Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.
Franco Muto da Cetraro
DaCetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.
Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente
La leggenda del re del pesce
Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.
Un regno nato a colpi di pistola
Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.
Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni
Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.
Lucio Ferrami
Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.
Franco Muto e il caso Losardo
Giannino Losardo
Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.
Bandiere rosse a Cetraro durante i funerali di Giannino Losardo
L’intervento di Enrico Berlinguer ai funerali di Losardo
Tra la folla, vicino al microfono, si nota ancora Berlinguer
Non solo cetraresi al funerale di Giannino Losardo
Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980. Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti. Il delitto Losardo è tuttora impunito.
Franco Muto e la Cunski
È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.
Il relitto della Cunski
Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.
Molto rumore per nulla?
L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.
Franco Muto torna libero
Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.
Il porto di Cetraro
E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.
Una cosca che appartiene, a tutti gli effetti, al gotha della ‘ndrangheta. Hanno agganci ovunque i Mancuso, capaci di sfruttare quel volto “dolce” della ‘ndrangheta per blandire e colludere utilizzando la massoneria deviata come camera di compensazione. Ma, all’occorrenza, in grado di mostrare il volto più cruento. Sul loro territorio di appartenenza, la provincia di Vibo Valentia, non è inusuale anche l’utilizzo di esplosivi per gesti eclatanti. La prova è data, tra gli altri eventi, l’autobomba che uccide Matteo Vinci.
Come tutte le importanti cosche della ‘ndrangheta, anche i Mancuso hanno costruito molta della propria forza economica grazie al business del traffico di droga. Dialogano da pari a pari con i narcos colombiani e, in generale, con tutto il mondo criminale del Sud America. Già quindici anni fa, nel 2008, una relazione della DIA afferma: «I Mancuso operano nel florido settore del traffico di cocaina, dove sono riusciti ad acquisire un notevole peso, assicurandosi un canale privilegiato con i cartelli colombiani, con i narcotrafficanti spagnoli, spingendosi sino in territorio australiano».
I Mancuso e le altre cosche
Un’inchiesta della Procura di Catanzaro, denominata Black Money, mostra la forza della cosca Mancuso di Limbadi, nel Vibonese, , a pieno titolo tra le più potenti famiglie della ‘ndrangheta di tutte le province calabresi. Nel Vibonese, non si muoverebbe foglia senza il placet dei Mancuso. Esplicativa, in tal senso, la sentenza che sancisce l’esistenza della cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona: «Tutte le cosche insediate sul territorio della provincia vibonese fanno capo all’associazione per così dire maggiore dei Mancuso la quale, nel riconoscere alle varie ‘ndrine minori la dignità di organizzazioni autonome e indipendenti, conferisce loro la legittimazione ad operare».
La Procura di Catanzaro
La potenza economica e militare della cosca Mancuso emerge, inoltre, in alcuni procedimenti penali degli anni ’70 e ’80 che attestano i forti e diretti collegamenti con molte tra le altre cosche di ‘ndrangheta di maggior tradizione mafiosa dell’intera regione. In primo luogo, quelle storiche del reggino, specie della Piana di Gioia Tauro. Ma anche le cosche di più antico potere storicamente radicate nelle altre province. Fortissimi e stabili gli intrecci con le cosche della provincia di Reggio Calabria. In particolare, quelli con i Piromalli, i Mammoliti, i Pesce, i Mazzaferro e i Rugolo.
La cosca Mancuso, in una regione all’ultimo posto in Italia nella graduatoria di reddito ed al primo in quella per tasso di disoccupazione, controlla i cantieri, muove gli autocarri, costruisce alberghi, apre negozi ed assume manodopera.
Ciccio Mancuso vince le elezioni
La storia criminale dei Mancuso ha inizio proprio con il loro coinvolgimento nella faida di San Gregorio d’Ippona, con il supporto ai Fiarè contro i Pardea. Siamo nel 1977.
Ma sono gli anni ’80 a consacrare la forza del casato di Limbadi all’interno dello scacchiere ‘ndranghetista. È, infatti, il 1983 quando viene sciolto il comune di Limbadi, primo centro a subire questo provvedimento, sebbene ancora non vi sia una legge specifica per contrastare le infiltrazioni delle consorterie criminali nelle istituzioni locali.
Lì, a Limbadi, l’allora capobastone Ciccio Mancuso risultò (da latitante) il primo degli eletti, spingendo il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini, a intervenire.
Ciccio “Tabacco” Mancuso
Nel nuovo millennio, numerose le inchieste giudiziarie che mettono sotto la lente d’ingrandimento la cosca di Limbadi. Dall’indagine Dinasty, che tratteggiò le divisioni all’interno del clan, all’inchiesta Decollo, che invece ricostruì l’asse con i Pesce di Rosarno per il traffico internazionale di droga.
Da ultima, ovviamente, l’inchiesta “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro sta ricostruendo i legami della cosca con il mondo istituzionale e con quello della massoneria deviata. Da qui, tra gli altri, il coinvolgimento dell’avvocato ed ex parlamentare, Giancarlo Pittelli.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
A tratteggiare il ruolo rivestito all’interno della ‘ndrangheta unitaria dalla cosca Mancuso sono numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti parlano del ruolo rivestito dalla famiglia originaria di Limbadi fin dagli anni ’70 e ’80. Gli anni, cioè, della prima e della seconda guerra di ‘ndrangheta, che cambiano il volto della associazione criminale calabrese.
Tra gli altri, Francesco Onorato: «Dopo la morte di Paolo De Stefano, furono i Piromalli, in particolare Peppe Piromalli e anche Luigi Mancuso, i referenti di Cosa Nostra in Calabria. Quando dico referenti intendo dire che facevano parte di Cosa Nostra, come Nuvoletta, Zaza e Bardellino in Campania. Ciò mi fu spiegato da Salvatore Biondino. “Fare parte” significava che ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Per quanto riguarda gli omicidi Cosa Nostra, quando chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti».
Andrea Mantella
Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, uno dei più importanti di quelli di ultima generazione nel Vibonese, afferma che diversi membri della famiglia Mancuso avrebbero il grado di “Medaglione”, uno dei più alti all’interno della struttura ‘ndranghetista. E diversi pentiti parlano del ruolo apicale che avrebbe rivestito Luigi Mancuso nel mandamento tirrenico, fungendo da anello di congiunzione tra le cosche del Reggino e quelle della provincia di Catanzaro.
La riunione di Nicotera
Non è un caso e, anzi, è indicativo del ruolo fondamentale rivestito dai Mancuso, il fatto che, nel progettare la strategia della tensione di metà anni ’90, la ‘ndrangheta, nel muoversi come si stava già muovendo Cosa Nostra, abbia scelto, per una delle riunioni più importanti (come sancito dal processo ‘Ndrangheta stragista) proprio il territorio dei Mancuso. È la riunione tra cosche di Nicotera Marina, svolta all’interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, legatissima a quella dei Piromalli, come provano diverse sentenze definitive quali Piano verde, Porto e Tirreno. Sulla riconducibilità del villaggio turistico ai clan vibonesi riferiscono diversi collaboratori di giustizia. Notoria l’infiltrazione delle cosche vibonesi nelle strutture ricettive di quell’area. Allora, come oggi.
La spiaggia di Nicotera
Ragionevole, quindi, che si sia scelto il loro regno per avere garanzie sul ruolo dell’importante riunione. L’assise criminale in questione ha avuto un altissimo valore strategico essendo, il suo oggetto, proprio la questione stragista. E non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria. Il che, peraltro, rappresenta una ulteriore prova storica della unitarietà della ‘Ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l’esterno si presentava unita e compatta.
I Mancuso e la massoneria
Le intercettazioni svolte hanno evidenziato l’interesse della famiglia Mancuso ad “avvicinare” politici, giudici, esponenti delle Forze dell’Ordine, al fine di ottenere vantaggi, soprattutto di carattere giudiziario o economico. Protagonista è Pantaleone Mancuso, uno degli esponenti più rilevanti della cosca, per la sua peculiare capacità di infiltrarsi, tramite terze persone, in qualificati ambiti sociali, professionali ed istituzionali. Grazie a tali capacità, la cosca ha accresciuto il proprio potere di controllo del territorio e la propria forza di intimidazione nei confronti della popolazione, conscia di essere soggiogata da un’organizzazione mafiosa non solo temibile militarmente, ma anche sorretta da trasversali appoggi esterni.
