del caso. Una seduta che si è svolta, con ritardo siderale, solo alla fine del mese di gennaio. E che si è trasformata in una farsa. Appena 15 gli iscritti a parlare. E neanche un terzo a presentarsi effettivamente in aula. Un’occasione persa, in cui a intervenire sono stati (pochi) oppositori politici, con alcuni nostalgici dell’era Scopellitiana. E poi, la solita ridda di interventi – non troppo significativi – da parte dei consiglieri comunali.

    Il buco nero del consiglio comunale

    Proprio quell’aula che dovrebbe essere la massima espressione della democrazia cittadina è diventata, sostanzialmente, una mera passerella – neanche particolarmente interessante – per qualche istante di celebrità dei singoli consiglieri. Nel corso del consiglio comunale aperto, peraltro, la maggioranza ha bocciato la proposta dell’opposizione di istituire una commissione d’indagine sui brogli elettorali. Ma non è tutto.

    Proprio nelle ultime ore, i consiglieri comunali di centrodestra hanno denunciato lo stallo amministrativo in seno a Palazzo San Giorgio: «A tre mesi dalla condanna e successiva sospensione del sindaco Falcomatà e dei consiglieri comunali in carica, nessuna delle Commissioni consiliari permanenti è stata convocata nei tempi previsti dal regolamento e dallo statuto comunale per procedere alle surroghe e alle sostituzioni necessarie per garantire l’operatività», lamentano i gruppi consiliari di centrodestra. La convocazione dovrebbe avvenire entro 10 giorni dalla cessazione della carica in seguito alla sospensione. «L’impressione è che l’attuale maggioranza consideri le Commissioni consiliari permanenti solo come una concessione fatta alle opposizioni e non come un valido ed importante strumento di lavoro istituzionale»,  dicono ancora dal centrodestra.

    La Svolta?

    Dopo gli anni del “Modello Reggio” targato centrodestra e l’ignominia dello scioglimento per ‘ndrangheta e del successivo commissariamento, Falcomatà e il centrosinistra si erano proposti come l’antidoto per riportare la città a una situazione di normalità. Lo slogan dell’allora giovane candidato sindaco era “La Svolta”. Anche una delle liste a suo sostegno portava questo nome. Dopo otto anni di amministrazione ininterrotta, però, il centrosinistra e Falcomatà raccolgono i cocci.

    La città continua ad avere i problemi di sempre, se possibile anche riacutizzati: dall’emergenza rifiuti a quella idrica. Ma ciò che preoccupa maggiormente è l’assenza di un dibattito e di proposte culturali. Un vuoto, questo, figlio anche di quanto accaduto in questi anni. Non solo la condanna di primo grado del sindaco e di numerosi tra i suoi fedelissimi. Ma anche lo scandalo dei brogli, con l’arresto del consigliere comunale Antonino Castorina. Uomo forte del Pd fino al momento in cui finirà ai domiciliari. Castorina, infatti, non solo era capogruppo dei Democratici nel consiglio comunale, ma anche membro della Direzione Nazionale del Pd, con entrature molto importanti nella politica romana.

    Il Pd, Nicola Irto e i “soliti noti”

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    Nicola Irto, segretario regionale del Pd

    Già, il Pd. L’elezione, anzi, l’acclamazione del reggino Nicola Irto alla carica di segretario regionale del Partito Democratico aveva illuso qualcuno circa la possibilità di riportare la politica reggina al centro della scena. Ma il giovane ex presidente del Consiglio regionale ha probabilmente già imparato sulla propria pelle quanto possa essere lacerato il Pd reggino. Ancora in mano ai colonnelli di sempre: da Sebi Romeo al ripescato Nino De Gaetano.

    Per la scelta del segretario provinciale, infatti, si va di rinvio in rinvio. Con ogni capocorrente che prova a imporre la sua linea. Falcomatà sarebbe persino arrivato a proporre quel Giovanni Muraca condannato con lui nell’ambito del processo “Miramare”. Dal canto suo, Nicola Irto non riesce a venirne a capo e sembra essersi consegnato mani e piedi a un’altra vecchia conoscenza come Sebi Romeo, ras dei democrat fino al momento in cui verrà coinvolto in un’indagine per corruzione.

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    Sebi Romeo, ex capogruppo del Pd in consiglio regionale

    Nicola Irto e Sebi Romeo

    Proprio Sebi Romeo e Nicola Irto sarebbero i principali sponsor dell’avvocato Antonino Morabito, figlio dell’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Pinone Morabito. Dovrebbe essere proprio lui il candidato unico per tentare di ritrovare unità. Una candidatura tirata fuori dal cilindro (Morabito non ha particolari esperienze di politica e partitiche) per arginare l’avanzata dell’ex consigliere regionale Giovanni Nucera, rientrato nel Pd dopo una lunga esperienza in Sel. Ma anche lui è invischiato in un’inchiesta sui rifiuti a Reggio Calabria.

  • Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Certamente canzoni del genere non le vedremo mai in corsa per la vittoria del Festival di Sanremo. Né i videoclip e i film che con esse si accompagnano rimarranno nella storia del cinema e della tecnica registica. Ma tutto si può dire tranne che non riscuotano successo. Sono quelle che, storicamente, vengono definite i “Canti di malavita”.

    I canti di malavita

    Negli anni si è passati da fisarmoniche e organetti, con ritmi che ammiccano alla tarantella calabrese, alle canzoni neomelodiche. E, soprattutto negli ultimi anni, alla musica rap e alla sua derivazione, la trap. Quel mix tra batteria cupa e sintetizzatori. E anche i supporti sono cambiati. Se un tempo, a Polsi, dove a inizio settembre si celebra la festa della Madonna della Montagna, le bancarelle che vendono i cd – e, in alcuni casi, persino le musicassette – con i “canti di malavita” sono tra le più diffuse, oggi questi capolavori li ritroviamo spesso su YouTube e sui social. Dove fanno il pieno di like e interazioni.

    Ma il cliché è quello di sempre. E può essere assimilato ai corridos in voga nel Centro e nel Sud America, soprattutto negli ambienti legati al narcotraffico. Modelle, ballerine, cantanti, attrici. Insieme a soldi, auto di lusso (rigorosamente blindate), droga, alcolici e soldi. Tutto questo appare sempre in questi videoclip che circolano su internet e che fungono da vera e propria propaganda dei cartelli della droga. Qui, invece, gli “eroi” sono i boss, i carcerati, gli ergastolani. Nei corridos si ostenta la vita da nababbi dei narcos, mentre nei “canti di malavita”, ci si pone come uomini pii e devoti, vessati dai cattivi, da combattere e rifuggire: lo Stato e le forze dell’ordine (gli sbirri).

    “Figli da gente”

    L’ultimo brano in ordine di tempo si intitola Figli da gente ed è la colonna sonora dell’omonimo film, le cui riprese sono in corso in provincia di Crotone. Ma l’autore, il 24enne Tony Lena, fa ancora di più, unendo, a detta di taluni, due culture, come quella camorrista e quella ‘ndranghetista. L’autore, infatti è campano e la canzone immortalata in un videoclip che sta facendo il giro del web è in lingua napoletana. Ma viene citata espressamente Cirò Marina, nel Crotonese, strizzando l’occhio alla criminalità organizzata. Con capigliature, vestiti e atteggiamenti da guappi napoletani, i protagonisti tentano di conquistare l’ascoltatore. Il videoclip si snoda per le vie della località marittima, tra pistole, scene di spaccio e fughe rocambolesche proprio dagli “sbirri”.

    Un videoclip che ha registrato migliaia di visualizzazioni su YouTube, prima di essere rimosso. Ma adesso è riapparso tramite un altro canale. Tutto è stato denunciato anche dalla senatrice del Gruppo Misto, Margherita Corrado. Ex esponente del Movimento 5 Stelle, componente della Commissione Parlamentare Antimafia, Corrado ha parlato di “pubblicità negativa”. Proprio la Commissione presieduta da Nicola Morra starebbe seguendo la vicenda. Peraltro, già da tempo è stato depositato un disegno di legge proprio per l’introduzione, nel codice penale, del delitto di istigazione e apologia della criminalità. Ma dal giugno 2020 giace arenata in Commissione Giustizia.

    I testi delle canzoni

    Già, perché si tratta di pura propaganda. Un po’ stantia, forse. Ma pur sempre propaganda. Anche Figli da gente non brilla per innovazione perché non si discosta troppo dai luoghi comuni propri della cultura criminale. Il riferimento è a una terra povera, con poche, pochissime, opportunità Addò si campa ccù niente recita la canzone. Per il paroliere, i “figli da gente” sono, infatti, quelli che “rischiano ‘a vita ppe chesta città, chi ha perso ‘nu pate, chi aspetta nu frate ca sta carcerato e vo turna’ ad abbraccia’”. Persone che vivono sempre sul filo, perché devono difendersi dai blitz delle forze dell’ordine: Chi ‘a notte non duorme ‘ccu chella paura ca so vanno a piglia”. Tra un pensiero e l’altro per i carcerati, che, comunque, non vengono mai abbandonati dall’obolo delle cosche. Così come si raccontava, miticamente, in un’altra canzone di qualche tempo fa.

    “Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia”

    Qualche mese fa, infatti, era emersa, altrettanto prepotentemente, la canzone Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia, scritta proprio per dare conforto a chi era rimasto coinvolto in una delle inchieste più grandi sulla ‘ndrangheta al Nord. Il processo “Aemilia”, appunto. Scaturito dal blitz con cui i Carabinieri, nel gennaio 2015, arrestarono oltre 300 persone accusate di aver fatto parte di un’organizzazione criminale, capeggiata dal boss di Cutro – anche in questo caso in provincia di Crotone – Nicolino Grande Aracri. Che spadroneggiava su mezza Calabria, parte dell’Emilia e della Lombardia e aveva ramificazioni all’estero. In quel caso, l’idea fu del cantante neomelodico Gianni Live, che rilasciò il proprio brano e il proprio videoclip ancora una volta su YouTube. E, ancora una volta, fu un grande successo.

    L’odio verso i pentiti

    Se Figli da gente si concentra sulle sofferenze della detenzione, il testo del brano di Gianni Live è quasi totalmente incentrato sui pentiti, gli “infami” che, con le loro “cantate” inguaiano gli uomini d’onore. Che, ovviamente, nei testi sono sempre uomini giusti e retti, nonché mariti amorevoli e padri esemplari. Da sempre, gli “infami” e i “tragediatori” della ‘ndrangheta sono nel mirino. Ma con questi testi l’odio raggiunge livelli elevatissimi: “Nui ca ci mettimmu ‘o core dinta ‘e lettere… arret’ a ‘sti cancelli pensann’ ‘a liberta’” (Noi che mettiamo il cuore dentro le lettere… dietro a questi cancelli pensiamo alla libertà), quindi l’attacco al processo: “Ppe colpa d’u pentito nui stamm’a pava’… int’a stu processo Aemilia ‘ncuollo a nui hanno raccuntato nu par ‘e strunzate… c’hanno cundannat’” (Per colpa di un pentito noi stiamo pagando dentro a questo processo Aemilia addosso a noi hanno raccontato un paio di stronzate ci hanno condannato”).

    I tempi cambiano?

    Negli affari e nel modo di relazionarsi con il potere, la ‘ndrangheta cambia ed evolve continuamente. Per quanto concerne i riti e le tradizioni, invece, resta sempre simile a se stessa. Sono passati quasi vent’anni dai fatti cristallizzati nell’inchiesta “Pettirosso”, condotta contro la cosca Bellocco, una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta. In quell’indagine è possibile rintracciare e leggere un componimento dedicato al boss Gregorio Bellocco. Una canzone dal titolo eloquente – “Circondatu” – che è il racconto di una fuga, avvenuta nel 2003, allorquando i carabinieri fanno irruzione in un bunker situato ad Anoia, in provincia di Reggio Calabria. Al momento dell’arresto, due anni dopo rispetto all’epico racconto, il ritrovamento all’interno del covo di un compact disk dal titolo “Penzeri di nù latitanti”.

