Autore: Camillo Giuliani

  • Cemento à gogo, la Corte costituzionale boccia il Piano Casa della Regione

    Cemento à gogo, la Corte costituzionale boccia il Piano Casa della Regione

    Tutelare il paesaggio e l’ambiente non pare interessare granché alla Regione, meglio il cemento. La prova? L’ultimo Piano Casa approntato dalla Cittadella, impugnato dal Governo e bocciato dalla Corte costituzionale poche settimane fa. Le ragioni dello stop sono appena uscite sul Burc. E dimostrano ancora una volta l’impegno dei nostri legislatori a tenere alto il nomignolo della Calabria. Che, già sommersa dall’edificazione selvaggia, rischiava di essere seppellita sotto un ulteriore strato di cemento grazie all’introduzione di norme edilizie all’insegna del “liberi tutti”.

    Dialogo interrotto

    La legge regionale oggetto del contendere era la numero 10 del luglio 2020, ma la questione affonda le sue radici nel tempo. La Calabria, infatti, non è in grado da anni di dotarsi di un Piano paesaggistico regionale, come previsto invece dal Codice dei Beni culturali e, appunto, del Paesaggio. L’unico passo in avanti in tal senso risale al 2016. All’epoca il Consiglio approvò il Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (QTRVP) a seguito di un’interlocuzione col Mibact avviata quattro anni prima.
    Il dialogo col ministero, obbligatorio in base agli accordi tra le parti, si è interrotto però. E, quattro anni dopo, la neoeletta maggioranza di centrodestra ha deciso di mettere mano alla materia in autonomia infichiandosene dei patti con Roma. E del fatto che l’ultima parola su paesaggio e ambiente spetti al Governo e non agli enti locali.

    Nuove deroghe ai vecchi vincoli

    Cosa hanno deciso, invece, in Calabria? Di legiferare in (ulteriore) deroga agli strumenti urbanistici vigenti, modificando (al rialzo) i limiti relativi agli ampliamenti volumetrici e quelli legati alle variazioni di destinazione d’uso e del numero di unità immobiliari. E gli impegni circa una pianificazione condivisa, il corretto inserimento degli interventi edilizi nel contesto paesaggistico, la tutela del paesaggio prevista anche dalla Costituzione, la necessità di una programmazione unitaria sul territorio nazionale? Chissenefrega.

    La Cittadella aveva dato il via libera ad ampliamenti volumetrici fino al 30% per gli immobili esistenti, introdotto deroghe all’altezza massima dei nuovi edifici, la possibilità di riposizionare diversamente quelli demoliti e da ricostruire. Tutto al di fuori di ogni criterio di pianificazione paesaggistica «da concordare necessariamente e inderogabilmente con lo Stato».

    Via al cemento, il paesaggio non conta

    Così quest’ultimo ha impugnato la norma, ritenendo «palese l’intento del legislatore regionale di stabilizzare nel lungo periodo la previsione di interventi edilizi in deroga agli strumenti urbanistici, che erano, invece, stati introdotti come straordinari». La conseguenza? «Accrescerne enormemente il numero e renderne “costante l’estraneità […] rispetto all’alveo naturale costituito dal piano paesaggistico”».

    Come si è difesa la Regione? Sostenendo che il ricorso del Governo peccasse di eccessiva genericità e indeterminatezza. E affermando che la concertazione con i ministeri competenti fosse obbligatoria soltanto in caso di beni e aree tutelate. I giudici, però, hanno smontato punto per punto questa linea. E sottolineato al contrario che, avendo siglato la Cittadella un protocollo nell’ormai lontano 2009 che stabiliva l’obbligo di dialogare con lo Stato in tema di paesaggio per arrivare alla stesura del Piano regionale, cambiare le carte in tavola come se gli accordi non esistessero è illegittimo.

    A quando il Piano?

    Pacta sunt servanda, i patti si rispettano: la massima latina vale ancora oggi. E il Consiglio regionale della Calabria non poteva non tenerne conto, svalutando peraltro principi costituzionalmente garantiti, per autorizzare colate di cemento extra. Le modifiche introdotte, infatti, avrebbero finito per «danneggiare il territorio in tutte le sue connesse componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale». Una lesione, a detta dei magistrati, ancora più fuori luogo alla luce della «circostanza che, in questo lungo lasso di tempo non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale». Tutto sbagliato, tutto da rifare.

  • Cosenza, tra Franz e Bianca un accordo in salita

    Cosenza, tra Franz e Bianca un accordo in salita

    Quale coalizione ha vinto le Amministrative di Cosenza? Di risposte da quella che dovrebbe essere la futura maggioranza ne arrivano due.
    La prima – rafforzata dai numeri: 20 posti in Consiglio che bastano e avanzano per governare in autonomia – è quella che arriva dal trittico lista del sindaco, Pd e Psi: i vincitori sono quelli che hanno portato il centrosinistra al ballottaggio contro “l’altro Caruso”. Poi ci sono gli alleati della seconda ora, che avranno sì i loro riconoscimenti per il supporto dato nella sfida finale, com’è giusto che sia. Però, senza esagerare. Se c’è da sacrificarsi tocca agli ultimi arrivati farlo.

