Autore: Claudio Cordova

  • Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Sono perentorie le motivazioni scritte e depositate dalla Corte di Cassazione sul maxiprocesso “Gotha”. Un procedimento scaturito da un’inchiesta con cui la Dda di Reggio Calabria ha indagato e portato a processo la presunta componente occulta della ‘ndrangheta. Si tratta del troncone del procedimento celebrato con rito abbreviato e già approdato all’ultimo grado di giudizio. Il principale imputato era l’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta, anello di congiunzione tra la componente militare e i livelli occulti della massoneria deviata.

    ndrangheta-reggio-gotha-giorgio-de-stefano-non-e-invisibile
    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    La posizione di Giorgio De Stefano

    E riguarda proprio la posizione dell’avvocato De Stefano il giudizio maggiormente critico degli Ermellini. Mentre si è ancora in attesa delle motivazioni di primo grado del troncone principale, celebrato con rito ordinario, l’avvocato De Stefano ha scelto di essere giudicato con l’abbreviato. La Cassazione fa sostanzialmente in coriandoli la sua condanna rimediata in appello a 15 anni e 4 mesi di carcere. 

    La Suprema Corte, con la sentenza del 10 marzo scorso, ha annullato senza rinvio in relazione a tutti i fatti avvenuti fino al 2005, ritenuti già “coperti” da precedenti pronunce giudiziarie. De Stefano, infatti, con un passato politico in riva allo Stretto, è stato già condannato definitivamente negli anni ’90 per concorso esterno in associazione mafiosa. E poi coinvolto nel cosiddetto “Caso Reggio” che, però, a Catanzaro non ebbe alcun esito.

    Per quanto concerne invece i fatti successivi al 2005, la Cassazione ha annullato la condanna nei confronti di De Stefano con il rinvio del caso alla Corte d’Appello per un nuovo processo.

    «Illogico»

    La Cassazione si sofferma sulla posizione sovraordinata di De Stefano in seno alla ‘ndrangheta, ipotizzata dagli inquirenti. Ed è qui che usa le parole più dure. Nel prospetto accusatorio, infatti, De Stefano sarebbe uno degli “invisibili”, quei soggetti, cioè, superiori all’ala militare della ‘ndrangheta. E quindi capaci di relazionarsi con la massoneria deviata, ma anche con i servizi segreti. Un alter ego di un altro avvocato ed ex politico, l’ex parlamentare Paolo Romeo, condannato in primo grado nel procedimento celebrato con rito ordinario.  

    Ma i giudici non ritengono provata tale circostanza, tutt’altro. «Se la struttura invisibile – si legge nella sentenza – deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Visibili e invisibili

    L’ipotesi accusatoria della Dda reggina considera la ‘ndrangheta in due distinte componenti.  Una “visibile”, operante cioè attraverso metodi “classici” della criminalità organizzata mafiosa e uomini perfettamente “riconoscibili”.  Ed una “invisibile” o “riservata”, collocata al vertice dell’associazione con compiti di direzione e di individuazione delle scelte strategiche dell’associazione unitariamente intesa. Deputata a mantenere i rapporti con apparati istituzionali, imprenditoria e professionisti. Anche attraverso la partecipazione ad organizzazioni caratterizzate da segretezza del vincolo, come la massoneria. Tutto per conseguire l’infiltrazione in apparati istituzionali, con il fine ultimo di mantenere in vita l’associazione.

    ndrangheta-reggio-gotha-giorgio-de-stefano-non-e-invisibile
    L’avvocato Paolo Romeo

    E i capi della componente “invisibile” sarebbero stati proprio Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Proprio con riferimento a una conversazione intercorsa tra De Stefano e Romeo, in cui i due parlavano delle elezioni regionali del 2010, la Cassazione mette nero su bianco: «Non si fa alcun accenno all’utilizzo di metodi mafiosi per influire sul voto o ad un intervento della ‘ndrangheta nella competizione elettorale» e «il voler ravvisare in tale conversazione una elaborazione della strategia della ‘ndrangheta unitaria per influire sulla competizione elettorale regionale appare un’evidente forzatura logica». In diversi passaggi, i giudici della Cassazione definiscono «congetture» alcune delle conclusioni cui sarebbero giunti gli inquirenti prima e i giudici della Corte d’Appello poi.

    La vicenda dell’ex bar Malavenda

    Lo fa anche con riferimento alla vicenda riguardante l’ex bar Malavenda, ubicato alle porte del quartiere Santa Caterina, territorio storicamente controllato dalle cosche De Stefano e Tegano. Su quel bar si sarebbero concentrati appetiti di schieramenti ‘ndranghetistici avversi, che si sarebbero contrastati a suon di bombe e attentati. E, per dirimere la questione, uno dei litiganti, l’imprenditore Nucera si sarebbe rivolto proprio all’avvocato De Stefano, definito “il massimo”.

    Ma anche in questo caso, la Cassazione parla di illogicità: «Se la struttura invisibile deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità, peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Ma non solo. Se De Stefano è un “invisibile”, perché dovrebbe palesarsi? «Peraltro non si vede perché, stante la assoluta segretezza che avrebbe dovuto ammantare la partecipazione alla ‘ndrangheta di Giorgio De Stefano quale componente della struttura occulta, venendo questa celata anche agli appartenenti al sodalizio criminale, Giorgio De Stefano avrebbe dovuto rivelare tale sua qualità al Nucera, che non è un associato al sodalizio». scrivono i giudici.

    ndrangheta-reggio-gotha-giorgio-de-stefano-non-e-invisibile
    La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria

    Le date

    Per i giudici di Piazza Cavour, non è chiaro «in cosa si sarebbe concretamente sostanziato il contributo arrecato dal De Stefano quale componente della struttura invisibile della ‘Ndrangheta unitaria. Per affermare la sussistenza della componente occulta della ‘Ndrangheta i giudici di appello si sono basati anche su collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni risalgono ad un periodo anteriore al 2006».

    Essendo quindi De Stefano già condannato nel cosiddetto processo “Olimpia” per concorso esterno in associazione mafiosa, non può essere considerato colpevole fino al 1991. Scrive la Cassazione: «L’odierno ricorrente non può essere nuovamente processato per il reato di partecipazione alla medesima associazione commesso sino al 1991, essendo irrilevante che in questa sede si contesti al De Stefano la partecipazione alla ‘ndrangheta quale associazione unitaria e non quale partecipazione alla singola cosca, atteso che, stante la unitarietà della ‘ndrangheta, affermata anche nel presente processo, la partecipazione alla cosca vale anche quale partecipazione alla ‘ndrangheta unitariamente intesa, laddove si affermi che tale associazione è unitaria».

    Giudicato nel “Caso Reggio”

    E, inoltre, De Stefano è stato già giudicato, fino al 2005, nel cosiddetto “Caso Reggio”: un’inchiesta in cui si ipotizzava una sorta di complotto ai danni di alcuni magistrati del distretto reggino, con l’accusa di essere capace di “aggiustare” i processi. Un’inchiesta finita nel nulla. Ma la medesima “qualità” (quella di “aggiustare” i processi) è tra le accuse nel processo “Gotha” che porterebbero a considerare De Stefano uno degli elementi massimi della ‘ndrangheta. Per questo, quindi, l’annullamento senza rinvio della condanna: «Le condotte ed il contributo che sarebbe stato arrecato dal De Stefano alla associazione criminale non cambiano — e già si è detto che è irrilevante che tale contributo venga inteso in un processo come in favore della singola cosca o della associazione unitariamente intesa —, mentre muta la mera qualificazione giuridica di tali condotte» –  scrive la Cassazione.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Per la Cassazione, i giudici della Corte d’Appello hanno sbagliato a considerare De Stefano colpevole anche per il periodo successivo al 2005. Per farlo hanno utilizzato come riscontro le dichiarazioni dei pentiti che avevano iniziato il percorso di collaborazione prima del 2006: «La Corte di appello, ritenendo non operante la preclusione derivante dal giudicato per il periodo fino al 2005 compreso, ha utilizzato le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che hanno riferito su fatti collocati in detto periodo e, sulla base di tali dichiarazioni, ha concluso che già in tale periodo il De Stefano rivestiva un ruolo apicale in seno alla componente riservata della ‘ndrangheta».

    Ma questo, per gli Ermellini, è stato un abbaglio colossale: «Alla luce di tale conclusione, che si pone in netto contrasto con i precedenti giudicati, ha ritenuto provata la prosecuzione della medesima condotta anche per il periodo successivo; in particolare, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riferito di condotte successive al 2005 sono state ritenute riscontrate da quelle di coloro che avevano iniziato a collaborare con la giustizia prima del 2006».

  • Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    L’ultimo caso è quello di Sandro Principe e di tutti gli altri imputati politici dell’inchiesta “Sistema Rende”. Un flop clamoroso che riapre l’eterna disputa tra garantismo e pugno duro. Soprattutto quando nelle inchieste giudiziarie finiscono sindaci, consiglieri comunali o regionali, persino parlamentari.

    Un Principe senza più trono

    Per decenni uomo forte della politica di Rende, per anni sindaco, Sandro Principe, già deputato socialista, coinvolto nell’inchiesta della Dda di Catanzaro denominata, appunto, “Sistema Rende”. Siamo nel 2016 quando quel terremoto scuote la politica cosentina. Oltre a Principe, coinvolto anche un altro ex sindaco, Umberto Bernaudo, nonché gli assessori Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. Tutti accusati, a vario titolo, di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.

    Principe e Manna nel loro più celebre duello televisivo, divenuto di culto a Cosenza e Rende

    Quell’inchiesta, di fatto, chiuse una lunga, quasi infinita, stagione politica di centrosinistra a Rende, considerata da sempre una roccaforte socialista, aprendo le porte all’era del centrodestra di Marcello Manna, peraltro oggi invischiato nella brutta storia di presunta corruzione giudiziaria con il giudice Marco Petrini.

    Quanto all’inchiesta “Sistema Rende”, invece, proprio un paio di giorni fa, il Tribunale di Cosenza ha assolto tutti gli imputati di quel clamoroso caso giudiziario. La parte politica, accusata di essere in combutta con la ‘ndrangheta, ottiene l’assoluzione in blocco con la formula “per non aver commesso il fatto”. Per Principe, la Procura aveva chiesto 9 anni di reclusione e via via a scendere condanne per tutti gli altri.

