Autore: Claudio Cordova

  • Gratteri capo della DNA? Il toto-procure in Calabria è già partito

    Gratteri capo della DNA? Il toto-procure in Calabria è già partito

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    Nel giro di poche settimane potrebbe innescarsi un complesso effetto domino in seno alla magistratura calabrese. Il Consiglio Superiore della Magistratura, infatti, sembra intenzionato ad accelerare sulla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E tra i papabili, figura anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

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    Federico Cafiero De Raho è stato fino a febbraio procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo

    Il successore di Federico Cafiero De Raho

    Sono in tutto sette i candidati per ricoprire il ruolo che, fino alla scorso febbraio, è stato di Federico Cafiero De Raho. Magistrato per anni in prima linea contro i Casalesi a Napoli e poi contro la ‘ndrangheta da procuratore di Reggio Calabria. Proprio nello scorso febbraio, Cafiero De Raho è andato in pensione, lasciando vacante la postazione.

    Per la successione nella Direzione nazionale antimafia, uscito di scena l’ex procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, nel frattempo nominato procuratore di Roma, in corsa ci sono il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il pg di Firenze, Marcello Viola, i procuratori di Catania, Carmelo Zuccaro, di Messina, Maurizio De Lucia, e di Lecce, Leonardo Leone De Castris, e il vicario Giovanni Russo.

    Ma la lotta sembra essere ristretta proprio ai primi due: Melillo e Gratteri. Con il primo favorito. Proprio negli scorsi giorni, la Commissione Direttivi del Csm ha effettuato le sue audizioni sui papabili. E da più parti trapela la voglia di Palazzo dei Marescialli di stringere i tempi.

    Che dipenderanno, però, da quelli di un’altra nomina. Quella, altrettanto delicata, per il successore di Francesco Greco come procuratore di Milano. La Commissione ha indicato una rosa di tre nomi: il Pg di Firenze Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e l’aggiunto della procura di Milano Maurizio Romanelli, con il primo favorito (e che, quindi, uscirebbe dalla corsa verso la DNA).

    L’obiettivo del Csm, pesantemente screditato da quanto emerso con il “caso Palamara” è quello di dare segnali non solo di velocità. Ma anche di meritocrazia.

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    Il coronamento di una carriera

    Per Gratteri, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo, la nomina a procuratore nazionale antimafia sarebbe il coronamento della propria carriera. Che, peraltro, è arrivata a uno snodo cruciale. Gratteri, infatti, si è insediato a capo della Procura di Catanzaro nel maggio del 2016. Praticamente sei anni fa.

    E come è noto, per gli incarichi direttivi, il termine massimo di durata è di otto anni, per evitare incrostazioni di potere. Tradotto: entro due anni, il procuratore dovrà lasciare l’attuale posto per scegliere quello che, verosimilmente, lo porterà alla pensione. Ma, chiaramente, la velleità di ambire alla Direzione Nazionale Antimafia, oltre che una legittima aspirazione di Gratteri, è dovuta al fatto di non arrivare al termine ultimo, quando, poi, il trasferimento di funzione diverrebbe obbligatorio.

    Gratteri in Direzione Antimafia: gli scenari

    Non è facile. Ma, in un modo o nell’altro, il vertice della Procura di Catanzaro dovrà cambiare nei prossimi due anni. E questo potrebbe aprire un effetto domino molto ampio in seno alla magistratura calabrese. Quel posto, infatti, potrebbe essere molto ambito.

    In primis dall’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che a Catanzaro è già stato aggiunto. Secondo i rumors, Bombardieri tornerebbe volentieri a Catanzaro. Peraltro, essendo alla soglia dei quattro anni di mandato in riva allo Stretto, Bombardieri deve iniziare a guardarsi un po’ intorno. E le Procure importanti, nei prossimi anni, potrebbero essere tutte occupate. Roma ha un nuovo capo da pochi mesi e lo avranno a brevissimo anche Milano, Firenze e Palermo. E, ovviamente, il posto in DNA non sarebbe più vacante.

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    Il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    Resterebbero, quindi, Napoli (in caso di vittoria di Melillo) o Catanzaro (in caso di vittoria di Gratteri). Ma, certamente, da calabrese, Bombardieri sceglierebbe più di buon grado la seconda destinazione.

    Da non trascurare, però, la soluzione interna dell’aggiunto Vincenzo Capomolla, dell’outsider Giuseppe Capoccia (procuratore di Crotone) e di Pierpaolo Bruni, che a Catanzaro ha già lavorato e che ora è procuratore di Paola.

    E se si libera Reggio?

    Esponente della corrente di Unicost romana, Bombardieri è stato, da sempre, molto vicino all’ex magistrato Luca Palamara, per anni dominus del Csm e destituito dopo gli scandali in cui rimarrà coinvolto. «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo» – scriveva in una chat. «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui» – aggiungeva dopo la nomina dello stesso a capo della Procura reggina.

    E quindi, a quel punto, si aprirebbe anche la corsa per Reggio Calabria. Una Procura che, negli anni, ha rivestito un ruolo di avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta. Con Giuseppe Pignatone prima e con Federico Cafiero De Raho poi. Ma che negli ultimi anni è stata decisamente fagocitata dall’opera di Catanzaro (soprattutto con la maxi-inchiesta “Rinascita-Scott”) e dalla forza mediatica di Gratteri.

    Ma le cose potrebbero cambiare. Perché, con quella poltrona vacante potrebbe arrivare il momento di Giuseppe Lombardo, attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, che nelle scorse settimane ha già presentato domanda per Firenze, come successore di Giuseppe Creazzo. Al pari proprio di Pierpaolo Bruni. Insomma, l’ambizione al grande salto non manca. E Reggio Calabria potrebbe essere la piazza giusta.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    Valzer delle nomine

    Dove, peraltro, è ancora vacante il ruolo di procuratore aggiunto lasciato libero da Gerardo Dominijanni, divenuto negli scorsi mesi procuratore generale in riva allo Stretto. Con otto magistrati in corsa: il Procuratore della Repubblica di Caltagirone (Catania), Giuseppe Verzera, ed il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Salvatore Dolce. Poi, ancora, Stefano Musolino e Walter Ignazitto, sostituti procuratori nella Dda di Reggio Calabria ed i sostituti procuratori di Roma Pietro Pollidori, di Salerno Marco Colamonici, di Caltanissetta Pasquale Pacifico e il gip di Napoli Maria Luisa Miranda.

    E presto potrebbe liberarsi anche un altro posto: quello dell’altro procuratore aggiunto, Gaetano Paci, indicato all’unanimità come procuratore della Repubblica di Reggio Emilia.

    E, a quel punto, partirebbe un’altra girandola per le nuove nomine.

  • La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

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    Qualcuno l’ha sempre considerata la “provincia babba” della Sicilia. A fronte di roccaforti di Cosa Nostra, come Palermo e Catania, soprattutto, ma anche Trapani, Messina è sempre stata considerata come figlia di un dio minore sotto il profilo criminale. Ma è davvero così?

    L’ultima inchiesta

    Proprio nelle ultime ore, la Procura della Repubblica di Messina, retta da Maurizio De Lucia, ha tirato le fila di un’inchiesta che dimostrerebbe come, nel capoluogo peloritano, gli affari criminali siano tutt’altro che trascurabili. Sono 21 le persone accusate, a vario titolo, di reati in materia di stupefacenti e armi. Una organizzazione criminale, armata, perfettamente organizzata che riforniva di droga i quartieri cittadini di “Gazzi” e “Mangialupi”.

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    La sede della Procura di Messina

    Le indagini condotte dalla Polizia di Stato avrebbero dimostrato l’esistenza di una centrale di spaccio nel rione “Gazzi”. Con due distinte cellule criminali: una più ristretta, che operava in Calabria ed era impegnata nel rifornire la seconda, l’altra, più articolata e capillare, che immetteva sul mercato di Messina e provincia, grosse partite di cocaina.

    Il ponte sullo Stretto esiste già

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    Messina e il suo porto affacciato sullo Stretto

    Un’organizzazione che spacciava giorno e notte e che riusciva a tirar su almeno 50mila euro mensili. Stando all’inchiesta, la continuità dei rifornimenti era assicurata da alcuni calabresi. Anch’essi arrestati, gestivano i contatti con i vertici del gruppo dei messinesi mediante apparecchi cellulari dedicati. Così si garantivano un elevato livello di riservatezza delle comunicazioni.

    E sono pressoché quotidiani gli interventi delle forze dell’ordine che agli imbarcaderi, tanto di Messina quanto di Villa San Giovanni, bloccano corrieri, talvolta insospettabili, carichi di droga. Il ponte sullo Stretto, voluto da tanti e osteggiato da altrettanti, resta una chimera. Ma sotto il profilo criminale le due sponde di terra sembrano già ampiamente collegate. E l’ultima inchiesta ne sarebbe solo l’ulteriore prova.

    Messina “provincia babba”?

    E, allora, forse, Messina è stata bollata un po’ troppo superficialmente e frettolosamente come “provincia babba”. A pochi chilometri dal capoluogo, infatti, sorge Barcellona Pozzo di Gotto. Un centro oggi di quasi 40mila abitanti che, da anni e negli anni, è stato un crogiolo di interessi e commistioni.

    Il boss locale, Pietro Gullotti, si dice fosse assai vicino al boss catanese Nitto Santapaola. E negli scorsi anni la “creme” della città messinese finirà al centro di una serie di scandali che riguarderanno, peraltro, l’uccisione del giornalista Beppe Alfano e il suicidio del professore Adolfo Parmaliana. Proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, infatti, alcune inchieste mostreranno, almeno sotto il profilo storico, un coacervo di interessi tra politica, magistratura e criminalità organizzata, all’ombra di un circolo noto come “Corda fratres”.

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    Nitto Santapaola

    E di Barcellona Pozzo di Gotto è originario anche quell’avvocato Rosario Pio Cattafi, considerato elemento di congiunzione tra mondi occulti e la criminalità organizzata. Indagato anche nell’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, il terrorista nero Stefano Delle Chiaie, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste.

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    Già, la ‘ndrangheta. Per qualcuno, Messina sarebbe sostanzialmente una propaggine della Calabria, sotto il profilo criminale. Un locale di ‘ndrangheta distaccato. A parlarne è Gaetano Costa, capo della locale di Messina, con strettissimi legami con la ‘ndrangheta, sull’altra sponda dello Stretto. Negli anni ’90, Costa diventa collaboratore di giustizia e racconta, per esempio, della fase evolutiva che segna il passaggio dalla ‘ndrangheta basata sulle regole dello “sgarro” a una nuova formazione, quella della “Santa”.

    Ma Costa, da persona qualificata in quanto uomo forte del crimine in quei luoghi, racconta anche che tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, Messina era considerata quasi un’entità sganciata dal resto della Sicilia e, invero, una propaggine della Calabria, soprattutto sotto il profilo criminale. La città dello Stretto viene definita un “locale” di ‘ndrangheta distaccato dalla Penisola.

    L’Università di Messina e i rampolli dei clan

    E appartengono ormai all’epica della storia della ‘ndrangheta i racconti riguardanti l’Università degli Studi di Messina, soprattutto tra gli anni ’80 e ’90. Lì, con l’ormai celeberrima “pistola sul tavolo”, si sarebbero laureati i rampolli dei vecchi capibastone. E così la ‘ndrangheta si sarebbe fatta classe dirigente. Se i vecchi boss erano, infatti, semianalfabeti o quasi, le nuove leve sono diventate medici e avvocati. E, quindi, con la possibilità di occupare i posti di potere in maniera apparentemente lecita.

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    L’Università di Messina

    Parlando di don Giovanni Stilo, controverso prete di Africo, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca racconta infatti che questi, grazie alle sue influenze massoniche, avrebbe avuto importanti relazioni, sia all’interno dell’ospedale di Locri, che all’interno dell’Università di Messina.

    Grazie ai legami massonici e ‘ndranghetisti, nell’Ateneo messinese sostanzialmente le lauree sarebbero state regalate: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti» dice con chiarezza Barreca.

    La ‘ndrangheta e la massoneria

    In quanto a salotti, peraltro, Messina non ha nulla da invidiare alle più blasonate Palermo e Catania. E nemmeno alla dirimpettaia Reggio Calabria, vera capitale della masso-‘ndrangheta. Interessanti, sul punto, anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio. Pentito un tempo legato alle cosche della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ma anche massone e molto vicino al boss Rocco Molè.