    Il neo sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto Alfonso Bombini)

    La seconda risposta, invece, è quella dell’altra metà del centrosinistra, anche nazionale visto che di mezzo c’è quel M5S che coi democrat ormai flirta apertamente dopo gli anni del “Parlateci di Bibbiano”. A Cosenza, secondo Bianca Rende e i pentastellati, la coalizione vincitrice è quella che si è formata tra il 5 e il 15 ottobre, non quella “franzescana” doc col suo 29% del primo turno, insufficiente perfino a superare l’ex vicesindaco. La rimonta, in questa interpretazione, è arrivata grazie al supporto di chi prima era sfidante. Altrimenti sarebbe rimasta un sogno. E se a De Cicco toccano due posti che contano, il medesimo trattamento va riservato anche all’aspirante sindaca . Anche perché ha preso circa l’1% in meno della coalizione dell’ex assessore al primo turno e, al contrario di quest’ultimo, i “suoi” voti arrivano da un progetto civico ma dichiaratamente di centrosinistra. In linea, cioè, con il voto dei cosentini.

    Il nodo della presidenza

    E così a Cosenza, passata la sbornia per la vittoria, la nuova maggioranza nell’attesa di insediarsi ha iniziato già a scricchiolare. La diversità di vedute sulla distribuzione degli incarichi istituzionali è un problema di non facile soluzione. In casa Rende le idee sono chiare: spettano un assessorato e la presidenza del consiglio comunale. Quella che ritengono Caruso abbia già promesso loro quando, all’indomani dell’accordo per il ballottaggio con la ex rivale, delineò per la nuova alleata «un ruolo istituzionale di vigilanza a garanzia del raggiungimento degli obiettivi condivisi». L’identikit, da manuale, del presidente del consiglio.

    Il fatto è che oltre al manuale esiste la realtà. E in quest’ultima il presidente del consiglio comunale è molto altro. Da capo dell’assemblea è anche colui che ne stabilisce l’agenda, convocando le sedute e organizzando l’ordine del giorno. Stabilisce, in estrema sintesi, di cosa si parlerà in aula e quando si farà. O, se il momento politico non è dei migliori, quando non si farà.
    In più, il presidente guadagna un bel po’ di quattrini, che non guastano mai e al contrario dell’assessore non ci se ne libera ritirandogli la delega dall’oggi al domani. Tocca all’aula – con tutti gli accordi trasversali che possono sorgere in una crisi – trovarne uno nuovo. E il vecchio nell’aula ritorna come consigliere, una garanzia che chi approda in Giunta dal Consiglio non ha.

    Botte piena e moglie ubriaca

    La presidenza per sé e un assessorato ai Cinque Stelle sarebbe la classica soluzione da botte piena e moglie ubriaca per Bianca Rende. Ma quale sindaco affiderebbe a cuor leggero un incarico così delicato a una persona che soltanto poche settimane prima era sua avversaria alle elezioni? E poi, dettaglio non trascurabile, Caruso può rivendicare piena autonomia nel selezionare i suoi assessori, ma il Consiglio è un’altra cosa. Lì sono i partiti a votare. E per quanto il primo cittadino possa far pesare il suo ruolo nella discussione l’ultima parola sul tema non spetta a lui, chiamato a gestire col bilancino gli equilibri politici interni.

    Bianca Rende (foto Alfonso Bombini)

    Anche per questo il successore di Occhiuto continua a ribadire di non aver affatto promesso la presidenza, non di sua stretta competenza, a Rende. Un assessorato le avrebbe detto e un assessorato avrà, per sé o per la persona che vorrà indicare. E se declinerà l’offerta quel posto andrà a M5S. Le altre caselle sono già occupate a prescindere dalle deleghe, ancora tutte da stabilire.

    Il bottino degli alleati

    Stando così le cose, De Cicco avrà due assessori – lui stesso e Sconosciuto – perché a (quasi) parità di voti con Rende i suoi vengono giudicati più “pesanti” nella vittoria: arrivano da potenziali elettori di centrodestra. Un assessore andrà al Psi e altri due alla lista del sindaco, che da socialista storico in sostanza ne avrebbe tre. Pazienza se i nomi dei papabili sono quelli dei consiglieri De Marco e Battaglia, che fino a pochi giorni fa sedevano nella maggioranza di Occhiuto, e quello di Pina Incarnato, figlia di quel Luigi additato, al pari della premiata ditta Adamo&Bruno Bossio e di Carlo Guccione, come uno dei manovratori oscuri dietro il neo sindaco. Infine il Pd, primo partito della coalizione, che farà da asso pigliatutto accaparrandosi tre assessorati e presidenza della sala Catera. I nomi in questo caso sono quelli dei più votati: Covelli, Funaro e Alimena in Giunta e Mazzuca sulla poltrona che era di Pierluigi Caputo.

    Giuseppe Mazzuca e Luigi Incarnato (foto Alfonso Bombini)
    Competenze o consenso?

    Anche qui, riguardo alle note diffuse in campagna elettorale, qualche dubbio è sorto. Se Caruso e Rende dicevano di aver trovato l’intesa in vista del ballottaggio sulla necessità di un esecutivo di alto profilo (tecnico, prima ancora che politico) come mai – senza nulla togliere agli eletti appena citati – il criterio di selezione degli assessori è diventato il numero di voti racimolati? Che fine hanno fatto le competenze, conditio sine qua non degli accordi precedenti? L’impressione è che i vituperati big del Pd locale vogliano i loro uomini in prima fila. Classico spoils system, ma in tempi di antipolitica non è il massimo dal punto di vista dell’immagine agli occhi del cosentino medio, che a certi volti e nomi si dichiara sempre più spesso allergico (salvo votarli ugualmente con altrettanta frequenza).