    L’eterna lotta tra garantisti e “manettari”

    Un caso del genere ha fatto, ovviamente, ritornare in auge la disputa tra le posizioni più oltranziste nella lotta alla ‘ndrangheta e alle sue collusioni con i “colletti bianchi” e quell’ala che, da sempre, spinge per una visione più garantista delle cose. E che, anzi, invoca riforme strutturali della magistratura e dell’intero sistema giustizia.

    enza-bruno-bossio
    Enza Bruno Bossio (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Tra queste, una delle posizioni più note è quella di Enza Bruno Bossio, parlamentare del Pd e moglie dell’ex vicepresidente della Giunta Regionale, Nicola Adamo. Nel congratularsi con Principe per la vittoria giudiziaria, Bruno Bossio non manca di rilanciare uno dei suoi cavalli di battaglia: «Anche questa vicenda ci insegna quanto sia utile, urgente e necessaria una profonda rivisitazione del potere giudiziario e del sistema della giustizia. A quante sofferenze, a quante ingiuste detenzioni dobbiamo ancora assistere?», si chiede.

    L’assoluzione di Mimmo Tallini

    Temi che, evidentemente, sfondano portoni aperti in Forza Italia. Appartiene ormai al mito la lotta di Silvio Berlusconi contro le “toghe rosse”. Posizioni rimbalzata nelle ultime ore con la pesante richiesta di condanna nei confronti dell’ex premier per il caso Ruby Ter. Ma, ancor prima (e, ovviamente, con le dovute proporzioni) per il caso di Mimmo Tallini.

    Quella di Principe, infatti, è solo l’ultima delle assoluzioni che le cronache definiscono “clamorosa”. A metà febbraio, l’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini, è stato assolto nel processo “Farmabusiness” dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso.

    tallini
    Domenico Tallini (Forza Italia) ai tempi in cui presiedeva il Consiglio regionale

    Dopo essere scattata la custodia cautelare, la Dda di Catanzaro aveva portato a processo Tallini e chiesto una condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione nel processo incentrato sui presunti illeciti nella vendita all’ingrosso di farmaci di cui si sarebbe resa responsabile la cosca di ‘ndrangheta dei Grande Aracri di Cutro. Ma Tallini è stato assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Se cittadinanza e politica abdicano alla magistratura

    Eterna lotta tra garantismo e giustizialismo. Ma anche una eterna deresponsabilizzazione di politica e cittadinanza che, ormai da decenni, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale hanno scelto di delegare scelte e comportamenti da assumere alla magistratura, conferendole ruolo e importanza che la Costituzione non le assegna.

    melillo-nuovo-procuratore-antimafia-sconfitto-gratteri-i-calabresi
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    La cittadinanza, spesso incapace di esprimere un voto libero, coraggioso e indipendente, si fa scudo tramite la magistratura e tramite figure iconiche come Nicola Gratteri, per deresponsabilizzarsi, per avere con manette e condanne quella “pulizia” che potrebbe promuovere nella cabina elettorale.

    La classe dirigente, incapace di emendarsi, che tiene nei propri ranghi soggetti politicamente impresentabili, emarginandoli (magari temporaneamente) solo quando hanno le manette ai polsi, senza effettuare una selezione e, men che meno, un ricambio.

    Lo spauracchio della giustizia

    Emblematico, in tal senso, quanto accaduto alcuni anni fa a Cosenza, allorquando 17 consiglieri comunali firmarono le dimissioni dal notaio, paventando imminenti problemi giudiziari per l’allora sindaco Mario Occhiuto. Misure restrittive che, come la storia ha dimostrato, non sono mai arrivate. E con l’ex sindaco del capoluogo bruzio che, al momento, è uscito indenne praticamente da tutte le inchieste penali a suo carico.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    La giustizia, quindi, come (spesso becera) arma di contesa politica. Speculare a quanto accaduto a Cosenza il caso del grande “nemico” di Occhiuto, l’ex governatore Mario Oliverio, ancora oggi imputato e scaricato dal Partito Democratico dopo i primi coinvolgimenti in inchieste giudiziarie.

    Il caso Caridi

    Quello tra ‘ndrangheta e politica è un rapporto inscindibile. La storia lo dimostra chiaramente. E, però, le assoluzioni di politici si moltiplicano. Nel luglio 2021, un altro episodio eclatante. L’assoluzione dell’ex senatore Antonio Caridi, nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato a Reggio Calabria contro la masso-‘ndrangheta.

    Antonio Caridi in Senato

    Caridi era accusato di essere lo strumento attraverso cui la componente occulta della criminalità calabrese avrebbe infiltrato le istituzioni, da quelle locali fino al Senato della Repubblica, appunto. A suo carico, diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia e anche le immagini che lo ritraevano entrare nella casa storica della cosca Pelle a Bovalino.

    Ma è stato assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste” dopo essersi consegnato nel carcere romano di Rebibbia a seguito del voto favorevole di Palazzo Madama sulla sua carcerazione. Poi un anno e mezzo di detenzione in carcere, il lungo processo, con la richiesta di condanna a 20 anni di reclusione e l’assoluzione, per ora di primo grado.

    Femia e Cherubino, assolti dopo anni di detenzione

    Ma i due casi più inquietanti arrivano entrambi dalla Locride. Il primo riguarda l’ex sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Rocco Femia, arrestato dalla Polizia di Stato nel maggio 2011, con l’operazione “Circolo Formato”. Secondo l’accusa, Femia sarebbe stato il candidato sindaco sponsorizzato dai Mazzaferro nelle elezioni del 2008. È stato assolto nel marzo 2021, dopo aver trascorso cinque degli ultimi dieci anni in carcere.

    Rocco Femia

    Poco più di un anno dopo, il 6 aprile scorso, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino nell’ambito del processo “Falsa politica” nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria contro la cosca Commisso di Siderno. Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d’appello lo hanno assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Cosimo Cherubino

    I simboli che cadono

    Indagini spesso svolte in maniera approssimativa che portano a clamorosi errori giudiziari o, possibilità altrettanto grave, consegnano “patenti” di perseguitati a chi, forse, non la meriterebbe. Così, quindi, viene meno agli occhi di tanti la fiducia nella magistratura, per anni considerata l’unico argine allo strapotere delle cosche. A proposito di simboli che cadono.

    mimmo_lucano_condannato
    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    Casi a parte sono quelli di due sindaci icone di lotte molto sentite in Calabria. Il primo è quello di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Il suo processo d’appello è iniziato da pochi giorno dopo la dura condanna di primo grado, che ha suscitato sdegno e indignazione a livello nazionale.

    E, infine, la vicenda di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, ritenuta una delle roccaforti della ‘ndrangheta. Per anni, Girasole verrà considerata un simbolo della politica che lotta contro la criminalità organizzata. Poi gli arresti domiciliari proprio con l’accusa infamante di connivenza con le ‘ndrine. Girasole verrà assolta definitivamente dalla Cassazione, dopo il ricorso presentato dalla magistratura inquirente, che ha insistito sebbene fosse stata già assolta sia in primo che in secondo grado.

    carolina-girasole-1280x720
    Carolina Girasole
  • Delle Chiaie a Capaci? I legami oscuri del leader di Avanguardia Nazionale

    Delle Chiaie a Capaci? I legami oscuri del leader di Avanguardia Nazionale

    Sono passate appena poche ore dalla messa in onda della puntata che Report ha dedicato ai 30 anni dalla strage di Capaci. Gli uomini della Direzione Investigativa antimafia bussano alla porta del giornalista Paolo Mondani. Inviati dalla Procura di Caltanissetta, gli uomini della DIA perquisiscono l’abitazione del giornalista e sequestrano atti riguardanti l’inchiesta nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci.

    L’inchiesta di Report e Delle Chiaie

    Nel corso della perquisizione, gli investigatori hanno cercato atti sul cellulare e sul pc di Mondani. Una scelta forte, quella dei magistrati, che arriva all’indomani dell’inchiesta di Report. E che riaccende le polemiche sulla tutela delle fonti che dovrebbe essere sempre garantita ai giornalisti.

    La procura di Caltanissetta, attraverso il capo dell’ufficio Salvatore De Luca, ha precisato che la perquisizione «non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista (che non sarebbe indagato, ndr), benché la stessa sia presumibilmente susseguente a una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario».

    Riecco “Er Caccola”

    Nel giorno del trentennale della strage di Capaci, con la puntata “La bestia nera”, Report ha provato ad aggiungere un tassello di verità. Almeno a porre domande e instillare dubbi sui mandanti esterni, su quelle connivenze tra mondi diversi e occulti che avrebbero animato la strategia stragista che, nel 1992, toccherà il culmine con le stragi di Capaci e via D’Amelio in cui perderanno la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

    delle-chiaie-capaci-i-legami-oscuri-leader-avanguardia-nazionale
    I giudici Falcone e Borsellino uccisi dalla mafia

    E spunta fuori il nome di Stefano Delle Chiaie. Anzi, rispunta. Sì perché Delle Chiaie entra ed esce da inchieste giornalistiche e giudiziarie da decenni. Deceduto nel 2019, si tratta di uno dei soggetti più oscuri della storia d’Italia. Detto “Er Caccola”, è stato accostato a stragi di matrice terroristica, alla P2 di Licio Gelli e alla criminalità organizzata. Con la sua inchiesta, Report ipotizza e sospetta legami con Cosa Nostra e fatti siciliani. Ma da anni sono presenti agli atti elementi che collegherebbero Delle Chiaie alla ‘ndrangheta.

    Il summit di Montalto

    Uno dei primi a parlarne è il collaboratore di giustizia Stefano Serpa, uomo influente della ‘ndrangheta degli anni ’70 e ’80. Serpa colloca Delle Chiaie in Calabria in uno degli eventi più iconici della storia della criminalità organizzata calabrese.