    Oltre il business

    Raramente si tratta di denaro. Dietro queste opere c’è quasi sempre un aspetto ideologico. Quasi pedagogico del crimine. Anche se alcuni anni fa, due persone sono state anche condannate dal Tribunale di Reggio Calabria per le minacce agli attivisti dell’ex Museo della ‘Ndrangheta (oggi Osservatorio sulla ‘ndrangheta), che da anni ha una sede in un immobile confiscato alle cosche e si muove come un avamposto di aggregazione in un quartiere periferico e degradato.

    Nel maggio 2012 i due si sarebbero presentati presso la sede del Museo dichiarandosi “autore” e “manager-produttore” dei cd “I canti di malavita” per chiedere maggiori informazioni sull’utilizzo che il Museo della ‘ndrangheta fa delle canzoni all’interno di laboratori didattici per lo studio del linguaggio della ‘ndrangheta. Rivendicavano, con minacce i propri diritti d’autore per l’uso delle loro opere. Hanno trovato solo una denuncia e una condanna.

    Il menestrello Otello Profazio

    I tempi, allora, forse non cambiano. In un’altra inchiesta contro le cosche di ‘ndrangheta, denominata “All inside”, emerse come gli uomini e le donne della famiglia Pesce, appartenente al gotha della criminalità organizzata calabrese, comunicassero con i detenuti (ricevendo anche messaggi dagli stessi) attraverso la trasmissione di determinate canzoni. E, allora, più le cose cambiano, più restano le stesse. Forse non saranno più gli strumenti musicali, le grida, i rumori di Polsi, tra tarantelle, organetti, tamburelli sotto l’egida di un “mastru i ballu”. Ma questi “canti di malavita” continuano ad avere quel ruolo di sempre.

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    Otello Profazio

    Anche una canzone popolare, intitolata “Ndrangheta, Camorra e Mafia”, scritta e interpretata dal cantautore Otello Profazio, assai noto a Reggio Calabria e nella sua provincia, pone grande risalto sulla meticolosità con cui, negli anni, siano state approntate le regole su cui si basa gran parte della forza della ‘ndrangheta:Lavuraru trint’anni sutta terra, pi fondari li reguli sociali, leggi d’onori di sangu e di guerra leggi maggiori, minori e criminali…” (traduzione: “Hanno lavorato trent’anni sotto terra, per fondare le regole sociali, leggi d’onore di sangue e di guerra, leggi maggiori, minori e criminali”).

    Canzoni e valori popolari

    La forza della ‘ndrangheta, dunque, si è sempre manifestata nella sua eccellente capacità di strumentalizzare valori popolari in cui chiunque, anche il personaggio più lontano, geograficamente e ideologicamente, dalle cosche e dalla mentalità mafiosa. Una peculiarità che non è sfuggita all’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani: «I valori che la mafia dice di avere sono quelli della dignità individuale, dell’onore, del rispetto della “parola”: una serie di valori analoghi a quelli della cultura popolare. Il problema è che, mentre i valori della cultura popolare sono realmente perseguiti, voluti, come forme di autorealizzazione, i valori mafiosi sono “detti” per acquisire consenso, e vengono vissuti in maniera però truffaldina, perché servono per coprire il comportamento violento». E anche la musica, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale. Come una formula di iniziazione o celebrativa, con titoli emblematici come Sangu chiama sangu, I cunfirenti, Omertà, Cu sgarra paga, Appartegnu all’onorata, Ergastulanu, Mafia leggi d’onuri. Forse non ascolteremo nemmeno queste al Festival di Sanremo…

  • Spendi, spandi e scendi: tra Gallo e Reggina la luna di miele è finita?

    Spendi, spandi e scendi: tra Gallo e Reggina la luna di miele è finita?

    “Come si cambia” canta Fiorella Mannoia. E come sono cambiati a Reggio Calabria il clima e l’umore nei confronti del presidente della Reggina, Luca Gallo. Arrivato in riva allo Stretto da trionfatore, rilevando la società dalla famiglia Praticò, Gallo è stato, per anni, osannato. Quasi idolatrato. Esternazioni di giubilo, propositi di risalita, per una società che, nei primi anni 2000, è stata capace di rimanere in serie A per circa un decennio. Cori allo stadio. Amato più dei bomber che gonfiavano le reti in campo. I tifosi preferivano una foto con Gallo piuttosto che uno scatto con El Tanque, German Denis. O un autografo del “presidentissimo”, anziché la firma dell’ex Roma e Milan, Jeremy Ménez. Ma qualcosa sembra essersi rotto.

    Gli scarsi risultati

    I primi anni, con la promozione dalla Lega Pro alla serie B lasciavano presagire un miracolo amaranto. Con una città che, notoriamente, ha sempre vissuto a pane e calcio, i tifosi sognavano ritornare a vincere all’Olimpico. O fare ammattire Inter e Milan. A far uscire la Juventus con le ossa rotte dal Granillo. Ma la spinta propulsiva dell’avvio dell’esperienza in riva allo Stretto, sembra essersi un po’ spenta per Luca Gallo e il suo entourage.

    Una società che, negli anni, ha cambiato diverse volte il proprio organigramma. Con il fedelissimo Vincenzo Iriti, prima vicinissimo al presidente con il ruolo di direttore generale, poi scomparso dai radar con le dimissioni e ora, solo recentemente, rientrato nei ranghi. Ma anche la fugace esperienza di una bandiera della Roma come Tonino Tempestilli, per un po’ di tempo responsabile dell’area giovanile amaranto. Poi dimessosi senza troppe spiegazioni. Per non parlare dell’altrettanto oscura (e polemica) interruzione del rapporto con un altro dg, Giuseppe Mangiarano.

    Le scelte sbagliate

    Insomma, è possibile da tempo udire distintamente gli scricchiolii nel percorso di Gallo a Reggio Calabria. E anche l’operato del direttore sportivo Massimo Taibi, ex grande portiere amaranto, è sul banco degli imputati. Tra acquisti improbabili, giocatori pagati a peso d’oro a fine carriera e scelte di mercato che continuano a non convincere, l’attuale stagione della Reggina, iniziata con fiducia e con ottimi risultati in serie B, sta prendendo una piega preoccupante.

    La dirigenza aveva puntato sull’appartenenza amaranto. E così, all’inizio della stagione, il ruolo di trainer era stato affidato una vecchia gloria come Alfredo Aglietti. Indimenticato attaccante delle stagioni in serie C, prima di approdare al Napoli. Un avvio promettente fino al secondo posto in classifica, che aveva fatto immaginare un po’ a tutti una stagione alla ricerca dei playoff. Ma poi un crollo verticale che, alla fine, è costata la panchina all’allenatore.

    Mimmo Toscano, ex tecnico della Reggina (foto pagina Facebook Reggina1914)

    E così, Gallo e Taibi hanno tentato di sistemare le cose con una scelta low cost. Richiamando cioè l’ex allenatore Mimmo Toscano, reggino doc, ancora sotto contratto, dopo l’esonero della scorsa stagione. Poche partite, risultati, se possibile, ancor più deludenti, anche sotto il profilo del gioco espresso. A costare la panchina a Toscano è stata la sconfitta in casa del Monza.

    Tre allenatori in metà stagione

    La crisi amaranto sembra senza fine. L’ultima mossa del duo Gallo-Taibi è ancora nel solco della tradizione. Con l’esonero di Toscano, infatti, arriva il terzo tecnico nella sgangherata stagione amaranto. Questa volta la società punta su Roberto Stellone, ex attaccante della Reggina nella stagione 2003-2004.

    Ma adesso gli obiettivi sono ben altri. La Reggina, infatti, si trova attualmente in 14esima posizione con 23 punti. Viene da un solo pareggio nelle ultime otto giornate. E deve guardarsi le spalle, dato che la maggior parte delle squadre dalla 13esima posizione in giù ha addirittura disputato una partita in meno rispetto agli amaranto. Insomma, il rischio di perdere ulteriori posizioni, quando alcune gare rinviate per Covid saranno recuperate, è concreto. E inquietante.

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    La presentazione di Stellone

    A Stellone, quindi, la dirigenza ha chiesto di evitare i playout. Una vera e propria lotteria che potrebbe condurre la Reggina alla clamorosa retrocessione in Lega Pro. Che dopo le spese pazze di questi anni potrebbe aprire scenari fin qui inesplorati sul futuro di Luca Gallo in riva allo Stretto e, quindi, della società amaranto.

    Tempi bui per Luca Gallo?

    Sì perché in questi anni Luca Gallo ha speso tanto. Male, ma tanto. Lui che ha acquistato la Reggina per togliersi uno sfizio. Per alimentare il proprio ego. Per emulare grandi presidenti del calcio italiano, spostatisi con successo dal proprio core business ai campi verdi. Lui che, nella vita, ha costruito le sue fortune su altri aspetti. Per qualcuno, sullo sfruttamento degli esseri umani, spolpati professionalmente senza troppe garanzie.

    Da anni, le attività di somministrazione della manodopera delle aziende del presidente della Reggina sono al centro di accertamenti e polemiche. La sua azienda, la M&G, con sede a Roma, fornisce dipendenti ad alcune migliaia di aziende. Oltre 4.000, secondo le ultime stime. Ma già da tempo, a seguito di diverse segnalazioni, la società è finita nel mirino dell’Ispettorato del Lavoro. Soprattutto in Emilia Romagna, ma non solo. In diversi casi sono stati segnalati il mancato pagamento di uno o più stipendi ed il mancato versamento dei contributi previdenziali.

    La galassia aziendale di Luca Gallo

    Qualche anno fa il Ministero del Lavoro sosteneva che il sistema con cui opera Gallo racchiudesse una serie di illeciti, penali e amministrativi. Ma anche recuperi contributivi per circa 30 milioni di euro.

    Nel 2018, la M&G si è anche impegnata a versare 7 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate, evitando in questo modo l’insorgere di una lite tributaria. Questo perché la Guardia di Finanza, nel giugno 2017, avrebbe effettuato delle indagini a carico della M&G, con riferimento ai pagamenti riguardanti il quadriennio d’imposta 2013-2016. Trovando, evidentemente, delle irregolarità per svariati milioni di euro.

    Nel corso della scorsa estate, peraltro, a quasi tutti i dipendenti della Reggina 1914 srl è stato chiesto di “traslocare” il proprio contratto presso la società Azione Lavoro srls, di recente creazione, con sede a Roma e di proprietà di Luca Gallo. Una mossa che è stata interpretata come un alleggerimento sul piano economico e, forse, anche fiscale.

    La battaglia con l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro

    Sì perché quella è una delle principali accuse mosse nei confronti del modo di operare di Gallo. Da tempo, infatti, l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro taccia Gallo e le sue aziende di sfruttamento delle persone. Sul sito ufficiale dei Consulenti del Lavoro è possibile trovare anche una lettera aperta alla M&G in cui la si invita “a certificare la genuinità dei contratti di appalto da questa stipulati, attraverso le Commissioni di certificazione istituite presso i Consigli Provinciali dei Consulenti del Lavoro; nonché ad asseverare con l’AsseCo la regolarità dei rapporti di lavoro instaurati dalla Cooperativa”. Secondo le denunce dei sindacati, i soldi che la M&G dovrebbe versare all’INPS non arriverebbero mai. Parliamo di 13esime, 14esime e persino i tfr.