Pantaleone “Vetrinetta” Mancuso
“Vetrinetta”, così viene appellato il boss, mostra di conoscere bene le dinamiche della ‘ndrangheta e, soprattutto, cosa sia diventata. Forse anche in virtù della sua stessa appartenenza alla massoneria: «La ‘ndrangheta non esiste più! Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, c’era la ‘ndrangheta! La ‘ndrangheta fa parte della massoneria! […] diciamo… è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose […] ora cosa c’è di più? Ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta! Una volta era dei benestanti la ‘ndrangheta, dopo gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori… e hanno fatto la massoneria! Le regole quelle sono… come ce l’ha la massoneria, ce l’ha quella! Perché la vera ‘ndrangheta non è quella che dicono loro… perché lo ‘ndranghetista non è che va a fare quello che dicono loro […] adesso sono tutti giovanotti che vanno a ruota libera, sono drogati!».
Si tratta di affermazioni intercettate di grande valenza, non solo per il contenuto ma, soprattutto, per la caratura del personaggio che le pronuncia, Pantaleone Mancuso: «Ancora con la ‘ndrangheta sono rimasti! È finita! Bisogna fare come… per dire… c’era la “Democrazia”… è caduta la “Democrazia” e hanno fatto un altro partito… Forza Italia, “Forza Cose”… bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e e bisogna cambiare tutte le cose. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo P4, P6, P9».
Limbadi esplode
Come detto, non è inusuale che, sul territorio della cosca, possano avvenire attentati eclatanti. Il 9 aprile 2018 viene ucciso in contrada Cervolaro a Limbadi Matteo Vinci con una bomba esplosa nella sua Ford Fiesta. Da sempre, sulla morte aleggia l’ombra della ‘ndrangheta e, in particolare, della cosca Mancuso che, secondo l’accusa, sarebbe stata interessata al terreno dei Vinci. Una nebbia mai diradata fino in fondo.
Per l’attentato, infatti, sono stati fin qui condannati in primo grado, come mandanti, Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara. Dieci anni sono stati comminati nei confronti di Domenico Di Grillo, 73 anni, marito di Rosaria Mancuso, accusato di tentato omicidio per il pestaggio di Francesco Vinci avvenuto pochi mesi prima rispetto all’esplosione. Ma, in un altro procedimento, è arrivata l’assoluzione per i presunti esecutori materiali dell’omicidio.
L’auto di Matteo Vinci devastata dall’esplosione
Una cosca monolitica, o quasi
Oggi, quindi, i Mancuso sono una delle cosche più importanti della ‘ndrangheta, con un ruolo crescente su mercati lontani dalla Calabria, come la Lombardia o, come documentato dall’inchiesta su Mafia Capitale, su Roma. Potente perché quasi indistruttibile, con il fenomeno del pentitismo che non la scalfisce. O quasi.
Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)
Come Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, che aveva deciso di cambiare vita, di sganciarsi dalla cosca, da quell’uomo di cui si era invaghita, ma che adesso era diventato un cappio. Non sottoscrisse mai i verbali della sua prima e unica notte da donna libera. Tornò a casa, dal marito che, nel frattempo, aveva appreso di questa crepa nella vita di Tita. Morì un mese dopo, per ingestione di acido muriatico. Suicidio, secondo lo stesso Pantaleone Mancuso, che informò i carabinieri del fatto. Fu anche indagato per istigazione al suicidio. Punito per vari reati, si trova oggi al 41bis. Non per quello, però.
Chi, invece, i verbali li ha sottoscritti è Emanuele Mancuso, il primo pentito con il cognome Mancuso della storia. Ha raccontato e sta raccontando le cose del clan che, come nelle tradizioni della ‘ndrangheta più alta, sono cose di soldi e di sangue.
Un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, per colpire lo Stato, per destabilizzare il Paese. La sentenza di secondo grado del processo “Ndrangheta stragista” riscrive la storia d’Italia. La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.
Il pubblico ministero, Giuseppe Lombardo
Una notte della Repubblica
I giudici di secondo grado, quindi, hanno avvalorato l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Giuseppe Lombardo (applicato anche nel procedimento d’appello) circa l’esistenza di un accordo tra le due principali organizzazioni criminali del nostro Paese nella strategia stragista che doveva cambiare gli equilibri d’Italia, in una fase di passaggi tra la Prima la Seconda Repubblica, dopo l’annus horribilis, il 1992, con l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Il piano di Totò Riina
L’inchiesta, mastodontica, ha ricostruito il ruolo delle principali cosche della ‘ndrangheta, i Piromalli e i De Stefano, che, attraverso alcuni summit (il più famoso dei quali, a Nicotera Marina), avrebbero aderito al piano eversivo voluto da Totò Riina, in quel momento capo indiscusso della mafia siciliana. Infatti, nel complessivo attendismo della ‘ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti invece, quelle che ruotano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri – che, non a caso avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata di Licio Gelli – si muovono nell’ombra, all’insaputa del resto della consorteria.
Totò Riina dietro le sbarre
Una sentenza di secondo grado che, quindi, inserisce questi fatti in un disegno complessivo, quando, invece, per anni, gli attentati ai militari dell’Arma erano stati inquadrati come episodi sganciati da contesti più grandi. Per gli assalti ai Carabinieri, infatti, vengono utilizzati due giovanissimi criminali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, certamente fedeli, efficienti e spregiudicati, ma non immediatamente riconducibili alle famiglie di ‘ndrangheta che erano alle spalle dell’azione. L’ennesimo, geniale, depistaggio della ‘ndrangheta.
Franco Pino e gli altri collaboratori di giustizia
Una inchiesta che si basa, soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui quelle di Franco Pino, del 2018. Frasi commentate da due soggetti vicini alla famiglia Piromalli in una intercettazione che ha rappresentato il colpo di scena finale nel procedimento di secondo grado. In quelle captazioni del 2021, divenute pubbliche solo in queste ultime settimane, si faceva infatti riferimento al volere dei vertici della cosca di Gioia Tauro di insanguinare anche la Calabria. Apparentemente con azioni scollegate (proprio come gli attentati ai carabinieri) ma, di fatto, inserite in un medesimo e inquietante disegno criminale.
«Il colpo di grazia allo Stato»
Collaboratori di giustizia, tanto calabresi, quanto, soprattutto, siciliani. Come Gaspare Spatuzza, per anni braccio destro del boss Graviano. La voce di Spatuzza postula dunque l’esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. In questo contesto la frase di Graviano «… bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi…» pronunciata per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere e colpire ancora.
Il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza
Da Moro a Berlusconi
I lunghi, lunghissimi, dibattimenti di primo e secondo grado hanno allargato quasi all’infinito il raggio d’azione, coinvolgendo nella narrazione dei collaboratori figure influenti della politica italiana: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Ma il procedimento ha attraversato decenni di storia italiana e locale: dal ruolo che la ‘ndrangheta avrebbe potuto avere nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alla carriera politica di Giuseppe Scopelliti, ex governatore calabrese, che spiccò il volo dopo l’attentato a Palazzo San Giorgio del 2004, fasullo secondo l’impostazione accusatoria.
Crimine, servizi segreti e massoneria
Il quadro inquietante nella commistione tra organizzazioni criminali, politica, massoneria, viene completato dal ruolo rivestito dai servizi segreti. Impegnati per decenni in attività volte ad assicurare la permanenza del paese nel blocco occidentale, prevenendo ed impedendo infiltrazioni del blocco avverso, venuto meno, per l’appunto, la controparte, sentivano di avere perso la loro missione e con essa gli enormi spazi di manovra – talora illegali – che la stessa gli garantiva. Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile, così, per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere.
Insomma, le mafie e le schegge infedeli di apparati statali sembrerebbero accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema: entrambe avrebbero concorso per il mantenimento dello status quo. La strategia stragista doveva proprio permettere di individuare i nuovi referenti politici, in grado di portare avanti i piani granitici elaborati ed eseguiti nel corso della Prima Repubblica. Perché più le cose cambiano, più restano le stesse.
Lo chiamano “Nano feroce”. Sicuramente non in sua presenza. Antonino Imerti è uno dei boss storici della ‘ndrangheta del Reggino. C’è il suo nome sull’evento che, nell’ottobre del 1985 cambia la storia della provincia di Reggio Calabria e, forse, anche dell’intera Calabria. La sua, come tante di quelle dei boss della ‘ndrangheta, è una vita da romanzo noir.
1985: si parla già del ponte sullo Stretto
Nino Imerti è originario di Fiumara di Muro ma, ormai da tempo, ha spostato il centro degli affari a Villa San Giovanni: un luogo più redditizio. Villa San Giovanni è un paese in crescita, un centro che ben presto potrebbe diventare una gallina dalle uova d’oro. Questo le cosche reggine lo hanno capito. Lo hanno capito gli Imerti, che tengono parecchio alla leadership nel Villese. E lo hanno capito i De Stefano, di cui Imerti è stato, per tanto tempo, fedele alleato.