    Un summit di ’ndrangheta. Anzi, probabilmente il summit di ’ndrangheta per eccellenza. Cui, però, stando al racconto del collaboratore partecipano anche elementi importanti della Destra eversiva, quali Stefano Delle Chiaie, appunto. Ma anche Pierluigi Concutelli, esponente di spicco della Destra eversiva e condannato per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, avvenuto il 10 luglio 1976 a Roma, col movente di impedire al magistrato di proseguire le proprie delicate indagini sul terrorismo nero.

    delle-chiaie-capaci-i-legami-oscuri-leader-avanguardia-nazionale
    Pierluigi Concutelli

    Una riunione fondamentale nella storia della ’ndrangheta, perché si incastra proprio negli anni più caldi della storia di Reggio Calabria, quelli della rivolta del Boia chi molla. Borghese, Delle Chiaie, Concutelli e gran parte della colonna di destra eversiva del tempo a Reggio Calabria, in quegli anni, sarebbero stati di casa.

    La circostanza viene raccontata anche da Carmine Dominici, ex membro di spicco di Avanguardia Nazionale, poi divenuto collaboratore di giustizia: «Vi fu, nel settembre 1969, un comizio del principe Borghese a Reggio Calabria che fu proibito dalla Polizia. In quell’occasione c’era anche Delle Chiaie e il divieto da parte della Questura provocò scontri a cui tutti partecipammo. Vi fu anche un assalto alla Questura per protesta».

    Delle Chiaie e la ‘ndrangheta

    Ma non si tratterebbe solo di politica. Anche perché Serpa non è l’unico collaboratore di giustizia che tira in ballo Delle Chiaie e la sua vicinanza, non solo al territorio calabrese, ma anche alla ‘ndrangheta.  A parlare, infatti, è uno dei collaboratori di giustizia storici: quel Giacomo Ubaldo Lauro che, insieme a Filippo Barreca, sarà tra le principali fonti dei giudici che imbastiranno il maxiprocesso “Olimpia”.

    Le dichiarazioni di Lauro, quindi, aprono squarci di luce (che, va detto, non avranno particolari sbocchi di natura giudiziaria) sul legame tra ’ndrangheta e Destra eversiva: «[…] nell’epoca dei moti di Reggio, io capitai due volte detenuto nella stessa cella, lo presi con me a Carmine Dominici. Una volta perché aveva messo una bomba, e che poi è stato assolto da questa bomba e fece un paio di mesi, un’altra volta per il sequestro Gullì assieme a Domenico Martino. Dalla bocca di Carmine Dominici […] mi disse a parte che io lo sapevo già che “Er Caccola” non mi ricordo ora come si chiama dunque Delle, Delle Chiaie era stato a Reggio nel ’70 ospite, ospite suo di lui e di Fefè Zerbi».

    Zerbi, Delle Chiaie e De Stefano

    Il marchese Genoese Zerbi era, a detta di tutti, il coordinatore dei gruppi di estrema destra in quel periodo assai caldo vissuto dalla città, in lotta dopo l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro. Una rivolta che, secondo taluni, avrebbe subito la strumentalizzazione della ‘ndrangheta, in un accordo tra gruppi estremisti e boss. Stando al racconto di Lauro, Delle Chiaie ebbe contatti con la ’ndrangheta e, in particolare, proprio con Paolo De Stefano, in quel periodo capo della famiglia che, più di tutte, avrebbe modernizzato la ‘ndrangheta grazie ai suoi rapporti promiscui: «Nella seconda carcerazione […] io mi ritrovai detenuto dal ’79 e c’era anche lui. […] Da Dominici seppi che […] praticamente Fefè Zerbi fece conoscere a Delle Chiaie a Paolo De Stefano e ad altri […]».

    L’uomo dei misteri

    Nomi che si intrecciano con la storia più oscura d’Italia, fatta di complotti, accordi e trame messi in atto tra Destra eversiva, criminalità organizzata e Servizi Segreti deviati. Delle Chiaie è uno dei personaggi più controversi della storia d’Italia. Fondatore di Avanguardia Nazionale, movimento della Destra eversiva negli anni Settanta, Delle Chiaie si segnala per la propria appartenenza a organizzazioni e movimenti di natura fascista fin dagli anni Sessanta. Particolarmente inquietanti sono i contatti con il Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese. Sì, proprio l’ex gerarca fascista promotore di un tentato colpo di Stato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970.

    Junio Valerio Borghese

    Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, che condanna i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano. Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari – appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano». La sua presenza in Sud America si registra già con la vicinanza al regime di Augusto Pinochet alle riunioni della Dirección Nacional de Inteligencia (DINA) di Manuel Contreras e in seguito nell’Operazione Condor per la persecuzione dei dissidenti.

    Delle Chiaie e Licio Gelli

    Ma, come paventato peraltro anche dalla trasmissione Report, Delle Chiaie sarebbe stato vicino anche ad ambienti occulti. E, in particolare, alla P2 di Licio Gelli, quel progetto massonico e criminale che doveva sovvertire l’ordine costituito in Italia.  Per questo, scrivono infine i giudici di Bologna «“il collegamento Gelli-Delle Chiaie non si presenta come una possibilità, più o meno plausibile, ma costituisce una necessità logica».

    strage-di-bologna-sala-attesa-stazione
    La sala d’attesa della stazione di Bologna sventrata dalla bomba

    Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio, ma i processi lo hanno sempre visto assolto per “non aver commesso il fatto” o per “insufficienza di prove”.

    I “Sistemi Criminali”

    Entra ed esce da inchieste giudiziarie da decenni. E fa parlare di sé anche ora che è deceduto da circa tre anni. Spiccava la sua presenza tra gli indagati dell’inchiesta sui Sistemi Criminali, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, l’avvocato mafioso Rosario Pio Cattafi, altro soggetto che lega il proprio nome ad alcune delle vicende più oscure d’Italia.

    Paolo-Romeo
    L’avvocato Paolo Romeo

    Ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste, condannato in primo grado a 25 anni nel maxiprocesso “Gotha”. Quanto all’inchiesta “Sistemi Criminali”, invece, sarà la stessa accusa a richiedere l’archiviazione.

    Le accuse respinte dalla moglie di Delle Chiaie

    Un altro processo da cui Delle Chiaie uscirà pulito. L’ennesimo. Come quello per la strage di Bologna, che ha visto recentemente la condanna di Paolo Bellini. L’inchiesta di Report tira in ballo anche lui. «Tutta l’inchiesta si fonda su una dichiarazione fatta in un colloquio investigativo di 30 anni fa, che quindi non può essere utilizzata. Il mio assistito è stato implicato in quella storia nel ’92, ’93 ed esaminato da Giovanni Melillo, oggi procuratore nazionale antimafia. Lo vogliono rimettere in mezzo? E lo rimettano in mezzo. Ma, ricordiamolo, è stato archiviato» afferma l’avvocato di Bellini.

    delle-chiaie-funerale
    I funerali di Stefano Delle Chiaie

    E anche Delle Chiaie ha sempre respinto al mittente le accuse. Così come i riferimenti effettuati da diversi collaboratori di giustizia agli intrecci con la ’ndrangheta. Ora, deceduto da quasi tre anni, secondo qualcuno ha portato con sé tanti segreti. Secondo altri, invece, non può più difendersi e quindi lo infangano. Lo afferma Carola Delle Chiaie, moglie e vedova dell’ex avanguardista: «Una formazione che si può accusare di tante cose, ma non di connessioni con gentaccia come la mafia e tanto meno con la massoneria, che mio marito detestava come poche altre cose», dice. E conclude: «Si permettono di inserirlo in uno scenario incredibile. Dopo quanti anni scoprono che Delle Chiaie era a Capaci, che addirittura ha dettato la strategia delle stragi? È una follia, non c’è altra spiegazione».

  • Terremoto a Reggio Calabria: il Consiglio di Stato annulla la nomina di Bombardieri a capo della Procura

    Terremoto a Reggio Calabria: il Consiglio di Stato annulla la nomina di Bombardieri a capo della Procura

    Una decisione che sarebbe stata inficiata «dalla sottovalutazione delle proprie esperienze di funzioni direttive inquirenti e i relativi risultati nella repressione del fenomeno di criminalità organizzata, in particolare la cosiddetta mafia garganica».
    È solo uno stralcio delle motivazioni con cui il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del magistrato Domenico Angelo Raffaele Seccia e annullato la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura di Reggio Calabria.

    Il ricorso di Seccia

    Ex procuratore capo di Lucera e oggi procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Seccia era uno dei magistrati che, ormai oltre quattro anni fa, concorrevano per il posto lasciato vacante da Federico Cafiero de Raho, nel frattempo diventato Procuratore nazionale antimafia. In quell’occasione, siamo all’11 aprile 2018, a spuntarla fu proprio Bombardieri, che in quel periodo era procuratore aggiunto di Catanzaro.

    Domenico-Seccia-bombardieri-palamara
    Domenico Seccia

    Ma Seccia ha imbastito una lunga battaglia davanti alla giustizia amministrativa che, oggi, ha avuto l’esito finale.
    La decisione dei giudici ha ribaltato quanto deciso, in prima istanza, dal Tar del Lazio, che aveva respinto il ricorso di Seccia, che non si è arreso e ha avuto ragione davanti al Consiglio di Stato.

    La mafia garganica sottovalutata

    Secondo Seccia, il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe valutato correttamente il suo apporto alle inchieste sulla mafia garganica, prediligendo l’esperienza del calabrese Bombardieri nel contrasto alla ‘ndrangheta, presente nel territorio di competenza dell’ufficio di Procura oggetto dell’incarico.

    Nel proprio ricorso, infatti, Seccia sottolineava che «ulteriori censure hanno riguardato il giudizio di prevalenza espresso nei confronti del dottor Bombardieri per i profili delle capacità organizzativa, capacità relazionale ed informatica, oltre che la carenza di istruttoria con riguardo all’acquisizione del parere attitudinale e alla valutazione del progetto organizzativo per l’ufficio da conferire formulato da Seccia».

    Le motivazioni della sentenza

    Alla fine, quindi, viene premiata la pervicacia di Seccia. Il Consiglio di Stato, infatti, ha indicato la delibera del Csm come «carente per non aver minimamente considerato l’esperienza del dottor Seccia nella trattazione dei procedimenti sui reati associativi, in cui il ricorrente ha svolto funzioni di coordinamento investigativo, in virtù dell’incarico di coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Bari».