    L’interrogazione di Laura Boldrini

    Tra il luglio 2020 e la fine dello stesso anno, sono anche arrivate anche due interrogazioni al Ministero del Lavoro sulle aziende di Gallo. Una delle due è firmata, tra gli altri parlamentari, anche dall’ex presidente della Camera, Laura Boldrini: «Nella sola Bologna sono state presentate circa 90 denunce da parte di lavoratori che non si sono visti corrispondere la tredicesima, il trattamento di fine rapporto o parte dei contributi e i controlli effettuati hanno messo in luce l’irregolarità di almeno 43 aziende. La questione è stata denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro, che aveva già inviato un’informativa alle sezioni territoriali per metterle in guardia sulla vicenda e avviare i controlli e che, sempre secondo quanto riportato dal quotidiano, stava svolgendo attività di vigilanza» – è scritto nell’interrogazione al Ministero.

    Gallo e Reggio: la fine del feeling

    Adesso, per Gallo sembra anche essere finita la “luna di miele” con una piazza esigente come Reggio Calabria. Lui che, nei primi mesi, ci aveva saputo fare. Puntando sulla goliardia e sull’orgoglio del popolo amaranto. Rimane celeberrima la maglietta Lavati i peri e va curcati dopo il derby con il Catanzaro. Il sindaco Giuseppe Falcomatà (oggi sospeso) gli ha anche conferito la cittadinanza onoraria.

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    Quando Luca Gallo, presidente della Reggina, sfotteva i tifosi del Catanzaro dopo la vittoria nel derby

    Tempi che sembrano molto lontani. Al momento, la Curva Sud, cuore pulsante del tifo amaranto, si è limitata solo a qualche coro per stigmatizzare il difficile momento sportivo vissuto dalla Reggina. Ma online, sul forum ufficiale dei tifosi, su alcune pagine social seguitissime, iniziano ad apparire i primi segni di una contestazione nei confronti del presidente.

    Per adesso virtuale, ma col tempo chissà. «Gallo non è diverso dagli altri che ci mettono i soldi» –  scrive un utente da 3 stelle su 6 nel ranking del forum ufficiale Regginalife. «Vero colpevole: la società. Inefficiente e alla deriva più che mai, il resto è una conseguenza» gli fa eco chi, invece, è un utente ancor più storico e attivo, con 5 stelle su 6.«La cosa più grave di tutta questa situazione è che né la squadra né soprattutto la società hanno capito la gravità della situazione, ancora non hanno preso coscienza che così retrocederemo sicuro al 100%»risponde un altro tifoso. E si inizia a puntare il dito sull’aspetto gestionale: «Agire subito prima che sia la fine, se non ci sono i soldi per farlo, allora che si ritorni pure in serie D e basta!» si legge ancora sul forum.

    Dagli striscioni di repertorio a quelli veri?

    Molti contestano a Gallo una gestione dissennata delle finanze, l’affidamento totale a persone giudicate incompetenti e un atteggiamento smargiasso e accentratore, con sparate, dette in varie occasioni, come «voglio la serie A subito» oppure «porto subito la Reggina in A e poi mollo». La realtà, adesso, è tutt’altra. Lo spettro della Lega Pro inizia a materializzarsi. E tutto ciò potrebbe portare a conseguenze ben più gravi dell’insuccesso sportivo.

    Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter della Reggina contro la società (foto Instagram Regginanews)

    Non è solo il forum ufficiale del malcontento (per adesso virtuale) che cresce attorno alla società e al suo presidente. Negli ultimi giorni, il seguitissimo profilo Instagram “Regginanews” ha pubblicato due foto di repertorio, dove campeggiano due striscioni che sembrano dei chiari segnali alla società. Il primo afferma: «Non basta una vittoria per ricominciare, il nostro sostegno lo dovete meritare. Solo per la maglia». Ancor più esplicito l’altro, dove si legge: «Oltre i risultati, oltre i presidenti, la Reggina siamo noi!».

    Un evidente messaggio al presidente che, un tempo, non riusciva a fare due passi in città senza che qualcuno gli chiedesse una foto o un autografo. E se quegli striscioni, quando il calciomercato, tra pochi giorni, sarà chiuso dovessero essere veri e non più di repertorio?

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    Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter amaranto contro la società (foto Instagram Regginanews)
  • Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Invaso, colonizzato, depredato: sono solo alcuni degli aggettivi che vengono utilizzati per definire il Nord in relazione alla presenza della ‘ndrangheta e delle mafie in generale. Da Roma in su, la criminalità organizzata fa i soldi veri. Un po’ perché l’economia che conta, nel nostro Paese, si svolge nelle grandi città e non nel depresso Meridione. Un po’ perché, per anni, su quei territori, le organizzazioni malavitose hanno potuto agire quasi indisturbate. Ricreando le stesse dinamiche della casa madre.

    L’ultima inchiesta

    Appena qualche giorno fa, 13 ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.I.P. del Tribunale di Milano nei confronti di altrettanti soggetti. Alcuni di loro sarebbero contigui a storiche famiglie ‘ndranghetiste originarie di Platì radicatesi tra le province di Pavia, Milano e Monza Brianza nonché nel Torinese.

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    Il comune aspromontano di Platì

    Le cosche della Locride, soprattutto (ma non solo), in quei territori hanno riproposto il modus operandi dell’entroterra calabrese. Dalle estorsioni all’infiltrazione nei lavori pubblici, passando per gli investimenti tipici – grande distribuzione, edilizia, slot machine – e persino la guardiania.

    «Ti ammazzo come i cani»

    Fa specie, con riferimento all’ultima inchiesta sulla famiglia Barbaro, leggere le intercettazioni: «L’ho presa e l’ho messa sul tavolo (l’arma, ndr) … gli ho detto … vedi che ti ammazzo … come ai cani ti ammazzo … e me ne sono andato». Così si esprimeva, intercettato, Rocco Barbaro, 30 anni, arrestato assieme al padre Antonio, 53 anni, nell’inchiesta della Guardia di finanza di Pavia e del pm della Dda milanese Gianluca Prisco. Non ci troviamo nei “classici” luoghi di ‘ndrangheta. Ma al Nord.

    Incensurato ma pericoloso

    Nonostante la sua «formale incensuratezza», scrive il gip sulla posizione di Rocco Barbaro, «la pericolosità dell’indagato è emersa chiaramente nell’analisi della presente indagine» come «costante coadiutore del padre Antonio nella gestione del narcotraffico e nelle attività criminali ad esso strumentali (armi ed estorsioni)».

    Terra di conquista

    Il Nord, quindi, da decenni, è la zona prediletta dalle cosche per fare investimenti, ma anche per condizionare la vita economica e sociale. La borghesia lombarda, quella piemontese o ligure, si sono “vendute” con una facilità forse maggiore rispetto a quanto accaduto in Calabria. Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, appalti truccati, sanità condizionata attraverso gli uomini giusti nelle Asl. Ma anche sangue e omicidi.

    Fin dagli anni ’70, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investivano ingenti capitali nel Nord Italia. In particolare nella zona di Milano, dove spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa sei mesi una sanguinaria faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi.

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    Il Palazzo di Giustizia di Milano

    E parte dall’omicidio del boss scissionista Nunzio Novella, avvenuto nel Milanese, la maxi-inchiesta “Crimine-Infinito” che, circa 15 anni fa, svelò a tutta Italia come la ricca Brianza, ma non solo, fosse un’importante e potente succursale. Della Locride quanto della Piana di Gioia Tauro o di centri chiave nella storia delle ‘ndrine, come Guardavalle.

    Personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ’ndrangheta al Nord gliela fornisce.

    Il Nord come la Calabria

    Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da tradizione della ’ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi” piegati alle esigenze dei clan. Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto.

    Le attività criminali dei clan spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni) a quelli relativi a traffici di stupefacenti e armi. Una lista a cui aggiungere anche gli omicidi di appartenenti a organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e/o il controllo di attività economiche. In particolare di ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina e autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, di demolizione auto e commercio rottami, di trasporto).

    Un mucchio di soldi per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore. E per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari. Il passo precedente è stato però quello di occupare l’Italia: nel senso letterale del termine. E questo avviene grazie a una delle (tante) scelte sbagliate mosse contro le cosche. Pensando di poterle affrontare solo sotto il profilo repressivo.

    La colonizzazione

    Tra i primi a occuparsene, lo storico Enzo Ciconte, che, da decenni, tenta di studiare il fenomeno sotto il profilo storico, ma anche sociale. Ebbene, la ‘ndrangheta non ha “scelto” il Nord. Almeno non all’inizio. Col tempo ha capito che fare affari lì era più conveniente, forse anche più “facile”. Ma l’arrivo (e quindi la colonizzazione) di quelle ricche aree del Paese avviene grazie a un “favore” fatto dallo Stato alle cosche: «Tale scelta è relativamente recente perché matura a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono al Nord non per scelta, ma perché inviati al confino da una legge dello Stato» scrive Ciconte nel suo libro Ndrangheta.

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    Lo storico Enzo Ciconte

    Insomma, con il crescente aumento dei crimini della ‘ndrangheta (e delle mafie in generale) nei territori meridionali, la strategia dello Stato è quella di eradicare le organizzazioni criminali. Ancora dallo studio di Ciconte: «In quegli anni si fece avanti l’idea che, per recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine, fosse necessario adottare la misura del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di origine». Una scelta clamorosamente sbagliata.

    Gli abbagli dello Stato

    Del resto, che la strategia dello Stato contro le mafie, oggi come ieri, sia stata spesso fallimentare è ormai nei fatti. Basti pensare che, all’articolo 416 bis del Codice Penale, quello che punisce le associazioni mafiose, la parola ‘ndrangheta entra solo pochi anni fa, nel 2010. Per anni la criminalità organizzata calabrese viene e verrà sottovalutata. Considerata una mafia stracciona, di serie B.

    Ancora dal libro di Ciconte: «Ci furono abbagli nei confronti della ‘ndrangheta molto clamorosi. È stata considerata come una società di mutuo soccorso o espressione diretta e filiazione del brigantaggio. La ‘ndrangheta si presentò come una variante del ribellismo meridionale, come una delle espressioni del riscatto calabrese e come una necessità dettata dal bisogno di sostituire uno Stato lontano, inesistente e disattento».

    Nessuno, tranne i sindaci dei comuni dove arrivarono i soggiornanti, si accorse della pericolosità di quelle presenze o previde gli effetti che avrebbero potuto determinare. Scrive ancora Ciconte: «I sindaci si opposero, ma le loro proteste non furono ascoltate dai governi dell’epoca. E così, nella sottovalutazione più generale, la ‘ndrangheta mise piede in quei territori».

    Nel libro-conversazione con Antonio Nicaso, La malapianta, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, afferma: «Per molti anni la ‘ndrangheta, ma anche le altre organizzazioni criminali infiltrate in Lombardia sono state sottovalutate. Nel 1989 l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri ne negò l’esistenza e due anni dopo il procuratore generale Giulio Catellani fece la stessa cosa, sostenendo che nel distretto di Milano non c’erano sentenze passate in giudicato per il reato di associazione mafiosa».

    La ‘ndrangheta sottovalutata

    Solo negli ultimi anni, dopo la strage di Duisburg in particolare, si è iniziato a parlare in maniera più strutturata della ‘ndrangheta. Anche maxiprocessi come l’attuale “Rinascita-Scott” continuano ad avere poco appeal per i media nazionali. A fronte di quanto ancora tirino i “brand” di Cosa nostra e camorra. Nonostante la criminalità organizzata calabrese abbia, probabilmente, indirizzato alcuni snodi cruciali della storia d’Italia, la prima relazione organica della Commissione Parlamentare Antimafia sulla ‘ndrangheta arriva solo nel 2008 con la presidenza di Francesco Forgione.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    In quel testo, Forgione parla di “mafia liquida”, mutuando il concetto di “società liquida” di Zigmunt Bauman. E sottolinea come una grossa mano alla ‘ndrangheta, paradossalmente ed inconsapevolmente, ma di certo con poca lungimiranza, è stata data proprio dallo Stato italiano, negli anni ’50. In quegli anni i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, vengono inviati nelle regioni del Centro e del Nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie e o strade di grande comunicazione.