Le cose però, negli ultimi mesi del 1985, sono cambiate: i rapporti tra le famiglie De Stefano e Imerti non sono più cordiali come lo erano in passato. Da un po’ di tempo, inoltre, si parla con insistenza della possibilità di costruire un ponte sullo Stretto di Messina, che congiunga Calabria e Sicilia: con i soldi a nessuno piace scherzare e gli appalti del ponte mettono sul piatto decine di miliardi. È un’occasione che le cosche non vogliono assolutamente lasciarsi scappare. Siamo nel 1985 e oggi, a distanza di oltre trentacinque anni, del famigerato ponte non esiste nemmeno un pilastro. Ma questa è un’altra storia.
Nino Imerti, “Nano feroce”
Nino Imerti è un uomo giovane, non ha nemmeno quarant’anni, di corporatura minuta: per questo lo chiamano “Nano Feroce”. Un soprannome che Imerti non gradisce affatto. E non perché non si riconosca nell’aggettivo “feroce”.
Nino Imerti è, fin dagli anni ’70, un boss di tutto rispetto: nel 1975 evade dal carcere di Augusta, all’interno del quale è detenuto, e vive da latitante per cinque anni. Poi, viene arrestato. Adesso, nell’autunno del 1985, è libero da un anno e mezzo. Imerti è in libertà vigilata, è un sorvegliato speciale. Non solo da parte delle forze dell’ordine, a quanto pare.
Domenico “Micu ‘u pacciu” Condello
Dichiara il collaboratore di giustizia Giuseppe Scopelliti: «Nel corso della guerra di mafia che ha visto tutte le famiglie di Reggio Calabria schierate su due fazioni contrapposte, posso riferire che per quanto riguarda il nostro gruppo si sono succedute due fasi: la prima concerne il periodo in cui era detenuto Pasquale Condello. In tale fase la direzione delle operazioni militari era stata assunta da Nino Imerti, che si avvaleva della consulenza di Mimmo Condello […] Nel momento in cui uscì dal carcere Pasquale Condello, egli assunse la direzione di tutte le azioni belliche sul territorio del capoluogo, lasciando a Nino Imerti le decisioni sulla zona di Villa San Giovanni e comuni limitrofi. Si costituì una direzione strategica delle operazioni tra Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior), lasciando sempre a Nino Imerti la zona di Villa San Giovanni…”.
I matrimoni prima della guerra
Giacomo Lauro
Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, da quel 16 giugno 1985, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia, Giacomo Lauro, racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel 16 giugno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.
La famiglia De Stefano “risponde”, nello stesso anno, con un altro matrimonio di prestigio: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.
L’autobomba di Villa San Giovanni
Nino Imerti non è né stupido, né, tantomeno, sprovveduto. Per questo si muove a bordo di un’auto blindata, nel caso in cui a qualcuno venisse qualche strana idea. L’11 ottobre del 1985 è un venerdì, sono le 19.10. Nella centrale via Riviera di Villa San Giovanni, a pochi metri dalla caserma della Guardia di Finanza, parcheggiata accanto all’auto blindata di Nino Imerti, c’è una Fiat 500.
Nessuno, probabilmente, nota quella Fiat 500, un’automobile come tante altre, in sosta in una delle zone più frequentate di Villa San Giovanni. Quell’auto, però, non è un’auto come le altre. Nino Imerti e i suoi uomini di scorta non lo sanno, ma quella Fiat 500 è imbottita di esplosivo. Imerti e i suoi quattro guardaspalle sono appena usciti dalla sede dell’Italia Assicurazioni, che è gestita proprio dal “Nano Feroce”.
La scena dell’attentato a Nino Imerti
È un attimo. Un boato assordante che riecheggia anche a diversi chilometri di distanza: sul selciato restano in tre e la notizia si diffonde a macchia d’olio, nel giro di pochi minuti. Nino Imerti sarebbe morto sul colpo, insieme con altri due uomini. Altri due individui rimangono feriti. Via Riviera viene isolata, recintata da Polizia e Carabinieri. I rilievi proseguono fino a notte fonda: il commissario Blasco, il tenente colonnello Palazzo, nuovo comandante del Gruppo carabinieri di Reggio Calabria, e il capitano Pagliari si danno da fare per raccogliere possibili prove, elementi anche apparentemente insignificanti.
Nino Imerti è morto?
Per tutta la notte il nome di Antonino Imerti è inserito nella lista dei morti. Gli avversari festeggiano, hanno fatto bingo: avendo mandato all’altro mondo un leader così potente e carismatico, potranno adesso gestire a proprio piacimento gli affari di Villa San Giovanni e, soprattutto, gli appalti miliardari del ponte sullo Stretto di Messina.
La “festa”, però, dura solo poche ore perché, alle prime luci dell’alba, arriva il colpo di scena, la rettifica. Nino Imerti è vivo. È lui, insieme con Natale Buda, uno dei due feriti. Morti, ed irriconoscibili per l’effetto della dinamite, Umberto Spinella e i fratelli Vincenzo e Angelo Palermo, guardie del corpo di Imerti: il “Nano Feroce” usa lo sportello dell’auto, che è blindata, come scudo e rimane illeso.
Nino Imerti
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica racconta quel giorno: «Per gli inquirenti è un boss di spicco, di quelli che contano, con legami saldi ed importanti in Calabria e fuori: al suo matrimonio con una maestrina elementare, nella scorsa primavera, sarebbero stati visti gli “ambasciatori” di cosche palermitane, catanesi, della camorra campana. Ora è in stato di arresto. Si rifiuta di collaborare con la giustizia e per gli inquirenti proteggerebbe così i propri mancati killer».
È forse questo il punto cruciale della scalata criminale di Antonino Imerti, fino ad allora esecutore integerrimo degli ordini impartiti dal di lui cugino Pasquale Condello, e ora oggetto dell’attenzione del contrapposto schieramento destefaniano, che riesce a capire l’effettiva caratura del personaggio.
La “tragedia”
L’autobomba da cui si salva miracolosamente Nino Imerti è l’inizio della fine. L’inizio di circa sei anni di guerradi ‘ndrangheta a Reggio Calabria e nella sua provincia. Sei anni cui si conteranno sul selciato circa 700 morti ammazzati. L’inizio delle ostilità viene ricordato anche dal collaboratore di giustizia Cesare Pollifroni nel verbale del 14 aprile del 1994 davanti al pm Enzo Macrì: «Tutto ebbe inizio con una “tragedia” organizzata da Paolo De Stefano in danno di Imerti Antonino. Avvenne, infatti, che di un carico di droga o armi, organizzato insieme ai palermitani, non venne dato conto ai palermitani di Cosa Nostra che vi avevano interesse. Richiesto dai siciliani, Paolo De Stefano addossò tutta la colpa su Nino Imerti, contrariamente al vero, aggiungendo che lui non poteva intervenire contro Imerti, in quanto suo alleato, ma che avrebbe appoggiato le decisioni prese da Cosa Nostra. Fu così che venne organizzato l’attentato con autobomba ai danni di Imerti, al quale prese parte qualche uomo di Cosa Nostra. Imerti, però, scampò all’attentato e capì il gioco. In seguito egli riuscì a chiarire con i palermitani la sua estraneità alla vicenda e a diventarne alleato».
Paolo De Stefano
La vendetta di Nino Imerti e l’inizio della guerra
Nino Imerti è vivo, dunque. È stato fortunato, molto fortunato. E, conoscendolo, vorrà sfruttare tale fortuna per vendicarsi di chi lo voleva morto. Ci sono equilibri da rimettere in discussione, conti da far quadrare e affronti da punire.
Paolo De Stefano conosce bene Nino Imerti, sa quanto possa essere “feroce”. Non sembra preoccupato, però. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò.
La vendetta scatta due giorni dopo, con la morte di Paolo De Stefano. Il 13 ottobre, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti: Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiavano a bordo di una moto Honda Cross, intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Nino Imerti ha oggi 76 anni. In varie tranche, ne ha trascorsi più della metà in carcere. L’autobomba di via Riviera, peraltro, non è l’unico attentato cui sfugge il “Nano feroce”. Meno di un anno dopo rispetto all’inizio della guerra, Imerti scampa a un altro tentativo di ucciderlo. È il 7 luglio del 1986. Da quel momento si dà alla latitanza.
Viene arrestato diversi anni dopo, circa trent’anni fa esatti: il 23 marzo 1993, insieme a Pasquale Condello, il “Supremo”. Negli anni, sul suo conto arriveranno diverse condanne: all’ergastolo per omicidio e quindici anni di reclusione per associazione mafiosa.