    Virgiglio ha a che fare con grembiulini e cappucci già negli anni Novanta, ai tempi dell’università a Messina. Tra il 2007 e il 2008 coinvolto e condannato nell’ambito del processo “Maestro”, per i traffici della famiglia Molè nel porto di Gioia Tauro. In mezzo, però, tanta massoneria pesante.

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    L’ex presidente della AS Roma, Franco Sensi

    Già nel 1995, Virgiglio entra in contatto con l’allora presidente della Roma, Franco Sensi, oggi deceduto, ma ben inserito nei circuiti massonici: «Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni ’80. Io frequentavo l’università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nel GOI. Il tempio di Messina, che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questi ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 1992-93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di un’indagine sulla massoneria».

    La relazione della DIA

    Storia della ‘ndrangheta? Forse no. Dato che queste dinamiche vengono cristallizzate anche nell’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La DIA, infatti, dedica un intero paragrafo alla situazione di Messina e dintorni: «Il territorio provinciale costituisce il crocevia di varie matrici criminali. L’influenza di Cosa nostra palermitana e catanese con le loro peculiari caratteristiche hanno infatti contribuito a creare una realtà eterogenea», si legge.

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    Ma non solo, anche in quest’ultimo studio ufficiale sulla criminalità organizzata in Italia, il ruolo della ‘ndrangheta è preminente: «Ancora sono stati riscontrati rapporti con le vicine cosche calabresi soprattutto per l’approvvigionamento di stupefacenti. Le interazioni tra sodalizi appaiono come in passato orientate a rapporti di vicendevole convenienza, evitando scontri cruenti».

    La ‘ndrangheta a Messina per reinvestire capitali

    Il rapporto costante con la criminalità calabrese emerso dalle risultanze investigative è, per i vertici della Procura peloritana, aspetto su cui va posta la massima attenzione «dal punto di vista della prospettazione futura, avendo ragione di ritenere che la ‘ndrangheta possa in futuro utilizzare lo stesso canale individuato per gli stupefacenti anche per altri traffici, in particolare quello del reinvestimento dei capitali».

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    E tra gli allegati dell’ultima relazione è possibile leggere anche stralci dell’audizione resa proprio dal procuratore De Lucia, autore dell’ultima inchiesta riguardante le due sponde dello Stretto: «Attraverso il traffico di stupefacenti si creano degli accordi e delle convenienze comuni proprio con la ‘ndrangheta, considerato che tale traffico illecito implica una relazione costante delle organizzazioni sia della città di Messina che dell’area di Barcellona P.G. con organizzazioni ‘ndranghetiste».

    Sul punto anche il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Lorenzo Sabatino, ha dichiarato che «le principali organizzazioni mafiose messinesi si sono sviluppate subendo l’influenza sia di Cosa nostra palermitana e catanese, con cui hanno intessuto significativi rapporti criminali, sia della ‘ndrangheta calabrese, di cui alcuni gruppi, in passato, mutuarono strutture, rituali e denominazioni. Il territorio provinciale del resto, è da sempre esposto all’infiltrazione da parte dei sodalizi mafiosi delle province limitrofe e a fenomeni di cooptazione in Cosa nostra di esponenti della criminalità mafiosa locale».

  • Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

    Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

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    Misteri, ma anche sospetti: sono parole che, se si parla di massoneria, quasi sempre finiscono nella stessa frase. Ma è davvero così? Lui si schermisce. Non si considera affatto un “tuttologo” della massoneria. Ma la sua è un’opera monumentale: I Liberi Muratori – Storia Mondiale della Massoneria, edito da Laterza. John Dickie, professore all’University College di Londra, è un esperto di fama internazionale su molti temi della storia italiana. Si è dedicato molto alle dinamiche di natura mafiosa e ‘ndranghetista. Lo ha fatto con testi di rango scientifico. Ma anche con lavori televisivi, come alcuni documentari di successo trasmessi da History Channel.

    Con il suo lavoro, John Dickie mette al centro del ragionamento l’entità che più di tutte al mondo ha attirato le più arzigogolate teorie: la massoneria e i massoni. Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? Dalle Rivoluzioni alle stragi e le trame oscure della storia repubblicana: cosa c’è di vero sui massoni e cosa, invece, appartiene al mito complottista? Il docente inglese ne parla in un’intervista esclusiva a I Calabresi.

    Nel suo libro “I liberi muratori – Storia mondiale della Massoneria” ripercorre le varie epoche vissute dalla Fratellanza. Qual è la genesi della Massoneria? Quali i valori che la ispiravano nel momento della sua nascita?

    «I massoni amano rifarsi alle arti dei mestieri del medioevo inglese, e in particolare all’arte dei lavoratori in pietra. Secondo i massoni, sarebbero state queste radici della Libera muratoria come organizzazione a plasmare allo stesso tempo i loro valori fondamentali (cioè fratellanza, umiltà, solidarietà e beneficienza, pretesa di stare al di fuori della lotta politica, tolleranza religiosa, politica, sociale e etnica…) e la simbologia che sta al centro della vita delle Logge. Tant’è vero che i simboli massonici più importanti (grembiulino, squadra, compasso, ecc.) sono arnesi i quali, per la massoneria, sono ormai diventati metafore di qualità morali.

    Secondo il codice massonico, lo scopo della loro fratellanza è quello di “costruire” uomini migliori così come i lavoratori in pietra di una volta costruivano castelli e chiese. La realtà storica è, inevitabilmente, diversa rispetto a questa mitologia delle origini. L’arte dei lavoratori in pietra era, per una serie di motivi pratici, molto debole e incapace di imporsi come invece facevano l’arte dei sellai o quella degli orefici, per esempio.

    Però in due momenti storici particolarmente importanti l’élite dei lavoratori in pietra (un gruppo di professionisti che oggi chiameremmo architetti) costruisce un legame col potere politico che lentamente trasforma l’arte dei lavoratori in pietra in qualcos’altro: in un’associazione con pretese filosofiche e morali e un luogo dove uomini di diversa provenienza sociale possono riunirsi e discutere in un’atmosfera relativamente libera e egualitaria».

    Quali sono i due momenti di cui parla?

    «Il primo momento accade negli ultimissimi anni del ’500 in Scozia alla corte del re Giacomo VI. Il secondo momento accade a Londra all’inizio del ’700, quando la massoneria si stacca definitivamente da qualsiasi legame con l’edilizia e trova invece un posto all’interno delle reti d’influenza del partito Whig. Ricordo che, per gli standard di quel periodo, i Whigs e la società urbana inglese in genere manifestano forme di tolleranza religiosa e politica, e di libertà d’espressione, molto all’avanguardia rispetto al resto del continente. Vari studiosi hanno sostenuto che la massoneria aveva un ruolo importante come “palestra” della vita politica e istituzionale delle società moderne».

    In Inghilterra, suo Paese, com’è vista l’appartenenza massonica? Quali sono gli snodi più importanti della storia mondiale in cui la Massoneria ha avuto un ruolo centrale?

    «Da Londra, a partire degli anni ’20 del ’700, la Massoneria si diffonde molto velocemente nel resto del mondo, grazie al commercio e all’Impero. Infatti, è con il suo contributo all’imperialismo che la Massoneria forse ha la sua più grande influenza nella costruzione del mondo contemporaneo. Per i soldati, i mercanti, gli amministratori dell’Impero britannico che si muovono tra Calcutta e Città del Capo, tra il Canada e l’Australia, la massoneria offre una specie di welfare internazionale, una banca di contatti, e una vita sociale già bell’e pronta all’arrivo in qualsiasi angolo lontano dei territori britannici.

    E tutto aiuta naturalmente a legittimare ideologicamente la conquista e lo sfruttamento di altri popoli. Detto in parole povere, il codice massonico della tolleranza si presta a diffondere l’idea che gli inglesi costruiscono l’impero non per motivi di avidità, ma per portare la luce della civiltà ai “luoghi oscuri del mondo” (per usare la frase del vate dell’imperialismo di fine Ottocento, Rudyard Kipling, un massone)».

    Lo scrittore britannico Rudyard Kipling

    Nota differenze particolari con l’Italia?

    Per quanto riguarda l’immagine della massoneria in tempi più recenti, un po’ come in Italia con la storia della Loggia P2, in Gran Bretagna gli anni ’80 del ventesimo secolo vedono degli scandali che danneggiano moltissimo l’immagine della Massoneria. Nel nostro caso sono casi di corruzione nella polizia dove vengono chiamati in causa i massoni. Nella mente di persone della mia generazione, la massoneria è rimasta quella invischiata negli scandali di 40 anni fa: una lobby piuttosto squallida, dunque.

    La differenza rispetto all’Italia, dove lo scandalo della P2 dava veramente motivi di preoccupazione, è che questa immagine di una massoneria centro di influenze clientelistiche è, nel caso inglese, uno stereotipo, una memoria collettiva fallace. Molto anni dopo gli scandali, alle fine degli anni ’90, l’inchiesta parlamentare incaricata di analizzare in profondità i legami tra massoneria e corruzione pubblica un rapporto che essenzialmente scagiona le logge e completamente ridimensiona il quadro che avevamo della loro influenza. Emblematico il caso del poliziotto massone che aveva giocato un ruolo eroico nello scoperchiare la corruzione della polizia della City di Londra. E si trattava di forme di corruzione molto serie: legami con violentissimi rapinatori in banca, per esempio.

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    Licio Gelli è stato il capo della P2

    In Gran Bretagna la massoneria ha preso atto dei problemi di immagine che sono l’eredità degli anni ’80. C’è stata una specie di Glasnost massonica, per esempio, con l’apertura degli archivi a storici non massoni come me. Ma cambiare le percezioni del pubblico è un lavoro lungo e difficile, soprattutto quando la Massoneria è in declino».

    Molto spesso, anche in questi due anni di pandemia, quando il cittadino medio non sa spiegarsi qualcosa, tira in ballo la Massoneria e presunti piani di controllo internazionali. Si tratta di teorie complottistiche destituite di fondamento? 

    «Assolutamente sì. So per esperienza che è quasi inutile cercare di convincere un complottista a cambiare idea, ma proviamoci ragionando in base alla natura stessa della massoneria. Innanzitutto, la Massoneria in quanto tale non esiste a livello nazionale in molti casi, figuriamoci a livello internazionale. Sin dal ’700 la storia della massoneria è caratterizzata da scissioni e da una diversificazione di tradizioni e obbedienze. Non c’è nessun franchising mondiale. I massoni hanno perso il controllo del proprio “marchio” secoli fa. Oggi come oggi è facile per un gruppo qualsiasi di chiamarsi massoni e mettere su una loggia, scopiazzando i riti e i simboli da Internet. Il risultato è un mondo quasi ingovernabile.

    Persino nelle tradizioni più autorevoli, come il Grande Oriente d’Italia o la United Grand Lodge of England, le singole logge hanno molta autonomia. E i singoli massoni vivono la propria appartenenza alla fratellanza in modi molto molto diversi. Chi copre una carica alta all’interno della Massoneria tende a non essere una persona con molta influenza nel mondo esterno, per il semplice motivo che immergersi in questa vita porta via un sacco di tempo in riti, amministrazione, diplomazia interna, ecc. Chi invoca “la massoneria” senza distinguo, non fa che dimostrare la propria ignoranza. Altro che complotto internazionale.

    “I Liberi Muratori”, un libro di John Dickie

    Però il legame tra massoneria e miti complottistici non è casuale. Infatti, possiamo rintracciare le origini del complottismo contemporaneo agli anni immediatamente dopo la Rivoluzione francese. Per l’Europa conservatrice, e soprattutto per la Chiesa cattolica, la Rivoluzione francese rappresenta un trauma collettivo di dimensioni inaudite. Come spiegare una catastrofe del genere? A chi dare la colpa? Come orientarsi quando sono saltati tutti gli schemi dell’antico regime? Nel 1797 un prete francese in esilio a Londra, l’abbé Augustin de Barruel, scrive un libro che fornisce la risposta che tutti cercano: la Rivoluzione francese è il risultato di un complotto dei Massoni, ispirati dal demonio. Questo mito del complotto diventerà presto l’ideologia della Chiesa cattolica per gran parte dell’Ottocento, e poi la matrice di tutti i complottismi dei nostri tempi».

    C’è stata, negli anni e nelle epoche, una degenerazione?