    «Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia» –  scrive Forgione nella relazione del 2008.

    Il paradosso

    Se il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse o impedisse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno. E così le riunioni di ‘ndrangheta iniziano a tenersi nei luoghi del soggiorno obbligato. Sono questi i primi passi per ricreare al Nord le medesime dinamiche della casa madre.

    Buccinasco, ma anche Bardonecchia, oppure Volpiano e Leinì, diventano luoghi simbolo dell’infiltrazione ‘ndranghetista al Nord. E, oggi, comandano quelli di sempre: dai Saffioti ai Marando, passando per i D’Agostino, i Crea, gli Alvaro, i Mancuso, i Bonavota, i Barbaro, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara, i Vrenna, gli Ursino-Macrì. E, ovviamente, soprattutto a Milano città, casati storici come i De Stefano o i Piromalli. Ma tutto nasce in quegli anni.

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    Cartello stradale all’ingresso del comune di Buccinasco

    Ancora dalla relazione della Commissione Parlamentare Antimafia: «Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante».

    Dapprima fu una necessità, poi una scelta. Che ci porta all’attualità: la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere più sedi. Quella principale, in Calabria, le altre nei comuni del Centro-Nord dell’Italia oppure nei principali Paesi stranieri, snodi fondamentali per i traffici di droga. E in queste sedi si riprodurrà la stessa struttura organizzativa presente in Calabria.

  • Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Una faida iniziata nel periodo di Carnevale. Un omicidio avvenuto nel giorno di Natale. Una strage in un giorno simbolo delle ferie estive. Nulla è fatto a caso.  Giorni di festa. Che, però, devono diventare giorni di sangue. E rimanere, per sempre, giorni di lutto. Nella ‘ndrangheta la simbologia conta. Conta molto. La ‘ndrangheta vive di riti, di tradizioni. Non solo per mantenere alto il senso di fascinazione nei confronti degli affiliati, ma anche per colpire i nemici. Si spiegano così i numerosi delitti che coincidono con le festività.

    Le faide

    Le faide sono le guerre che si instaurano tra cosche del medesimo paese o di paesi diversi. Guerre che possono durare anche per diversi anni e che non risparmiano nessuno, anche se il tempo passa, inesorabilmente. La ‘ndrangheta non dimentica mai: «Nel territorio della provincia di Reggio Calabria la faida di Cimino ha causato quasi cinquanta morti, quella di Cittanova sessantacinque, quella di Laureana di Borrello una trentina, tra cui una bambina di nove anni, la faida di Botticella ha mietuto sessanta vittime. Altre faide con decine e decine di morti si sono avute a Gioia Tauro, a Sant’Ilario, a Siderno, a Roghudi, a Bova, a Locri», scrivono Mario Andrigo e Lele Rozza nel volume Le radici della ‘ndrangheta per Nutrimenti Edizioni.

    La faida di San Luca

    Quella più famosa, però, trova il suo culmine il 15 agosto del 2007 a Duisburg, in Germania, quando sul suolo tedesco restano in sei, crivellati di colpi. Una mattanza che si inquadra nella sanguinosissima faida di San Luca iniziata nel 1991 per un banale scherzo di Carnevale. Storicamente, infatti, quella lunga di sangue viene fatta iniziare il 10 febbraio del 1991, allorquando un gruppo di giovani legati ai clan Strangio e Nirta, detti “Versu”, in occasione delle festività di Carnevale, lanciò delle uova contro il circolo ricreativo ARCI, gestito da Domenico Pelle, uno dei “Gambazza”. Un’onta. Resa ancor più grave dal fatto che quelle uova sporcarono, tra l’altro, anche l’auto di uno dei Vottari.

    Inizia tutto in quel modo. I giovani vengono anche puniti con una sonora dose di “legnate” come si dice in gergo. Tutto sembra finire lì. Ma, in realtà, è solo il principio, perché successivamente, in nome di quel sentimento di vendetta che nella ‘ndrangheta è sacro, un altro gruppo di giovani dei Nirta-Strangio, venuti a conoscenza dell’accaduto, incontrarono un affiliato ai Vottari. Questi, spaventato, incominciò a sparare uccidendo due giovani del gruppo, Francesco Strangio, 20 anni, Domenico Nirta, 19 anni, e ferendone altri due. Vista l’estrema gravità dell’azione, il clan dei Vottari decise che l’autore degli omicidi avrebbe dovuto andarsene per sempre da San Luca e dai paesi limitrofi. Egli verrà comunque ucciso presso il comune di Bovalino, dove aveva trovato rifugio temporaneo. La lunga scia di sangue è ormai innescata.

    L’omicidio di Maria Strangio

    Una mattanza che sembra rimanere silente per alcuni anni. Fino alla nuova esplosione, quindici anni dopo il primo evento. E, anche in questo caso, la data ha un certo significato. Il 25 dicembre 2006 viene uccisa Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, reale obiettivo dei sicari, il quale, invece, si salverà. La faida così ricomincia dopo un lungo periodo di pausa. Giovanni Luca Nirta si è sempre professato innocente rispetto alle accuse che lo indicano come un capo carismatico della ‘ndrangheta.

    In varie interviste si è dipinto come un umile agricoltore. Addirittura, in una delle scorribande in terra calabra, anche il massmediologo Klaus Davi, per anni consigliere comunale a San Luca, ha incontrato il presunto boss. Che lo ha fatto accomodare in casa, offrendogli un caffè. Senza, però, voler parlare di ‘ndrangheta. Eppure, per gli inquirenti è un soggetto apicale della ‘ndrangheta di San Luca. Circa un anno fa ha finito di scontare la condanna a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa rimediata nel processo “Fehida”. Che ha ricostruito proprio gli ultimi episodi della faida di San Luca.

    La strage di Duisburg

    L’eccidio di Duisburg è la risposta all’omicidio di Maria Strangio, fortuito ma lavato ugualmente col sangue. Tra i morti in Germania anche un giovane, appena diciottenne, Tommaso Venturi, cui fu trovato addosso un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo, segno, probabilmente, della recente affiliazione, avvenuta in concomitanza con la maggiore età, festeggiata nella notte.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Una strage che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    L’omicidio Bruzzese

    Date che contano. Che diventano sfregio. Siamo nel 2018. Assassinato nel giorno di Natale anche Marcello Bruzzese, cinquantunenne di origine calabrese. Freddato nel garage sotto casa, in una stradina del centro storico di Pesaro. Un agguato in puro stile mafioso, forse un avvertimento per colpire il fratello di Girolamo Biagio Bruzzese, ‘ndranghetista, diventato nel 2003 collaboratore di giustizia dopo aver tentato di uccidere il capocosca: le sue testimonianze hanno permesso ai magistrati di conoscere i legami tra la cosca Crea e alcuni politici locali.

    L’omicidio Bruzzese a Pesaro

    Proprio alcune settimane fa, magistratura e forze dell’ordine hanno eseguito alcuni arresti, convinti di aver chiuso il cerchio sulla vicenda. È servito il lavoro di tre Dda, Reggio Calabria, Brescia e Ancona per ricostruire ciò che è accaduto nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. La vittima era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.

    Il significato

    In tutti i casi, quindi, le date non sono scelte a caso. Rimanendo sulla faida di San Luca: l’inizio, Carnevale del 1991, l’omicidio di Maria Strangio, Natale 2006, la strage di Duisburg, Ferragosto 2007. Tutti eventi verificatisi in corrispondenza di alcuni giorni di festa. «Secondo l’etnologo Vito Teti, la vendetta in un universo arcaico rappresentava il tentativo di ristabilire l’ordine sconvolto da uno spargimento di sangue», scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ne La malapianta.

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    «Nell’orizzonte tradizionale, la regola del sangue che chiama sangue è stata spesso assunta, anche in maniera strumentale, per legittimare comportamenti cruenti nella ‘ndrangheta. Si può pertanto capire perché nei giorni di festa, o nei giorni dedicati ai defunti, quando il ricordo è più opprimente e fondante, si ricorra talora a comportamenti rammemoranti. Nella logica di alimentare il ricordo attraverso il dolore, la vendetta praticata nei momenti festivi (in un contesto mediterraneo ma anche in tante altre società tradizionali) assume un valore rituale e altamente simbolico» scrivono ancora il procuratore di Catanzaro e il giornalista ed esperto di ‘ndrangheta.

    Simbologia e religione

    La simbologia, soprattutto se si interseca con la religione, ha un ruolo predominante nei comportamenti, anche di natura criminale, messi in atto dalla ‘ndrangheta. Nelle strategie della criminalità, nelle usanze, niente è fatto a caso. La mafia – e, in particolare, la ‘ndrangheta – sceglie di uccidere soprattutto in date rilevanti che spesso coincidono con festività religiose. Oppure in ricorrenze importanti per il soggetto da eliminare. Non è un caso ad esempio che molti omicidi avvengano nel giorno dell’onomastico o del compleanno della vittima. I killer della mafia talvolta commettono i propri omicidi in luoghi sacri. Come nell’uccisione di Domenico Vallelunga, il boss dell’omonima cosca di Serra San Bruno, Vibo Valentia, assassinato davanti al Santuario dei Santi medici Cosmo e Damiano, a Riace.

    È solo uno dei tanti, possibili, esempi. Delitti, uccisioni, aggravati dal fatto di aver profanato un luogo di culto, di aver macchiato col sangue la terra consacrata. Fatti, ovviamente, in piena antitesi con il manto di religiosità con cui si copre, spesso e volentieri, la criminalità organizzata. E così, dunque, avviene anche per i cosiddetti casi di “lupara bianca”, in cui una persona viene uccisa. E il suo corpo fatto sparire. Seppellito in qualche lontana campagna, oppure sciolto nell’acido. Un modo vale l’altro affinché le famiglie non possano piangere il proprio congiunto. Oltre alla morte, dunque, vi è un altro tipo di punizione, parimenti crudele, per i sopravvissuti.

  • Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Ventesei anni anni senza verità. Con tanti dubbi, tanti sospetti. Qualche certezza. Ma nessuna verità. Sicuramente nessuna verità giudiziaria. Ma nubi oscure, misteri inquietanti, anche per quanto concerne quella storica. Moriva 26 anni fa, il 13 dicembre 1995, in circostanze mai chiarite, il Capitano di Fregata della Marina Militare Italiana, Natale De Grazia. Reggino e punta di diamante del pool investigativo che, proprio nella città dello Stretto, stava indagando sulle cosiddette “navi dei veleni”. Le imbarcazioni che, attraverso un accordo tra criminalità, faccendieri e pezzi deviati dello Stato, sarebbero state affondate al largo delle coste calabresi. Con il proprio carico di rifiuti tossici e radioattivi.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea
    Fine di un’inchiesta

    Quel pool che, dopo la misteriosa morte di De Grazia, si sfalderà. E con esso, dissolte anche tutte le speranze investigative di far luce su quello che, fin da subito, era apparso come un sistema enorme. Fatto di connivenze tra criminalità e strutture parastatali. E che si allungava ben oltre la Calabria, ben oltre l’Italia, con traffici internazionali di scorie e armi. Proprio quegli affari su cui, probabilmente, indagavano anche i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel marzo 1994. Appena un anno e mezzo prima,  rispetto alla morte di Natale De Grazia, avvenuta a Nocera Inferiore, a neanche metà di quel viaggio, forse decisivo per l’inchiesta, che doveva portarlo fino al porto di La Spezia. Snodo cruciale delle inquietanti rotte delle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin
    Uno che sapeva leggere una mappa nautica

    Si indaga su navi affondate e De Grazia è un marinaio, uno che il mare l’ha sempre amato. È l’unico, di fatto, che sa leggere una mappa nautica. E con le proprie indagini riesce a restringere il campo dei possibili affondamenti dolosi a una trentina di episodi. Indagini delicatissime che hanno fatto affiorare il coinvolgimento dei Servizi Segreti negli strani viaggi di navi che avrebbero avvelenato i mari calabresi. Ma, tra depistaggi, pedinamenti, fughe di notizie e, dopo la morte di De Grazia, prepensionamenti, tutto il pool – coordinato dal magistrato Francesco Neri – prende strade diverse. E la storia non imboccherà mai la strada della verità.