Nino Imerti dopo l’uscita dal carcere
Poco meno di trent’anni in carcere, di cui quasi dieci in regime di carcere duro, disposto dal Ministero della Giustizia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il 27 marzo 2012. Ma non ha mai scelto la via della collaborazione con la giustizia. Il 28 luglio 2021 è stato scarcerato dopo 28 anni dietro le sbarre e sottoposto al regime di libertà vigilata.
Una volta, in aula, in un procedimento pubblico, un collaboratore di giustizia ammonì il pubblico ministero che lo interrogava: «Dottore, Pasquale Condello non è chiamato “Il Supremo” a caso» disse, in maniera più o meno letterale. No, nella ‘ndrangheta i soprannomi non sono mai casuali. Ed è la storia criminale a parlare per Condello, uno dei capi più carismatici che la ‘ndrangheta abbia mai avuto.
Pasquale Condello e l’omicidio di don ‘Ntoni Macrì
Giacomo Lauro
C’era anche lui nel gennaio del 1975, quando finisce la vita terrena e il comando mafioso del boss sidernese, don ‘Ntoni Macrì, esponente della vecchia ‘ndrangheta, che sarà spazzata via, nel corso della prima guerra tra cosche degli anni ’70. È il pentito Giacomo Lauro, nel proprio memoriale a ricostruire gli eventi di quel 20 gennaio 1975: «Macrì aveva appena terminato una partita di bocce presso il campo di Siderno e si accingeva in compagnia di Francesco Commisso inteso “u quagghia“, a far rientro presso la sua abitazione, quando nell’atto di salire sulla vettura di quest’ultimo, una Renault 5, venne affrontato, a viso scoperto, da Pasquale Condello e Giovanni Saraceno, i quali esplosero al suo indirizzo più colpi di pistola, uccidendo Macrì e ferendo gravemente il suo braccio destro, Francesco Commisso».
Sul posto vennero rinvenuti e repertati 32 bossoli di arma da fuoco corta di vario calibro, appartenenti verosimilmente a quattro armi. Stando al racconto di Lauro, i killer sarebbero giunti sul posto a bordo di un’Alfa Romeo Giulia, rubata a Reggio Calabria, nella zona del tribunale e custodita a Locri dal clan Cataldo. Il gruppo dei killer dopo l’omicidio avrebbe proseguito il proprio viaggio verso Gioiosa Marina trovando rifugio presso il clan Mazzaferro, alleato dei De Stefano.
La riunione del “Fungo”
Dettagli che, a dire di Lauro, avrebbe appreso dallo stesso Pasquale Condello durante la comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria: «Condello si abbandonò a questa e ad altre confessioni in quanto indignato per l’ingratitudine della famiglia De Stefano, che gli aveva scatenato contro una guerra nonostante la fedeltà da lui dimostratagli in circostanze significative quali quella dell’omicidio Macrì».
Gianfranco “Er pantera” Urbani
Sì, perché per anni Pasquale Condello è statouno degli uomini più vicini a Paolo De Stefano. C’era anche lui, nell’aprile del 1975, circa tre mesi dopo l’omicidio Macrì, all’ormai celeberrima riunione romana presso il ristorante “Il Fungo”, del quartiere EUR. Lì ci sono pezzi della banda della Magliana, come Giuseppe Nardi e Gianfranco Urbani, detto “Er Pantera”. Ma anche soggetti di primissimo livello (seppur giovanissimi) all’interno della ‘ndrangheta. Da Paolo De Stefano a Giuseppe Piromalli. E poi lui, Pasquale Condello, che in quel periodo non è ancora “Il Supremo”.
Pasquale Condello da giovane, prima di diventare “Il Supremo”
Le forze dell’ordine si appostano per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi erano giunti su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si erano allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo era in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
L’alleanza si rompe
Un rapporto duraturo, che, di fatto, si incrina nei mesi antecedenti a quella che sarà la sanguinosissima seconda guerra di ‘ndrangheta, che lascerà sull’asfalto oltre 700 vittime tra il 1985 e il 1991. In quel periodo, infatti, si celebra il matrimonio fra Giuseppina Condello ed Antonino Imerti. La prima è la sorella di Pasquale Condello, il secondo è il boss di Fiumara di Muro. Ciò determina la nascita di un’alleanza tra queste due famiglie delle quali, in special modo, quella di Imerti era estranea al territorio reggino poiché esercitava la propria egemonia esclusivamente a Villa San Giovanni e dintorni.
L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti dopo l’omicidio di Paolo De Stefano
Paolo De Stefano avverte subito il pericolo di una simile unione matrimoniale che determina nuove alleanze mafiose e la conseguente crescita del gruppo Condello, il cui capo Pasquale già da tempo rivendicava una maggiore autonomia sui “locali” di Mercatello e di Archi Carmine.
La seconda guerra di ‘ndrangheta
Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel giorno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.
Una foto recente di Orazio De Stefano
La famiglia De Stefano risponde a stretto giro con un altro matrimonio” di prestigio”: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. Le alleanze si fanno a suon di matrimoni, come in una realtà arcaica: e quella con i Tegano non è un’alleanza da poco. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.
Giovanni Tegano
La guerra è quindi alle porte. A contrapporsi, lo schieramento che faceva capo ai De Stefano-Tegano, da un lato e i Condello-Imerti, dall’altro. Sono proprio quelli gli anni in cui Pasquale Condello si guadagna l’appellativo di “Supremo”. A ciò, evidentemente, contribuisce il fatto che, per decenni, rimane uno dei boss liberi e latitanti. Tutto questo crea attorno a lui un’aura di mistero e di invincibilità anche negli anni della pax mafiosa.
Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta
In quegli anni, Condello diventa il “Supremo”. Ordina omicidi, anche omicidi “eccellenti” e rocamboleschi. Su tutti, quello del figlio naturale di don Mico Libri, Pasquale, alleato dei De Stefano. Il 19 settembre 1988, Pasquale Libri viene ucciso con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria. I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, in un luogo che si affaccia sul cortile del penitenziario. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.
Pasquale “Il Supremo” Condello in una immagine di qualche anno fa
Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine proprio del “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime. O quello dell’ex presidente delle Ferrovie, il politico democristiano Lodovico Ligato, da sempre ritenuto vicino alla cosca De Stefano, freddato sull’ingresso della propria residenza estiva a Bocale, località balneare alle porte di Reggio Calabria. Al termine di un complesso iter giudiziario verranno condannati Pasquale Condello, “il Supremo”, Santo Araniti e Paolo Serraino come mandanti, mentre Giuseppe Lombardo, “Cavallino”, verrà ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato.
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L’incontro con Totò Riina
La guerra di ‘ndrangheta termina nel 1991, dopo l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nell’atto finale del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone. Un omicidio che avrebbe commissionato la mafia in combutta con la ‘ndrangheta, offrendo in cambio il ruolo di garante per la pax mafiosa dopo anni di morti e violenze per le strade di Reggio Calabria e della sua provincia.
Giuseppe “Tiradritto” Morabito da giovane
E appartiene al mito il presunto incontro che Totò Riina avrebbe avuto con i boss calabresi, tra cui, appunto, “Il Supremo”. Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso. Totò Riina, che peraltro in Calabria era già stato, ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito, avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato
La cattura di Pasquale Condello, “il Supremo”
Tra leggenda e realtà, è lunga l’epopea criminale di Pasquale Condello. Una carriera di sangue nata praticamente da minorenne, che si conclude il 18 febbraio del 2008, allorquando il Ros dei Carabinieri lo scova in un appartamento nella zona di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. Non un dettaglio di poco conto, dato che, dopo la pax mafiosa, vi sarà sempre maggiore avvicinamento di cosche in precedenza storicamente contrapposte e ad una fattiva alleanza tra di esse. Proprio grazie alle nuove regole sancite dalla pace tra cosche.
Don Mico Libri
Non è un caso, che il “Supremo” venga scovato nel territorio di Pellaro, storicamente sottoposto al controllo mafioso dello schieramento opposto destefaniano. Sarebbe stato Mico Libri, potente boss oggi defunto, a dettare le regole propedeutiche alla pace, che richiedono una previa approvazione di ogni possibile azione delittuosa eclatante. In nome degli affari. Perché, abbandonate (solo metaforicamente) le armi, Condello ha nei decenni di latitanza allacciato rapporti inconfessabili, con il mondo dell’imprenditoria e della politica.
La vecchia ‘ndrangheta dei don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo, spazzata via dal nuovo che avanza, dalla famiglia De Stefano, soprattutto. Ma anche dai Piromalli di Gioia Tauro. Negli anni ’70 si registra il cambio di passo della ‘ndrangheta. I vecchi capi, ancorati al traffico di sigarette e contrari a quello della droga, cadono uno dopo l’altro. Si apre così una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. Con manovre torbide tra uomini delle ‘ndrine, faccendieri e pezzi dello Stato.