    Inoltre, stando alla sentenza del Consiglio di Stato, la delibera del Csm «trascura le esperienze direttive di Seccia, di cui Bombardieri è privo, per avere svolto solo funzioni semidirettive, e conseguentemente i risultati ottenuti dal primo, benché questi emergano dal suo fascicolo personale agli atti della procedura concorsuale in contestazione».

    “Illogica prevalenza attribuita a Bombardieri”

    Adesso, quindi, si rimette tutto in discussione. La nomina di Bombardieri è nulla e «il Consiglio superiore della magistratura dovrà pertanto riformulare il giudizio comparativo in conformità a quanto accertato nel giudizio».

    Questo perché, come emerge sempre dalla sentenza, ci sarebbe stata una «ingiustificata ed illogica prevalenza attribuita al dottor Bombardieri per la maggiore conoscenza del fenomeno criminale ‘ndranghetista. La sua collocazione geografica nel distretto di Reggio Calabria non vale infatti a giustificare sul piano normativo e del testo unico sulla dirigenza giudiziaria una preferenza sul piano attitudinale di un aspirante magistrato rispetto agli altri».

    Giovanni Bombardieri e il rapporto con Luca Palamara

    Un nuovo capitolo, dunque, nella nomina per il capo della Procura di Reggio Calabria. Di tale incarico, infatti, si parlava già nelle chat di Luca Palamara, agli atti del processo che lo vede imputato e corpus del suo fascicolo che ha provocato la radiazione dalla magistratura, dopo lo scandalo delle nomine nel Consiglio Superiore della Magistratura.

    Luca Palamara, originario di Santa Cristina d’Aspromonte, ma ben presto volato a Roma per fare carriera anche in seno al Consiglio Superiore della Magistratura. Per anni, a Palazzo dei Marescialli, Palamara sarebbe stato potentissimo.

    palamara
    L’ex magistrato Luca Palamara

    Ed è notorio il legame tra Bombardieri e Palamara. Entrambi membri di Unicost, la corrente maggioritaria della magistratura. Palamara sarà anche presente all’insediamento dell’amico Bombardieri al sesto piano del Cedir di Reggio Calabria.

    La nomina di Bombardieri nelle chat di Luca Palamara

    Sono molto lunghe le conversazioni via chat tra Bombardieri e Palamara: temi personali e scherzosi, come avviene tra due amici. Ma non solo. Nelle settimane antecedenti alla nomina a procuratore di Reggio Calabria, Bombardieri chiede «novità?» all’amico Palamara. «Tutto procede bene», è una delle risposte. E, all’uscita dal voto in Commissione, la Quinta, quella che decide sugli incarichi e che in quel periodo è presieduta proprio da Palamara, il primo a saperlo, via chat, è proprio l’interessato. Che ringrazia: «Grande Presidente!», scrive su Whatsapp l’attuale procuratore di Reggio Calabria. «Se riesco ti porto al Plenum l’11 aprile», dice Palamara. Il Plenum, infatti, è l’organo del Csm che ratifica le nomine, talvolta solo una formalità quando il voto fuoriuscito dalla Commissione è solido.

    procura-reggio
    La sede della Procura di Reggio Calabria

    Palamara tiene molto alla nomina di Bombardieri a Reggio Calabria. In una chat con terze persone scrive così: «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo». In un gruppo Whatsapp di magistrati l’ex membro del Csm comunica in anticipo l’avanzamento di Bombardieri verso la Procura di Reggio Calabria: «Saluti da Bombardieri» dice in una chat. La risposta di uno dei partecipanti: «Ci stai facendo capire tra le righe che Bombardieri è stato mandato dalla commissione a fare il procuratore di Reggio Calabria all’unanimità? Cazzo». E Palamara replica: «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui».
    Resta da capire se, con la sentenza del Consiglio di Stato, terminerà anche l’esperienza di Bombardieri a capo della Procura reggina.

  • Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità, senza giustizia. Per molti anche senza memoria. Ma non si arrende la famiglia di Maria Chindamo, l’imprenditrice scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016 tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Proprio oggi, a Limbadi, il sit-in per richiamare la memoria, promosso da Libera, Agape, comitato Controlliamo Noi Le Terre di Maria, Penelope Italia Odv.

    La storia di Maria Chindamo

    Non un luogo casuale. Una roccaforte della ‘ndrangheta, Limbadi, dove la cosca Mancuso uccide ancora tramite autobomba, come nel caso di Matteo Vinci. Anche la storia di Maria Chindamo è intrisa di mafiosità. Di certo sotto il profilo della mentalità ‘ndranghetista. Sotto il profilo penale, si vedrà.

    Nel 2015, il marito della donna, Ferdinando, si suicida, non accettando la fine della relazione. Circa un anno dopo, Maria scompare nel nulla, in quella che sembra una normale giornata, trascorsa tra la famiglia, a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, e l’azienda di proprietà, a Limbadi, nel Vibonese.

    maria-chindamo-ombra-ndrangheta-sei-anni-scomparsa-i-calabresi
    Vincenzo Chindamo, fratello della imprenditrice scomparsa nel 2016

    Le modalità mafiose

    Da anni, la famiglia di Maria Chindamo chiede che venga infranto il muro di omertà che soffoca il territorio. Lo fa anche attraverso la formazione dei più giovani: «Una volta – dice a I Calabresi Vincenzo Chindamo, fratello di Maria – un ragazzo in una scuola mi ha chiesto se abbia mai pensato di farmi giustizia da solo. Ma parlare ai giovani, creare un indotto di pensiero contro la subcultura mafiosa è farsi giustizia da solo».

    Da sei anni, Maria non si trova più. Nessuno ha mai chiesto un riscatto. E, nel probabile caso in cui la donna sia stata uccisa già nell’immediatezza del rapimento, la famiglia non ha mai avuto una salma da piangere. Un femminicidio perpetrato con le modalità ndranghetistiche, in cui la ‘ndrangheta potrebbe avere un ruolo importante. O ha verosimilmente consentito una rete di protezione di tipo criminale.

    Fin dall’inizio si affaccia l’ipotesi inquietante che Maria sia stata punita proprio per aver lasciato il marito. Perché ha “osato” interrompere la relazione con il marito. E perché ha tentato di rifarsi una vita, sentimentale e lavorativa.  Per questo andava punita, non solo con l’uccisione, ma anche con la sparizione, per cancellarla per sempre. Eccola la cultura ‘ndranghetista. La damnatio memoriae che deve accompagnare, nel linguaggio cifrato, chi si è macchiato di determinate “colpe”. Maria Chindamo va dimenticata. La “lupara bianca” serve proprio a questo.

    Le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo

    Maria Chindamo sarebbe stata aggredita davanti al cancello della propria azienda da due o più persone. Il motore della sua auto resterà acceso. A bordo gli inquirenti troveranno tracce di sangue e poco altro di utile.  La Procura della Repubblica di Vibo Valentia per anni ha indagato per omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere.

    Ma quello della “vendetta familiare” non è l’unico movente che, in questi anni, si è affacciato sulla scena. Ne è convinta Angela Corica, giornalista che ha seguito moltissimo la vicenda: «Maria era una donna libera, non solo in termini sentimentali, ma anche sotto il profilo professionale. Forse le indagini hanno avuto qualche lacuna perché si sono concentrate troppo su una sola causa. Mentre io credo che vi sia un mix di motivazioni», dice a I Calabresi.

    Fin dall’inizio, ci si concentra su diversi particolari che nessuno crede possano essere coincidenze. Dall’assenza di alcuni operai che Maria avrebbe dovuto incontrare quella mattina, al fatto che l’auto verrà ritrovata senza alcuna impronta estranea. Ma, soprattutto, la manomissione di una telecamera che avrebbe potuto immortalare i tragici attimi di quel 6 maggio 2016. Nel luglio del 2019 viene anche arrestato un uomo, Salvatore Ascone, in passato coinvolto in diverse inchieste riguardanti la cosca Mancuso. 

    Ma il Tribunale del Riesame prima e la Cassazione poi ritengono che non vi siano prove sufficienti e rimettono in libertà Ascone. «Il capitolo sulle telecamere potrebbe essere investigato ulteriormente», afferma a I Calabresi l’avvocato della famiglia Chindamo, Nicodemo Gentile. «Di sicuro qualcuno la seguiva e ha fatto da vedetta», aggiunge.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    Non un delitto di ‘ndrangheta, forse. Ma in cui la ‘ndrangheta sembra c’entrare eccome. In quelle zone, non si commette un crimine del genere senza il placet delle cosche. E infatti, negli anni, arrivano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.

    Il primo a parlare è Giuseppe Dimasi, un tempo affiliato alle cosche di Laureana di Borrello: «Con riferimento alla scomparsa di Mariella Chindamo, Marco diceva “secondo me gliel’hanno fatta pagare”, alludeva al fatto che la donna aveva avuto una relazione extraconiugale e il marito non accettando la separazione, si era suicidato». Il riferimento del pentito è a Marco Ferrentino, considerato il boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Laureana di Borrello.

    Più recenti le dichiarazioni di Antonio Cossidente, ex componente del clan lucano dei Basilischi, che riapre uno scenario che si è sempre affiancato alla pista dell’“onore”: quello delle attività economiche che Maria stava portando avanti su terreni che deteneva insieme all’ex marito e che potevano essere reclamati da qualcuno.

    maria-chindamo-ombra-ndrangheta-sei-anni-scomparsa-i-calabresi
    Maria Chindamo

    Maria Chindamo data in pasto ai maiali?

    Secondo quanto ha riferito Cossidente alla Dda di Catanzaro, Maria sarebbe stata uccisa per essersi opposta alla cessione di un terreno a Salvatore Ascone, proprio l’uomo indagato per l’omicidio dell’imprenditrice. Il corpo della donna sarebbe poi stato dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.

    A raccontare a Cossidente i fatti legati alla scomparsa di Maria Chindamo sarebbe stato Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone. Proprio il clan di Limbadi. Cossidente, infatti, trascorre una parte di detenzione con Mancuso e apprende alcuni particolari sulla scomparsa dell’imprenditrice di Laureana di Borrello: «Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto Pinnolaro, legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. Pinnolaro aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona».

    E “Pinnolaro” è proprio il soprannome di Ascone: «Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Emanuele mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali».