    «No. La massoneria è un fenomeno globale, vecchio 300 anni, che si manifesta in forme diverse a seconda del contesto e del momento storico. La massoneria si è prestata alle attività di statisti e rivoluzionari, imperialisti e lottatori per la liberazione, razzisti e umanitari, poliziotti e delinquenti, fanatici religiosi e razionalisti… Questa diversità rende estremamente interessante la storia della massoneria. Non mi sono mai divertito così tanto a scrivere un libro! E questa straordinaria diversità del fenomeno non si può riassumere in un’unica parabola di degenerazione.

    Il fattore dell’affarismo— ed è a questo che si vuole far riferimento quando si parla di una degenerazione attraverso il tempo — c’è stato sin dall’inizio. L’età d’oro della massoneria, l’età della purezza dei valori massonici, non è mai esistita. Ma dall’altra parte, anche in tempi più recenti, l’affarismo rappresenta soltanto una dimensione della lunga storia della Libera muratoria. E nemmeno, a mio avviso, la dimensione più interessante».

    In generale, c’è secondo lei un ambiente o un settore, tra quello politico, militare, economico in cui, nell’attualità che viviamo, l’appartenenza massonica, ha un ruolo preminente?

    «Dipende da dove ci troviamo nel mondo. In molti paesi oggi la maggioranza dei Massoni è composta di pensionati. La massoneria ha sempre avuto un legame molto forte con la vita militare: gli ex militari nella Massoneria sono tanti. Penso che sia perché la massoneria sostituisce alcuni aspetti della vita collettiva nelle caserme e offre una rete di sostegno per chi cerca di fare il difficile viaggio di ritorno al mondo dei civili.

    Al prezzo di generalizzare moltissimo, si potrebbe dire che la massoneria è un fenomeno delle classi medie. Però sarebbe un lavoro molto complicato fare una sociologia dell’appartenenza massonica anche in una sola realtà come quella italiana. In Italia ho visto molti professionisti. Ma le due obbedienze maggiori sono diverse: nella Gran Loggia d’Italia ci sono le donne, per esempio, e nel Grande Oriente no. E poi, ripeto, ogni loggia avrà le proprie caratteristiche».

    In questo momento, tutto il mondo parla della Russia. La massoneria ebbe un ruolo nella Rivoluzione russa, come alcune fonti sostengono?

    «No. Espresso in questi termini, si tratta dell’ennesimo mito del complotto. Lo Zar Alessandro I aveva messo a bando la Massoneria nel 1822, e dopo la Rivoluzione russa anche lo Stato sovietico la vieta. Poco spazio di manovra, dunque, per chi cerca una spiegazione della Rivoluzione russa chiamando in scena le eterne manovre dei fratelli in grembiulino. Non sono per niente un esperto di storia russa, ma nessuna delle analisi scientifiche che ho letto attribuisce importanza al fattore massonico nella Rivoluzione russa.

    Lo stesso vale anche per la Rivoluzione francese, l’Unità d’Italia, la Rivoluzione americana, il palleggio di responsabilità dopo l’affondamento del Titanic, ecc. ecc. In casi simili, la tesi secondo la quale l’influenza massonica è stata decisiva si sente soltanto da sedicenti esperti di massoneria che tendono a vedere la storia attraverso il buco della serratura delle proprie ossessioni».

    Veniamo all’attualità, ma sempre pensando alla storia. Nel suo libro parla anche dell’atteggiamento avuto, negli anni della Guerra Fredda dall’Unione Sovietica nei confronti della Massoneria. Cosa può dirci sul rapporto attuale tra la Russia e la Fratellanza?

    «Il mio libro copre 400 anni di storia, e episodi affascinanti dalla storia di paesi quali la Gran Bretagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’India, il Sudafrica, la Francia, la Spagna, la Germania, l’Australia…. Ma non è un’enciclopedia mondiale della massoneria, e averlo scritto non mi autorizza a dichiararmi un tuttologo in materia di massoneria. Quello che so è che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della messa a bando sovietica, la massoneria è rinata ma ha avuto una vita molto difficile in tutto l’ex Impero URSS, tra sospetti dello Stato e pregiudizi popolari».

    Lei conosce molto bene la Calabria. E nel suo ampio excursus letterario c’è una parte molto dettagliata che riguarda i rapporti tra la massoneria e la criminalità organizzata. Che idea si è fatto sui legami tra la ‘ndrangheta e la Fratellanza, che da più parti vengono indicati come il vero punto di forza delle cosche? 

    «Mi sono concentrato sul processo Gotha. Sono carte molto importanti che anche tu conosci molto bene. Da anni si parlava di un livello “massonico” del potere della ’ndrangheta. Giravano testimonianze preoccupanti, anche di pentiti e di massoni importanti, alcune dirette, ma molte per sentito dire, e spesso contraddittorie l’una con l’altra. Parlavano di una profonda penetrazione della ’ndrangheta all’interno delle logge del Grande Oriente. O di un controllo della ’ndrangheta da parte di elementi massonici. O di logge corrotte, logge deviate, logge coperte. Parlavano di una rete nazionale, o di una concentrazione del fenomeno nella Piana di Gioia Tauro, o sulla Ionica, e via di seguito. Una enorme confusione, insomma, su cui era doveroso fare luce, compito che il processo Gotha si è assunto.

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    I giudici del processo Gotha durante l’udienza

    E alla fine, almeno secondo le sentenze più recenti, la luce c’è. Ed è una luce abbastanza deludente per i complottisti della situazione. Quello che il processo ha scoperto è un nuovo organo di controllo politico-affaristico della ’ndrangheta, a cui gli ’ndranghetisti stessi fanno riferimento usando diversi nomi: per esempio, “gli Invisibili” o “la Massoneria”. Ma è importante capire che si tratta di una metafora: gli Invisibili non sono letteralmente massoni, la ’ndrangheta non è letteralmente sotto il controllo della massoneria.

    Come ha dichiarato pubblicamente il dottor Giuseppe Lombardo, magistrato da anni coinvolto in questa materia, nel corso di un dibattito con me al festival Trame a Lamezia: “Il rapporto tra la ‘ndrangheta non è un rapporto tra la componente mafiosa e la componente massonica regolare o universalmente conosciuta. Nel momento in cui si parla di componenti massoniche in contatto con le organizzazioni mafiose si parla di componenti che vivono di logiche massoniche, ma non possiamo assolutamente in alcun modo pensare che le massonerie siano un sistema che entra a far parte delle organizzazioni di tipo mafioso. Questo è grave e fuorviante. Non serve al contrasto alle mafie”. Se un problema all’interno del mondo massonico c’è, sempre secondo Lombardo, è con alcune logge irregolari o fasulle, cioè non appartenenti alle tradizioni massoniche maggiori.

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    Il magistrato Giuseppe Lombardo

    Quindi non c’è alcun legame specifico tra le due organizzazioni?

    Io esprimerei il problema in un altro modo. Le logge massoniche sono pezzi di società come gli altri, e come tali hanno i loro specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di rapportarsi col potere della ’ndrangheta. Hanno risorse, umane e culturali soprattutto, che possono far gola alla ’ndrangheta, come ce l’hanno le altre associazioni culturali e religiose calabresi. In una situazione del genere, bisogna seguire le prove, i casi singoli, e non fare di tutta l’erba un fascio.

    Gli intellettuali socialisti dell’inizio del ventesimo secolo usavano dire che “l’antisemitismo è il socialismo dei cretini”. Cioè prendersela con “l’Ebreo” in nome della lotta al capitale era pericoloso e fuorviante. Noi dobbiamo stare attenti a non fare un errore analogo. L’antimassonismo è l’antimafia dei cretini, e prendersela con “la massoneria” nel nome della lotta alla mafia o al malaffare, è pericoloso e fuorviante. Rischia di mettere la lotta alla mafia in mano al populista di turno, che non cerca altro che un capro espiatorio, ruolo svolto dalla massoneria già in molti altri contesti storici».

    In generale, crede che l’aura oscura che avvolge la massoneria, forse soprattutto in Italia, sia frutto dell’esperienza della P2 e che, quindi, si guardi alla massoneria con eccessivo allarmismo?

    Direi di sì. Ma ripeto, si fa presto a dire “massoneria” come se fosse un tutt’uno. Aggiungerei che trovo poco rassicurante l’atteggiamento della leadership del Grande Oriente. Il rifiuto di esaminare seriamente le proprie responsabilità nella vicenda P2. Il rifiuto di prendere sul serio il rischio di infiltrazioni mafiose o corruttive. La tendenza di lanciare accuse di pregiudizio antimassonico ogni volta che il tema della mafia viene sollevato. Tra antimafia e massoneria vedo solo un dialogo tra sordi, quando invece potrebbero avere molto da imparare l’una dall’altra.

    In conclusione, chi sono i massoni oggi?

    «Mi rifiuto di generalizzare. Ma ai non massoni come me darei un consiglio. Non vedere nei massoni degli affaristi e dei dissimulatori a prescindere. Parlateci».

     

  • Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

    Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

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    Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini, un giovane sub dilettante romano, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina e rinvenne a 8 metri di profondità le statue dei due guerrieri che sarebbero diventate famose come i Bronzi di Riace. Pochi mesi, quindi, e sarà il giorno del cinquantennale dello storico, incredibile, ritrovamento.

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    Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa

    I Bronzi di Riace, capolavori unici

    Storico, incredibile. Due aggettivi utilizzati non per sensazionalismo. Né per essere didascalici. Ma l’impressione data dalle Istituzioni – da sempre – è quella della colpevole sottovalutazione del valore dei due guerrieri, esposti da anni all’interno del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Dei Bronzi di Riace ci si ricorda raramente. Per spiattellarli qua e là in qualche cartellone aeroportuale. Oppure per il flyer o il trailer di (spesso poco riusciti) spot divulgativi delle bellezze del territorio.

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    I Bronzi protagonisti di uno spot della Regione di qualche anno fa

    Anche sul sito ufficiale del Museo, un’immagine di una delle due statue. Ma nemmeno un accenno alla ricorrenza che cade nel 2022. In qualunque parte del mondo fossero stati ritrovati e fossero esposti, sarebbero diventati un brand riconoscibile. Come il Colosseo per i romani. Come le Piramidi per l’Egitto. O, magari, come l’Acropoli di Atene.

    Il libro dei sogni delle Istituzioni

    E, invece, i Bronzi sono lì. Forse non valorizzati come si dovrebbe.  L’entrata al Museo è a pagamento: 8 Euro il biglietto intero, 3 Euro il biglietto ridotto per i visitatori dai 18 ai 25 anni. I visitatori di età inferiore ai 18 anni entrano gratuitamente. Mercoledì: 6 Euro il biglietto intero e 4 Euro quello ridotto.

    La Regione, ma anche il Comune di Reggio Calabria e il Museo Archeologico avevano promesso iniziative e celebrazioni speciali che andassero oltre la commemorazione del ritrovamento nelle acque del Mar Ionio. La stessa Regione Calabria ha annunciato, appena pochi giorni fa, lo stanziamento di 3 milioni di euro. Senza, tuttavia, specificare per quali attività.

    La presentazione (a Paestum) del logo, già oggetto di critiche, per l’anniversario del ritrovamento

    Anche i lavori del Comitato di coordinamento interistituzionale e il gruppo di lavoro per il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace istituito dalla Cittadella non sembrano aver sortito granché.

    Il grande assente

    La vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi, che ha anche la delega alla Cultura, ha l’obiettivo di «far arrivare a tutto il mondo un messaggio positivo della Calabria». Ma l’impressione è che, fin qui, si stia preparando un evento che dovrebbe essere di portata mondiale, come se si stesse organizzando una sagra.

    Anche nel leggere la composizione del Comitato – in Calabria i comitati e i tavoli tecnici non mancano mai – spicca l’assenza del Ministero della Cultura. O, meglio, una presenza molto marginale. Peraltro comparsa solo all’ultimo momento, quindi non già nelle fasi prodromiche all’insediamento. Nel corso della prima riunione, non solo non ha partecipato il Ministro competente, Dario Franceschini. Ma nemmeno un viceministro o un sottosegretario.

    Il comunicato ufficiale menziona solo un delegato. Forse troppo poco per un patrimonio come quello rappresentato dai Bronzi di Riace: «Ne nascerà a breve un programma collettivo, unitario, un unico brand con logo condiviso e comunicazione congiunta», è scritto nel comunicato ufficiale.

    Bronzi di Riace, 50 anni in sordina

    A meno di cinque mesi dall’anniversario, quindi, non esiste nemmeno una bozza di programma delle attività. Che, peraltro, avrebbero potuto coinvolgere anche altre città. Proprio per incentivare quel turismo che, nel politichese più stantio, è da sempre considerato un “volano di sviluppo”.