La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978). E, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia. È una vera e propria escalation. E, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano.
Le parole dei pentiti
«Per quanto mi risulta, la morte di Antonio Macrì ebbe una duplice motivazione: la prima, più generale, dovuta al fatto che egli si opponeva al riconoscimento della Santa entrando per questo in conflitto con Mommo Piromalli; la seconda perché aveva protetto e continuava a proteggere a Mico Tripodo e quindi si era creato quali nemici coloro che si opponevano al potere del Tripodo a Reggio Calabria» dice il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, in un interrogatorio del 12 marzo 1994 confluito agli atti dell’indagine “Olimpia”.
Personaggio emblematico di questo nuovo modo di fare è ‘Ntoni Nirta, detto “due Nasi” per il suo vezzo di portare sempre con sé un’arma a doppia canna. Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino, che poi farà grande carriera all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Chiaramente entrambi hanno smentito tale circostanza.
John Paul Getty III
Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate statunitense, ma naturalizzato britannico, Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove.
Il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni: il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, a Paul Jr il taglio del lobo di un orecchio.
Quello è forse il sequestro di persona più celebre: a Bovalino, nella Locride, esiste un intero quartiere denominato “Paul Getty”, proprio perché sarebbe stato interamente edificato con i soldi del riscatto pagato dal miliardario.
Il caso Paul Getty
Dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70, la ‘ndrangheta avrebbe rapito quasi 500 persone. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta fa i soldi in quel modo: sequestri di persona e traffico di sigarette. Sarà la prima guerra di‘ndrangheta, con l’uccisione dei boss Macrì e Tripodo a sancire il cambio di rotta sugli affari, con l’ingresso, prepotente, del traffico di droga, voluto dal “nuovo che avanza”, rappresentato dai De Stefano, soprattutto.
Cesare Casella
Ma tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il business è quello: furono nel mirino dei sequestratori i professionisti e gli imprenditori più benestanti della ‘ndrangheta; unico sequestro avvenuto in un arco temporale diverso, quello (tra i più celebri) del giovane Cesare Casella, del 1988 e durato 743 giorni. Le persone sequestrate venivano nascoste nel territorio aspromontano, le ‘ndrine coinvolte erano quelle di Platì e San Luca che operavano in Piemonte, quelle del reggino e del lametino in Pianura Padana e infine quelle di Gioia Tauro e della Locride a Roma.
La stagione dei sequestri: la ‘ndrangheta e i servizi segreti
La stagione dei sequestri, comunque, non sarebbe stata solo una questione delle ‘ndrine. Ancora una volta, le cosche calabresi e i pezzi deviati dello Stato si sarebbero seduti allo stesso tavolo. È il collaboratore di giustizia Nicola Femia ad aprire nuovi inquietanti scenari. Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori per porre fine a quella fase, che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
Nicola Femia
«Mazzaferro – spiegherà Femia in un’udienza pubblica – si incontrava con uomini dello Stato o mandava il suo autista, Isidoro Macrì». Un rapporto, quello tra il boss e gli 007, che sarebbe servito per acquisire informazioni reciprocamente, ma anche per permettere allo stesso Mazzaferro di mantenere l’impunità.
Una lunga stagione, che verrà interrotta perché quelle azioni attiravano troppo l’attenzione dei media e dello Stato che in quel periodo portò in Aspromonte anche l’esercito.
Dove finiscono i soldi?
Femia ricorda gli incontri a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: «Sono andato dentro le mura praticamente. Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui». Quelli non sono solo gli anni dei sequestri, ma anche dello sviluppo delle rotte del narcotraffico con il Sud America. E così, in Colombia, i miliardi delle cosche si sarebbero trasformati in tonnellate di droga.
Paolo De Stefano
Il sostituto procuratore antimafia di allora, Vincenzo Macrì, ipotizzò che il motivo dietro la brevità dei sequestri, a parte casi eclatanti, fosse probabilmente una presunta connessione diretta fra Stato, “organi occulti” e criminalità che si accordavano sul pagamento. Una circostanza che ha confermato, molti anni dopo, lo stesso Femia: «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. All’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo».
‘Ndrangheta, servizi e sequestri
Femia parla anche di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: «Dopo il sequestro Casella, i capi si riunirono per far cessare la stagione dei sequestri, per via della troppa attenzione da parte dello Stato. Ma Vittorio Jerinò fece ugualmente il sequestro Ghidini per fare un dispetto al fratello Giuseppe, di cui era sempre stato invidioso».
Una liberazione non facile, quella della Ghidini, avvenuta dopo un periodo molto intenso di trattative tra la ‘ndrangheta e pezzi dello Stato: «Vincenzo Mazzaferro fu scarcerato velocemente dal carcere di Roma dove era detenuto per risolvere la situazione». Tra gli uomini dello Stato coinvolti nelle trattative, Femia ricorda poliziotti, carabinieri organici ai servizi, avvocati, ma anche giornalisti.
Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza
La liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire. Soldi che, a dire di Femia, avrebbero diviso tra loro Mazzaferro, Jerinò e i Servizi Segreti: «Il coinvolgimento dei Servizi Segreti nei sequestri è una cosa che nel nostro ambiente sanno anche i bambini» afferma Femia. Una trattativa Stato-‘ndrangheta inquietante, anche per quello che sarebbe avvenuto in seguito. Vincenzo Mazzaferro verrà ucciso pochi anni dopo: «Nessuno della ‘ndrangheta voleva la sua morte», afferma Femia. E allora, il sospetto: «I protagonisti di quelle vicende sono tutti morti, ma senza una spiegazione di ‘ndrangheta».
«In Emilia Romagnale mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.
La statua di Peppone a Brescello (RE)
Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna
Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.
Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.
Una guardia svizzera in Vaticano
Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.
Grande Aracri e la massoneria
Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa
Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…». Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».
Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.
Le amicizie romane di Grande Aracri
Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.
Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.
Il carcere di Siano
La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».
In Emilia Romagna si spara
Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.
Nicolino Sarcone
È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.
Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone. Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale
Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.
Gli affari di Nicola Femia
Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.
Nicola Femia
Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.
Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza
Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».
Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri
Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.
Il procuratore Nicola Gratteri
L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.
Reggio Calabria e la sua provincia sono riconosciute, unanimemente, come le capitali “politiche” e “amministrative” delle ‘ndrine. Milano è invece la capitale economica della ‘ndrangheta. Il capoluogo lombardo e il suo hinterland, da sempre, sono terra di conquista per le cosche. E nulla conta la convinzione del profondo Nord di avere gli anticorpi per resistere al contagio del crimine organizzato su quei territori.
Milano, l’altra capitale della ‘ndrangheta
È proprio a Milano e dintorni che la ‘ndrangheta muove le masse di denaro più cospicue. E, come spesso accade, tra i primi a capire che quello è il canale giusto ci sono i De Stefano. Ossia la cosca che maggiormente ha modernizzato la ‘ndrangheta, facendola passare da una condizione agro-pastorale a una holding del crimine.
La presenza capillare della ‘ndrangheta a Milano è ormai anche riconosciuta da sentenze definitive, quali quelle arrivate con le due maxi-inchieste “Crimine” e “Infinito”. Entrambe testimonieranno la fitta comunicazione, sempre attiva, sempre costante, tra chi opera al Nord e la “casa madre” calabrese. Partirà, per esempio, proprio dalla Calabria la decisione di “posare” Carmelo Novella, detto Nunzio, boss scissionista. Voleva fare le cose in grande, ma la sua voglia di indipendenza verrà soffocata sul nascere e nel sangue.
Gli affari nella “Milano da bere”
Già a partire dagli anni ’80, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investono ingenti capitali nel Nord Italia, in particolare nel capoluogo meneghino. A Milano spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa 6 mesi una sanguinosa faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi. Il pretesto per scatenare la guerra era un diverbio tra Franco Coco Trovato e Salvatore Batti durante un incontro nell’appartamento dove Pepè Flachi si nascondeva durante la sua latitanza.
Pepè Flachi
Negli anni ’90, dunque, la ‘ndrangheta capitalizza quello che ha costruito a partire dagli anni ’70. La forza della ‘ndrangheta sta anche nell’essere riuscita a colonizzare Milano e il ricco Nord, entrando con maggior forza nel traffico di stupefacenti e vedendo accrescere il proprio potere nel contesto delinquenziale anche a livello nazionale. Secondo alcune fonti, nel 1980Giuseppe Piromalli entra a far parte della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostrain rappresentanza di tutte le famiglie calabresi. Ruolo centrale quello rivestito, ancora una volta, dalla famiglia De Stefano, che riuscirà a comprendere prima di tutti l’importanza di colonizzare luoghi come la Lombardia, attraverso famiglie ad essa collegate.