    Il caso alla Dda

    E proprio per questo, quindi, il fascicolo d’indagine dopo la scarcerazione di Ascone è passato alla Dda. «Non abbiamo notizia di provvedimenti di archiviazione, quindi questo ci lascia pensare che le indagini siano ancora aperte. E abbiamo fiducia completa nell’operato della magistratura», dice l’avvocato Gentile.

    Il legale sembra essere convinto di una matrice chiara: «Quello che ha decretato la morte di Maria Chindamo è un tribunale clandestino di matrice vendicativa». A distanza di sei anni, però, la magistratura non è ancora riuscita a venirne a capo: «Sembra che tutto sia in una fase di stallo perché non vi sono molte tracce e poche testimonianze», commenta amaramente Angela Corica.

    La famiglia di Maria Chindamo

    E, allora, non è affatto casuale il luogo scelto per il sit-in odierno. Un’ulteriore occasione per non dimenticare Maria e per non dimenticare di chiedere, di pretendere giustizia. Il fratello di Maria Chindamo, Vincenzo, e i figli della donna, Federica, Vincenzino e Letizia, in tutti questi anni non hanno mai smesso di ricercare la verità.

    «È una ferita che non si rimargina per la famiglia Chindamo, ma è una ferita nel tessuto sociale di questo territorio, un’infamia che dev’essere capita, attraversata e punita», dice l’avvocato Gentile. Dal canto suo, il fratello di Maria, Vincenzo, non molla: «Fin quando sarò presente il 6 maggio, significa che avrò fiducia e speranza».  

     

  • Ecco chi non ha voluto Gratteri alla guida dell’Antimafia

    Ecco chi non ha voluto Gratteri alla guida dell’Antimafia

    Tutto come da pronostico. Sfuma la nomina del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, a procuratore nazionale antimafia. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha alla fine optato per quello che, fin dall’inizio, era apparso come il protagonista nella contesa: il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo.

    melillo-nuovo-procuratore-antimafia-sconfitto-gratteri
    Giovanni Melillo, nuovo procuratore nazionale Antimafia

    Tutto da pronostico

    Giovanni Melillo ha 61 anni ed è originario di Foggia. Da anni era a capo della Procura di Napoli, dopo aver ricoperto il ruolo di capo di gabinetto di Andrea Orlando, quando questi era ministro della Giustizia. E’ quindi Melillo il successore di Federico Cafiero de Raho, andato in pensione da alcune settimane.

    Il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha quindi preferito Melillo a Gratteri. Da più parti si paventava un ballottaggio, ma già alcuni giorni fa, in un nostro articolo, avevamo indicato Melillo come il grande favorito. E, infatti, il ballottaggio non si è rivelato necessario.

    Dalla Commissione che si occupa degli incarichi, la corsa sembrava più serrata. Ma avevamo indicato chiaramente in Melillo il favorito. Soprattutto dopo la nomina di Marcello Viola a capo della Procura di Milano, che l’aveva fatto automaticamente uscire dalla contesa.

    La ripartizione dei voti

    Giovanni Melillo ha raggiunto dalla prima votazione 13 voti necessari. Sono 7 invece i voti andati al capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri e cinque quelli a favore di Giovanni Russo, aggiunto e sino ad oggi reggente della procura nazionale antimafia.

    Maggioranza larga, quindi, per Melillo che ha ottenuto i voti anche dei vertici della Cassazione: il primo presidente Pietro Curzio e il Pg Giovanni Salvi, hanno infatti sostenuto la sua nomina a procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Con Melillo si è schierata la parte progressista della magistratura, quella che fa capo ad Area, cinque consiglieri. Una corrente cui appartiene lo stesso procuratore di Napoli. Ma Melillo è riuscito a convincere anche i “moderati”, ossia i tre consiglieri di Unicost, la corrente centrista e maggioritaria in seno alla magistratura. Per lui, però, anche i voti dei laici Michele Carabona (Forza Italia) e Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati (M5s).

    melillo-nuovo-procuratore-antimafia-sconfitto-gratteri-i-calabresi
    Soltanto cinque voti per il magistrato Giovanni Russo

    Per Russo, invece, hanno votato invece l’intero gruppo di Magistratura Indipendente (la corrente di destra delle toghe) e il laico di Forza Italia Alessio Lanzi. A favore di Gratteri hanno votato i togati “indipendenti” Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Entrambi magistrati molto noti. Il primo ha svolto importanti inchieste sulla borghesia mafiosa di Catania. Mentre Di Matteo è il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia.

    A favore di Gratteri, però, anche i voti dei componenti di Autonomia e Indipendenza, i laici Stefano Cavanna e Emanuele Basile (Lega) e Fulvio Gigliotti (M5s), relatore della proposta a favore del capo della procura di Catanzaro.

    Le reazioni

    Accolgono quindi con favore l’elezione di Melillo le forze politiche di centrosinistra.  Anna Rossomando, senatrice e Responsabile Giustizia della segreteria Pd: «Un alto profilo e una grande competenza al servizio della lotta a tutte le mafie e al terrorismo».

    Ma anche il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo Pd: «Conosciamo il suo lavoro e le sue competenze e siamo certi che garantirà alla DNA una guida efficace che saprà proseguire il grande lavoro di Cafiero De Raho contrastando le cosche e l’aggressione all’economia legale».

    «Esclusione Gratteri segnale devastante»

    Molto dure, invece, le affermazioni del magistrato Ardita, uno dei principali sostenitori della candidatura di Gratteri a rilasciare una dichiarazione molto dura: «È come se la storia non ci avesse insegnato nulla. La tradizione del Csm è di essere un organo abituato a deludere le aspirazioni professionali dei magistrati particolarmente esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento».

    Ardita, da sempre, assai critico sul sistema di potere del Csm, è stato uno dei più duri commentatori delle vicende emerse con il “caso Palamara”. E nel corso del dibattito in plenum, spiegando il suo voto favorevole alla nomina di Nicola Gratteri aveva vaticinato: «L’esclusione di Gratteri sarebbe non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia».

    Così è stato. E ora bisognerà capire quale sarà il destino professionale di Nicola Gratteri, che ormai si avvia al termine massimo di permanenza alla carica di procuratore di Catanzaro.

  • Zoomafie: quelle bestie della ‘ndrangheta

    Zoomafie: quelle bestie della ‘ndrangheta

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «Con l’archeomafia, rubano il nostro passato, la nostra storia. Attraverso l’ecomafia, rubano il nostro futuro, l’avvenire della terra. Con la zoomafia, rubano il nostro presente, razziando la pietas che supera i confini di specie, rendendoci empaticamente sterili, indifferenti alla sofferenza degli altri individui del nostro stesso regno animale. Ambiente, animali umani e no: tutti vittime del morbo mafioso». Si esprime così Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista che ogni anno cura il Rapporto Zoomafia per la Lav, con la collaborazione della Fondazione Antonino Caponnetto.

    zoomafia-corse-combattimenti-clandestini-gestiti-dai-clan-in-calabria-i-calabresi
    Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista

    Il lockdown non ha fermato la zoomafia

    Neanche il lockdown del 2020 ha fatto crollare il fenomeno dei reati contro gli animali. «I traffici legati allo sfruttamento degli animali, rappresentano un’importante fonte di guadagno per i vari gruppi criminali che manifestano una spiccata capacità di trarre vantaggio da qualsiasi trasformazione del territorio e di guadagnare il massimo rischiando poco», è scritto nell’ultimo rapporto redatto da Troiano.

    Le mafie riescono a ottimizzare ogni cosa per i propri profitti: «A livello internazionale, la criminalità organizzata dedita ai vari traffici a danno degli animali si distingue per la sua capacità di agire su scala internazionale, per il suo orientamento al business, per la capacità di massimizzare il profitto riducendo il rischio. Tali traffici sono il simbolo, al pari delle altre mafie, della società globalizzata»,  si legge ancora nel Rapporto Zoomafia.

    zoomafia-corse-combattimenti-clandestini-gestiti-dai-clan-in-calabria-i-calabresi
    Pesce spade a tonni sequestrati dalla Guardia costiera

    Il mercato ittico

    Le capitanerie di porto calabresi sono tra le più attive nel contrasto agli illeciti riguardanti il materiale ittico. I controlli e i sequestri si susseguono. E, ovviamente, sono molto più intensi durante la stagione estiva.

    In riferimento alla pesca e commercio del cosiddetto “bianchetto” si legge nel “Rapporto Annuale sul controllo della pesca in Italia”: «Nell’anno 2020 l’attività di repressione posta in essere dagli uomini della Guardia Costiera delle Direzioni Marittime di Bari, Reggio Calabria, Catania, e Palermo contro gli illeciti in materia di pesca e commercializzazione illegale di prodotti ittici sottomisura di sardine cosiddetto “bianchetto”, hanno consentito di interrompere una rete di commercializzazione di questo prodotto, che a bordo di automezzi isotermici partivano dalla Puglia e dalla Calabria ionica per raggiungere le località della bassa Calabria e della Sicilia dove tale prodotto riscuote un forte apprezzamento».

    Non si tratta di argomenti interessanti solo per i “fanatici” dell’animalismo. Perché questi crimini consentono enormi guadagni: «L’attività di controllo ha consentito di rilevare 157 violazioni e sequestrare oltre tredici tonnellate di prodotto ittico illegalmente detenuto o commercializzato elevando sanzioni amministrative per circa 614 mila euro» – si legge ancora nel Rapporto.

    Il fenomeno in Calabria

    Cani, cavalli, uccelli, ghiri, pesci e materiale ittico in generale. La criminalità, organizzata e comune, in Calabria non risparmia nulla. 

    E si susseguono le operazioni antibracconaggio. Spesso anche all’interno di aree protette. Nel mese di gennaio 2020 c’è stato un servizio antibracconaggio a ridosso dell’area dello stretto di Messina. È stato eseguito dai Carabinieri forestali dei nuclei Cites di Reggio Calabria e Catania e del Soarda. Sono stati numerosi i bracconieri denunciati a Oppido Mamertina, Taurianova, San Giorgio Morgeto, Feroleto della Chiesa, Montebello Jonico e Messina.

    zoomafia-corse-combattimenti-clandestini-gestiti-dai-clan-in-calabria
    Carabinieri forestali in servizio

    Nel dicembre del 2020, l’indagine “Fox”, curata dal NAS di Cosenza, nelle province di Crotone, Cosenza e Reggio Calabria, ha portato a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Crotone, a carico di 8 persone (tra cui 6 veterinari ufficiali in servizio presso l’Asp di Crotone e 2 gestori di uno stabilimento di macellazione carni). Con il sequestro di uno stabilimento di macellazione e 4 allevamenti ad esso direttamente collegati, per un valore di oltre un milione di euro.