    E, invece, a Reggio Calabria non si vede alcun simbolo che possa far presagire un anno così particolare. Né la città percepisce l’aria che precede una grande festa, come un evento culturale del genere dovrebbe innescare. Addirittura, probabilmente, in pochi, esclusi gli addetti ai lavori, se interrogati potrebbero dimostrarsi informati circa la storicità di questo 2022.

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    Il monumento a Giuseppe De Nava nell’omonima piazza di Reggio Calabria (foto Aldo Fiorenza, fonte Wikipedia)

    Sembra appassionare di più la disputa, arrivata anche in consiglio comunale, sui lavori di Piazza De Nava, immediatamente antistante al Museo. Eternamente discussi, ma mai iniziati. E, infine, proprio nell’ultimo consiglio comunale aperto, la mozione approvata all’unanimità per «richiedere che l’inizio dei lavori per la riqualificazione dell’area di Piazza De Nava sia posticipato all’anno 2023 al fine di rendere fruibile la stessa area a tutto il 2022 per le celebrazioni del cinquantesimo anno del ritrovamento dei Bronzi di Riace».

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    Cannizzaro e Princi

    Proprio nel giorno dell’insediamento del Comitato voluto dalla vicepresidente Princi, il deputato di Forza Italia, l’onnipresente Francesco Cannizzaro (che della Princi è cugino e, secondo le malelingue, dante causa) ha annunciato, in pompa magna, di aver incontrato il ministro Franceschini. Non per parlare dei Bronzi. Né delle tante tematiche delicate che riguardano il Museo e il patrimonio archeologico. Ma di Piazza De Nava. Per perorare, la causa degli «oppositori più fermi al progetto così come è stato pensato e approvato dalla Soprintendenza», riporta il comunicato di Cannizzaro.

    I problemi del Museo di Reggio Calabria

    A proposito del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Anche nella “casa” dei Bronzi, si respira tutto tranne che un’aria di festa. Qualche tempo fa, il professor Daniele Castrizio, uno dei maggiori esperti sui Bronzi di Riace, autore di alcune ipotesi identificative delle due statue tenute in grande considerazione, ha anche rivelato, nel corso di un webinar, il clima che si respira all’interno del Museo: «Il direttore non mi saluta da novembre». Salvo poi chiarire, nelle ore successive allo scoppio della bufera: «Grazie alla amicizia e alla stima reciproca che ci lega, stiamo cercando, insieme, di trovare soluzioni comuni a problemi e di contribuire in armonia a portare avanti le iniziative relative ai Bronzi».

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    Daniele Castrizio

    Proprio nelle ultime ore, lo stesso direttore Carmelo Malacrino, che aveva esultato per il finanziamento di 3 milioni annunciato dalla Regione, ha affermato: «Il Museo soffre di una drammatica carenza di personale, al punto da rendere difficile, se non impossibile, la normale gestione e programmazione delle varie attività. Complice il mancato turn over e alcuni distacchi presso altre sedi, da anni stiamo lavorando in regime estremamente ridotto e con affanno. Ormai siamo arrivati a soltanto un terzo del personale previsto in pianta organica, poco più di 30 unità su 95». E poi, il monito: «Con tale carenza di personale, però, in alcune giornate potrebbe diventare necessario chiudere al pubblico alcune sale». Lo stesso problema avuto a Sibari con un altro tesoro archeologico calabrese, insomma.

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    Carmelo Malacrino

    Il profetico Giorgio Bassani

    Insomma, la “casa” dei Bronzi di Riace non sembra neanche lontanamente pronta ad ospitare gli eventi per il cinquantennale del ritrovamento delle due statue. Anche se, c’è da dire, con i preparativi fin qui non di certo in pompa magna, sarà difficile prevedere folle oceaniche.  Perché il senso dei calabresi per i Bronzi è proprio questo. Lasciarli lì, al sicuro. E indignarsi solo quando, ciclicamente, qualcuno vorrebbe spostarli, renderli itineranti.

    Sul punto risuonano, a distanza di oltre 40 anni, le parole pronunciate nel 1981 da Giorgio Bassani, per anni presidente di Italia Nostra, uno degli intellettuali che maggiormente si è battuto per la tutela del patrimonio artistico nazionale: «I Bronzi di Riace non sono il prodotto di un’opera d’artigianato sia pure sommo, bensì autentici fatti d’arte, di poesia e, come tali, unici e irripetibili». E si schierò contro una delle tante ipotesi di trasferimento dei Bronzi (in quel caso, in America), rivendicando che tali opere debbano rimanere lì, ferme, ad attendere i visitatori come in un pellegrinaggio: «La poesia dev’essere considerata un fatto religioso, perché lo è».

  • Donne e ‘ndrine: ribelli, vittime… ma anche boss

    Donne e ‘ndrine: ribelli, vittime… ma anche boss

    Capimafia, a volte anche più spietate e sanguinarie degli uomini. Vestali di tradizioni da tramandare, di una famiglia preservare, di un “buon nome” da conservare. Ma, assai più spesso, schegge impazzite, capaci di sciogliere quel cappio che il familismo amorale della ‘ndrangheta mette al collo degli affiliati. Per dare un futuro migliore a se stesse e ai propri figli. Sono le donne della ‘ndrangheta.

    Il ruolo delle donne

    Forse più che di “ruolo”, si dovrebbe parlare quasi di “funzione”. Le donne possono preservare o minare l’unitarietà del nucleo familiare. Il che, in un sistema come quello ‘ndranghetista, è qualcosa di fondamentale. Hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e, a volte, aizzano anche alle guerre contro i clan rivali. «Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto» scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ne La malapianta.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Non c’è codice che tenga: «La ‘ndrangheta non ha mai guardato in faccia nessuno. Ma quando qualcuno ammazza una donna, non può pensare di sfuggire alla vendetta. Deve aspettarsi una reazione forte e rabbiosa», aggiungono nel loro libro.

    Le alleanze

    Una scelta consapevole e strategica delle ‘ndrangheta di allargare le proprie forze utilizzando le donne della propria famiglia, che vanno in matrimonio a uomini di un’altra ‘ndrina che così verrà cooptata entro l’orbita familiare del capobastone. Questo tipo di matrimoni aveva la forza di dare vita a un complesso mosaico di parentele caratterizzato da un intricato intreccio familiare, che è visibile un po’ dappertutto, ma che appare più evidente nei medi e nei piccoli comuni.

    Una struttura, quella delle famiglie di ‘ndrangheta, che, però, non ha comunque intaccato l’importanza della ritualità, che, anche tra parenti, ha continuato, infatti, a rivestire un valore cruciale in seno all’organizzazione: «Non deve sorprendere l’uso dei riti formali tra parenti, perché le cerimonie mafiose, alle quali partecipano anche membri che non sono parenti stretti del capobastone, hanno un alto valore simbolico e di suggestione […] per riconoscersi, per affermare e riaffermare gerarchie e supremazie«, afferma Enzo Ciconte nel suo libro ‘Ndrangheta.  Si creano così le alleanze.

    Le donne boss

    Dice ancora Ciconte: «Le donne hanno un ruolo centrale in questa realtà familiare non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella cura complessiva della famiglia, compresa la gestione diretta degli affari quando il marito è impossibilitato perché arrestato o limitato perché latitante, hanno via via ricoperto ruoli rilevanti».

    In un sistema patriarcale come quello delle cosche di ‘ndrangheta, peraltro, non mancano le donne che ricoprono ruoli apicali. Nelle inchieste portate avanti dalle varie Dda sono emerse, in diverse occasioni, donne che svolgevano il ruolo di cassiere o, addirittura, di vertice (magari temporaneo) del clan. «Il concetto delle donne, nella ‘ndrangheta, si intreccia, irrimediabilmente, con quello dell’onore e del potere che “è innanzitutto riposto nella inalienabilità dei beni che egli è riuscito a procurarsi o che gli derivano da fonti naturali. Al primo posto è la donna: moglie, figlia, sorella, madre, amante», come sostiene Sharo Gambino in La mafia in Calabria.

    Il caso di Aurora Spanò

    Un’inchiesta di alcuni anni fa fece emergere la figura predominante di una donna a capo della costola operante a San Ferdinando del potente casato dei Bellocco che, da sempre, divide con i Pesce il controllo su Rosarno. «Era lei che dirigeva e assumeva iniziative perché il gruppo si radicasse ancor di più nel territorio, assumendone un controllo capillare e costruendo con l’illegalità un impero, per usare le sue stesse parole» è scritto nelle motivazioni che hanno portato alla dura condanna nei confronti di Aurora Spanò per associazione mafiosa.

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    Aurora Spanò

    Una donna capace di terrorizzare chi si imbatteva sulla propria strada, di vessare con tassi usurai e richieste impossibili da essere soddisfatte. Proprio lei, sposata appunto con Giulio Bellocco, che, sebbene in secondo piano, “metteva il cappello” sull’operato della compagna: «La Spanò ne è pienamente consapevole: è l’apparentamento con i Bellocco, cui appartiene il compagno della sua vita, a fare di lei agli occhi della comunità non una “semplice” usuraia, ma la boss» è scritto ancora nelle carte giudiziarie.

    Il sacrificio di Lea Garofalo

    Se, da un canto, sono la conservazione, dall’altro, le donne di ‘ndrangheta sono anche la rivoluzione. Il caso più famoso ed emblematico, nella sua tragicità, è evidentemente quello di Lea Garofalo. Originaria di Petilia Policastro, nel Crotonese, verrà fatta scomparire e uccisa in Brianza. Pagherà la sua scelta di dare un futuro diverso per sé e per la figlia Denise. Sottoposta a protezione dal 2002, decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Pagando forse a caro prezzo anche l’incapacità dello Stato di difenderla da un ambiente familiare che aveva dato più avvisaglie del proposito finale sulla donna.

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    Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola

    Perché se i figli sono spesso la molla che spinge le donne a distaccarsi dagli ambienti malavitosi, spesso i figli sono anche l’arma di ricatto che il contesto familiare utilizza per riportare all’interno dei ranghi chi aveva deciso di cambiare vita.

    È il caso di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola. La prima, figlia del boss Salvatore Pesce, coinvolta nell’operazione “All inside”, con cui i carabinieri decapitarono il potente casato di ‘ndrangheta. La Pesce firma diversi verbali d’interrogatorio e le sue dichiarazioni contribuiscono al sequestro di ingenti patrimoni nei confronti del clan di Rosarno. Ma poi si rifiuta di firmare il verbale finale che i collaboratori di giustizia devono sottoscrivere dopo 180 giorni.

    Giuseppina Pesce

    Inizierà una lunga e torbida vicenda in cui avranno un ruolo anche avvocati e stampa: l’obiettivo è quello di disinnescare la portata delle sue dichiarazioni, accusando anche i magistrati di averle estorte, e di riportare Giuseppina in seno alla famiglia. Le trame vengono però scoperte e Giuseppina riesce a salvarsi.

    Una lieto fine di cui non potrà godere la cugina Maria Concetta Cacciola. Anche lei, questa volta in qualità di testimone di giustizia, tenta di salvare i propri figli e incastra i clan di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro con le sue dichiarazioni. Usando il ricatto di sottrarle i piccoli, però, la famiglia riesce a riportarla nella casa rosarnese, da cui non uscirà più. Verrà trovata morta per ingestione di acido muriatico. E per le sue ritrattazioni, per la campagna di stampa colma di falsità e illazioni sul suo conto, saranno anche condannati definitivamente i due avvocati del clan.

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    Maria Concetta Cacciola

    Le altre donne ribelli

    Spesso viste come l’anello debole della catena, le donne sono spesso quello più forte. Perché lo spezzano. E c’è chi riesce a spezzare le catene (talvolta, forse, anche materiali) che le legano alla ‘ndrangheta. Chi non fa in tempo. Chi viene risucchiata nel vortice. Le impedivano di uscire, la minacciavano di morte, le addossavano persino la responsabilità del suicidio del marito. La parola “prigioniera” suona quasi in maniera dolce rispetto alle violenze e ai soprusi subiti da Giuseppina Multari ad opera della famiglia Cacciola di Rosarno. Prima dal coniuge e poi, dopo il suicidio di questi, ancor più duri, ritenendola responsabile di quella morte.