De Stefano a Milano: la ‘ndrangheta mette su famiglia
Uno dei figli di don Paolino De Stefano, Carmine, dopo l’uccisione del padre si trasferisce per alcuni mesi, unitamente al fratello Giuseppe ed alla madre, nella residenza francese dei De Stefano e, precisamente, nella villa “Tacita Georgia” di Cap d’Antibes. Nel capoluogo meneghino, poi, la cosca De Stefano mette radici. E famiglia. Carmine De Stefano, infatti, diventa genero di Franco Coco Trovato, considerato uno degli esponenti più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia.
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Quello, infatti, è un territorio fondamentale e assai fluido: personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte.
Basta la parola
L’attività delle cosche sul territorio si svolge soprattutto nella commissione dei reati di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi, di rapine, furti e truffe, nonché di fabbricazione e spaccio di banconote false. Ma i clan mettono le mani anche sui locali della “Milano da bere” e non solo: discoteche e night club anche nel Comasco e nel Varesotto.
Spesso non sono necessari atti di violenza per riscuotere le tangenti. Ormai la situazione si era stabilizzata nel senso che i titolari degli esercizi pubblici taglieggiati erano in condizioni di sottoposizione e di impossibilità di reagire, che rendono palese l’efficacia minatoria dell’associazione indipendentemente dall’effettivo ricorso alla violenza, di cui bastava solo la prospettazione, anche implicita.
Franco Coco Trovato, uno dei signori della ‘ndrangheta a Milano
Uno dei gruppi più importanti nasce nel 1986 dalla fusione di due sodalizi distinti, quello dei Flachi e quello dei Coco Trovato. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ‘ndrangheta gliela fornisce. Emblematico quanto dichiara in collaboratore di giustizia: «[…] In Comasina si smerciavano due chili di eroina ogni settimana, in Bruzzano altrettanti, alle “baracche” 7 kg ogni mese, ne smerciavano circa due al mese. Quindi alla fine del mese, si trattava di uno smercio di almeno 25 kg circa di eroina… Questo almeno dall’82 all’86 con incrementi progressivi… per la cocaina confermo quello che ho detto, e cioè che dai palermitani riuscivamo ad avere al massimo due kg al mese, quando loro l’avevano. Tanta ne smerciavamo. Naturalmente, i quantitativi che io ho prima indicato sono da riferire alla sostanza intesa come “pura” che, da me tagliata, si raddoppiava almeno».
Franco Coco Trovato
Gli esordi di Franco Trovato (chiamato Franco Coco fino al 1991, anno in cui è intervenuto un riconoscimento di paternità), notoriamente caratterizzati dall’esecuzione di gravi rapine, sono stati narrati dal collaboratore Antonio Zagari nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero di Milano l’11 novembre 1992.
Dalle rapine e i sequestri al traffico di stupefacenti
«Ho conosciuto Franco Coco … nel 1969 o 70. Io, all’epoca, ero giovanissimo ed avevo circa 15/16 anni. […] Ricordo che, trasferitosi al nord, entrò subito a far parte di un gruppo di persone dedito alla consumazione di rapine; di questo gruppo mio padre era il “basista” nella provincia di Varese e ne facevano parte varie persone, tra cui alcune molto importanti nella ‘ndrangheta… su un livello inferiore vi erano membri della ‘ndrangheta più giovani, quali Franco Coco (originario di Marcedusa e trasferitosi nel lecchese)», racconta Zangari.
«Tutti costoro erano pacificamente e con certezza assoluta appartenenti alla ‘ndrangheta e come tali frequentanti la casa di mio padre… Rividi fuori dal carcere il Coco nell’82 e ’83… a questo punto era assolutamente noto tra di noi che il Coco aveva abbandonato le vecchie attività di rapine e di sequestri di persone e si era dato al traffico di stupefacenti che controllava e dirigeva nella zona di Lecco», prosegue.
Un locale ufficiale nel lecchese
La rapida ascesa di Coco Trovato nel panorama della criminalità organizzata di matrice calabrese trova riscontro nei racconti di tutti i collaboratori di rilievo. Anche Saverio Morabito ha riferito che Coco si era rapidamente radicato nella zona di Lecco, intrattenendo rapporti di buon vicinato con altre cosche (egli per esempio, al pari di Flachi e Schettini, si recava a Corsico per intrattenere pubbliche relazioni con la famiglia Sergi e con lo stesso Morabito).
Un panorama di Lecco, sul lago di Como
D’altra parte, grazie ai rapporti sempre più stretti instaurati con la famiglia De Stefano di Reggio Calabria, e dopo alcuni insuccessi, Coco era riuscito ad ottenere il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un “locale” della ‘ndrangheta nel lecchese, struttura della quale era ovviamente il capo riconosciuto.
Vacanze, Jaguar e colletti bianchi
Racconta ancora Zagari: «Rammento anche che De Stefano, durante la comune carcerazione a Lecco, offrì ai figli di Coco un soggiorno gratuito a Reggio Calabria per le ferie dell’estate dell’83. Anche noi Zagari, come avevo detto, eravamo all’epoca molto legati al Coco tanto che, sempre nell’83, quando si sposò la sorella del Coco, su richiesta di quest’ultimo formulatami in carcere, io dissi a mio fratello Andrea e a mio cugino Sergi Franco di mettere a disposizione della sorella di Coco, per il matrimonio, una Jaguar nera adatta per le cerimonie, che servì agli spostamenti della sposa».
Personaggio da Romanzo Criminale, Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da ampia tradizione della ‘ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi”, piegati alle esigenze dei clan. Tra questi, l’avvocato Franco Mandalari (coinvolto in indagini proprio in Lombardia), che secondo alcune fonti giudiziarie poteva ungere gli ingranaggi giusti per ottenere benefici nelle sentenze, qualora gli uomini di Coco Trovato fossero stati arrestati.
‘Ndrangheta a Milano: l’unione fa la forza
L’alleanza tra Pepè Flachi e Franco Coco Trovato, dalla quale nacque l’organizzazione unitaria, fu definitivamente sancita durante l’estate del 1986. Flachi aveva liquidato la sua vecchia società, ed era rimasto con pochi uomini di elevato livello al proprio fianco. Coco, d’altra parte, estendeva sul milanese, per via dell’alleanza, il dominio già esercitato nella zona nord occidentale della Lombardia. E la comune appartenenza dei due uomini alla ‘ndrangheta, che certamente aveva favorito i rapporti tra i due gruppi anche in anni precedenti, aveva di fatto contribuito, dopo uno sviluppo graduale delle relazioni, alla creazione di un’unica struttura delinquenziale retta da un patto di “società”.
Un altro collaboratore di giustizia, Emilio Bandiera, per anni uomo inserito nella ‘ndrangheta milanese, specifica: «Furono fatti, naturalmente, vari discorsi ed alla fine fu deciso che i due gruppi si mettevano insieme: i proventi del traffico di stupefacenti e di altre attività delittuose (tra cui estorsioni) sarebbero stati divisi al 50%, mentre Coco e Flachi avrebbero unito le forze mettendo insieme le rispettive bande e i propri fornitori di stupefacenti e i clienti».
«Da quel momento – prosegue Bandiera – presero a controllare un vasto territorio comprendente la Comasina, le baracche di via Novate, Bruzzano e tutto il territorio di Lecco e di parte della Brianza (controllato da Franco Coco). La società determinò subito un vero e proprio salto di qualità nella misura dei profitti che da parte loro si conseguivano. Non esito ad affermare che i due sono proprietari di un patrimonio immobiliare e liquido che è valutabile in decine di miliardi».
Ci sono anche gli Arena-Colacchio
Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano, sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto. Le attività criminali, esercitate dal clan, spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni), a quelli relativi a traffici di stupefacenti, di armi, omicidi di appartenenti ad organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche.
In particolare mettono le mani su ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina ed autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, imprese di demolizione auto e commercio rottami, imprese di trasporto. Tutto, riportano gli atti, per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore, e per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari.
I rapporti con la mafia siciliana e le stragi
La Lombardia, da sempre, è una sorta di camera di compensazione. Lì le consorterie criminali dei vari territori d’Italia si incontrano e si spartiscono gli affari. Quasi sempre in maniera piuttosto lineare e senza bisogno di spargimento di sangue.