    Il ruolo dei Cinque Stelle tra Roma e Cosenza

    La discussione tra i vincitori in questo momento resta un dialogo tra sordi. Si è andati avanti con incontri bilaterali, ma un tavolo unitario della (presunta?) nuova maggioranza ancora non c’è mai stato. Sullo sfondo restano le intese romane tra Pd e M5S. Questi ultimi si sono già accordati in autonomia con Caruso per un assessorato, ma probabilmente pensavano che il loro posto in Giunta facesse parte dei due destinati a Rende. Questa a sua volta, ha ancora il pallino in mano, sperando non diventi una patata bollente. C’è un posto soltanto per la sua coalizione? È lei che deve decidere se prenderlo personalmente o darlo a qualcuno che indicherà.

    Ognuna delle due soluzioni rischia di lasciare a bocca asciutta i pentastellati, circostanza che Rende vorrebbe evitare senza però sconfinare nell’autolesionismo. Tant’è che pare che nelle prossime ore debba arrivare proprio un nuovo incontro tra Caruso e i Cinque Stelle per venire a capo della questione. La parola data è importante, ma un sostegno più forte in Parlamento con due forze di governo in maggioranza non è ipotesi da accantonare a cuor leggero. Per uscire dall’impasse la strada parrebbe quella di dare due assessorati all’aspirante sindaca e M5S. Ma a quel punto a sacrificarsi dovrebbero essere i “famelici” democrat o i socialisti. Che avranno anche preso pochi voti rispetto agli altri contendenti, ma restano il partito a cui il neo sindaco ha giurato eterno amore.

    Si parte a metà mese

    Con un bilancio da approvare quasi a scatola chiusa pochi giorni dopo l’insediamento – si ipotizza che proclamazione e prima seduta arrivino a ridosso del 15 novembre – e le casse vuote serve unità d’intenti. Ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità. E a qualcuno toccherà fare un passo indietro per evitare che lo scricchiolio di oggi si trasformi in crepa vera e propria domani. Certo non è il migliore dei segnali litigare prima ancora di aver cominciato. Per quello, in fondo, ci sono cinque anni davanti.

  • Mario Occhiuto da Alarico alle Ztl: dieci anni in ventuno lettere

    Mario Occhiuto da Alarico alle Ztl: dieci anni in ventuno lettere

    Con l’insediamento di Franz Caruso dopo la vittoria al ballottaggio, Cosenza dopo poco più di dieci anni quasi ininterrotti cambia sindaco: nessuno prima di Mario Occhiuto aveva governato tanto a lungo la città. Di cose in tutto questo tempo ne sono successe parecchie, abbiamo provato a sintetizzarle sfruttando l’alfabeto per ripercorrere il decennio appena concluso.

    Alarico

    Un chiodo fisso: fare della figura del barbaro una calamita di turisti. Il risultato? Una serie di figure che con Alarico hanno poco a che fare. Del museo dedicato al saccheggiatore di Roma per adesso esistono solo macerie finite sotto inchiesta e l’impiego di mille maestranze locali per il film che ne doveva rinverdire le gesta è rimasto nelle intenzioni del regista. Neanche i droni israeliani proposti da Luttwak hanno svolazzato sulla confluenza del Crati e del Busento alla ricerca del tesoro. Quello che, ironizzava il CorSera a marzo del 2018, il sindaco sognava forse di utilizzare per rimpolpare le casse di quel comune che saldava i suoi debiti personali.

    alarico-statua
    Un particolare della statua di Alarico a Cosenza commissionata da Mario Occhiuto
    Bilotti

    Tutto cominciò con una perizia scopiazzata e una gara d’appalto annullata. Se il buongiorno si vede dal mattino, il restyling di piazza Bilotti fece capire subito che i problemi non sarebbero mancati. Lavori più lunghi del previsto (ma spacciati per fulminei all’inaugurazione) con i negozi circostanti alla canna del gas, l’ombra della ‘ndrangheta, manovre politiche sottobanco: l’opera simbolo del decennio targato Occhiuto non si è fatta mancare nulla, compresi un senso di marcia all’inglese per le auto e i sigilli della magistratura. Sotto sequestro è ancora lo spazio che ospitava il museo sottostante. Saranno i giudici a stabilire se qualcuno abbia commesso reati nella fase di collaudo.

    Calatrava

    Bello, bellissimo. Ma utile? Se lo sono chiesti in tanti osservando il ponte disegnato dall’architetto valenciano, altra opera – come la piazza appena citata – pensata in epoca Mancini e portata a termine da Occhiuto. Sarà perché sorge tra altri due ponti, saranno le dimensioni mastodontiche in contrasto col panorama circostante, sarà perché – come dicono a Cosenza – per adesso collega il nulla al niente. O, più probabilmente, sarà perché è costato quasi 20 milioni di euro e una buona fetta di quei soldi era destinata in origine all’edilizia popolare.

    ponte_calatrava
    La desolazione sulla sponda del ponte di Calatrava più vicina al centro città
    Debiti

    Pubblici o privati, non si può non parlare di conti in rosso nel raccontare i dieci anni di Occhiuto in Comune. Già nella campagna elettorale del 2011 Enzo Paolini, suo sfidante al ballottaggio, contestava al suo avversario inadempienze con numerosi creditori. Gli elettori se ne infischiarono e gli preferirono l’architetto. Che, arrivato a Palazzo dei Bruzi, trovò un ente sull’orlo del default e avviò un piano di risanamento. Buono solo sulla carta però. I debiti sono cresciuti e la promessa di rimettere in ordine i conti già nel 2018 con quattro anni di anticipo – primo punto del programma elettorale di Occhiuto nel 2016 – si è concretizzata nella dichiarazione di dissesto del 2019. La prima della storia della città.