    Squarci di luce

    Nessuna verità giudiziaria. Men che meno storica. Solo, di tanto in tanto, qualche flash di verità. Veloce e fugace come un lampo. Ma non per questo non abbagliante. Come accade con la conclusione dei lavori della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta dall’avvocato Gaetano Pecorella, di qualche Legislatura fa. Conclusioni che chiamano in causa una perizia che attesterebbe come De Grazia, a bordo di quell’auto che corre nella notte per raggiungere La Spezia, non sarebbe morto di morte naturale. L’ennesimo di tanti, tantissimi, viaggi per provare ad accertare la verità sulla motonave Rosso, spiaggiata ad Amantea anni prima, e sulle altre navi che, con i propri carichi nocivi, avrebbero avvelenato i mari calabresi. L’ultimo viaggio.

    “Cause tossiche”

    Nella propria relazione, l’esperto non farebbe altro che confermare i sospetti che anche i profani hanno sempre alimentato sul decesso di un uomo sano e costantemente monitorato, per via della sua attività militare: “Si trattava di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici” è scritto nella relazione. Il perito lo scrive chiaramente, parlando di “cause tossiche”.

    Secondo le conclusioni del perito della Commissione Ecomafie, però, “l’indagine tossicologica non è più ripetibile, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso”.

    Una pagina che contiene i dati di un esame istologico eseguito sul corpo di Natale De Grazia

    L’intrigo internazionale

    Non solo il terreno, non solo il mare. Ad essere stato avvelenato, dunque, sarebbe stato anche il Capitano De Grazia. Da sempre, la sua famiglia, ma anche i gruppi ambientalisti (Legambiente su tutti) si battono per ricercare la verità. Un uomo “normale” chiamato a fronteggiare, senza tirarsi indietro, sistemi criminali molto più grandi.

    Il lavoro della Commissione Ecomafie presieduta da Pecorella fu importante non solo per l’inquietante conclusione sulla morte di De Grazia. Ma anche per una capillare ricerca di indizi e prove sul business delle “navi dei veleni”. Dalle audizioni dei compagni di viaggio di De Grazia, passando per le sconvolgenti rivelazioni fatte dal prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione e sicurezza interna), che, nel corso della propria audizione nel luglio 2011 ha depositato due note dei Servizi Segreti, che già nel 1992 fornivano particolari circa l’interessamento delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito delle scorie. Come abbiamo raccontato alcune settimane fa.

    Il giallo delle autopsie

    Il documento agli atti della Commissione Ecomafie mina duramente le conclusioni cui si arrivò con due distinte autopsie, che individuarono in un “arresto cardiocircolatorio” la causa della morte di De Grazia. Verrebbe messa in dubbio, dunque, la conclusione che De Grazia sia morto per cause naturali. E quindi cresce l’inquietante sospetto che l’ufficiale sia stato ucciso, avvelenato, probabilmente per le indagini portate avanti. Come sostenuto, da tempo, dalla famiglia e dagli ambientalisti. Nel corso degli anni sono stati almeno quattro gli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo esanime del Capitano De Grazia.

    I primi due saranno stilati, a distanza di diversi mesi, dalla dottoressa Simona Del Vecchio. Una doppia autopsia affidata allo stesso medico legale: sarà questa una delle maggiori contestazioni. Proprio la perizia medico-legale della dottoressa Del Vecchio svolta sul corpo senza vita di De Grazia, “non corrisponde alla verità scientifica” secondo i nuovi accertamenti.

    Un esame svolto, per la prima volta, il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo il viaggio verso La Spezia. Un esame lungo in cui la dottoressa Del Vecchio darà atto della negatività degli esami chimico-tossicologici concludendo in maniera certa: “Può ricondursi a una morte di tipo naturale, conseguente a una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso, caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore”.

    “La morte improvvisa dell’adulto”

    Nel suo primo scritto, la dottoressa Del Vecchio parla di “morte improvvisa dell’adulto”, che troverebbe origine in un’ischemia del miocardio, con successive gravi turbe del ritmo cardiaco. Ma Natale De Grazia è una persona giovane, non ha neanche quarant’anni. È un militare, ed è soggetto a frequenti visite mediche. In cui non ha mai riscontrato alcun tipo di patologia cardiaca.

    Questa la spiegazione della dottoressa Del Vecchio: “Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca”.

    La stessa conclusione di un anno e mezzo prima

    Il 23 aprile 1997, un anno e mezzo dopo la morte di De Grazia, la dottoressa Del Vecchio (insieme ad altri eminenti professori universitari) verrà nuovamente incaricata dalla Procura della Repubblica. Con il compito di eseguire “ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e/o velenose, nonché approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini, volte a verificare la causa del decesso”.

    Il frontespizio della relazione medico-legale sulla morte del Capitano De Grazia

    E anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno “la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati”. Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli (per la verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (per la verifica di eventuale intossicazione acuta). La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: “Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”.

    La perizia incaricata dalla famiglia De Grazia

    In mezzo tra le due perizie, interverrà la perizia di parte della famiglia De Grazia, redatta, dal dottor Alessio Asmundo. Il quale, pur partendo da presupposti totalmente diversi, con riferimento, soprattutto, alle condizioni dell’apparato cardiaco menzionate dalla dottoressa Del Vecchio, arriverà a una conclusione simile. “Si deve concludere, quindi, che la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardia acuta da miocitosi coagulativa da “superlavoro” in soggetto affetto da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine” scrive.

    De Grazia sarebbe morto, dunque, per cause naturali. Un arresto cardiaco dovuto al troppo lavoro, al troppo stress derivante dalle proprie indagini. Una “verità” che resta in piedi, nonostante le polemiche, per molto tempo.

    L’ultima perizia

    Quindici anni dopo arriverà l’ultima perizia, la quarta. Quella che, pur considerando “l’indagine tossicologica non più ripetibile” a causa del tanto, tantissimo, tempo trascorso, allo stesso tempo solleverà seri dubbi sulle cause “non naturali” della morte.

    La medaglia del presidente della Repubblica

    A distanza di ventisei anni dalla scomparsa in pochi credono alla reale possibilità che De Grazia, un uomo in piena forma, di neanche quarant’anni, sia morto per cause naturali. Nonostante l’enorme stress cui sarebbe stato sottoposto. L’ipotesi più accreditata (ma allo stesso tempo mai provata) è che l’ufficiale, con i propri accertamenti, sia finito in mezzo storie oscure e inquietanti.

    Come è facile percepire, peraltro, dalle motivazioni con le quali il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferirà la medaglia d’oro alla memoria dell’ufficiale: “Il Capitano di Fregata Natale De Grazia ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevata importanza investigativa per la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di costante sacrificio personale e nonostante pressioni e atteggiamenti ostili a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini e illeciti operati da navi mercantili”.

  • Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    11 marzo 2011. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale da poco più di un anno. E dichiara: «Confermo anche l’impegno assunto durante la mia sindacatura. Il nuovo Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria porterà il nome di Antonino Scopelliti». Sono passati oltre dieci anni da quell’annuncio. E l’inaugurazione del palazzo di giustizia di Reggio Calabria resta una chimera.

    L’appalto e l’incompiuta

    Il palazzo di giustizia è l’incompiuta per eccellenza a Reggio Calabria. L’opera più importante, per mole, per investimenti, ferma da anni. A circa il 75% dello stato di avanzamento. E che rischia di essere inaugurato (quando accadrà) già vecchio.
    Il progetto del nuovo Tribunale era stato approvato nel maggio 2004 per un importo di quasi 88 milioni di euro. Lavori affidati alla Bentini Spa di Faenza, che aveva vinto l’appalto del Comune fissando l’offerta a un ribasso di quasi il 20% rispetto ai concorrenti.
    Un appalto da poco più di 50 milioni di euro che, in oltre 17 anni di lavori, ha già visto quasi raddoppiare i costi, a causa di varianti e ritardi.

    La denuncia del presidente del Tribunale

    Reggio si è ormai abituata a convivere con quella struttura mastodontica mai inaugurata. Dà il benvenuto a chi arriva dallo svincolo autostradale principale: quello che porta al centro cittadino. Negli ultimi giorni è stata la presidente del Tribunale, Mariagrazia Arena, a fare una grave denuncia pubblica sullo stato di abbandono della struttura: «L’incuria del nuovo palazzo di Giustizia di Reggio Calabria è causata o dall’incapacità di risolvere i problemi o, cosa più grave, dalla mancanza di vero interesse a risolvere i problemi».

    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria
    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria

    I lavori, infatti, sono fermi da tempo. Si è lavorato fino all’inizio del 2013. Quelli sono gli anni del commissariamento del Comune per contiguità con la ‘ndrangheta, avvenuto nell’ottobre 2012. I commissari chiamati a riportare decoro e legalità nell’amministrazione reggina restano inermi. Lavori bloccati a causa di un contenzioso da 38 milioni di euro tra il Comune e la Bentini. Con gli operai in cassa integrazione. E poi, inevitabilmente e inesorabilmente, licenziati. Ci pensa la prima Amministrazione di Giuseppe Falcomatà ad avviare il concordato fallimentare. Ma lo stato dei lavori non cambia.

    L’ombra della ‘ndrangheta

    In mezzo, come spesso accade, le infiltrazioni della ‘ndrangheta. Anzi, le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta. Perché l’inchiesta “Cosmos”, curata dalla Dda di Reggio Calabria sosteneva di aver scoperto l’opera di vessazione del potente clan Libri sulla ditta Bentini. Secondo le indagini, la cosca si era accaparrata il servizio mensa e tavola calda per i dipendenti del Cedir e gli operai della Bentini. Ma già in primo grado il boss Pasquale Libri sarà assolto dall’accusa.

    Dovrà invece aspettare l’Appello, Edoardo Mangiola considerato il collettore di una raffinata forma di estorsione perpetrata in danno della “Bentini Spa”. Piuttosto che ricorrere al classico metodo della “mazzetta”, i Libri avrebbero realizzato l’attività di infiltrazione attraverso la stipula di contratti di fornitura di servizi. Con cui avrebbero imposto le proprie prestazioni in regime di assoluto monopolio. Nonché attraverso la somministrazione controllata di forza lavoro con l’imposizione di operai.

    La carenza di aule

    E così gli uffici giudiziari di Reggio Calabria si trovano nel paradosso di essere dislocati in almeno tre sedi. C’è il Centro Direzionale, dove si trova la sede della Procura della Repubblica e dei tribunali, penali e civili. Poi le strutture di Piazza Castello, con la Procura Generale e il vecchio palazzo dove si trovano le aule d’udienza. Infine l’aula bunker.

    Il Tribunale, che tratta tutti i processi di criminalità organizzata del Distretto, è ospite in un immobile comunale dove quotidianamente si devono fare i salti mortali per celebrare le udienze perché le aule sono insufficienti. E in condizioni spesso non decorose: troppo fredde d’inverno, veri e propri forni da maggio in avanti.