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    Tita Buccafusca

    La giovane donna riuscirà a salvarsi dall’orrenda fine che spetterà, diversi anni dopo, a Maria Concetta Cacciola. O quella riservata a Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, boss dello storico casato di Limbadi, nel Vibonese. Decide di staccarsi da quel contesto di ‘ndrangheta, di collaborare con la giustizia. Ma, anche in questo caso, forse, la ‘ndrangheta è stata più veloce dello Stato, incapace di difendere una testimone di giustizia. Per fermare la volontà della donna si mobilita infatti l’intero casato: stessa fine, l’ingestione di acido muriatico. È la primavera del 2011, quando lo stesso marito, Pantaleone Mancuso, avvisa i carabinieri del ritrovamento della donna morta, con quelle stesse modalità.

    La simbologia

    Un rituale che si ripete. La morte per ingestione di acido muriatico è atroce per le modalità e le sofferenze che causa nelle vittime. Ma assume un significato inquietante che va oltre la morte stessa. Prima di morire, le vittime sono isolate, ricattate, delegittimate. Il cliché si è confermato tanto con Giuseppina Pesce, quanto con Maria Concetta Cacciola: farle passare per pazze, in modo tale da rendere inattendibili le loro dichiarazioni. Che invece erano dannosissime per la ‘ndrangheta: sia per i contenuti, sia per la portata simbolica.

    E allora le donne vanno soppresse con modalità che vanno oltre l’uccisione stessa. Anche inscenando un suicidio. In alcuni casi, come nel caso di Maria Concetta Cacciola, c’è una sentenza (senza colpevoli) che certifica che la giovane sia stata uccisa. E l’acido muriatico che brucia la gola ha il significato di voler mettere a tacere, di voler punire la bocca di chi ha parlato troppo. 

    Troppo ottimista, forse, l’affermazione formulata, diversi anni, fa, nel 1978, da Lucio Villari, rispondendo alle domande di Antonio Spinosa sul ruolo di rinascita che le donne potrebbero avere nella lotta alla ‘ndrangheta e ai suoi (falsi) valori: «Il nuovo ruolo della donna ha grande influenza nel provocare l’impoverimento del fenomeno mafioso. Il mafioso è un personaggio legato a schemi tradizionali della famiglia, ai miti maschilisti. Le donne calabresi si sono molto evolute, è anche attraverso loro che si scuotono tanti atteggiamenti mafiosi».

  • ‘Ndrangheta e mafia russa: così lontane, così vicine

    ‘Ndrangheta e mafia russa: così lontane, così vicine

    I missili della Russia illuminano i cieli di Kiev e di altre città dell’Ucraina. Ma è un attimo. Un lampo. Subito dopo, il cielo si scurisce, la coltre di fumo si alza. Tutto torna grigio, nebuloso. Come tutto ciò che riguarda gli affari del mondo dell’Est. Quantità infinite di rubli, messi insieme da criminali e faccendieri. Dagli oligarchi divenuti bersaglio delle sanzioni comminate da USA ed Europa. Ma anche dalle mafie italiane. Dalla ‘ndrangheta soprattutto.

    La criminalità dell’Est in Italia

    La mafia russa, ma anche quella ucraina, fanno affari nell’Europa da tempo. E, quindi, anche in Italia. Ambienti chiusi, gerarchici, come da tradizione del blocco comunista. Su cui, quindi, non è semplice indagare. Ma i report investigativi sono chiari da tempo. Su quelle barche, che sfidano le onde per un approdo in Italia vi sono quasi sempre uomini, donne e bambine di origine pakistana, curda, irachena, iraniana e siriana. Ma gli scafisti, i mercanti di persone, sono, sempre più spesso, di nazionalità russa e ucraina. Vengono poi quasi sempre incastrati dalle testimonianze dei profughi, una volta giunti a riva o soccorsi in mare.

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    Una barca utilizzata per la tratta dei migranti arenata su una spiaggia della Locride

    Ma non è solo questo. Le mafie dell’Est – e soprattutto quella russa – si muovono già da tempo come una holding. Anche nel cuore dell’Europa occidentale. Anche in Italia. L’ultima relazione semestrale della DIA mette nero su bianco questo: “La criminalità proveniente dall’Europa dell’Est, con le caratteristiche evidenti delle organizzazioni mafiose, ha fatto delle attività di riciclaggio attraverso società off shore, con sede nei Paesi Baltici, Malta, Cipro o nella stessa Federazione Russa il suo canale d’affari principale, mostrando, allo stesso tempo, una spiccata vocazione sia imprenditoriale che delinquenziale”.

    La ‘ndrangheta e la mafia russa

    Dagli anni ’90 la ‘ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi. Ma non solo. L’indagine “Export” del luglio 2007 condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi ha consentito il sequestro, nell’area portuale, di 135 containers carichi di rifiuti di diversa specie e qualità diretti in Cina, India, Russia ed alcune nazioni del Nord Africa. Per quanto concerne la partenza e l’arrivo di materiale illecito in affari (anche) con la Russia appare evidente che uno snodo cruciale sia rappresentato dal porto di Gioia Tauro. Da sempre la porta principale per l’ingresso di merce illecita in Occidente.

    Il porto di Gioia Tauro

    C’è una sentenza a dimostrarlo. È quella del procedimento “Maestro”, arrivato a una pronuncia definitiva alcuni anni fa. Quell’inchiesta, condotta dalla Dda di Reggio Calabria, dimostrò come la potente cosca Molè di Gioia Tauro fosse egemone sui traffici di merce contraffatta nello scalo. Emerse la figura dell’imprenditore, faccendiere e massone Cosimo Virgiglio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia, rendendo dichiarazioni sui legami tra cosche, cappucci e compassi.

    Cosimo Virgiglio

    In una conversazione intercettata è proprio Virgiglio a parlare. Insieme a quel Pino Speranza che poi, nei racconti del pentito, verrà indicato come un elemento di congiunzione tra le cosche di Gioia Tauro e il mondo della massoneria deviata. Ma c’è un terzo interlocutore, Antonio Filippone, nato a Canolo, nella Locride, con vari precedenti penali per detenzione di armi, associazione a delinquere e ricettazione. Opera nel settore del commercio all’ingrosso di materiale edile e ceramico. Ed è fratello di Salvatore Filippone, già condannato per appartenenza alla ‘ndrangheta nello storico processo “Tirreno”.

    Affari coi rubli

    Non solo. Un’indagine della Procura di Locri di alcuni anni fa – denominata “Europa 1” avrebbe ricostruito il ruolo di Filippone in operazioni riguardanti la compravendita di rubli, dinari argentini, marchi tedeschi, ma anche in trattative riguardanti importanti aziende e strutture economiche nell’ex Unione Sovietica. Anche una banca a Leningrado. Come scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in “Fratelli di sangue”, il loro primo successo editoriale: “Con la complicità di ‘nomi’ sparsi in ovattati istituti di credito svizzeri, lussemburghesi e austriaci, tramite banche del calibro del Crédit Lyonnaise e della Deutsche Bank aveva architettato di comprare catene di alberghi, casinò e piccole agenzie bancarie di Mosca. Addirittura a Leningrado aveva in mente di comprare un’acciaieria, una banca e un’industria chimica”.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Le conversazioni sono captate all’interno dell’albergo di lusso “Villa Vecchia”, a Monte Porzio Catone, che sarebbe stato nella disponibilità della cosca Molè. I tre parlano di qualcosa di illecito relativo alle importazioni. Ed è qui che arriva la frase di Filippone, che fa proprio riferimento al fratello già condannato per ‘ndrangheta:«Filippone sa tutti i cazzi del mondo, c’è mio fratello che è ancora più meticoloso… Russia, Cina e altre parti…». Cosa che, peraltro, conferma quanto sostenuto ancora da Gratteri e Nicaso: “Contava agganci potenti fino all’entourage del ministro della difesa russo. Per realizzare il suo mega progetto era riuscito a rastrellare in una banca tedesca rubli per 2.600 miliardi di lire”.

    Il riciclaggio

    Non si tratta, quindi, solo di affari da ‘ndrangheta militare: droga, armi, rifiuti. Ma di un business molto più raffinato. Sono, soprattutto, le cosche della Piana di Gioia Tauro ad aver guardato sempre con grande interesse all’Est. E alla Russia, in particolare. In un’inchiesta di qualche anno fa sulla potente cosca Gallico di Palmi è infatti agli atti una comunicazione tra due avvocati ritenuti al servizio del clan.

    I due parlerebbero di una intestazione fittizia di beni e di riciclaggio per conto di terze persone con riferimento alla compravendita di navi. E uno dei due afferma di aver contattato il loro corrispondente di Londra, il quale aveva messo a loro disposizione le sue società per consentire l’incasso dei proventi della compravendita delle navi. E aggiunge, inoltre, che l’unico problema che avrebbe potuto sorgere era con la Banca Inglese, poiché per quanto riguardava i soldi provenienti dalla Russia e dalla Cina il controllo della provenienza dei fondi era molto rigoroso per eludere il riciclaggio di denaro. Pertanto, avrebbero potuto chiedere tutta la documentazione afferente le navi oggetto della compravendita.

    I calabresi in Russia

    Insomma, la Russia e l’Ucraina sembrano, da sempre, esercitare grande fascino sui calabresi. Come dimostrerebbe il ruolo rivestito da quel Bruno Giancotti nel “Russiagate” che, un paio di anni fa, scosse il mondo della Lega. Il Carroccio, infatti, ha sempre guardato con ammirazione al potere di Vladimir Putin, che oggi ha scatenato la guerra in Ucraina. Nelle intercettazioni sui fondi russi alla Lega di Matteo Salvini spunta anche lui: Bruno Giancotti da Serra San Bruno, in provincia di Vibo Valentia. In Russia da circa 35 anni. Da quando, quindi, era ancora Unione Sovietica. L’affare è quello della compravendita di 3 milioni di tonnellate di gasolio finita al centro dello scandalo sui presunti fondi russi alla Lega. Ma, ovviamente, Giancotti ha sempre negato ogni ruolo in quella storia.

     

    «La politica bisogna saperla manovrare»

    E, nel panorama degli affari internazionali, non poteva mancare la cosca più potente della Piana di Gioia Tauro: i Piromalli. La famiglia che, insieme ai De Stefano, ha modernizzato la ‘ndrangheta, con i propri legami con il mondo della massoneria deviata.
    Protagonista, il faccendiere Aldo Miccichè, oggi deceduto. Uno dei soggetti chiave dell’inchiesta “Cent’anni di storia”, con cui il pm Roberto Di Palma metterà sotto scacco il potente casato gioiese: “Personaggio – scrivono i pm nella richiesta d’arresto del processo “Cent’anni di storia” – dai rilevanti trascorsi penali, tali da valergli un cumulo di pena di anni 25 di reclusione”.

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    Aldo Miccichè

    I guai giudiziari per Miccichè inizieranno comunque nel 1987. Il faccendiere, che sarebbe stato anche in contatto con la banda della Magliana, si rifugerà in Venezuela per sfuggire a un’altra, precedente, condanna per bancarotta fraudolenta. Le intercettazioni di quell’inchiesta aprono un mondo di interessi e di rapporti. In cui vi sarebbero legami con la politica, tanto venezuelana, quanto italiana. L’obiettivo di Miccichè sarebbe stato infatti quello di far revocare a Pino Piromalli la dura misura del 41-bis. Miccichè sarebbe un personaggio pienamente inserito sia nell’establishment nostrano che in quello del paese sudamericano: «La politica bisogna saperla manovrare» dice commentando gli sviluppi politici del Venezuela.

    I rapporti con Dell’Utri

    In Italia, invece, il politico più in vista con cui Miccichè avrebbe avuto un rapporto piuttosto significativo è l’allora senatore Marcello Dell’Utri, uomo di fiducia dell’ex premier Silvio Berlusconi fin dagli anni ’70, condannato definitivamente per i suoi rapporti con Cosa Nostra: «Vai da Dell’Utri, spiegagli chi siamo e cosa rappresentiamo», dirà Miccichè a Gioacchino Arcidiaco, l’emissario dei Piromalli che incontrerà il senatore nel marzo 2008.

    Aldo Miccichè sul piatto della bilancia avrebbe messo, tranquillamente, il voto degli italiani all’estero. E a proposito di estero, sarà lo stesso Dell’Utri a giustificarne la conoscenza, in un’intervista: «Lui in Venezuela si occupava di forniture di petrolio. Io ero in contatto con una società russa che ha sede anche in Italia, per cui conoscendo questi russi ho fatto da tramite…».