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    Il primo capitolo del programma elettorale di Mario Occhiuto alle Amministrative 2016
    Elezioni

    A spezzare l’incantesimo tra il sindaco e i cittadini che lo avevano riconfermato a furor di popolo sono state probabilmente le ambizioni del primo. Occhiuto – che pure nel 2012 sulle pagine dei quotidiani locali si definiva un tecnico prestato alla politica pronto a lasciarla al termine del suo primo mandato – forse ci aveva preso gusto a comandare. Tanto da puntare spedito verso una poltrona molto più pesante: quella di presidente della Regione. A molti è sembrato che l’attenzione verso Cosenza sia svanita insieme alle promesse preelettorali sul recupero delle periferie, soppiantate in agenda dalla corsa alla Cittadella. Ad interromperla bruscamente, lo sgambetto degli alleati che gli preferirono Jole Santelli come candidata del centrodestra.

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    Uno degli incontri pubblici per promuovere la sua candidatura alla presidenza della Regione
    Facebook

    Se la socialdemocrazia resta un miraggio, Cosenza ha già sperimentato a pieno la social-democrazia, quella che passa dalle bacheche di Facebook. Dalla sua, Occhiuto ha mostrato progetti per la città, battibeccato con gli avversari (politici e non), aizzato i suoi sostenitori contro quelli che lui stesso ha ribattezzato “odiatori”. Memorabile la pagina istituzionale Decoro Urbano: doveva servire a raccogliere segnalazioni sui disservizi in città, a volte chi la gestiva la trasformava in una succursale della segreteria politica del sindaco beatificandone le gesta. Ancora di più i fotomontaggi circolati sul web, dai più critici a quelli al limite dell’idolatria.

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    Una delle creazioni di un sostenitore di Occhiuto circolata in rete qualche anno fa
    Gentile

    Amore e odio. Più odio che amore, però, quello tra gli Occhiuto e i Gentile, due delle famiglie col maggior peso elettorale in riva al Crati. Mario batte Paolini nel 2011 e come sua vice nomina Katya, che ha fatto incetta di voti. L’idillio dura poco, il tempo che scoppi un pasticcio intorno all’ex bocciodromo di via degli Stadi. Ridotto a pezzi, il Comune prima lo assegna all’ex marito della Gentile per realizzarci un centro di guida sicura. Poi, a stabile rimesso a nuovo, fa marcia indietro. Ne nasce un caso giudiziario – che vedrà sconfitto il municipio – e, soprattutto, politico. Katya chiama “Schettino” Mario, lui la defenestra. Seguono anni di frecciate al veleno, interrotti dalla candidatura alle regionali della Gentile a sostegno di Occhiuto. Roberto però.

    Hellas

    Le ultime parole famose: «Quest’anno avremo il terreno migliore della serie B». La realtà: migliaia di persone arrivate allo stadio per la prima di campionato tra i cadetti dopo anni in C restano fuori dai cancelli. Cosenza zero, Hellas Verona tre: partita persa a tavolino per impraticabilità del terreno di gioco. È la prima e unica sconfitta dei Lupi per ragioni simili dal 1914 ad oggi. Nessuno fa mea culpa, tra silenzi intervallati da urla al complotto. Finché il sindaco trova un sorprendente colpevole: le nottue, voraci insetti erbivori che si sarebbero accaniti sul San Vito nel prepartita per impedire il debutto casalingo dei rossoblù e far sfigurare l’amministrazione comunale.

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    Il terreno del San Vito a poche ore dal match, mai disputato, contro l’Hellas Verona
    Idrico

    Avere l’acqua a casa per molti cosentini resta ancora un problema quotidiano. Va dato atto, però, all’amministrazione di aver migliorato e non poco la situazione trovata al suo insediamento. La rete idrica cosentina all’inizio dello scorso decennio disperdeva oltre due terzi del suo prezioso contenuto lungo il tragitto verso i rubinetti. Stando a rivelazioni più recenti la percentuale si sarebbe invertita e l’acqua persa per strada ora ammonterebbe a circa un terzo del totale. Non abbastanza per cantare vittoria, anche se il Comune lo ha fatto lo stesso: nel 2015 dichiarò che Cosenza era terza in Italia per acqua immessa in rete. E a riprova allegò una classifica. In cui risultava sessantesima.

    Luci

    Forse non illuminato, ma di certo Mario Occhiuto è stato un “sovrano illuminante” con luci artistiche e non piazzate in giro per la città. Dai mitici cerchi alle menorah ebraiche, passando per l’immancabile Alarico le luminarie sono talmente associate al sindaco uscente che tra i nomignoli affibiatigli negli anni ci sono Lampadina e Osram. Dettaglio non trascurabile: per anni quasi tutte le ha installate la stessa ditta. Si chiama Medlabor: prima del 2011 fatturava pochi spiccioli, da quell’anno ha fatto affari con Palazzo dei Bruzi per centinaia di migliaia di euro. E sull’accaduto ora è la Procura a voler fare… luce.