Sul punto riferisce, tra gli altri, il collaboratore Franco Pino, uomo forte della ‘ndrangheta del Cosentino in contatto con i Piromalli, i Mancuso, i Pesce, ma anche con i casati del capoluogo reggino, e quindi i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Fontana. Pino ricorda traffici di armi con la Sicilia e in particolare un carico di kalashnikov proveniente da Palermo arrivato a Cosenza.
Il boss, poi pentito, Franco Pino
Pino racconta anche dell’ormai celeberrima riunione di Nicotera, dove Cosa Nostra, in quel periodo impegnata nella sua strategia stragista, avrebbe chiesto il coinvolgimento della ‘ndrangheta. In quell’occasione Coco Trovato e Pesce illustrano una proposta portata dai Brusca per conto di Totò Riina.
I siciliani avevano già iniziato a commettere le stragi. E dicevano di volere un appoggio sull’attività stragista da parte della ‘ndrangheta, anche perché le eventuali conseguenze negative della legislazione sarebbero ricadute sulla criminalità calabrese.
Il racconto di Franco Pino
«In particolare chiedevano se noi fossimo disposti a commettere, da parte di chi ne aveva la maggiore possibilità, attentati ad obiettivi istituzionali, non per forza rivolti ad uccidere un numero indeterminato di persone ma certamente finalizzati a far capire che si trattava di attentati veri, in modo da procurare più terrore possibile e più danni possibile, ed eventualmente anche vittime; ad esempio obiettivi idonei potevano essere caserme o piccole stazioni dei Carabinieri site nei paesi, o simili. La contropartita consisteva, come fu detto espressamente, nel cercare di ottenere vantaggi dallo Stato, come una sorta di trattativa», afferma Pino.
‘Ndrangheta a Milano: Paolo Martino e gli anni 2000
Ruolo importante, nel Milanese, quello svolto dai De Stefano. Non solo attraverso Coco Trovato. Un nome di grande peso è quello di Paolo Martino, cugino dei De Stefano. Martino viene indicato dai collaboratori di giustizia come uomo forte già negli anni ’90 con riferimento alle riunioni tenute per prendere le decisioni sulla strategia stragista. Negli anni 2000, invece, Martino torna prepotentemente alla ribalta sotto altra veste. Sarebbe lui, infatti, il contatto tra la Giunta Comunale di Reggio Calabria, del sindaco Giuseppe Scopelliti, e l’impresario dei vip, Lele Mora. Il Comune del sindaco Scopelliti, infatti, spenderà oltre 100mila euro per la realizzazione della “Notte Bianca” in riva allo Stretto.
L’ex presidente della Regione, sindaco di Reggio Calabria e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti
All’impresario delle star, Scopelliti sarebbe arrivato infatti tramite quel Paolo Martino, legato da rapporti di parentela alla potentissima cosca De Stefano e della quale sarebbe la diretta proiezione in Lombardia. Così lo definiscono gli investigatori nelle carte d’indagine che lo conducono in carcere per i propri rapporti con il clan Flachi: «Martino è uno di quei personaggi che ha ampiamente superato la fase della delinquenza “nera” perpassare al livello della mafia imprenditoriale, con contatti ad alto livello economico e politico».
Scrive il Ros: «Non vi è dubbio che Martino Paolo, rispetto alla normalità dei soggetti attenzionati e gravitanti nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, rappresenti un livello qualitativo decisamente più elevato. Nato nel rione Archi del capoluogo calabrese, roccaforte destefaniana, è cugino del noto capomafia De Stefano Paolo e si è inserito, all’interno della cosca, con l’autorevolezza e la forza del mafioso di rango. Le sue vicende criminali, iniziate negli anni Settanta, lo hanno progressivamente qualificato come elemento di vertice di quell’aggregato mafioso».
Il boss, il sindaco e il manager dei vip
Oggi ultrasessantente, Martino comincia a sparare da minorenne e già a partire dai primi anni ’80 inizia a collezionare condanne su condanne, per associazione mafiosa e per droga, passando anche diversi periodi in latitanza. Sarà lui stesso a dichiarare al Gip di Milano, Giuseppe Gennari, il quale firma la maggior parte delle ordinanze contro la ‘ndrangheta in Lombardia, di aver messo in contatto Mora e Scopelliti: «Arriviamo lì e ci sediamo in ufficio. Io dico: “Lele, oltre a essere sindaco di Reggio Calabria è un amico mio. Però la cosa importante è che ti sto portando una persona che ti porta lavoro, cerca di fare qualche cosa interessante insieme”».
Lele Mora
Al Gip Gennari, Martino racconterà inoltre di conoscere un po’ tutti i membri della famiglia Scopelliti: oltre a Giuseppe il politico, anche Consolato (detto Tino) e un altro fratello, anch’egli impegnato in politica, a Como. «Perché sono una persona perbene», dice. Affermazioni che, tuttavia, non hanno mai portato ad alcun coinvolgimento penale delle persone menzionate da Martino.
Valle e Lampada: al servizio della cosca Condello
Non ci sono solo i De Stefano, tuttavia. Anche la cosca Condello, soprattutto nei primi anni 2000, avrebbe avuto i propri importanti avamposti milanesi. In particolare nei membri delle famiglie Valle e Lampada. Secondo gli accertamenti svolti dal Ros, «i fratelli Lampada (Giulio e Francesco, ndr) rappresentano quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso, compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso investigato, riconducibile a Condello Pasquale». Non una cosca indipendente, dunque, ma una propaggine del più famoso clan Condello.
Franco Morelli ed Enzo Giglio
Negli anni in cui gli uomini del Ros redigono l’informativa, i Lampada sono ancora degli “illustri sconosciuti”. Che, però, svolgerebbero già il ruolo di teste di ponte del “Supremo” in Lombardia «con il compito di reinvestire nell’economia pulita, gli enormi profitti illeciti». Lì a Milano, i Valle-Lampada avrebbero avuto relazioni privilegiate con diversi esponenti politici, tra cui l’allora consigliere regionale Franco Morelli. Ma anche con i magistrati Enzo Giglio e Giancarlo Giusti. Anche i rapporti con il mondo della politica, sarebbero, secondo il Ros, indicativi del legame, strettissimo, tra i Lampada e i Condello. Dati, quelli raccolti dai Carabinieri che darebbero la misura di «quanto fosse forte l’esistenza di un intreccio di affari criminali – economici tra gli appartenenti alla famiglia Lampada e lo stesso mondo politico calabrese, asserviti alle esigenze ed all’ottenimento di “favori” personali, comunque, riconducibili alla consorteria di Pasquale Condello».
Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri
I macellai e il Supremo
I Lampada, dunque, anche attraverso il business delle slot machine, sarebbero riusciti, in poco tempo, a costruire un impero partendo praticamente da zero: quando vanno via da Reggio Calabria, infatti, sono proprietari solo di una macelleria nel rione Archi. A Milano, invece, avrebbero conquistato fette enormi di mercato nei settori più svariati: «Si tratterebbe e non potrebbe essere diversamente, di patrimonio riconducibile alla cosca Condello, reinvestito nella città di Milano dai suoi sodali. E qui emerge tutta la forza e la potenza della cosca indagata, capace di mimetizzare l’immenso capitale acquisito illecitamente, mediante nuove e più efficienti forme di riciclaggio e di reinvestimento dello stesso, sempre più tendente ad un’unificazione del mercato legale e di quello illegale».
‘Ndrangheta a Milano: i Piromalli
Ma, come nei più classici cliché dei “corsi e ricorsi storici” di Giovambattista Vico, si parte dai Piromalli di Gioia Tauro, per ritornare, infine, proprio al grande casato di ‘ndrangheta. Una delle grandi inchieste degli ultimi anni, denominata “Provvidenza”, certificherà la presenza, ancora importante, ancora pervasiva dei Piromalli negli affari milanesi.
Giuseppe “Pino Facciazza” Piromalli
Elemento centrale, Antonio Piromalli, figlio di Pino Piromalli, detto “Facciazza”. Proprio per volere del padre, Antonio Piromalli si era trasferito a Milano, nel tentativo di abbassare l’attenzione su di lui, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle altre famiglie mafiose. Pino Piromalli “Facciazza”, classe 1945, aveva infatti investito il figlio di pieni poteri, sebbene l’uomo avesse continuato a reggere le fila della cosca, prima dal 41bis dopo la condanna definitiva nel processo “Cent’anni di storia”, e poi da uomo libero, con la scarcerazione avvenuta nel 2014.