    L’uomo del gas

    E qui si inserisce anche la figura del giovane Massimo Marino De Caro, poi coinvolto nello scandalo dei preziosi libri trafugati alla Biblioteca dei Girolamini, di cui divenne (senza troppi titoli) direttore. Ad appena 34 anni, De Caro era diventato vicepresidente della Avelar Energy (gruppo Renova), che ha sede in Svizzera ma appartiene al magnate russo Viktor Vekselberg. Più ricco di Rupert Murdoch, Vekselberg acquisterà anche diversi beni in Italia, sul lago di Garda e a Rimini. Difficile spiegare perché il giovane De Caro raggiunga i vertici di una società così importante. La risposta arriverà dalle intercettazioni.

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    Marcello Dell’Utri

    Proprio alla presenza dei De Caro, Dell’Utri chiamerà Miccichè che, ovviamente si trova in Venezuela. Il faccendiere originario di Maropati gli consiglierà di acquistare greggio dalla compagnia venezuelana Pdvsa. Affari da diversi milioni di euro che sarebbero stati approntati sull’asse Mosca-Caracas, con in mezzo l’Italia, per volontà di Marcello Dell’Utri: «Io vado lì e dico: mi manda Picone, e quando dico Picone intendo Marcello…», dice Miccichè in una conversazione intercettata. Lo stesso Dell’Utri, secondo diverse intercettazioni, avrebbe “piazzato” Marino De Caro ai vertici della Avelar. A occuparsi proprio di quel gas che ora è uno degli argomenti principali nel conflitto tra Russia e Ucraina. Mentre la gente continua a morire sotto il cielo di Kiev.

  • Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    L’inizio dell’incubo ha una data certa: siamo nel 2014. Proprio in quell’anno una giovane ragazza nigeriana sarebbe arrivata in Italia, a Reggio Calabria, per la precisione. La promessa è quella di farla lavorare in un bar. Qualcosa di paradisiaco se raffrontato alla fame e alla miseria che si vive in Africa. Ma, se possibile, quella giovane nel nostro Paese vivrà atrocità pari a quelle patite in Africa.

    L’arrivo a Reggio Calabria e l’inizio dell’incubo

    Lo chiamano “Fred” o “Friday”. Il suo nome reale è Favour Obazelu. Sarebbe lui il suo principale aguzzino. È un 43enne, considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Fred/Friday l’avrebbe costretta a prostituirsi per ripagare il debito di averla “salvata” dalla povertà della Nigeria. Ma non solo.  L’avrebbe sequestrata in un appartamento a Bari, l’avrebbe violentata e messa incinta, cacciandola poi di casa, trattenendo però i documenti della giovane e del figlio nato dallo stupro.

    La giovane, quindi, sarebbe arrivata nel 2014 a Reggio Calabria, per essere trasportata poi a Bari. Con la promessa di quel lavoro in un bar. Ma nel capoluogo pugliese non vi sarebbe stato nessun bar ad aspettarla. Anzi, l’avviamento alla prostituzione, insieme ad altre due giovani. Anche loro dovevano “ripagare il debito” per l’arrivo in Italia dalla Nigeria.

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    Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’indagine

    Il presunto boss della mafia nigeriana è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, con l’accusa di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Le indagini sono condotte dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e dal pm antimafia Sara Amerio.

    Questo perché Favour Obazelu è considerato uno dei boss della mafia nigeriana presente sul territorio italiano.  Assieme al fratello, Eghosa Osasumwen detto “Felix” di 32 anni, e ad altri soggetti che si trovano in Libia e in Nigeria, Obazelu avrebbe reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia. Nell’inchiesta sono indagati altri tre nigeriani, due donne di 30 e 22 anni, e un uomo di 25.

    Il rito voodoo

    Inquietanti i dettagli raccontati da una delle vittime. Le donne, infatti, non solo erano costrette a prostituirsi. Ma, nei periodi in cui non lavoravano, venivano tenute segregate, talvolta legate materialmente. Ma, soprattutto, mentalmente incatenate tramite un rito voodoo che le avrebbe tenute in uno stato di completa prostrazione.

    Stando al racconto di una delle vittime, in quel periodo appena 21enne, la giovane sarebbe stata sottoposta ad un rito di magia nera per vincolarla al rispetto dell’impegno di pagare la somma di 25mila euro. Questo il debito calcolato da Fred/Friday e dai suoi fratelli per l’arrivo in Italia.

    Sempre la vittima, che ha trovato il coraggio di denunciare, sarebbe stata sottoposta a una vera e propria cerimonia tribale: in quell’occasione lei e la sua famiglia sarebbero state minacciate di morte nel caso in cui avessero infranto il giuramento.

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    L’ingresso della Questura di Reggio Calabria

    La mafia nigeriana in Italia

    E’ un allarme che risuona da tempo quello della presenza della mafia nigeriana nel nostro Paese: «La criminalità nigeriana è dedita prevalentemente al traffico di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione e al narcotraffico ed è risultata anche in osmosi con organizzazioni criminali albanesi» –  è scritto nell’ultima relazione semestrale redatta dalla Direzione Investigativa Antimafia.

    Una vera e propria mafia. Così come è stata riconosciuta da recenti sentenze italiane, che ne hanno sottolineato i caratteri di mafiosità: «…Si manifesta non solo internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati ma, anche, esternamente attraverso un’opera di controllo del territorio e di intimidazione nei confronti di terzi appartenenti alla comunità nigeriana ovvero appartenenti a gruppi malavitosi contrapposti, i cui intenti criminali devono essere stroncati così da evitare ogni forma di concorrenza delinquenziale…» – si legge in una di esse.

    Un’organizzazione caratterizzata da una grande ritualità, che mischia elementi della tradizione ancestrale con la necessità di fidelizzare gli affiliati. Tra le più importanti investigazioni che di recente hanno confermato la forza e la pericolosità dei sodalizi nigeriani si rammentano le operazioni “Maphite – Bibbia verde” e “Burning Flame”, coordinate rispettivamente dalle DDA di Torino e Bologna.

    La “Supreme Vikings Confraternity”

    Favour Obazelu, quindi, è considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Dal 2019, infatti, è detenuto nel carcere di Agrigento perché coinvolto nell’inchiesta “Drill”, coordinata dalla Procura di Bari che lo accusa di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cults. Fred/Friday è considerato il capo della “Supreme Vikings Confraternity”, una sorta di cosca conosciuta anche come “i rossi”.

    Le caratteristiche di queste realtà criminali sono: l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e in generale un modus agendi tale che la Corte di Cassazione si è più volte espressa riconoscendone la tipica connotazione di “mafiosità”.

    Ancora dalla relazione della DIA: «Si tratta di elementi tipici che costituiscono il modello operativo dell’associazionismo criminale nigeriano a connotazione mafiosa che contempla interessi per i reati di riciclaggio e di illecita intermediazione finanziaria verso la Nigeria, tratta di donne da avviare alla prostituzione, cessione di stupefacenti, reati violenti nei confronti di aderenti ad altri cults o punitivi nei confronti di connazionali. Le investigazioni hanno infatti permesso di documentare le violente punizioni corporali nei confronti di affiliati non rispettosi delle regole e il ricorso all’esercizio di violenza fisica anche nella risoluzione dei conflitti interni per costringere terzi ad affiliarsi anche contro la loro volontà oppure per opporsi e scontrarsi con cult rivali».

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    Gli uomini della Squadra mobile di Reggio hanno arrestato il presunto boss della mafia nigeriana Favour Obazelu

    La mafia nigeriana a Reggio Calabria

    La mafia nigeriana è un’organizzazione in grande crescita sul territorio italiano. Fin qui l’avevamo vista radicata in altre città. Roma, soprattutto, dove è capace di dialogare con altri cartelli. Diverse indagini, peraltro, ne hanno mostrato l’operatività in Emilia Romagna e altre regioni. Ma anche la Campania, dove, da tempo, il clan camorristico dei Bidognetti dialoga con quelle cellule. E poi in Sicilia. Ancora dalla relazione della DIA: «Si conferma infine la costante vitalità e una progressiva affermazione della criminalità di matrice nigeriana che starebbe acquisendo uno spazio operativo progressivamente sempre più ampio. Si tratta di gruppi criminali che, forti dei legami con le analoghe consorterie che agiscono a Catania e Palermo risultano attivi soprattutto nel capoluogo nell’ambito dei consueti settori degli stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione».

    Quello che, invece, risulta un dato nuovo è la presenza in riva allo Stretto. Per la Dda, infatti, l’organizzazione criminale di cui faceva parte Favour Obazelu sarebbe operativa tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altri centri pugliesi.

  • Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno distaccamenti o succursali di Santa Cristina d’Aspromonte, nel Reggino, o Guardavalle, nel Catanzarese. I 65 arresti con cui la Dda e i carabinieri di Roma sono convinti di aver bloccato le mire delle cosche di ‘ndrangheta sul litorale a Sud a una sessantina di chilometri da Roma cristallizzano quanto, già da tempo, gli attivisti antimafia sostengono. Quel territorio, nel silenzio generale, è finito sotto la cappa dello strapotere ‘ndranghetista.

    L’indagine

    In carcere sono finite 39 persone, altre 26 agli arresti domiciliari. Tra i soggetti coinvolti, anche due carabinieri. La Dda di Roma contesta i reati di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravata dal metodo mafioso, cessione e detenzione ai fini di spaccio, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.

    A condurre le indagini, Giovanni Musarò, per anni pm antimafia a Reggio Calabria e noto anche per aver riaperto, con successo, il “caso Cucchi”. Le investigazioni avrebbero dimostrato l’esistenza di una articolazione operante sul territorio dei comuni di Anzio e Nettuno, una locale di ‘ndrangheta “distaccamento” dal locale di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma composta in gran parte anche da soggetti appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta originarie di Guardavalle. Lì, infatti, i Gallace spadroneggiano da anni ormai, grazie alla propria forza di intimidazione e alle proprie relazioni. Proprio in tal senso, si inquadrano le perquisizioni effettuate dai carabinieri all’interno degli uffici comunali di Anzio e Nettuno.

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    Giovanni Musarò

    Affari e connivenze

    A capo della struttura criminale vi sarebbe Giacomo Madaffari, originario di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma del nucleo ristretto farebbero parte anche diversi soggetti appartenenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta, originarie di Guardavalle. Dai Gallace ai Perronace, passando per i Tedesco.
    Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il gip parla dell’esistenza di due “associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti anche internazionale” con una “capacità di penetrazione nel tessuto economico e politico della zona di Anzio e Nettuno”. Il giudice sottolinea i solidi legami esistenti con taluni esponenti delle forze dell’ordine e politici locali nonché con altri clan delinquenziali.

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    Il piccolo centro di Santa Cristina d’Aspromonte

    «Ad Anzio abbiamo sbancato»

    «Ieri sera abbiamo vinto le elezioni». È una delle intercettazioni relative al sostegno elettorale del gruppo criminale ‘ndranghetista attivo ad Anzio. Il riferimento è alla tornata per le elezioni amministrative del 2018 quando a vincere fu Candido De Angelis. Che comunque non risulta indagato nel procedimento.
    Il giorno dopo la vittoria di De Angelis vengono captate «tre conversazioni di eccezionale valore probatorio rivelatrici del sostegno offerto dalle famiglie calabresi in favore di De Angelis», sottolinea il gip. «Ha sbancato proprio su tutti» un’altra intercettazione.

    Anzio vista dall’alto

    Il traffico di droga

    Sarebbero due, dunque, le associazioni a fare affari illeciti, soprattutto col Sud America. Una capeggiata da Giacomo Madaffari e l’altra da Bruno Gallace. Gli sviluppi investigativi, in particolare, avrebbero consentito di ricostruire l’importazione dalla Colombia e l’immissione sul mercato italiano di 258 kg di cocaina disciolta nel carbone. Una operazione avvenuta nella primavera del 2018, tramite un narcotrafficante colombiano. Le indagini del pm Giovanni Musarò avrebbero scoperto anche il progetto di acquistare e importare da Panama circa 500 kg di cocaina occultata a bordo di un veliero.

    I carabinieri infedeli

    Non solo traffici internazionali, ma anche il business locale dei rifiuti ad Anzio. Focus anche sull’abusiva gestione di ingenti quantitativi di liquami che sarebbero stati scaricati nella rete fognaria comunale attraverso tombini, realizzati nelle sedi delle aziende. Le attività economiche erano attive nei più svariati settori: ittico, panificazione, gestione e smaltimento dei rifiuti, movimento terra.
    La locale di ‘ndrangheta nel Lazio avrebbe potuto anche contare su due carabinieri, appartenenti ad una delle caserme del litorale. I due militari avrebbero rivelato informazioni riservate a favore dei clan.