    I cerchi luminosi, una delle costanti dei 10 anni di Occhiuto
    Metro

    L’ha sempre sostenuta ma in molti hanno pensato il contrario. Che ad alimentare l’equivoco, chissà, sia stata la sua presenza e quella dei suoi fedelissimi ai banchetti in cui si raccoglievano firme per un referendum per abolirla? Sulla apparente contrarietà alla metropolitana leggera Mario Occhiuto ha costruito gran parte del successo elettorale del 2016. Tanti voti trasformatisi in altrettanti (o quasi) delusi quando il progetto è partito lo stesso, seppur con le modifiche volute dal sindaco: viale Mancini sventrato, lavori bloccati per mesi e una ferita nel centro città che bisognerà decidere come ricucire.

    Nazi

    La pubblicità funziona purché se ne parli. Un concetto ormai desueto ma ancora in voga a Cosenza, nonostante una pubblicitaria esperta come l’attuale sindaco di San Giovanni in Fiore, Rosaria Succurro, tra gli assessori. Cosenza per attrarre visitatori presenta all’edizione 2015 della Bit di Milano una brochure promozionale sulla città. E sceglie tra i testimonial uno dei meno indicati: il gerarca nazista Himmler, giunto in riva al Crati e al Busento alla ricerca del tesoro del solito Alarico.

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    La brochure destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
    Ospedale

    Il tira e molla con la Regione su dove costruire quello nuovo ha portato a uno stallo che rischia di proseguire anche nei prossimi anni. Cosenza nel frattempo resta con un ospedale, l’Annunziata, vecchio, decrepito, inadeguato e privo delle necessarie forze in pianta organica. Alla carenza di medici Occhiuto ha provato a mettere mano con due ordinanze in cui imponeva assunzioni all’Azienda Ospedaliera. In entrambi i casi il prefetto ha bollato gli atti come palesemente illegittimi, rendendoli nulli.

    Provincia

    Se in Regione non è riuscito ad arrivare, Mario Occhiuto può vantare comunque nel suo cursus honorum la presidenza della Provincia. Siamo nel 2014 e, a seguito della riforma Del Rio, a votare il successore di Oliverio non sono più i semplici cittadini, ma sindaci e consiglieri comunali del Cosentino. Seguono un paio d’anni scarsi in cui il Palazzo della Provincia diventa sede unificata del Comune, una circostanza che fa ben sperare per il futuro della Biblioteca Civica, finanziata a metà dai due enti. Speranza vana: Occhiuto a inizio 2016 decade da sindaco e, dopo una battaglia legale di Graziano Di Natale, deve lasciare anche piazza XV marzo.

    Quote rosa

    La prima sindacatura per Occhiuto, da un punto di vista politico, è stata senza dubbio la più travagliata. E non solo per la sfiducia che decretò l’arrivo di un commissario a pochi mesi dalle Amministrative. In quei poco meno di cinque anni il sindaco ha modificato in più occasioni la composizione della sua Giunta. Tant’è che di rimpasto in rimpasto è saltato il rispetto della parità di genere nell’esecutivo, con conseguente condanna per Palazzo dei Bruzi. L’architetto addebitò il passo falso ai partiti della coalizione, rei di non avergli suggerito nuovi ingressi al femminile tra gli assessori.

    Rifiuti

    Prima delle Amministrative 2011 Eugenio Guarascio si sta già occupando dei rifiuti cosentini. Ma è con l’ingresso di Occhiuto in Comune che la città e l’imprenditore lametino si legano indissolubilmente. Guarascio si aggiudica in sequenza due appalti milionari e, nello stesso periodo, diventa presidente del Cosenza. Il servizio di raccolta procede tra alti e bassi, un po’ come la squadra rossoblu sul campo da gioco e i rapporti tra sindaco e presidente. Mentre l’operazione nuovo stadio, che vedeva entrambi coinvolti in prima persona, rimane ferma al palo fino al prossimo annuncio.

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    Eugenio Guarascio e Mario Occhiuto a Palazzo dei Bruzi
    Sfiducia

    A quattro mesi dal termine del mandato diciassette consiglieri comunali firmano davanti a un notaio la sfiducia nei confronti di Mario Occhiuto. Il sindaco decade, ma la congiura di palazzo si rivela un boomerang per chi l’ha ordita. Le successive elezioni si trasformano in una cavalcata trionfale per l’uscente, che straccia i rivali fin dal primo turno grazie anche al voto disgiunto che lo premia oltre ogni rosea aspettativa. Il consenso bulgaro raccolto sembra farne il candidato ideale per il dopo Oliverio alla Cittadella. Saranno i suoi stessi alleati a infrangere il suo sogno di raggiungere Germaneto.

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    Occhiuto simil Che Guevara in una maglietta realizzata dopo la sfiducia del febbraio 2016
    Traffico

    Al cosentino puoi togliere tutto, ma non l’abitudine di prendere la macchina anche solo per percorrere pochi metri. Puntare su pedonalizzazioni e piste ciclabili, insomma, non è esattamente la scelta più popolare in città. Se poi ci aggiungi chiusure che fanno da tappo alle arterie viarie principali, cambi di sensi di marcia e cantieri infiniti la frittata è fatta. E non è parlando di mobilità dolce o paragonandosi alla Svizzera che si placa il malanimo. Il nomignolo Mario “Occhiuso” la dice lunga sull’apprezzamento medio dei cosentini per certe scelte sulla viabilità. Ma, piaccia o meno, svuotare le strade dalle auto resta importante.