    I veterinari indagati, al fine di procurare ingiusti vantaggi patrimoniali agli allevatori cui erano contigui, avrebbero attestato falsamente l’esecuzione della profilassi anti-tubercolosi, alterando i prelievi di sangue effettuati su capi suini al fine di consentirne la macellazione.

    Le corse clandestine di cavalli

    È, quindi, spesso fondamentale il ruolo dei professionisti per poter portare a compimento questi e altri illeciti. In passato, è emerso il ruolo di un veterinario che forniva ai clan le sostanze dopanti per rafforzare la corsa dei cavalli. Diverse inchieste degli ultimi anni hanno infatti confermato l’interesse di alcuni sodalizi mafiosi per le corse clandestine, in particolare il clan Giostra – (Galli – Tibia) di Messina, i Santapaola di Catania, i Marotta della Campania. A questi vanno aggiunti i Casalesi del Casertano; il clan Spartà e i “Mazzaroti” della provincia di Messina; i Parisi di Bari; i Piacenti -“Ceusi” di Catania; i Labate, detti “ Ti Mangiu”, i Condello e gli Stillitano di Reggio Calabria.

    Il 29 gennaio 2020 è stata resa nota l’indagine “Helianthus” della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sugli affari economici della cosca Labate. L’inchiesta ha portato alla luce anche gli interessi del clan nel settore delle corse clandestine di cavalli e in quello dei giochi e scommesse on line.

    zoomafia-corse-combattimenti-clandestini-gestiti-dai-clan-in-calabria-i-calabresi
    Militari dell’Arma impegnati nel contrasto alle corse clandestine di cavalli

    Il clan Labate ha mantenuto inalterato il tradizionale “prestigio” nel territorio di competenza criminale (l’ampia area a sud della città di Reggio Calabria ed in particolare nel popoloso quartiere “Gebbione”), coltivando e rafforzando i rapporti e le alleanze criminali con altri storici “casati” di ‘ndrangheta. E dimostrando anche un certo dinamismo criminale in relazione a “nuovi” settori illeciti.

    Una cosca che ha saputo superare le epoche, rimanendo neutrale nel corso della seconda, sanguinosissima, guerra di ‘ndrangheta in riva allo Stretto. E mantenendo così il proprio territorio inviolato dalle ingerenze degli altri clan. Lì si fa razzia di estorsioni e di lavori edili. Ma non solo: «Ulteriori interessi sono emersi in seno al lucroso settore delle scommesse online, delle slot-machine e delle corse clandestine di cavalli». Ecco quanto è scritto nella Relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel primo semestre 2020.

    I “cani fantasma”

    Si scommette sulle corse dei cavalli. Ma anche sui combattimenti tra cani. In questo caso, L’AIDAA, l’Associazione Italiana in Difesa degli Animali e dell’Ambiente, ha denunciato: «Sono tremila i cani che nel 2021 sono spariti nel nulla in Sicilia, Sardegna, Puglia e soprattutto Calabria». Sono i cosiddetti “cani invisibili”, randagi che scompaiono nel nulla. Cuccioli e non.

    Cani di grossa taglia ogni giorno – ne parla la stessa AIDAA – sono picchiati e seviziati in allevamenti abusivi. Lì avviene la preparazione per i combattimenti, che si svolgono su tutto il territorio nazionale, ma anche all’estero. A volte, forse, anche con la complicità di canili compiacenti.

    Cani feriti e trattati in maniera disumana

    Nel mese di maggio 2020, i Carabinieri di Siderno coordinati dalla Procura di Locri hanno sequestrato un canile in provincia di Reggio Calabria. Una struttura con 187 box e 444 cani, di cui 146 sprovvisti di regolare microchip, dunque non iscritti all’anagrafe canina. Alcuni animali non erano nemmeno registrati negli elenchi dello stesso canile.

    Gli animali morti, è stato appurato nel corso dei controlli, sarebbero stati posti in contenitori di plastica tenuti in una cella frigo non funzionante. Diversi cani avrebbero presentato malattie della pelle, deperimento, piaghe purulente e importanti ferite da morso, causate durante gli scontri tra cani alloggiati negli stessi box. Inoltre, secondo quanto emerso, quasi tutti gli animali non erano sterilizzati e ciò alimentava aggressività e competizioni in particolari periodi.

    zoomafia-corse-combattimenti-clandestini-gestiti-dai-clan-in-calabria-i-calabresi

    Ancora, il 27 settembre 2020, vicino Vibo Valentia, i Carabinieri hanno scoperto un canile abusivo, senza alcun tipo di autorizzazione, in cui i cani erano tenuti in evidente stato di malnutrizione, rinchiusi in gabbie all’aperto, senza acqua e fra i loro escrementi, con sporcizia e cibo in decomposizione. I cani presenti all’interno della struttura abusiva erano 28, di cui solo 10 dotati di microchip.

    La cultura animalista in Calabria

    La Calabria è ancora tra le regioni maglia nera per quanto riguarda i cani avvelenati. Nei primi cento giorni di quest’anno sono poco meno di 3.000 i casi di avvelenamento.  Lo scorso anno erano 7.000 secondo le stime dell’AIDAA.

    Proprio nel 2021, in particolare alla fine dell’estate, vi fu una preoccupante impennata dei casi. Numeri da mettere in diretta correlazione con la tragedia della giovane Simona Cavallaro, sbranata da un branco di cani a Satriano, nel Catanzarese.

    «È una vera strage silenziosa quella dei cani avvelenati di cui stranamente le grandi organizzazioni sono molto tiepide nel denunciare la necessità di leggi severe e di messa al bando di alcuni prodotti che vengono utilizzati per questo sterminio di massa dei cani randagi» – afferma ancora l’AIDAA.

    La presa di coscienza sulla zoomafia

    Nel corso degli anni, grazie al lavoro della Lav e, soprattutto al rapporto sulla Zoomafia, si sono aperti altri filoni investigativi, come la macellazione clandestina, l’abigeato, le sofisticazioni alimentari. Il rapporto Zoomafia, ogni anno, viene stilato sulla scorta di oltre 20mila pagine consultate.

    «Quando parliamo di zoomafia non intendiamo la presenza o la regia di Cosa nostra dietro gli scenari descritti, piuttosto ci riferiamo ad atteggiamenti mafiosi, a condotte criminali che nascono dallo stesso background ideologico, dalla stessa visione violenta e prevaricatrice della vita» – dice, infine, Ciro Federico Troiano.

  • Concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria: “Mediterranea” decapitata

    Concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria: “Mediterranea” decapitata

    Doveva “aspettare il proprio turno”. Avrebbero funzionato così i concorsi all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. È un vero e proprio bubbone quello che ha fatto scoppiare l’inchiesta “Magnifica”, condotta dalla Procura reggina ed eseguita dalla Guardia di Finanza.

    Decapitata l’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    A essere coinvolti, 6 professori ordinari e 2 dipendenti dell’area amministrativa dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Tra le persone sottoposte alla misura cautelare del divieto temporaneo all’esercizio del pubblico ufficio ricoperto presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria figurano anche l’attuale rettore dell’Ateneo, Santo Marcello Zimbone, sottoposto ad una misura interdittiva della durata di 10 mesi.

    Il rettore Zimbone

    Catanese di nascita, si è laureato in Ingegneria civile idraulica all’Università degli Studi di Catania e ha conseguito il dottorato di ricerca in Idronomia all’Università degli Studi di Padova nel 1994. È il rettore dell’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria da alcuni anni.

    È il successore di Pasquale Catanoso, attuale prorettore vicario e anch’egli colpito dall’inchiesta “Magnifica”. Per Catanoso, da anni uomo assai influente nelle dinamiche accademiche, è arrivata una misura interdittiva della durata di 12 mesi. Nei confronti di quest’ultimo, il GIP ha altresì disposto l’esecuzione di un sequestro preventivo del valore di circa 4 mila euro.

    L’indagine

    L’arco temporale investigato è molto significativo e va dal 2014 al 2020. Secondo gli inquirenti, all’interno dell’Ateneo sarebbe esistita in tutto questo periodo un’associazione dedita alla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione e contro la fede pubblica. Una vera e propria “Concorsopoli”, che mette nel mirino la direzione e gestione dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria e delle sue articolazioni compartimentali.

    Sulla base di quanto emerso dalle indagini, la perpetrazione di molteplici e reiterati atti contrari ai doveri d’ufficio di imparzialità, lealtà, correttezza e fedeltà si manifestava, soprattutto, in occasione delle varie procedure concorsuali e comparative, nella selezione delle commissioni esaminatrici attraverso la scelta di componenti ritenuti “affidabili” e pertanto idonei a garantire un trattamento favorevole ai singoli candidati scelti “direttamente” o a seguito di “segnalazione”.

     “Aspettare il proprio turno”

    Le indagini traggono origine da un esposto, presentato alla Procura della Repubblica reggina, retta da Giovanni Bombardieri. A denunciare tutto, una candidata non risultata vincitrice, che avrebbe segnalato condotte irregolari perpetrate in occasione dell’espletamento della procedura di valutazione comparativa per un posto di ricercatore universitario.

    universita-reggio-calabria-concorsi-truccati-decapitata-la-mediterranea
    Il procuratore Bombardieri

    La denuncia penale è stata solo l’extrema ratio decisa dalla candidata, che inizialmente aveva promosso presso la Giustizia amministrativa dei ricorsi. Ma arriverebbe qui, stando al racconto, la frase “incriminata”. Non solo sotto il profilo penale, ma anche sotto il profilo sociale. Sarebbe stato infatti suggerito di rinunciare all’azione giudiziaria intrapresa ed “aspettare il proprio turno” per avere accesso a future opportunità professionali all’interno del Dipartimento.