    Come si muovono le mafie nel Lazio

    Da sempre, Roma è “città aperta”. Anche sotto il profilo criminale. Nell’area della Capitale, le realtà malavitose sono sempre state capaci di convivere. Sia sotto il profilo territoriale, che sotto il profilo affaristico. Quella realtà così fluida è già stata cristallizzata, alcuni anni fa, dal rapporto Mafie nel Lazio. Il documento sottolineava come «una delle caratteristiche delle tradizionali organizzazioni mafiose è proprio quella di saper instaurare stabili relazioni con imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed economico di cui si avvalgono per stipulare affari e realizzare investimenti, alimentando così quel circuito di relazioni che potenzia la loro operatività».

    In quel rapporto, curato da Edoardo Levantini e Norma Ferrara, si dedica grande spazio proprio al territorio interessato oggi dai 65 arresti. E le parole messe nero su bianco risultano quasi profetiche. «Il territorio di Anzio e Nettuno rappresenta un “laboratorio” dell’interazione storica fra clan appartenenti a diverse organizzazioni criminali di stampo mafioso». Già quello studio attestava la presenza e l’operatività dei Casalesi, dei Gallace, di sodalizi locali dediti al narcotraffico e all’usura. Così come di aggregazioni criminali formate da camorristi e malavitosi di Tor Bella Monaca. «Negli anni, hanno dimostrato tutta la loro pericolosità arrivando anche ad inquinare il consiglio comunale di Nettuno, come attesta lo scioglimento nel 2005» si leggeva.

    Il litorale romano depredato dalla ‘ndrangheta

    L’indagine odierna, dunque, mostra come le cosche di ‘ndrangheta abbiano scelto il litorale a Sud di Roma come luogo congeniale per i propri traffici. Ancora una volta. Sì, perché già negli scorsi anni le indagini testimoniarono la pervasività dei clan da quelle parti. Tra il 7 novembre 2018 e il 10 dicembre del 2018 tra Anzio e Nettuno il sequestro di 100 kg di cocaina e 957mila euro di proventi del traffico e dello spaccio.
    Un’inchiesta storica è quella definita “Gallardo” che colpì due organizzazioni criminali. Una di matrice camorristica operante a Roma e a Nettuno e l’altra legata alle cosche di ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Le famiglie Filippone e Gallico, in particolare.

    Della presenza della ‘ndrangheta in quest’area si è occupata anche la Commissione parlamentare antimafia. Dalle conclusioni messe nero su bianco nel febbraio 2018: «In questi territori opera in particolare una locale di ‘ndrangheta riferibile al clan Gallace, originario di Guardavalle in provincia di Catanzaro. Il clan Gallace, insediato lì da almeno trent’anni, ha saputo intessere, negli anni, un reticolo di relazioni con esponenti della malavita locale sia nelle realtà di Anzio e Nettuno, sia nella realtà di Aprilia, sia nelle principali piazze di spaccio della capitale come San Basilio».

    Nei confronti dei Gallace, citati dalla Commissione parlamentare antimafia, la Corte d’Appello di Roma l’11 giugno del 2018 ha confermato le condanne per associazione mafiosa sul territorio di Nettuno: «A dimostrazione dell’operatività della famiglia Gallace nel territorio del litorale laziale si deve fare riferimento […] al sequestro dell’industriale di Pomezia Maurizio Gellini, avvenuto nel 1982, per la quale Agazio Gallace fu condannato».

    «Rompere il muro di omertà»

    Per le associazioni antimafia, che da anni denunciano la presenza dei clan sul territorio, si tratta quindi di una liberazione del territorio. «In questi territori si rileva una forte cappa di omertà che purtroppo pervade una “larga fetta” della popolazione», affermano Edoardo Levantini, presidente dell’associazione Coordinamento Antimafia Anzio/Nettuno e Fabrizio Marras, presidente di Reti di giustizia.
    «Ringraziamo i carabinieri di Roma e Latina e la DDA della capitale ed invitiamo tutti i cittadini vittime delle mafie a denunciare e a rompere il muro di omertà» concludono Levantini e Marras.

  • Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    La ricetta del presidente della Giunta Regionale, Roberto Occhiuto, è l’azienda unica per la sanità calabrese. Da sempre, un coacervo di accordi politici, di interessi della ‘ndrangheta, con i figli dei boss che sono diventati classe dirigente, una camera di compensazione dove la massoneria la fa da padrona.

    Il giudizio della Corte dei Conti sulla sanità calabrese

    La politica bipartisan, ormai da mesi, batte all’unisono: cancellare il debito sanitario calabrese. Per i proponenti, un passaggio necessario, azienda unica o meno, per auspicare una ripartenza. Per altri un colpo di spugna su anni di intrallazzi e ruberie. Che la pandemia da Covid-19 ha mostrato in tutta la sua drammaticità, con la Calabria spesso declassata da “zona bianca” a una condizione di limitazioni e restrizioni. Non già per il numero dei contagi, ma per la fatiscenza e l’inadeguatezza del suo sistema sanitario.

    Ora su quel buco, enorme, della sanità calabrese interviene anche la Corte dei Conti. I giudici contabili sostengono l’inattendibilità del deficit sanitario e la sua probabile sottostima: «Dall’esame dei risultati d’esercizio, relativi all’esercizio 2020, tutte le aziende del Ssr calabrese hanno chiuso in perdita, per un totale di -267 milioni 167mila euro. Le aziende del Ssr calabrese, nel periodo 2014-2019, non hanno rispettato la direttiva europea sui tempi di pagamento. Nel 2020 gli indicatori risultano ancora elevati, seppure, nella maggior parte dei casi, in leggera diminuzione. Con una media, per il 2020, di 159 giorni. La situazione debitoria delle Aziende sanitarie e ospedaliere ammonta complessivamente ad oltre 1 miliardo 174 milioni di euro».

    La mammella da spremere

    La sanità calabrese è, da sempre, una mammella da spremere senza fine per le cosche e per affaristi di vario genere. Non a caso, il settore – che avvolge il 70% del bilancio regionale – è commissariato da anni. E il debito più che miliardario. «Il ritardo con cui – è scritto nella relazione della Procura contabile – le aziende sanitarie e ospedaliere del Ssr calabrese effettuano i propri pagamenti determina ingenti interessi moratori che incidono negativamente sui risultati finanziari». Con riferimento al contenzioso, si legge ancora, «il totale ammonta ad oltre 481,21 milioni di euro e il totale degli accantonamenti ammonta ad oltre 51,89 milioni di euro. In definitiva sui costi del servizio sanitario calabrese continua a incidere fortemente il contenzioso con i correlati oneri aggiuntivi».

    Un sistema che non si regge in piedi

    La Procura regionale ha poi rilevato «svariate criticità». Permangono carenze di effettivo supporto alla struttura commissariale, carenze assunzionali, carenze nella gestione degli accreditamenti. E poi, una pesante situazione debitoria delle Aziende sanitarie, forti ritardi nei pagamenti e pignoramenti. Infine, gravi ritardi nell’approvazione del bilanci e insufficienza dei flussi informativi. Tutti questi fattori «contribuiscono a determinare l’enorme difficoltà a realizzare efficacemente il piano di rientro dal disavanzo che, infatti, da oramai oltre un decennio è rimasto pressoché immutato».

    In particolare – sostiene ancora la Corte dei Conti – «con riguardo al disavanzo totale 2020 […] si deve porre in evidenza che, seppure in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso, non è certo un dato ottimistico perché, comunque, il deficit sanitario in oltre dieci anni si è ridotto di circa soli 13 milioni di euro (da oltre 104 ad oltre 91 milioni)». Giudizio negativo, poi, anche per i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza: «Il punteggio per il 2019 è di 125. Di molto al di sotto della soglia (almeno tra 140 e 160) e molto meno del 2018 (162)».

    Il caso Reggio Calabria

    Il pur enorme deficit quantificato potrebbe addirittura essere sottostimato. Questo, soprattutto, a causa della situazione grottesca e paradossale dell’Asp di Reggio Calabria: «In primis ciò è legato alla situazione dell’Asp di Reggio Calabria, dove dal 2013 esiste una contabilità non fondata su documenti amministrativi». Questa “contabilità orale”, di fatto, «rende impossibile ricostruire il quadro debitorio dell’azienda». E non si parla di cifre di poco conto, ma di «una situazione debitoria potenzialmente dirompente, con passività che potrebbero toccare i 500 milioni».

    L’Asp di Reggio Calabria per anni avrebbe persino pagato per (almeno) due volte le stesse fatture a studi privati e cliniche convenzionate. Il risultato è un danno erariale di svariati milioni di euro fin qui accertati dalle indagini della Procura della Repubblica. Proprio alcuni mesi fa, sono state rinviate a giudizio quasi venti persone per le doppie fatture pagate dall’Asp in favore dello “Studio radiologico sas di Fiscer Francesco” di Siderno.

    Tra i rinviati a giudizio ci sono il legale rappresentante della clinica, ma anche funzionari dell’Asp, nonché l’ex direttore sanitario Salvatore Barillaro e quello amministrativo Pasquale Staltari. Ma, soprattutto, l’ex commissario straordinario dell’Asp, Santo Gioffrè. Proprio quel Santo Gioffrè che aveva evitato il doppio pagamento di una fattura da 6 milioni di euro alla clinica “Villa Aurora” denunciando tutto in Procura.

    I doppi pagamenti

    Le indagini, infatti, avrebbero permesso di constatare una duplicazione di pagamenti per oltre 4 milioni di euro. Soldi corrisposti dall’Asp reggina a favore dello studio radiologico privato, operante nel settore dell’erogazione di prestazioni diagnostiche ai pazienti in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Gli inquirenti si sono poi concentrati su una transazione, conclusa nel 2015 tra l’Asp ed il privato, che ha disposto il pagamento della somma di quasi 8 milioni di euro a saldo di crediti pregressi, presuntivamente vantati come non ancora riscossi.

    Oltre dieci anni di prestazioni sanitarie dichiarate non pagate dallo studio radiologico e poste a fondamento di diversi decreti ingiuntivi divenuti esecutivi a seguito della mancata opposizione dell’Asp reggina. Ma quelle somme erano state già liquidate per un ammontare complessivo di oltre 4 milioni di euro. Compresi interessi. Le indagini avrebbero quantificato in quasi due milioni e mezzo di euro le imposte non pagate.

    La ‘ndrangheta classe dirigente

    Anche così si spolpa la Sanità calabrese. Quella in cui la ‘ndrangheta si è fatta classe dirigente. Con i figli dei vecchi boss degli anni ’70 e ’80, che hanno conseguito lauree in Giurisprudenza e Medicina, soprattutto presso l’Università degli Studi di Messina. Per anni un vero e proprio feudo della ‘ndrangheta della Locride soprattutto. Affonda le sue radici nel mito la versione secondo cui i giovani esponenti dei clan della fascia jonica reggina sostenessero gli esami “con la pistola sul tavolo”. E un collaboratore di giustizia, negli anni, ha affermato: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dépendance di Africo Nuovo». Proprio l’Africo Nuovo di Peppe Morabito, il “Tiradritto”.

    L'università di Messina
    L’Università di Messina

    Del resto, è utile ricordare le risultanze emerse, alcuni anni fa, con la relazione di scioglimento per ‘ndrangheta dell’allora Asl di Locri. Agli atti la fitta ed intricata rete di rapporti di parentela o di affinità e frequentazione che legano esponenti anche apicali della criminalità organizzata locale a numerosi soggetti alle dipendenze dell’azienda. Alcuni dei quali con pendenze o pregiudizi di natura penale.

    Il delitto Fortugno

    Quelli sono gli anni del delitto del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria, Franco Fortugno, assassinato il 16 ottobre del 2005 a Palazzo Nieddu del Rio a Locri. Le indagini sul suo omicidio e la parallela inchiesta “Onorata Sanità”, che porterà alla condanna definitiva dell’allora consigliere regionale Mimmo Crea, sveleranno un sistema inquietante. In cui, a prescindere dalle responsabilità penali accertate, sarebbero emerse relazioni molto strette e intense tra politica, imprenditoria, mondo delle professioni e ‘ndrangheta.

    francesco fortugno
    Francesco Fortugno

    Molti nomi, menzionati nelle migliaia di carte investigative, citati nelle infinite udienze davanti ai giudici, ricorrono e ricorrono. E continuano, ancora oggi, a ricoprire incarichi di grande rilievo in seno alla sanità reggina e calabrese. Non è un caso che a distanza di molti anni dalla relazione del prefetto Basilone sull’Asl di Locri, anche l’Asp di Reggio Calabria verrà commissariata per infiltrazioni della criminalità organizzata, con lavori per imprese non inserite nella white list della Prefettura o, peggio, colpite da interdittiva antimafia.