    Urgenza

    I lavori assegnati dal municipio con affidamenti diretti per somma urgenza sono stati a lungo sotto i riflettori, dell’opposizione quanto della magistratura. Tante le determine in cui si sfiora senza superare per pochi centesimi la soglia dei 40mila euro che obbligherebbe a una gara pubblica. Persino più numerose delle altrettanto discusse consulenze distribuite negli anni a professionisti transitati in passato dallo studio di architettura del sindaco. C’è chi le derubrica a tradizionale spoils system e chi non è altrettanto generoso nel giudizio a riguardo.

    Vice

    Non gli mancheranno i talenti in altri campi, ma quando si tratta di scegliere il proprio vice meglio non chiedere consiglio a Mario Occhiuto. In dieci anni di decisioni in tal senso non ne ha azzeccato molte, se per insipienza o fiducia mal riposta non è dato sapere. Con Katya Gentile è finita a pesci in faccia, Luciano Vigna lo ha scaricato trasferendosi armi e bagagli alla Regione. Con chi? Ma con un’altra vice Occhiuto, naturalmente, ossia quella Jole Santelli che ha soffiato la candidatura alle regionali proprio al suo “datore di lavoro” cosentino. Al posto di lei è arrivato Francesco Caruso, bocciato alle ultime elezioni dai cosentini proprio per essersi proposto in continuità col suo predecessore.

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    Mario Occhiuto con la sua allora vice sindaca, Jole Santelli
    Ztl

    La grande novità introdotta in centro e nella parte antica della città non pare aver prodotto ottimi risultati. Se ne è lamentata perfino la Curia, non proprio un comitato di rivoluzionari, quando arrivare all’Arcivescovile si è fatto problematico. Per non parlare dei commercianti delle traverse di corso Mazzini, che sostengono di aver visto crollare gli incassi a seguito delle limitazioni al traffico.
    Degno contorno dell’intera questione, centinaia e centinaia di multe arrivate ai cosentini e poi annullate per l’utilizzo fuorviante delle formule “Varco attivo” e Varco non attivo” sui tabelloni elettronici all’ingresso delle Ztl.

  • Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Passata l’estate delle copromorfe fioriture algali, la speranza era che dei problemi della depurazione non si dovesse parlare almeno per un po’. Dal Lussemburgo, invece, tre giorni fa è arrivata l’ennesima tirata d’orecchie per l’Italia, rea di non aver rispettato le norme comunitarie in materia di acque reflue. E nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha un peso notevole (in negativo) la Calabria.

    Multe vecchie e nuove

    Il Belpaese non è nuovo a verdetti di questo genere. Paga, infatti, già circa 55 milioni di euro all’anno come sanzione per il mancato adeguamento dei propri impianti di depurazione alle direttive europee. Stavolta doveva difendersi da una procedura d’infrazione avviata nel 2014 e conclusa pochi giorni fa con la conferma delle violazioni contestate alle autorità nazionali dalla Commissione europea.

    Oggetto del contenzioso erano raccolta, trattamento e scarico delle acque reflue urbane in centinaia di aree sensibili dal punto di vista ambientale, materia regolamentata dalla direttiva Ue sulle acque reflue (91/27/Cee). È la prima condanna per l’Italia su questo specifico dossier, ragion per cui al momento non si prevedono multe. Ma se la situazione delle fogne non dovesse mutare in meglio scatterebbero nuove sanzioni.

    La situazione in Italia

    E la situazione quale sarebbe? Che nel nostro Paese sono 159 i Comuni che ancora oggi non sono dotati di reti fognarie per le acque reflue urbane. Non solo: 609 agglomerati le reti le hanno, ma non a norma. Lo stesso numero di quelli in cui la pubblica amministrazione non ha predisposto le misure necessarie affinché «la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico».

    La Calabria si distingue in negativo 

    Nel primo caso, solo la Campania, con i suoi 85 centri, fa peggio della Calabria. Che si ferma a 58 casi citati (oltre un terzo del totale nazionale) nella sentenza, ma può fregiarsi di un poco invidiabile primato. È l’unica Regione italiana, infatti, a vantare nella sua lista il capoluogo: Catanzaro. La città di Sergio Abramo è in buona – o, meglio, cattiva – e abbondante compagnia. Nella lista nera dell’Ue ci sono parecchi centri del Cosentino con problemi di depurazione, ma non mancano quelli delle altre province.

    L’elenco comprende, infatti, anche Acquaro, Aiello Calabro, Altomonte, Bocchigliero, Caccuri, Cardeto, Casabona, Celico, Cerisano, Cerzeto, Chiaravalle Centrale, Cirò, Cirò Marina, Conflenti, Delianuova, Fiumefreddo Bruzio, Gioiosa Ionica, Grotteria, Ioppolo, Lago, Laino Borgo, Lattarico, Lungro, Luzzi, Maierato, Melissa, Mongrassano, Monasterace, Mottafollone, Palizzi, Paludi, Paola, Parghelia, Petilia Policastro, Placanica, Plataci, Platì, Polia, Rocca di Neto, San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Gregorio d’Ippona, San Marco Argentano, San Martino di Finita, San Sosti, Santa Agata d’Esaro, Santa Caterina Albanese, Santa Severina, Santa Sofia d’Epiro, Scandale, Scigliano, Scilla, Seminara, Spilinga, Tarsia, Zambrone.

    Nessun trattamento e impianti inadeguati

    Sono 128 invece i Comuni calabresi a non garantire che «le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente». Gli stessi che quando si parla di impianti di trattamento non sono in grado di «garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico». Nessuna regione fa peggio quando si parla di depurazione.