    Gli uffici della Procura della Repubblica non fanno eccezione. Chiunque li abbia visitati, non può non aver notato la caratteristica, più unica che rara, di dover attraversare i bagni per potersi spostare tra i vari corridoi. Con le stanze dei magistrati chiuse da porte leggerissime, attraverso le quali un orecchio attento può anche carpire alcuni dei delicati e riservati discorsi fatti all’interno.

    Il fallimento dello Stato

    La gravità della situazione, quindi, torna alla ribalta con la denuncia del presidente Mariagrazia Arena. Le parole del magistrato vanno oltre l’aspetto logistico della situazione: «A Reggio Calabria, dove è presente una criminalità organizzata che manifesta plasticamente il proprio potere economico e il controllo del territorio, – ha sottolineato Arena – il cittadino che vede questo palazzo perché dovrebbe riporre fiducia e affidamento nella giustizia? E se non ripone fiducia nella giustizia, perché mai dovrebbe rispettare le leggi dello Stato?».

    Anche e soprattutto perché quella struttura dovrebbe essere il simbolo della giustizia, della lotta alla criminalità organizzata, in un territorio vessato dalla ‘ndrangheta. Ma anche perché, quell’immobile dev’essere intitolato e dedicato al giudice Antonino Scopelliti, magistrato sulla cui uccisione non è mai stata fatta piena luce.

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    Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991

    Secondo Arena, quello del nuovo palazzo di Giustizia «è un problema intanto di immagine, di quello che lo Stato vuole davvero a Reggio Calabria, in un posto di frontiera». Se non si trova una soluzione, secondo la presidente Arena, il palazzo di Giustizia diventerà «il simbolo del fallimento dello Stato. Il Palazzo di Giustizia di Reggio è la scommessa che lo Stato deve giocarsi su Reggio Calabria. Se è capace di giocarsi questa scommessa, bene, sennò vorrà dire che lo Stato si è arreso».

    La toppa del Comune

    Dopo la denuncia della presidente Arena, l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, che continua a patire le grane politiche dopo la condanna e la sospensione di Falcomatà, ha tentato di correre ai ripari. A intervenire, il consigliere comunale Carmelo Romeo, delegato municipale che in questi mesi si è occupato della vicenda del Palazzo di Giustizia dopo l’ennesimo stop dovuto alla rescissione forzata con l’impresa aggiudicataria dell’appalto.

    «Nella mattinata di oggi abbiamo ricevuto comunicazione dalla direzione generale del Ministero della Giustizia. Finalmente siamo pronti ad attivare il protocollo d’intesa con il Ministero per il completamento del Palazzo di Giustizia. Da lunedì saremo concretamente al lavoro per individuare la soluzione più adeguata a riattivare l’iter per l’ultimazione definitiva di un’opera che attende da lungo tempo di entrare in funzione», ha detto poche ore dopo il grido della presidente Arena.
    Che tempismo.

  • Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Già nel 2004, le operazioni “Nasca” e “Timpano” avevano accertato gli interessi immobiliari della ‘ndrangheta a Bruxelles. In quell’occasione, la lente d’ingrandimento della Guardia di Finanza aveva puntato le famiglie Bellocco e Ascone, di Rosarno, alleate con il clan di San Luca. Come molti Paesi del Centro-Nord Europa, il Belgio è un terreno congeniale per il riutilizzo degli ingenti capitali delle ‘ndrine. All’epoca le Fiamme Gialle contestavano ben 28 milioni di euro frutto del narcotraffico e reinvestiti nelle operazioni immobiliari.

    Il Belgio, crocevia delle mafie

    Oggi quelli che, circa 17 anni fa, potevano essere solo dei sospetti, dei flash su una realtà ancora inesplorata, possono essere considerati certezze. Già nel 2017 una relazione depositata in Parlamento sulle mafie recitava: «Il Belgio, per la propria posizione al centro dell’Europa ed in virtù dell’importante scalo portuale di Anversa, polarizza numerose attività illecite transnazionali. Da anni, il territorio, visto come opportunità di investimenti per profitti illeciti, costituisce centro di interesse per tutte le principali mafie di matrice italiana, in particolare Cosa nostra e ‘ndrangheta, dedite innanzitutto al traffico di sostanze stupefacenti ed alla commissione di reati economico-finanziari».

    L’ultima relazione della DIA, di appena poche settimane fa, è ancor più chiara: «Il Belgio è un territorio considerato fortemente a rischio di infiltrazione mafiosa, soprattutto da parte dei clan calabresi ed in particolare delle cosche ionico-reggine che, col passare del tempo, sono riuscite a permeare l’ambito economico del Paese, in prevalenza in quelle regioni quali ad esempio quella di Mons Charleroi, situata al confine con la Francia, e quella di Liegi-Limburg confinante con l’Olanda. In questi territori, ove tradizionalmente la comunità italiana è molto radicata sul territorio, è stata accertata la presenza di esponenti del crimine organizzato, che, in diverse occasioni, avrebbero anche favorito la latitanza di soggetti di rilievo delle organizzazioni criminali».

    Il porto di Anversa

    Per decenni, il porto di Gioia Tauro è stato il principale accesso per la droga commercializzata dalla ‘ndrangheta in Europa. Lo è tuttora, come testimoniato dalla recente inchiesta “Nuova Narcos Europa”, ma anche dai continui e costanti sequestri di sostanze stupefacenti, cocaina soprattutto nello scalo gioiese. Ma non è l’unico.

    In un intervento pubblico, il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Nicola Morra, ha affermato: «La ‘ndrangheta ha delocalizzato l’arrivo di sostanze stupefacenti dal porto di Gioia Tauro verso i porti di Rotterdam e Anversa che vengono preferiti perché i loro sistemi di controllo sono più blandi». Un quadro confermato anche dalla stessa DIA, nella sua ultima relazione: «Si è visto come le organizzazioni criminali nostrane utilizzino il porto di Anversa, secondo scalo europeo per volume di scambi, per l’importazione della cocaina destinata poi al mercato italiano».

    Il porto di Anversa
    Il porto di Anversa – I Calabresi

    Nei primi tre mesi del 2021, nel porto di Anversa sono state sequestrate quasi 28 tonnellate di droga. Un’infinità. Soprattutto perché non ci troviamo in provincia di Reggio Calabria, dove la ‘ndrangheta controlla tutto. Soprattutto perché fino a pochi anni prima i flussi sembravano preoccupanti, ma sensibilmente più bassi: in tutto il 2014, solo per citare un esempio, i sequestri supererarono di poco le 8 tonnellate. Cifre, quindi, che viaggiano pericolosamente verso i numeri del 2020. Quando su 102 tonnellate di cocaina intercettate all’arrivo in Europa, quasi due terzi approderanno nel porto di Anversa.

    Le alleanze

    Da diverso tempo oramai è diffusa, sul territorio estero, tra le diverse organizzazioni criminali italiane, una politica delle alleanze. Tale strategia è riscontrata anche in Belgio, dove la cosca Commisso di Siderno e il clan Pesce hanno stabilito una sinergia criminale finalizzata alla permeazione del tessuto economico di quel Paese.

    Proprio quelle alleanze che già emergevano nel 2004 con le operazioni “Nasca” e “Timpano”. In quell’occasione, il GOA della Guardia di Finanza di Catanzaro aveva scoperto il lucroso giro di cocaina ed eroina delle famiglie della fascia ionica e tirrenica della provincia di Catanzaro. Ma, soprattutto, individuato i canali di riciclaggio. I metodi d’indagine sempre più sofisticati rendono “semplice” individuare i flussi di droga che giungono in Europa dal Sud America. Assai complesso è invece capire come i milioni di euro dello stupefacente venga reinvestito. Quasi sempre in attività apparentemente lecite.

    Colletti bianchi

    In quel caso (ma non è l’unico) le cosche avevano scelto il mercato immobiliare. Quello che, se ci trovassimo in Italia, al Sud, in Calabria, verrebbe banalmente definito il “mattone”. E invece siamo nel bel mezzo dell’Europa. Dove insistono i palazzi della politica continentale. Ventotto milioni di euro ripuliti in poco tempo. Grazie, ovviamente, agli immancabili “colletti bianchi” su cui possono contare le ‘ndrine. Addirittura, a Bruxelles, un intero quartiere sarebbe stato acquistato dalle cosche di ‘ndrangheta.

    Anche in Belgio, tanto per il traffico di droga, quanto per il riciclaggio di denaro, si punta su quegli elementi “cerniera” fondamentali per le cosche. “Facilitatori”, direttamente in contatto con il Sud America per quanto riguarda la cocaina. Oppure che sanno dove spendere (e, quindi, ripulire) i denari frutto del business delle sostanze stupefacenti.

    Gli albanesi

    Alleanze che non si limitano ai rapporti tra cosche calabresi. O, magari, tra organizzazioni mafiose diverse. Come Cosa Nostra o la Camorra. Ma anche la Stidda. Un ruolo sempre più importante, negli ultimi anni, quello dei criminali albanesi. Ancora dalla relazione della DIA del secondo semestre 2020: «La criminalità albanese è attiva prevalentemente nel traffico di sostanze stupefacenti e di armi nonché nella tratta di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione talvolta in accordo funzionale con organizzazioni di diversa etnia (rumena e nigeriana)».

    I sodalizi a connotazione transnazionale si avvalgono delle connessioni con gruppi delinquenziali costituiti da connazionali operativi principalmente nei Paesi Bassi, in Belgio, Austria, Germania, Regno Unito, Spagna, Francia, in centro e sud America e in madrepatria. «Tale capacità di proiezione internazionale e la disponibilità di droga a prezzi concorrenziali ha determinato l’insorgenza di stabili rapporti tra la criminalità albanese e le organizzazioni mafiose italiane. Relazioni che sono agevolate dall’assenza di conflittualità per il predominio sul territorio. Infatti, di norma gli albanesi si occupano dell’approvvigionamento delle droghe che vengono poi cedute ai sodalizi autoctoni per la gestione dello spaccio» scrive ancora la DIA.

    L’ultimo blitz

    La ‘ndrangheta, attraverso alcuni intermediari internazionali, sfrutta le rotte del narcotraffico che originano dalla Colombia, dall’Ecuador e da tutto il Sud America per far giungere in Europa grandi quantità di sostanza stupefacente attraverso lo scalo portuale belga. Un business cristallizzato anche con le indagini “Pollino” ed “Edera”. Nelle due inchieste curate dalla Dda di Reggio Calabria, le famiglie di ‘ndrangheta protagoniste erano i Pelle-Vottari di San Luca, i Cua–Ietto di Natile di Careri e gli Ursini di Gioiosa Jonica.

    Poco più di un mese fa, l’ultima operazione tra Anversa e Liegi, con decine di arresti e centinaia di perquisizioni. Oltre mille gli agenti impiegati dalle forze dell’ordine, sequestrati stupefacenti per un valore stimato di circa 80 milioni di euro, Kalashnikov, cavalli e beni di lusso. La scoperta, da parte degli inquirenti locali, anche di un laboratorio per la lavorazione e il confezionamento della cocaina. Anversa, quindi, è il punto di approdo della droga in Belgio (e in Europa). Il sospetto è che la capitale, Bruxelles sia il centro per lo stoccaggio e il confezionamento. Lo snodo per lo smistamento.

    La ‘ndrangheta è riuscita ormai a penetrare il tessuto economico del Belgio, soprattutto nelle province di Hainaut, Liegi e Limburgo. Assai forte la presenza degli Aquino, clan d’élite originario della Locride. Anche se, ormai, si può parlare di gruppi criminali italo-belgi.

    All’ombra dei palazzi del potere

    In un’intervista rilasciata a Sergio Nazzaro per il magazine dell’Eurispes, Francois Farcy, dal 2001 in forze nella Polizia Federale Belga, afferma: «La sfida futura che il Belgio deve affrontare per quanto riguarda la mafia, e più in generale la criminalità organizzata di stampo mafioso, è quella di (ri)costruire una comprensione migliore del loro insediamento nel nostro paese e di evidenziare i loro obiettivi prioritari».