    Le perquisizioni

    È un bubbone perché, oltre a essere coinvolti i vertici, finiscono nelle maglie delle Fiamme Gialle anche altri docenti ordinari. Nonché alcuni membri del personale amministrativo.  Sono in tutto quattro i docenti interdetti dai due ai quattro mesi.

    Si tratta di Ottavio Salvatore Amaro, professore associato del Dipartimento di architettura ed ex direttore generale dell’ateneo; Adolfo Santini, direttore del Dipartimento di architettura; Massimiliano Ferrara, direttore del Dipartimento di giurisprudenza, economia e scienze umane; Antonino Mazza Laboccetta, professore associato dello stesso Dipartimento di giurisprudenza. L’interdizione riguarda, inoltre, anche due funzionari dell’Area tecnico-scientifica elaborazione dati dell’Ateneo, Alessandro Taverriti e Rosario Russo.

    Contestualmente, i finanzieri hanno eseguito perquisizioni domiciliari e personali nei confronti di 23 soggetti. L’obiettivo della Guardia di Finanza è quello di scovare materiale probante nei sistemi informatici/telematici in uso alla “Mediterranea”. Le procedure comparative e concorsuali riguardavano indistintamente le posizioni di ricercatori, di professori ordinari e associati, di assegnisti di ricerca nonché le selezioni per l’accesso ai dottorati di ricerca e ai corsi di specializzazione.

    Lo sperpero di denaro all’Università di Reggio Calabria

    Gli indagati rispondono infatti di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici, peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.

    Alla Mediterranea, infatti, sarebbe stato documentato un sistematico sperpero di risorse universitarie. E, quindi, di soldi pubblici. Le autovetture di servizio, infatti, sarebbero state sistematicamente sottratte alle loro finalità istituzionali per essere utilizzate ai fini privati. L’indebito utilizzo delle risorse dell’ente non ha riguardato solo le autovetture di servizio. Le contestazioni di peculato concernono, infatti, anche le carte di credito intestate all’Università, reiteratamente utilizzate per pagare spese di natura prettamente personale.

    Ma è quella degli appalti la questione apparentemente più grave: l’affidamento di lavori edili di manutenzione dei locali universitari, infatti, sarebbe arrivato in assenza di apposite procedure di gara e sulla base di false prospettazioni della realtà fattuale.

    • Sono 52 in totale le persone che figurano nel registro degli indagati:
    • Elvira Rita Adamo, 1990, Cosenza
    • Renata Giuliana Albanese, 1957, Roma
    • Salvatore Ottavio Amaro, 1959, Reggio Calabria (professore associato Dipartimento Architettura)
    • Nicola Arcadi, 1953, Reggio Calabria
    • Giuseppe Bombino, 1971, Reggio Calabria
    • Pasquale Catanoso, 1953, Reggio Calabria (pro rettore università di Reggio Calabria)
    • Antonio Condello, 1973, Taurianova
      Zaira Dato, 1949, Catania
    • Alberto De Capua, 1964, Reggio Calabria
    • Roberto Claudio De Capua, 1961, Reggio Calabria
    • Lidia Errante, 1989, Reggio
    • Philipp Fabbio, 1976, Villorba (Tv)
    • Giuseppe Fera, 1950, Messina
    • Massimiliano Ferrara, 1972, Reggio Calabria (direttore del dipartimento Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane)
    • Giovanna Maria Ferro, 1977, Reggio Calabria
    • Gaetano Ginex, 1953, Palermo
    • Giovanni Gulisano, 1959, Catania
    • Rita Iside Laganà, 1994, Reggio Calabria
    • Filippo Laganà, 1964, Reggio Calabria
    • Maria Teresa Lombardo, 1990, Roccella Ionica
    • Demetrio Maltese, 1988, Reggio Calabria
    • Chiara Manti, 1991, Campo Calabro
    • Domenico Manti, 1955, Campo Calabro
    • Antonino Laboccetta Mazza, 1972, Reggio Calabria (professore associato dipartimento Giurisprudenza)
    • Martino Milardi, 1962, Reggio Calabria
    • Carlo Francesco Morabito, 1959, Villa San Giovanni
    • Gianfranco Neri, 1952, Roma
    • Stefania Ilaria Neri, 1991, Pavia
    • Paolo Neri, 1961, Reggio Calabria
    • Rossella Panetta, 1991, Galatro
    • Adele Emilia Panuccio, 1988, Reggio Calabria
    • Giuseppe Pellitteri, 1954, Palermo
    • Giulia Ida Presta, 1993, Cosenza
    • Antonello Russo, 1972, Messina
    • Valerio Maria Rosario Russo, 1956, Salerno (funzionario area tecnica)
    • Francesca Sabatini, 1994, Roma
    • Giovanni Saladino, 1963, Bova marina
    • Adolfo Santini, 1955, Catania (direttore dipartimento Architettura)
    • Leonardo Schena, 1971, Monopoli
    • Andrea Sciascia, 1962, Palermo
    • Aurelia Sole, 1957, Cosenza (ex rettore dell’Università della Basilicata)
    • Vincenzo Tamburino, 1953, Catania
    • Alessandro Taverriti, 1959, Messina (funzionario area tecnica)
    • Laura Thermes, 1943, Roma
    • Marina Rosa Tornatora, 1970, Reggio Calabria
    • Michele Trimarchi, 1956, Roma
    • Giuseppe Tropea, 1975, Soverato
    • Agostino Urso, 1965, Reggio Calabria
    • Giovanna Zampogna, 1990, Palmi
    • Giuseppe Zampogna, 1954, Palmi
    • Antonio Demetrio Zema, 1970, Reggio Calabria
    • Agrippino Marcello Santo Zimbone, 1961, Catania (rettore dell’Università di Reggio Calabria)
  • Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

    Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    C’è un menu degli uomini di ‘ndrangheta? Sì, ed è tutto sommato assai simile a quello sulle tavole calabresi nei giorni di Pasqua e Pasquetta. Le ‘ndrine, del resto, hanno sempre pescato a piene mani nella tradizione. Il cibo e le riunioni conviviali hanno sempre avuto un ruolo importante nelle dinamiche di ‘ndrangheta. Sono le cosiddette “mangiate”.

    Accordi ed equilibri a tavola

    Le più o meno affollate tavolate sono sempre state le occasioni dove le cosche di ‘ndrangheta hanno spesso stabilito accordi, creato alleanze, imbastito affari. Le cosiddette “mangiate” sono delle vere e proprie riunioni di ‘ndrangheta. Dei summit mafiosi, seri nei contenuti, ma intervallati da un bicchiere di vino rosso locale. E da succulenta carne di maiale, di capra, di agnello.

    Vale tanto sul territorio calabrese, quanto fuori dalla regione. Le ‘ndrine, infatti, ripropongono le medesime dinamiche. Che ci si trovi a Polsi, prima o dopo la processione della Madonna della Montagna. Oppure in Canada, dove da sempre è egemone il gruppo di Siderno. Oppure nell’Europa centrale – Svizzera, Olanda, Germania – dove i clan della Piana di Gioia Tauro e del Catanzarese sono egemoni. Ma anche in Australia, dove la ‘ndrangheta è capace di eleggere sindaci.

    ‘ndrangheta-santuario-polsi
    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    Dai traffici di droga ai candidati da sostenere, oppure le vicende da chiarire. Nell’inchiesta “Nuova Narcos Europa”, sui traffici del potente casato dei Molè di Gioia Tauro, convivono i metodi moderni delle nuove leve del clan, con l’arcaicità delle “mangiate” per dirimere questioni. Le “mangiate” possono essere risolutive. Oppure stabilire la fine di qualcosa o qualcuno. Anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott” c’è traccia delle “mangiate” organizzate dai membri della famiglia Lo Bianco, egemone nel Vibonese.

    Capretto e agnello al “battesimo”

    C’erano capretto e agnello sulla tavola quando Antonino Belnome entrò nella ‘ndrangheta. È lo stesso Belnome a raccontarlo, una volta divenuto collaboratore di giustizia. Per anni è stato uomo forte dei clan in Lombardia. Capretto e agnello arrostiti, mentre si fa entrare un nuovo uomo nell’organizzazione. Tradizione e futuro convivono perfettamente, come sempre, nella ‘ndrangheta.

    «Giura di rinnegare padre sorelle e fratelli fino alla settima generazione e di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo con i tuoi nuovi compagni e senza macchia d’onore o peggio di infamità a carico tuo e a discarico della società”. A quel punto dovevo dire “lo giuro” e tutti quanti dissero “lo giuriamo anche noi”» è scritto nel suo memoriale. E poi il taglio sulla mano e il sangue rosso che fuoriesce. Rosso come il vino con cui poi si accompagnano capretto e agnello.

    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Il valore delle “mangiate” nella ‘ndrangheta

    Uomo della ‘ndrangheta lombarda, Belnome: «Non si poteva mangiare finché non si diceva ‘buon appetito’» spiega. Ed è proprio da una delle inchieste più note sulla ‘ndrangheta al Nord, che arriva una delle definizioni più lucide del valore delle “mangiate” in seno alla ‘ndrangheta. L’operazione “Fiori della notte di San Vito” scatta nel giugno del 1994: l’inchiesta della Dda di Milano porta all’iscrizione di quasi 400 persone. Tutte accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico di armi, omicidio, spaccio e traffico di stupefacenti, rapine, estorsione, usura, minacce, favoreggiamento.

    Ricostruisce le dinamiche e gli affari delle cosche nelle province di Milano, Como, Lecco, Varese, Pavia e Brescia per circa un ventennio, dal 1976 al 1994. E proprio in quell’inchiesta, si legge: «Gli incontri denominati “mangiate” assumono particolare interesse investigativo, poiché permettono di documentare importanti momenti di crescita dei singoli affiliati (concessioni di doti) piuttosto che ricostruire gli equilibri interni delle strutture indagate». Anche negli incontri conviviali documentati ormai circa 30 anni fa, il piatto preferito era la carne di capra.

    In Calabria e ovunque

    Le indagini degli ultimi anni raccontano come sia ancora viva questa ritualità in Calabria e in Lombardia, ma non solo. Un’inchiesta sulle cosche di Giffone, infatti, ricostruisce una “mangiata” a base di carne di capra anche in Svizzera, a Zurigo. Siamo nel maggio 2020.