    Anche in questo elenco non mancano nomi eccellenti, come Corigliano (non ancora unificata a Rossano all’apertura del procedimento) e Rende. Ai 58 Comuni già citati poche righe più su vanno infatti aggiunti: Aprigliano, Belvedere Marittimo, Bianchi, Bisignano, Bonifati, Borgia, Briatico, Cardinale, Cariati, Carlopoli, Cerva, Cessaniti, Civita, Corigliano Calabro, Crosia, Crucoli, Dinami, Drapia, Fabrizia, Fagnano Castello, Feroleto Antico, Ferruzzano, Filadelfia, Firmo, Francavilla Angitola, Francavilla Marittima, Frascineto, Gerocarne, Gimigliano, Grimaldi, Guardavalle, Guardia Piemontese, Limbadi, Maida, Malvito, Mammola, Mandatoriccio, Marcellinara, Maropati, Mormanno, Nardodipace, Oppido Mamertina, Oriolo, Orsomarso, Parenti, Paterno Calabro, Pedace, Pentone, Piane Crati, Rende, Riace, Roccella Ionica, Roggiano Gravina, San Calogero, San Giovanni in Fiore, San Lorenzo del Vallo, San Nicola da Crissa, San Pietro Apostolo, San Pietro di Caridà, San Roberto, San Vincenzo La Costa, Santo Stefano in Aspromonte, Serra San Bruno, Serrastretta, Sersale, Spezzano Albanese, Tiriolo, Torano Castello, Verbicaro, Varapodio e Zungri.

  • Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.

    La lingua del cuore e quella del pane

    «Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).

    «Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».

    Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».

    Sapori che si fondono

    Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».

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    Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
    Donne e uguaglianza

    Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».

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    «A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».

    Preti con moglie e figli

    Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».

    Mosaici e oro

    La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale di San Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battista con le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».

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    La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa

    O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a Spezzano Albanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».

    I luoghi del cuore

    Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».

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    Primo maggio alla Montagnella
    Mare nostro

    Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë è una via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».

    Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.

  • Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Un primato nella Giustizia la Calabria lo ha, peccato che sia alla rovescia. A stabilirlo è la relazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, pubblicata ieri. Dal documento emerge infatti come le decisioni delle Corti d’Appello di Catanzaro e Reggio Calabria costino allo Stato milioni e milioni di euro ogni anno. Il motivo? I risarcimenti – o, nel gergo tecnico, l’equa riparazione – da pagare a chi è finito in carcere, agli arresti domiciliari o in regime misto di custodia cautelare per poi essere successivamente prosciolto dalle accuse. Gli errori capitano in tutto lo Stivale, ma i numeri dei due tribunali calabresi surclassano quelli di tutti i concorrenti.

    Un terzo della spesa nazionale in Calabria

    La relazione – che incrocia i dati forniti dal Mef con quelli del ministero della Giustizia – accende i riflettori sul triennio 2017-2019, un periodo in cui lo Stato ha sborsato oltre 111 milioni di euro a chi è rimasto in galera o ai domiciliari ingiustamente . Quasi 37 milioni – un terzo della spesa complessiva – sono dovuti a Catanzaro e Reggio. A volte il capoluogo regionale costa da solo quanto Roma, Milano, Napoli e altre grandi città italiane messe assieme.

    2017, Catanzaro sbaraglia tutti

    Nel 2017, ad esempio, il costo delle ingiuste detenzioni targate Catanzaro sfiora i nove milioni di euro (8.866.654,67 ad essere precisi). La Capitale arriva a meno della metà di quella cifra, fermandosi a poco meno di 4 milioni di euro. Il capoluogo campano non arriva nemmeno a 2,9. Il “bello” è che – nonostante i bacini demografici d’utenza siano ben diversi – il numero di ordinanze considerate nella relazione non è poi così divergente tra le tre città: 158 a Catanzaro, 137 nella Città eterna, 113 ai piedi del Vesuvio. Reggio Calabria, nonostante nel suo caso le ordinanze siano soltanto 21, costa comunque allo Stato poco più di un milione di euro.

    2018, la spesa cresce ancora

    Nel 2018 la spesa cresce ulteriormente. A Catanzaro le ingiuste detenzioni arrivano a costare poco meno di 10,4 milioni di euro, quasi cinque volte quanto speso per Napoli coi suoi 2,4. E stavolta anche Reggio “si fa valere”, con i risarcimenti che gravano sulle casse statali per quasi 2,3 milioni.
    È l’inizio di una “rimonta” che le farà superare Catanzaro in cima alle graduatorie italiane dell’anno successivo.

    2019, il sorpasso di Reggio

    Per le ingiuste detenzioni in riva allo Stretto nel 2019 la spesa sale a quasi dieci milioni di euro (9,88), doppiando quella relativa alla Corte d’Appello di Catanzaro. Un dato che le permette di “brillare” anche nella classifica degli esborsi medi per risarcimento. Scrive la Corte dei Conti che «nell’ambito delle ingiuste detenzioni, gli importi di media oscillano dai 5.474 euro di Potenza, per 11 casi, a 82.400 euro di Palermo, per 39 casi, sebbene la spesa complessiva più alta si riscontri a Reggio Calabria con quasi 82.000 euro per 120 ordinanze».