    Perché il Belgio, da tempo, è ormai un crocevia fondamentale per le mafie. Per la ‘ndrangheta, soprattutto. Proprio all’ombra dei palazzi del potere europeo, a Bruxelles. Da dove partono miliardi e miliardi di euro di finanziamenti europei. Che, spesso, vanno in pasto alle cosche. Ma questa, è un’altra storia…

  • Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Qualcuno è convinto che la via maestra sia allontanarli dalla famiglia d’origine. Quei nuclei dove si cresce a pane e ‘ndrangheta. Qualcun altro considera questa pratica – peraltro ormai consolidata da alcuni percorsi istituzionali – una barbarie. Altri ancora, studiando il fenomeno ‘ndranghetistico, hanno parlato di “familismo amorale”, mutuando il concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield.

    Il tentativo di togliere acqua fresca e corrente al mulino della ‘ndrangheta tramite le nuove leve dei clan, è, fin qui, riuscito a fasi alterne. Le cosche possono contare su un esercito di giovani pronti a rischiare vita e carcere. Guidati da altri giovani, spesso figli e/o discendenti diretti dei vecchi capibastone. Nel frattempo deceduti o costretti al carcere da lunghe pene detentive.

    Giovane, ma già narcotrafficante

    L’ultimo caso noto è quello emerso nell’ambito della maxi-inchiesta della Dda di Reggio Calabria, “Nuova Narcos Europa”. Un blitz congiunto con le Dda di Milano e Firenze, volto a contrastare l’enorme business della droga gestito dalla potente cosca Molè. Un casato storico che, da sempre, si divide Gioia Tauro con l’altra celebre famiglia dei Piromalli. Proprio i dissidi con i Piromalli avrebbero causato, negli anni, un momento di difficoltà, di declino, da parte dei Molè. Dissidi e frizioni culminate con l’eliminazione, l’1 febbraio del 2008, del boss Rocco Molè. Ma la cosca, secondo gli inquirenti, sarebbe stata tutt’altro che in declino. Proprio le nuove leve avrebbero contribuito a far rialzare la testa al casato di ‘ndrangheta.

    Rocco Molè
    Il giovane Rocco Molè – I Calabresi

    Lo dice anche in un’intercettazione il giovane Rocco Molè, nipote omonimo del capo ‘ndrangheta assassinato. Appena 26 anni, ma sarebbe stato lui, insieme all’anziano nonno Antonio Albanese, il leader del sodalizio criminale. Il giovane Molè, intercettato, fa proprio riferimento ai fasti di un tempo. E al fatto che, una volta completata la rinascita, tutti sarebbero dovuti tornare a bussare alla loro porta. E che lui, nonostante la giovane età, si sarebbe ricordato di chi, negli anni, è rimasto fedele. Ma, soprattutto, di chi ha voltato le spalle. Così, quindi, i Molè hanno provato a rialzare la testa. Anche grazie ai rapporti con la potente famiglia Pesce di Rosarno e con i Crea di Rizziconi. Ma anche con la ‘ndrangheta del territorio vibonese.

    Il progetto “Liberi di scegliere”

    Il giovane Rocco Molè è stato per 3 anni, quando ancora era minorenne, a Torino in una struttura di recupero gestita da Libera nell’ambito del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria per il reinserimento nella società dei figli dei boss mafiosi. Si tratta di un percorso elaborato ormai diversi anni fa dall’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Protocollo di intesa tra vari Enti, anche governativi, Libera e la Chiesa, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri, provenienti da famiglie mafiose.

    Una pratica ormai consolidata, che, in diversi casi, ha dato frutti importanti. Sono più di 100 i minori coinvolti e circa 25 le donne andate via con i propri figli. Alla ricerca di un futuro diverso. Sebbene non siano mancate le polemiche circa la logica – secondo alcuni “militare” – di sottrarre i giovani alle famiglie di origine. Sottovalutando, sempre a detta dei detrattori, l’aspetto pedagogico, culturale e formativo che deve necessariamente avere la lotta alla ‘ndrangheta. Il giovane Molè – Roccuccio per tutti – era rientrato in questo programma proprio alla morte dello zio omonimo Rocco, assassinato nel 2008 nell’ambito di un conflitto interno con gli alleati storici Piromalli. Un recupero fallito, evidentemente.

    Malefix

    Scardinare i modelli ‘ndranghetistici non è affatto semplice. Soprattutto in famiglie che hanno fatto la storia della ‘ndrangheta. I Molè e i Piromalli sono tra questi. Ma la cosca che più di tutte ha contribuito a modernizzare la criminalità organizzata calabrese è, probabilmente, quella dei De Stefano. Con i suoi rapporti privilegiati con massoneria e servizi segreti. Con il potere, in generale. Ascesa e caduta di “Malefix” sono emblema di quel familismo amorale della ‘ndrangheta. Giorgio Condello Sibio, conosciuto a Reggio Calabria come “Giorgetto” o “Giorgino” ha capito ben presto che il cognome De Stefano, forse, può essere un biglietto da visita, un brand, più interessante. Anche e soprattutto a Milano, dove si era trasferito. Dove faceva la bella vita.

    Giorgio Condello Sibio
    Giorgio Condello Sibio con l’ex fidanzata Silvia Provvedi – I Calabresi

    Soggetto misterioso fin quando non verrà arrestato su mandato della Dda di Reggio Calabria. Balzato alle cronache dei giornali scandalistici per la sua relazione con la showgirl Silvia Provvedi, ex del paparazzo pregiudicato Fabrizio Corona ed ex partecipante del Grande Fratello Vip. I giornali di gossip lo definivano “imprenditore di origini calabresi, membro di una famiglia molto importante”. La “famiglia importante” era quella dei De Stefano. Giorgetto Condello Sibio, infatti, è il figlio naturale di don Paolino De Stefano, assassinato nel 1985 agli albori della seconda guerra di ‘ndrangheta. La madre di Giorgetto, Carmelina Condello Sibio, sarebbe stata l’amante di don Paolino, da cui avrebbe avuto tre figli.

    È quindi fratellastro dei più noti Carmine, Dimitri, ma, soprattutto, di quel Peppe De Stefano considerato al vertice dell’ala militare della ‘ndrangheta. In riva allo Stretto, Giorgetto/Giorgino aveva iniziato a essere troppo esposto. E così, la decisione di delocalizzare. E Milano, da sempre, per i De Stefano è una seconda casa. Basti ricordare i rapporti con il boss Franco Coco Trovato. Ma anche il boss Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro avamposto nel capoluogo lombardo.

    Il peso criminale

    Non solo bella vita, però. Stando alle indagini a suo carico, Giorgio Condello Sibio/De Stefano avrebbe avuto un ruolo molto importante nel dirimere le questioni interne al quartiere Archi, considerato una roccaforte della ‘ndrangheta reggina e non solo. Nelle conversazioni captate, il giovane De Stefano parla già da veterano e sottolinea come le spaccature tra i sodali – che iniziavano ad essere note nel sottobosco criminale reggino – avrebbero indebolito la cosca, facendola apparire più vulnerabile.

    Se Giorgetto/Giorgino ha ben capito, fin da subito, l’importanza del cognome De Stefano, c’è chi con cognomi importanti ci nasce. Proprio come in una monarchia, il peso criminale, nella ‘ndrangheta, ha anche un valore di discendenza diretta. Per questo Roccuccio Molè poteva gestire flussi di cocaina così enormi. Il 25 marzo 2020 – siamo quindi nel pieno del primo lockdown – in una masseria di Gioia Tauro sono stati rinvenuti e sequestrati oltre 500 kg di cocaina, suddivisi in panetti di 1 kg circa, alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. Tutta droga che avrebbe una firma chiara. Quella del giovane Rocco Molè.

    C’è chi il cognome se lo sceglie. E chi ci nasce. È il caso anche di Luigi Greco, figlio secondogenito del boss Angelo, soprannominato Lino. Una famiglia egemone a San Mauro Marchesato, nel Crotonese, che da tempo, però ha spostato il suo core business in Lombardia, a Milano. Proprio nel cuore della City Life, tra sfarzo e auto di lusso, gli inquirenti censiscono incontri e cene tra gli uomini di ‘ndrangheta e importanti imprenditori. Evidentemente per parlare di affari. Ma anche di politica.

    vincenzo macrì
    Vincenzo Macrì scortato nel viaggio dal Brasile all’Italia dopo l’estradizione – I Calabresi

    Nel 2017 viene invece arrestato in Brasile Vincenzo Macrì. Considerato elemento di spicco della cosca Commisso di Siderno, dedito al narcotraffico internazionale. Figlio di Antonio Macrì, classe 1904, leader carismatico, soprannominato per la sua caratura criminale “Boss dei due mondi”, particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), il celebre don ‘Ntoni venne ucciso in un agguato a Siderno nel 1975, nell’ambito della prima guerra di ‘ndrangheta. Quel delitto sul campo di bocce, che era la sua passione, segnò la presa del potere da parte della nuova ‘ndrangheta dei De Stefano.

    ‘Ndrangheta e movida

    Da sempre legata ai De Stefano e originaria di Archi è la cosca Tegano. Cresciuta tra la prima e la seconda guerra di ‘ndrangheta grazie a boss del calibro di Giovanni Tegano, recentemente scomparso. Dopo il suo arresto, in seguito ad anni di latitanza, qualcuno, tra la folta folla fuori dalla questura di Reggio Calabria, gridava «uomo di pace». Proprio per testimoniare le sue capacità di mediatore. Per mantenere equilibri che, da sempre, sono la forza della ‘ndrangheta. Non la pensano così, evidentemente, i rampolli della cosca Tegano. Giovani, ma già con un curriculum criminale importante. Ma, soprattutto, ben visibile. Molesto. A fronte di una ‘ndrangheta che ha sempre amato rimanere sotto traccia. I “Teganini”. Così è soprannominato il gruppo di giovani del clan, che, negli anni, hanno seminato il panico nei locali della movida di Reggio Calabria.

    Mico Tegano
    Mico Tegano – I Calabresi

    Sì perché i giovani di ‘ndrangheta amano la movida. Proprio come Giorgio Condello Sibio/De Stefano. Ma se del figlio naturale di don Paolino, fino a poco tempo fa, non esistevano nemmeno foto sui social, i “Teganini” sono diversi. Soggetti come Mico Tegano, figlio del boss ergastolano Pasquale, o Giovanni Tegano, nipote omonimo del cosiddetto “uomo di pace”, fanno parte della ‘ndrangheta 2.0. Quella che si spalleggia sui social. Ma quella, soprattutto, che fa soldi con i nuovi modi di delinquere. Il gioco d’azzardo online, soprattutto. Come testimoniano le inchieste “Gambling” e “Galassia”. Ma, soprattutto, terrorizzano avventori ed esercenti dei locali più “in” di Reggio Calabria. Chiedendo, anzi, pretendendo, di non pagare. Oppure per una parola di troppo. Talvolta per uno sguardo. Molti di loro sono già dietro le sbarre.

    Chi va avanti e chi si ferma

    Ma è lungo l’elenco di figli che hanno proseguito le orme dei genitori. Da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Morabito, “il tiradritto” di Africo. A Peppe Pelle, figlio di don ‘Ntoni Pelle, che negli anni ha ricoperto anche il ruolo di capo crimine a Polsi. E, ancora, Antonio Piromalli, figlio del boss Pino Piromalli, detto “facciazza”, a sua volte fratello del celebre don Mommo Piromalli.