    E anche una delle ultime inchieste sulla ‘ndrangheta nel Lazio, quella che ha sconvolto i territori di Anzio e Nettuno, c’è traccia di questo tipo di ritualità. Un’indagine che ha fatto emergere le figure di Bruno Gallace, Nicola Perronace, Giacomo Madafferi che fanno riferimento alle ‘ndrine di Santa Caterina d’Aspromonte e di Guardavalle.

    Anzio vista dall’alto

    Proprio Belnome parla delle “mangiate di ‘ndrangheta” in quei territori: «Si mangiano alcuni determinati prodotti tradizionali del tipo capretto, e poi ci sono delle… tutte dei rituali, delle funzioni, delle regole, delle circostanze dove in quella mangiata poi scaturisce sempre in una riunione di ‘ndrangheta […] E ci sono rigide dove c’è il capo tavola che libera la tavola”.

    Il cibo delle ‘ndrine

    Pranzi (soprattutto) e cene dove il menu tipico è la carne di capra. Ma non solo. Anche l’agnello e il maiale. Le cosiddette “frittolate” nei tanti poderi di campagna a disposizione delle cosche. Lontani da occhi indiscreti. Almeno questa è l’intenzione.

    Ma, negli ultimi mesi, sono sempre più ricorrenti i maxisequestri di ghiri. Uno degli ultimi, ingente: diversi ghiri vivi in gabbia e ben 235 surgelati in freezer in oltre 50 pacchetti. I ghiri sono considerati animali di specie protetta. E molto gettonati sulle tavolate di ‘ndrangheta. Sempre in ossequio alla tradizione, dato che se ne cibavano anche già i legionari romani.

    I carabinieri di Reggio sequestrano centinaia di ghiri surgelati a Delianuova

    Bolliti nel sugo o arrosto, la consumazione del ghiro sarebbe una celebrazione di potere. Preparare e consumare i piatti a base dei roditori, nell’immaginario ‘ndranghetista, significherebbe legarsi a un patto indissolubile. Dalle intercettazioni captate dagli inquirenti, infatti, diversi pasti in cui doveva essere rinsaldata la pace tra famiglie e sodalizi sarebbero stati a base di ghiri.

    Una caccia diffusa in tutta la Calabria: in provincia di Cosenza, sul versante ionico (Rossano), ma anche sull’Altipiano della Sila (San Giovanni in Fiore) e sulla fascia tirrenica (Orsomarso). In provincia di Crotone nella zona di Castelsilano (Sila Piccola). Ma è nelle Serre, dove si incrociano le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, che si trova la tradizione più radicata, nel territorio di Guardavalle, Santa Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi.
    E, in caso di dono, d’obbligo donare il roditore ancora provvisto di coda. Solo dalla coda, infatti, è possibile riconoscere che si tratta di un ghiro e non di un topo.

  • I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    Patrimonio dell’Unesco. Proprio come il Centro Storico di Roma. O Venezia e la sua laguna. O i Sassi di Matera, i Trulli di Albero Bello, la Costiera Amalfitana, le Dolomiti, i Portici di Bologna, solo per rimanere in Italia. E per menzionare solo alcuni esempi. Anche i Bronzi di Riace potrebbero diventare Patrimonio dell’Umanità.

    L’annuncio è avvenuto proprio nel corso della conferenza stampa con cui il Comitato Interistituzionale presieduto dalla Regione Calabria ha presentato il logo e le iniziative per il cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi di Riace.

    Il logo per i 50 anni

    Sfondo azzurro. Proprio come quel mare dove vennero ritrovati, ormai quasi 50 anni fa. Era il 16 agosto del 1972. Oggi il Comitato interistituzionale ha presentato il logo che accompagnerà le numerose iniziative, sul territorio e fuori dalla Calabria, che dovranno celebrare la straordinaria scoperta. Nella parte centrale campeggia la scritta “Bronzi 50”, con i numeri in colore oro.

    bronzi-di-riace-logo-50-anni
    Il logo realizzato per celebrare l’anniversario

    «I Bronzi sono un patrimonio su cui intendiamo lavorare molto per irrobustire l’immagine della Calabria nel mondo. Ed è anche un’occasione per fare squadra con il MaRc, la Città Metropolitana, di modo che la cultura sia tra i cardini del riscatto economico del nostro contesto. E i Bronzi, senza dubbio, hanno uno straordinario effetto trainante», ha detto la vicepresidente Princi.

    Il Tavolo di coordinamento

    La Regione mette così a tacere le tante critiche fin qui giunte circa i ritardi nella preparazione delle iniziative atte non solo a ricordare, ma, soprattutto, a far conoscere i due Guerrieri e la loro storia millenaria.

    A coordinare il Comitato e il tavolo della presentazione, la vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi. Ma sono numerosi gli enti coinvolti: il Comune e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, il Comune di Riace, la Camera di Commercio e l’Università di Reggio Calabria, il Ministero della Cultura e la Sovrintendenza Regionale dei Beni Archeologici.

    bronzi-di-riace-conferenza
    La conferenza stampa di oggi per presentare le iniziative in programma

    I Bronzi di Riace Patrimonio dell’Unesco?

    Il Comitato, infatti, ha elaborato un Piano di promozione, comunicazione ed eventi internazionali, che si concluderanno nel mese di dicembre 2022. Programmati eventi dedicati ai Bronzi di Riace in Texas, Inghilterra, Germania, Francia, con il coinvolgimento delle Camere di commercio estere e delle Ambasciate.

    I due Bronzi, di età riconducibile al V secolo a.C., sono custoditi al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Ma solo raramente sono riusciti ad avere la ribalta meritata. Ora, però, la Regione vuole pensare e agire in grande: «L’anniversario del 50esimo del ritrovamento dei Bronzi di Riace rappresenta una grande opportunità, una vetrina importante per la promozione culturale e turistica della Calabria. Proprio per questo stiamo lavorando affinché le due statue diventino Patrimonio mondiale Unesco», ha detto Princi.

    Carmelo-Malacrino
    Carmelo Malacrino

    Per il direttore del Museo nazionale, Carmelo Malacrino, «si tratta di una occasione irripetibile per rilanciare i Bronzi». Melacrino ha confermato che anche per la prossima stagione estiva, il Museo tornerà ad ospitare, dalle ore 20 alle 23, incontri, concerti e approfondimenti culturali.

    Le iniziative

    Mostre, convegni, incontri, promozione dentro e fuori dal territorio. Ma, soprattutto, l’obiettivo di far conoscere il più possibile i due guerrieri fuori dalla regione. La Cittadella ha già predisposto la proiezione delle statue dei Guerrieri sui video-wall di importanti stazioni ferroviarie, come quelle di Milano e Roma, ma anche sugli schermi degli aeroporti italiani. Tutto dovrebbe partire da maggio e andare fino a dicembre, per far parlare delle statue per tutta la durata del 2022.

    roma-termini
    L’ingresso della Stazione di Roma Termini

    Su questa linea si inquadra anche la partnership con il Giro d’Italia di ciclismo, che partirà a maggio, e con il Salone del Libro di Torino, che si terrà dal 19 al 23 dello stesso mese. Celebrazioni che si dovrebbe concludere a dicembre con l’opera lirica capolavoro di Francesco Cilea, Adriana Lecovreur. Interpreti principali: Maria Agresta, reduce dalla Scala di Milano con la stessa opera, e Michele Fabiano, tenore di fama internazionale, peraltro originario di Scilla.

    Il problema dei trasporti

    Mai del tutto valorizzati. E, proprio per questo, in passato da più parti si sollevò la proposta di spostare i Bronzi, di portarli in giro per il mondo. Il Comitato interistituzionale ha un’altra idea: «I Bronzi devono rimanere al Museo Archeologico di Reggio Calabria». Lo hanno detto sostanzialmente tutti: la stessa Princi, ma anche Malacrino e il sindaco di Riace, Antonio Trifoli. Quindi, dev’essere il mondo a recarsi a Reggio Calabria per ammirare due opere uniche.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    Ciò che preoccupa, però, è l’isolamento della regione. I potenziali turisti potrebbero essere scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Calabria e dai prezzi assai esosi per atterrare a Reggio Calabria. Sul tema degli aeroporti, Princi ha rivendicato il lavoro svolto dalla Giunta Regionale presieduta da Roberto Occhiuto con l’acquisizione del 70% delle quote della Sacal. Attraverso questo passaggio, la vicepresidente della Regione è convinta che già nel breve periodo si possa arrivare a eliminare le limitazioni che hanno fin qui frenato lo sviluppo dell’Aeroporto dello Stretto, con l’arrivo, per esempio, delle compagnie low cost.

    La vicepresidente della Regione, ancora, ha reso noto la proposta di «pacchetti turistici integrati e mirati per le scuole, dedicati ai Bronzi, con il coinvolgimento dell’imprenditoria locale». Oltre un milione di euro per gli istituti scolastici con meta privilegiata la Città Metropolitana di Reggio Calabria.

    Le attività economiche

    Il presidente della Camera di Commercio, Antonino Tramontana, ha reso noto che «all’interno dei pacchetti turistici programmati, con soste da una a tre settimane, con l’impegno dei ristoratori, saranno offerti piatti gastronomici in sintonia con l’evento. Un menù tipico della nostra provincia, accompagnato da cocktail, vini tipici e una birra di produzione locale fatta col nostro grano e il bergamotto».

    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Sono 20 gli itinerari di varia durata, resi già disponibili, dedicati ai Bronzi di Riace e finalizzati a far conoscere le grandi ricchezze culturali, naturalistiche ed enogastronomiche del territorio reggino. Il presidente Tramontana ha annunciato che diversi chef e diversi barman stanno già lavorando per creare dei menù tipici del territorio e dei cocktail dedicati al cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi. Così come è in atto il coinvolgimento delle aziende vinicole e dei birrifici. «Le attività ristorative saranno invitate a promuovere anche la somministrazione di preparazioni enogastronomiche identitarie del territorio, dedicate all’evento», dice ancora Tramontana.

    SCARICA IL PROGRAMMA DEGLI EVENTI CLICCANDO QUI