    Nessuno firma i bilanci di Cosenza

    Lo stesso discorso vale per un’altra importante Asp della regione, quella del capoluogo Catanzaro, anch’essa considerata di grande interesse per le cosche. E la situazione è grave anche all’Asp di Cosenza. Qui diversi manager della Sanità pubblica sono indagati per aver truccato i bilanci dell’Ente nel tentativo di far quadrare, almeno sulla carta, conti altrimenti molto più drammatici. L’ultimo consuntivo approvato – oggi nel mirino della Procura – risale ormai al 2017. Da allora otto commissari si sono alternati senza mettere la propria firma su quelli successivi. Anche a Cosenza doppie fatture e un contenzioso monstre non quantificato né gestito come si dovrebbe hanno generato una voragine finanziaria da centinaia di milioni di euro.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza
    Massoni e legami politici: l’interrogazione parlamentare

    A Reggio Calabria o a Locri, un po’ ovunque la sanità è un coacervo di interessi. Anche e soprattutto a Cosenza. Ne è convinto il deputato Francesco Sapia, ex grillino duro e puro che, non accettando la svolta governativa dei 5 Stelle, è confluito ne L’Alternativa. Il parlamentare proprio in queste ore con un’interrogazione parlamentare ha chiesto «se il ministro dell’Interno non intenda promuovere l’accesso agli atti presso l’Asp di Cosenza».

    Sapia, peraltro, alla Camera siede proprio in Commissione Sanità.E non usa troppi giri di parole: «Primariati non autorizzati, anomala conservazione dei tamponi, proroghe allegre di contratti scaduti, sforamenti di bilancio, incompatibilità, parenti che lavorano insieme, ruoli svolti senza requisiti e procedure selettive pubbliche, carenze da Terzo mondo e gestioni incontrollate di presìdi salvavita. Questo squallore deve finire, non è più tollerabile».

    Il parlamentare pare essersi fatto un’idea ben precisa sulle possibili ragioni dietro i problemi elencati: «È urgente verificare se massoni e legami politici negli uffici abbiano condizionato o possano pregiudicare l’imparzialità amministrativa nell’Asp di Cosenza».

    Il buco nero dell’Asp di Cosenza

    Ma a cosa si riferisce, nello specifico, l’ex grillino? Da anni sono sempre più insistenti i dubbi sulla spesa farmaceutica e gli affidamenti illegittimi di incarichi a esterni. Con riferimento a questi ultimi, secondo quanto previsto dalla legge possono ammontare, al massimo al 50% di quella sostenuta nel 2009 per le stesse finalità. Ma negli scorsi anni si è andati ben oltre: dell’82% nel 2016 e del 76% nel 2017.

    Come per altre Asp calabresi, peraltro, anche all’Asp di Cosenza diventa un’impresa trovare le fatture. Agli atti emergono sei diverse società a responsabilità limitata che da tempo reclamano pagamenti dall’Asp cosentina. Circa 20 milioni di euro per un debito che sarebbe maturato a partire dal 2007. Il problema è che però negli uffici dell’Asp non esistono fatture che possano giustificare queste richieste esorbitanti. E da quelle che si trovano, molto spesso i pagamenti risultano già effettuati da anni.

    Le fatture che non si trovano

    Perché poi, ovviamente, nel disordine, nella negligenza, possono annidarsi anche tentativi di raggiro. E così, per anni, l’Asp di Cosenza è stata letteralmente assaltata da una lunga sfilza di società di factoring, pronte a vantare crediti (reali o presunti) nei confronti dell’Ente. «L’Azienda non è in grado di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati, questa situazione espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito», ha scritto tempo fa la Corte dei Conti. Tra fatture già pagate e altre scomparse, il buco nelle casse dell’Asp cresce a dismisura.

    Al 31 dicembre 2017 l’Asp di Cosenza aveva ben 541 milioni di euro di debiti. E le anticipazioni di cassa, che dovrebbero essere un’eccezione, sono diventate una regola. E, con il tempo, si sa, i debiti crescono. Nel 2005, infatti, l’Azienda Sanitaria di Cosenza aveva un debito di circa 3 milioni e mezzo di euro ereditato dall’ex As 1 di Paola legato a una condanna in tribunale. Nessuno ha pagato e quella somma è cresciuta a dismisura. Nel 2020 gli interessi pagati sulla cifra prevista inizialmente ammontavano a quasi 8 milioni e mezzo.

    La “favorita” dell’ex dg

    Ma Sapia parla anche di concorsi fatti ad hoc. Una inchiesta della Procura di Cosenza, infatti, sostiene come la procedura riguardante una donna abbia avuto un trattamento di favore, con un bando creato proprio per lei. E questo in forza della relazione sentimentale che avrebbe intrattenuto, per un determinato periodo, con l’ex direttore generale dell’Asp, Raffaele Mauro. Questa procedura le avrebbe fatto ottenere una promozione, senza averne avuto diritto.

    Alcune modifiche normative (inserite usando come stratagemma il pensionamento di un funzionario) sarebbero state inserite su misura proprio per favorire la “preferita” di Mauro. Tra le varie presunte e creative irregolarità, quella di non tenere conto dell’esperienza nel settore. E la donna, pur non avendo alcuna pregressa attività lavorativa (a dispetto degli altri candidati) nel settore in esame vince la selezione. Un artifizio che, sempre secondo i pm, sarebbe avvenuto grazie a una commissione compiacente, per non urtare la suscettibilità dell’allora dg.

    «Processate i commissari»

    Ma proprio quell’inchiesta – denominata, non a caso, “Sistema Cosenza” – afferma come la gestione allegra dell’Asp cosentina sia stata di fatto avallata dal silenzio (nel migliore dei casi) della Regione e dei commissari. A non opporsi a tutto questo, anche Massimo Scura e il generale Saverio Cotticelli, per i quali, proprio alcuni giorni fa, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i falsi bilanci dell’Asp.

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    Gli ex commissari massimo Scura e Saverio Cotticelli

    Secondo l’accusa, il buco di bilancio sarebbe stato occultato, omettendo, tra le altre cose, di riportare in bilancio le cifre del contenzioso legale che, da solo, ammonta ad oltre mezzo miliardo di euro. Bilanci, secondo i magistrati, palesemente falsi e che, nonostante le irregolarità e i pareri negativi del collegio sindacale, con riferimento al triennio 2015-2017 sono stati comunque approvati dagli organi di controllo istruttorio.

    Le ultime inchieste

    “Sistema Cosenza” non è l’ultima inchiesta che mette nel mirino la sanità calabrese. Praticamente tutte le procure calabresi hanno fascicoli aperti di una certa rilevanza. Nel marzo del 2021, un’altra operazione ha portato all’arresto di medici e dirigenti perché responsabili di essere affiliati alla cosca Piromalli, una delle più potenti della ‘ndrangheta. Secondo l’inchiesta “Chirone”, tramite alcune aziende il potente clan di Gioia Tauro si sarebbe aggiudicato gli appalti di fornitura dell’Asp di Reggio Calabria. Uno dei dirigenti coinvolti era proprio colui che aveva il compito di valutare il fabbisogno sanitario della provincia di Reggio ai fini della fissazione dei budget.

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    Nicola Paris

    E rischia il processo anche l’ex consigliere regionale della Calabria, Nicola Paris, eletto nel 2020 con la lista dell’Udc e arrestato nell’agosto scorso con l’accusa di corruzione. Secondo l’inchiesta “Inter Nos”, Paris avrebbe tentato di intervenire sull’allora presidente f. f. della Regione, Nino Spirlì. A che scopo? Sollecitare il rinnovo contrattuale per Giuseppe Corea, direttore del settore Gestione risorse economico-finanziarie dell’Asp. Secondo gli inquirenti, è la persona grazie alla quale le imprese vicine ai clan Serraino, Iamonte ed a quelli della Locride ottenevano gli appalti. Paris avrebbe caldeggiato la nomina di Corea nell’interesse degli imprenditori che, stando al campo di imputazione, «lo avevano sostenuto durante la campagna elettorale».

  • “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    Dovevano essere un’attrazione culturale e caratteristica. Qualcosa di “Instagrammabile” anche per chi viene da fuori. Stanno diventando l’emblema della vocazione turistica che fallisce miseramente per Reggio Calabria e il suo hinterland. Sono le colonne che rappresentano “Opera”, dell’artista Edoardo Tresoldi. Oggetto di arrampicata da parte dei topi in estate. E quasi divelte dal vento, nella stagione invernale.

    L’Opera di Tresoldi (ma da 950mila euro)

    Eppure l’installazione artistica, inaugurata due anni fa sul lungomare Italo Falcomatà di Reggio Calabria, era stata presentata in pompa magna. Non senza polemiche, dato che le 46 colonne commissionate dal Comune e incastonate all’interno di un’area verde panoramica a pochi metri dal mare dello Stretto, erano costate ben 950mila euro.

    “Opera è un monumento alla contemplazione attraverso cui il luogo definisce ulteriormente se stesso” si legge sul sito ufficiale dell’artista Tresoldi. Che attraverso la rete metallica e lo studio della trasparenza ha voluto esaltare la bellezza dello Stretto, con il colonnato permanente.

    L’arrampicata dei topi

    Un’idea di marketing territoriale, che per un po’ ha anche funzionato. Proprio tra quelle colonne in fil di ferro, infatti, è girata una parte del videoclip “Kiss me again”, realizzato dal celebre musicista Giovanni Allevi a Reggio Calabria.

    Ma la magia sembra essere svanita ben presto. Quest’estate, infatti, sono diventate virali le immagini che immortalavano un topo arrampicarsi lungo l’installazione artistica. Polemiche social e politiche, per attaccare l’allora Amministrazione comunale del sindaco oggi sospeso Giuseppe Falcomatà sullo stato di degrado del centro cittadino. E sull’incuria con cui viene conservato il patrimonio artistico.

    Le colonne piegate

    Qualcuno ha parlato di “colonna infame” di manzoniana memoria. Le forti raffiche di vento che negli ultimi giorni hanno interessato la città hanno infatti danneggiato l’installazione. Non repentinamente, ma per giorni e, inizialmente, nel disinteresse generale.

    Almeno due delle 46 colonne ideate da Tresoldi, infatti, hanno iniziato ad ondeggiare. Infine, il cedimento strutturale che ha spinto l’Amministrazione Comunale a chiudere tutta l’area interessata per motivi di sicurezza. Quell’area, che doveva essere un fiore all’occhiello panoramico, ora è transennata.

    La posizione ufficiale del Comune

    Attraverso una dichiarazione ufficiale diramata dal sindaco facente funzioni Paolo Brunetti, il Comune di Reggio Calabria precisa di aver comunicato all’artista le criticità emerse sul complesso monumentale. Lo stesso staff tecnico di Tresoldi – sempre a detta dell’amministrazione comunale – avrebbe già visionato le parti danneggiate.

    «È stato inoltre programmato l’avvio dell’intervento di revisione dell’intera struttura e contestuale verifica delle cause che hanno determinato la problematica», dicono ancora da Palazzo San Giorgio.

    L’ironia sul web

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    Lo striscione affisso dal Nuovo Fronte Politico

    Ovviamente, tutto ciò ha causato anche polemiche politiche. Il movimento di destra Nuovo Fronte Politico ha anche affisso uno striscione – “Via col vento” – nei pressi dell’installazione. Eterna disputa tra chi definisce uno spreco i soldi spesi dal Comune per “Opera”. E chi giustifica il danneggiamento, portando ad esempio i danni causati dal vento anche in altre città d’Italia.

    Ma, più interessante, appare l’ironia social, che ha scatenato le pagine satiriche maggiormente seguite. I paragoni con la Torre di Pisa (e non solo) si sono sprecati. A sbizzarrirsi un po’ tutti: da “Lo Statale Jonico” al “Reggino Imbruttito”.
    Insomma, da installazione “instagrammabile” a meme ironico il passo è stato tragicomicamente breve.