    Uno dei punti di forza della ‘ndrangheta – che la rende quindi anche più immune al fenomeno del pentitismo – è la sua struttura familiare. Ruoli che vengono acquisiti per discendenza. Casi emblematici sono quelli della cosca Mancuso. Una famiglia d’elite della ‘ndrangheta. Sebbene, negli anni, sia stata pesantemente colpita da indagini giudiziarie, non risulta indebolita. Proprio per la capacità di attingere sempre a nuove leve. Domenico Mancuso, 45 anni, figlio del boss ergastolano Peppe, alias “Mbrogghjia”, è stato recentemente condannato a oltre 20 anni di reclusione nel processo “Dinasty”, una delle indagini caposaldo contro i Mancuso.

    Ma c’è chi, all’interno di quella famiglia, cerca di spezzare la catena. È il caso di Emanuele Mancuso, figlio del carismatico boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Si tratta del primo caso di pentimento all’interno della storica cosca di Limbadi, al centro di molti traffici criminali anche a livello internazionale. Emanuele Mancuso, tra l’altro, è il nipote di Rosaria Mancuso, accusata di essere stata la mandante dell’omicidio di Matteo Vinci, con una bomba collocata sotto la sua automobile. Una collaborazione storica, nell’ambito della quale, Emanuele Mancuso sta raccontando fatti e dinamiche criminali della sua famiglia, ma non solo.

    E non è l’unico. Anche Francesco Farao, oggi poco più che 40enne, ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Figlio del boss ergastolano Giuseppe, racconta degli affari del clan crotonese. Con propaggini anche al Nord.
    Perché, da sempre, nella ‘ndrangheta chi collabora è considerato un infame. L’anello debole. Ma l’anello debole è anche quello più forte. Perché spezza la catena.

  • Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    In politica non esistono spazi vuoti. È una regola conosciuta da tutti. E così, da scelte poco coraggiose, da comportamenti ondivaghi, non può che nascere il caos. Con il ritorno in auge anche di chi sembrava ormai finito nell’oblio definitivo sotto il profilo istituzionale. È quanto sta accadendo a Reggio Calabria. La città è nel bel mezzo di una crisi politico-amministrativa, dopo la condanna del sindaco Giuseppe Falcomatà nell’ambito del processo sul cosiddetto “Caso Miramare”. Un anno e quattro mesi per aver di fatto “regalato” a un imprenditore amico una parte di uno dei “gioielli di famiglia” della città. Una sentenza che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino in base alla Legge Severino.

    Una settimana fa

    A distanza di una settimana, la città naviga a vista. Falcomatà si è affrettato a spargere nomine qua e là, tagliando fuori, di fatto, il Partito Democratico. Il Comune di Reggio Calabria e la Città Metropolitana sono oggi retti da un nuovo vicesindaco, Paolo Brunetti. Esponente di Italia Viva, nominato in fretta e furia prima che la condanna cadesse sulla testa del giovane sindaco. Inoltre, per la nomina di vicesindaco della Città Metropolitana, Falcomatà ha dato un ulteriore schiaffo al Pd: con la nomina di Carmelo Versace, esponente di Azione, il movimento di Carlo Calenda.

    Ma non finisce qui. Con una mossa che per molti è sembrata incredibile, Falcomatà ha rimosso dal ruolo di vicesindaco il professor Tonino Perna. Intellettuale molto conosciuto e stimato in città, era stato chiamato per rianimare l’Amministrazione dopo i primi cinque anni oggettivamente deludenti. Senza nemmeno una telefonata, Falcomatà lo ha degradato ad assessore.

    tonino perna
    L’ormai ex vice sindaco Tonino Perna – I Calabresi

    Una scelta che Perna non ha accettato. Non poteva accettarla. E così, ha rassegnato le dimissioni. Non prima, però di aver demolito la figura personale e politica di Falcomatà nel corso di una conferenza stampa. Perna ha parlato di «città allo sbando». Ha ammonito sul concreto rischio, per Reggio Calabria, di perdere cospicui fondi per l’occupazione giovanile, se non si interverrà entro dicembre. «Sarebbe un atto criminale» ha detto. Ha definito Falcomatà «una personalità complessa, da studiare». Dove per molti il «da studiare» significa “da curare”.

    Comportamenti schizofrenici

    La chiarezza non è di casa. Per nessuno dei protagonisti. Falcomatà, infatti, ha preannunciato ricorso contro la sospensione. Di fatto, continua a fare il sindaco, almeno stando a quanto emerge dai social, dove commenta interventi di manutenzione e supervisiona i cantieri. Eppure è ormai acclarata quella che sembra essere una exit strategy per il primo cittadino: la vittoria di un concorso come dipendente amministrativo presso il Comune di Milano. Qualcosa che parrebbe presagire un piano B per il giovane esponente del Pd, ormai ai ferri corti con il suo partito.

    Già, il Pd. I retroscena raccontano della furia del responsabile Enti locali dei Democratici, Francesco Boccia, in alcune riunioni dopo la sospensione di Falcomatà. Al Pd, le scelte del sindaco sospeso sono sembrate un appiattimento sulla posizione di Matteo Renzi. Cui Falcomatà, un tempo, era molto legato. In tanti ricordano endorsement e selfie tra i due. Maestri della (eccessiva) comunicazione tramite social. Ma, come spesso accade quando di mezzo c’è il Partito Democratico, la montagna ha partorito un topolino. Perché dalle lunghe riunioni interne, l’ira funesta del Pd si è trasformata in una posizione a dir poco ibrida. I Democratici si limitano a chiedere nuovo slancio all’Amministrazione Falcomatà/Brunetti. Con un rimpasto o, al massimo un azzeramento della Giunta.

    Parola d’ordine: conservazione

    Posizione ben diversa rispetto a quanto sostenuto, in passato, tanto dal Pd, quanto da Italia Viva, sostanzialmente. «Ora bisogna andare subito al voto anticipato: lo dobbiamo ai calabresi». Così si esprimeva l’allora segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno. Fine marzo 2014. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale della Calabria e poche ore prima è stato condannato in primo grado a sei anni nell’ambito del “Caso Fallara”. Sentenza, negli anni, divenuta definitiva e irrevocabile, portando l’ex sindaco del “Modello Reggio” dietro le sbarre.

    Ernesto Magorno e Matteo Renzi
    Ernesto Magorno e Matteo Renzi – I Calabresi

    Magorno chiedeva le dimissioni di Scopelliti: «La notizia di questa sera conferma, anche dal punto di visto etico, la necessità di ridare la parola ai calabresi. La Calabria deve voltare pagina, ritrovare fiducia nella politica e affidarsi ad un’esperienza di rinnovamento e buon governo, che ponga come priorità la questione morale e della lotta alla criminalità». Oggi il Pd tace sulla cosiddetta “questione morale”. È infatti palese che condurre il Comune verso il commissariamento significherebbe correre verso una sonora sconfitta elettorale alla prima occasione utile. Il consenso di Falcomatà e del centrosinistra, infatti, è ai minimi termini. Gode invece Italia Viva. Irrilevante nei numeri, ma ad amministrare il comune di una città metropolitana. E lo stesso Magorno, renziano della prima ora e quindi passato a Italia Viva, è, ovviamente, tra i principali sostenitori dell’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, decapitata.

    A volte ritornano

    Un simile scenario non può non aver fatto ringalluzzire chi sembrava (giustamente) destinato all’oblio. Nelle riunioni partitiche e interpartitiche, infatti, è tornato a fare la voce grossa persino l’ex assessore regionale al Lavoro, Nino De Gaetano. Scomparso dai radar dopo essere finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Erga omnes”, sullo scandalo dei rimborsi elettorali del Consiglio Regionale. Soggetto che il Pd aveva, per un periodo, tenuto ai margini, anche per via di alcune pesanti risultanze investigative della Dda di Reggio Calabria. Nel covo dove verrà catturato il superboss Giovanni Tegano, infatti, saranno ritrovati “santini” di Nino De Gaetano. Indicato come candidato gradito alla potente famiglia di Archi, per il tramite del suocero, oggi defunto.

    Ma già nel corso delle ultime consultazioni regionali, De Gaetano era riuscito a infiltrare nuovamente il Partito Democratico piazzando lì il suo fidato Antonio Billari. Consigliere regionale uscente, perché ripescato dopo le dimissioni di Pippo Callipo nel corso della precedente consiliatura. Oggi sogna un nuovo ingresso, qualora Nicola Irto dovesse optare per una candidatura alla Camera dei Deputati, appena possibile.

    Cosa accadrà?

    De Gaetano, quindi, è riaffiorato dalla penombra in cui era sprofondato. E adesso detta la linea. È stato lui stesso a parlare per primo di azzeramento della Giunta comunale. Un messaggio alla città che doveva arrivare dal sindaco sospeso Falcomatà. O dal suo facente funzioni, Brunetti. O, magari, dal Pd, che è il principale partito rappresentato in consiglio comunale.

    Nino De Gaetano
    L’ex consigliere regionale Nino De Gaetano – I Calabresi

    Non di certo da De Gaetano, che non avrebbe titolo per parlare. Ma la sua compagine politica è determinante nei numeri. E, quindi, passano appena poche ore e il facente funzioni Brunetti, con una nota ufficiale, cede ai desiderata. Annunciando un azzeramento delle deleghe nel giro di pochi giorni.

    Il toto-nomi

    E, ovviamente, si scatena il toto-nomi. Il Pd, principale azionista dell’amministrazione comunale reggina, si ritrova attualmente con un solo assessore, l’anziano Rocco Albanese, in consiglio comunale da una vita. Ma De Gaetano & co. chiedono spazio. E sono almeno quattro i consiglieri comunali che fanno riferimento all’ex assessore regionale. Uno o forse due, tra questi, potrebbero entrare in Giunta. Mentre il Pd, che vanta il maggior numero di donne, potrebbe puntare ad alcuni ingressi in nome delle “quote rosa”.

    A fare spazio potrebbe essere qualche esterno, quindi. Vacilla, allora, la posizione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino Scopelliti. Anche lei, come Perna, era entrata nel “secondo tempo” dell’Amministrazione Falcomatà per ridare slancio. Ma adesso potrebbe ricevere un “arrivederci e grazie”.

    L’impalpabile centrodestra

    In tutto ciò, sul podio delle posizioni imbarazzanti, non può che salire anche la (non) posizione del centrodestra. Che, almeno sulla carta, dovrebbe effettuare una serrata opposizione alla maggioranza di centrosinistra. E, invece, nell’arco di una settimana, non è riuscito a mettere in piedi una posizione pubblica che fosse una. Solo nelle ultime ore, una nota firmata, tra gli altri, dal deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro e dalla sua omologa di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. I due hanno chiesto una posizione netta al Governo sul caso Reggio Calabria. Attribuendo anche al sottosegretario Nicola Molteni frasi che lascerebbero presagire la possibilità di decisioni gravi sul Comune di Reggio Calabria. Ma, al momento, tutto sembra un bluff. Anche per celare l’imbarazzante comportamento dell’opposizione nella lunga settimana post sentenza sul “Caso Miramare”.

    Incollati alla poltrona
    Antonino Minicuci
    Antonino Minicuci – I Calabresi

    Nelle ore successive alla condanna di Falcomatà trapelava l’idea di dimissioni di massa. Ma, alla conta, non più della metà dei consiglieri di minoranza avrebbe effettivamente lasciato il proprio posto.  Tra i fondoschiena maggiormente incollati alla poltrona, quello del (presunto) capo dell’opposizione. Quell’Antonino Minicuci che, per il voto del settembre 2020, era stato scelto addirittura da Matteo Salvini. Perderà nettamente contro Falcomatà, ma dopo averlo costretto al ballottaggio. A distanza di un oltre un anno, di Minicuci si ricordano solo alcune tragicomiche uscite in Consiglio Comunale. Tra frasi dialettali e parolacce.
    Ma l’impressione è che, se si tornasse al voto, persino lui potrebbe vincere contro un centrosinistra così ridotto ai minimi termini.