«Hanno amici dappertutto»
Lo storico casato gioiese, peraltro, muoveva ingenti somme di denaro con l’esportazione di prodotti ortofrutticoli verso i mercati del nord Italia, controllando alcune aziende inserite nel mercato ortofrutticolo milanese, a cui assicurava, per il tramite di un consorzio con sede nella Piana di Gioia Tauro, la fornitura dei prodotti, garantendo, con le note tecniche di intimidazione, prezzi di acquisto concorrenziali e il buon esito delle operazioni commerciali
Per il pentito Furfaro, inchieste, arresti e decessi non hanno incrinato la leadership della cosca di Gioia Tauro: «Oggi i Piromalli sono la famiglia militarmente più forte d’Italia. Hanno “amici ” dappertutto. Questo tanto a Gioia Tauro quanto fuori. La Lombardia è nelle loro mani, ogni questione relativa ad appalti e quant’altro viene ripartita tra le famiglie più importanti. È quindi inevitabile che abbiano un peso specifico anche lì. Si diceva fosse Antonio Piromalli, classe 1972, occulto gestore del mercato ortofrutticolo a Milano e che questi avesse significativi interessi anche in questo settore; Gioacchino Piromalli andava spesso a Milano. Credo che lì avesse uno studio in comune con altro avvocato».
Fine della corsa, trent’anni dopo. È finita in una clinica di Palermo la lunga, lunghissima, latitanza della “primula rossa” di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Esattamente trent’anni dopo. Non solo trent’anni dopo l’inizio della sua latitanza. Ma anche a trent’anni di distanza dalla cattura di un altro superboss della mafia siciliana Totò Riina. Oggi, come allora, la cattura è ad opera del Ros dei Carabinieri.
I carabinieri del Ros circondano la clinica che ospitata il latitante
Trent’anni dopo: la cattura della “primula rossa”
Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma.
L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano, Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Messina Denaro era latitante dall’estate del 1993. Si trovava in una clinica palermitana, dove si curava da un anno circa con il finto cognome “Bonafede”.
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Pochi mesi prima della sua scelta di rendersi irreperibile, proprio i carabinieri del Ros avevano catturato Totò ‘u curtu. Anche in quel caso, non troppo distante dai “suoi” luoghi. E come per Riina, anche per Messina Denaro non mancano i contatti con la ‘ndrangheta.
Matteo Messina Denaro in Calabria?
Addirittura, in un’inchiesta di qualche anno fa sulla rete di protezione di Messina Denaro, uno degli affiliati, inconsapevole di essere ascoltato dagli inquirenti, dirà del boss: «Era in Calabria ed è tornato». Una intercettazione che fa il paio con quanto dichiarato, in un’intervista concessa in quello stesso periodo a Klaus Davi, dall’allora procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato: «Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro. I rapporti fra la malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili. Contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina. Non c’è niente di nuovo. La leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati».
Luciano Liggio
Non sarebbe la prima volta. Già nell’estate del 1974, secondo un’informativa della Guardia di Finanza, “Lucianeddu” Liggio avrebbe trascorso una parte della sua latitanza ad Africo. E sempre ad Africo “u zi Totò”, vestito da prete, si sarebbe recato spesso. Qui il boss corleonese sarebbe stato ospitato dal mammasantissima Giuseppe Morabito alias “U’ tiradrittu”. Fu durante una delle tante visite in Calabria che Riina stipulò l’alleanza con la ‘ndrangheta? È nella Locride che calabresi e siciliani decisero di dar vita alla stagione delle cosiddette stragi “continentali”?”.
Tutti insieme appassionatamente
I rapporti con la mafia siciliana, Cosa Nostra, sono indicativi del prestigio che le ‘ndrine acquistano col tempo: il vecchio patriarca Antonio Macrì, don ‘Ntoni, è amico di Luciano Leggio (Liggio per i nemici), dei fratelli La Barbera, intrattiene rapporti con i Greco di Ciaculli. Ancor prima, invece, conosce il dottor Michele Navarra, leader dei corleonesi negli anni ‘50, durante il soggiorno obbligato di quest’ultimo a Marina di Gioiosa Jonica, paese della Locride. Domenico, don Mico, Tripodo, figlioccio di Macrì, invece, è, addirittura, il compare d’anello di Totò Riina, che il 16 aprile del 1974 sposa Antonietta Bagarella.
Don Mico Tripodo
«Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». Ad affermarlo è Gioacchino Pennino, medico palermitano, mafioso ed espressione dell’alta mafia, capace di dialogare con il mondo delle professioni e delle Istituzioni.
Matteo Messina Denaro e il patto con le ‘ndrine
Numerosi, peraltro, i riferimenti dei collaboratori di giustizia ai contatti e alle riunioni di inizio anni ’90 per concordare una strategia comune di attacco allo Stato. I primi anni ’90, infatti, saranno quelli che insanguineranno l’Italia, tanto con le uccisioni di Falcone e Borsellino, quanto con le stragi continentali. Il processo “Ndrangheta stragista”, che si celebra a Reggio Calabria, sta tentando proprio di ricostruire il presunto e comune disegno eversivo delle due organizzazioni criminali, di cui farebbe parte anche il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.
«Nel 2015 Matteo Messina Denaro e altri capi di Cosa Nostra avevano stretto un patto con i capi della ‘ndrangheta per “lavorare insieme e diventare un’unica famiglia”». Recentissime, di fine 2022, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ascoltato dalla procura di Torino nell’ambito del maxiprocesso Carminius-Fenice sulla presenza della criminalità organizzata nella zona di Carmagnola.
Il delitto del giudice Scopelliti
Cosa Nostra avrebbe avuto anche un ruolo importante nella fine delle ostilità scoppiate nel 1985 in riva allo Stretto, tra il cartello dei De Stefano-Tegano e quello dei Condello-Imerti. Settecento o forse più morti ammazzati per le strade e la fine di tutto, dopo il delitto del giudice Antonino Scopelliti.
Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991
Circa quattro anni fa, il ritrovamento nelle campagne catanesi di un’arma che sarebbe stata quella utilizzata per l’omicidio, avvenuto nell’estate del 1991. L’indagine della Dda di Reggio Calabria coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola.
Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.
Uno scambio di favori
Lo scenario inquietante, da sempre paventato, è quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Scopelliti potrebbe essere stato ucciso dalle ‘ndrine per fare un favore a Totò Riina che temeva l’esito del giudizio della Cassazione sul maxiprocesso a Cosa nostra. In quel procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare l’accusa. Cosa Nostra, quindi, avrebbe fatto da garante per la pace delle cosche calabresi dopo gli anni della mattanza, in cambio dell’eliminazione di Scopelliti, voluta, secondo l’ex braccio destro del boss siciliano Marcello D’Agata, quel Maurizio Avola oggi collaboratore di giustizia, anche da Matteo Messina Denaro.
Totò Riina dietro le sbarre
Sarebbe stato proprio Avola a far ritrovare nelle campagne catanesi il fucile che sarebbe stato utilizzato per uccidere Scopelliti. Un fucile calibro 12, 50 cartucce Fiocchi, un borsone blu e due buste, una blu con la scritta “Mukuku casual wear” ed una grigia con scritto “Boutique Loris via R. Imbriani 137 – Catania”. Purtroppo, però, gli accertamenti tecnici non avrebbero dato alcun esito.
Superlatitanti: dopo Matteo Messina Denaro ne restano quattro
Uno dei tanti misteri che avvolgono la figura di Messina Denaro e che lo legano alla ‘ndrangheta. Indecifrabile quanto potrebbe accadere ora, dopo 30 anni di latitanza, da quell’estate 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita da primula rossa. «Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».
Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Quattro i superlatitanti che restano ora nell’elenco del Ministero degli Interni.
Attilio Cubeddu, nato il 2 marzo 1947 a Arzana (Nuoro) e ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu ‘e Carros (Nuoro), ove era ristretto, per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime.
Giovanni Motisi, esponente dell’Anonima Sequestri, ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro.
Renato Cinquegranella, camorrista ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro.
Il vibonese Pasquale Bonavota, ricercato dal 2018 per la sua partecipazione alla ‘ndrangheta e per omicidio.
Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.
Quartetto d’Archi
Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di donMico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.
Arresto di Mico Tripodo (a destra, in primo piano)
Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.
I rapporti di Paolo De Stefano
‘Ntoni Macrì
Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.
Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
Nero di Calabria
De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alladestra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.
Il potere di Paolo De Stefano
Giorgio De Stefano, fratello di Paolo e suo predecessore ai vertici dell’omonimo clan
All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.
De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.
Il braccio armato della Madonna
All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.
L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».
Gli equilibri in riva allo Stretto
Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.
Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».
Autobomba e moto
Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.
Orazio De Stefano
Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.
Il racconto del collaboratore
È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».
Pasquale “il Supremo” Condello
«Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».
La morte di Paolo De Stefano
La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.
È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.
Archi, Reggio Calabria
Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.
La guerra di ‘ndrangheta
Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.
L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti
Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.
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