    Gli altri record negativi

    Il 2019 però è un anno di “risparmi” da record per Catanzaro rispetto al recente passato, visto che l’esborso si ferma a 4,45 milioni. Non è l’unico primato poco meritorio del capoluogo regionale. Nella relazione della Corte dei Conti si legge, ad esempio, che «nel caso della detenzione carceraria è stato liquidato l’importo pari ad euro 14.244,76 con l’ordinanza n. 83/2018 da parte della Corte d’appello di Catanzaro per 18 giorni, che con la media giornaliera di 791,38 euro rappresenta oltre il triplo dei 235,82 euro quale soglia proporzionale stabilita». Ma Catanzaro è anche quella che ha speso di più per risarcire un detenuto dopo gli arresti domiciliari: «L’importo giornaliero maggiore è stato liquidato per 79 giorni (1.383,73 euro gg.) con l’ordinanza n. 34/2018, cioè oltre 11 volte la soglia proporzionale di 117,91 euro».
    Il 15 febbraio la Consulta dovrà decidere se i quattro referendum sulla giustizia, tra cui quello sulla responsabilità civile dei magistrati, siano ammissibili. E chissà se questi dati influiranno sull’eventuale voto dei calabresi.

  • Piazza Bilotti, non aprite quel museo

    Piazza Bilotti, non aprite quel museo

    Ora non lo dicono più solo gli inquirenti: le travi d’acciaio nel museo multimediale di piazza Bilotti presentano dei difetti non accettabili e sono necessari interventi per renderle sicure. La conferma all’ipotesi della magistratura arriva infatti dai tecnici assunti dal Comune di Cosenza nella speranza che dimostrassero l’esatto contrario.

    Le rassicurazioni infondate di Occhiuto

    «Ribadisco che prima del collaudo anche le leggere imperfezioni presenti in alcune travi d’acciaio sono state oggetto degli opportuni interventi, sì da rendere anche tali componenti del tutto conformi alla normativa e quindi sicuri», rassicurava il sindaco Occhiuto nell’aprile del 2020 all’indomani del sequestro di quella piazza che considerava il fiore all’occhiello della sua amministrazione.

    C’era anche lui tra i 13 rinviati a giudizio per le vicende relative alle presunte irregolarità nel collaudo della maxi opera, riaperta al pubblico quasi completamente pochi mesi fa. A restare chiuso era stato proprio il museo, con Occhiuto che a gennaio scorso aveva spiegato che erano «in corso ulteriori e più approfondite indagini sulle travi metalliche».

    Le indagini commissionate dal Comune

    Quelle indagini – almeno quelle commissionate da Palazzo dei Bruzi – si sono concluse e il risultato è apparso nei giorni scorsi sull’albo pretorio del Comune, seminascosto tra decine di allegati a una determina. Il documento ha un titolo inequivocabile: “Verifica delle travi in acciaio presenti nell’area museo”. Porta la firma di cinque ingegneri della Sismlab, spin-off dell’Unical scelto dall’amministrazione comunale per effettuare i test. È lungo più di 100 pagine, fitte di calcoli ingegneristici, immagini relative alle prove effettuate sui materiali utilizzati. E si conclude con un verdetto inequivocabile: le travi sono difettose e c’è bisogno di intervenire al più presto per evitare il peggio.

    I difetti inaccettabili alle travi

    I cinque di Sismlab lo scrivono a chiare lettere nelle loro conclusioni: «Vista la presenza di difetti su due travi e in particolare sui cordoni di saldatura, considerato che i difetti sono definiti non accettabili e quindi da riparare, considerati inoltre i coefficienti di sicurezza rilevati in presenza dei carichi accidentali nelle sezioni danneggiate, a giudizio di chi scrive e nello stato attuale di consistenza non è possibile riammettere alla riapertura al pubblico l’area attualmente interdetta individuata come area museale».

    Non solo, gli ingegneri aggiungono che «la possibilità di riapertura degli spazi al pubblico dell’area museale e delle aree con esse connesse sono, a giudizio di chi scrive, condizionate all’esecuzione di improcrastinabili lavori di consolidamento da effettuare sulle travi portanti in acciaio». Se non si fanno quelli – e in fretta – niente più museo a piazza Bilotti perché mancherebbero le «condizioni di sicurezza secondo la vigente normativa».

    I bulloni serrati male

    Oltre ai difetti alle travi, ci sarebbero anche dei problemi col serraggio dei bulloni. Dalle verifiche di Sismlab emerge, infatti, «l’evidenza che alcuni elementi presentano dei valori di esercizio leggermente più bassi di quelli impostati per la verifica e intorno al 10-13 % in meno». Tant’è che «sulla base delle risultanze sperimentali appare evidente la necessità di eseguire un intervento di consolidamento sulle travi per poter riammettere all’esercizio le aree del museo. L’intervento ovviamente dovrà essere finalizzato a ripristinare i coefficienti di sicurezza delle travi in acciaio intervenendo sia sulle saldature che sulle parti di bullonatura per ripristinare su queste parti il corretto serraggio».

  • Calabria, la Regione più povera ha i politici più ricchi

    Calabria, la Regione più povera ha i politici più ricchi

    «Tre gruppi spendono i soldi degli altri: i bambini, i ladri, i politici. Tutti e tre hanno bisogno di essere controllati», diceva l’ex parlamentare texano Dick Armey. Tralasciamo le facili battute sugli ancor più facili accostamenti tra alcuni dei gruppi in questione, tutti i candidati ci spiegano che a spingerli a entrare nei palazzi del potere sono sempre e solo i più nobili degli ideali. Ma proviamo a ragionare sull’assurda ipotesi che, sotto sotto, a qualcuno di loro possa interessare pure il vile denaro. Una domanda a quel punto bisognerebbe farsela: quanti soldi passano dalle tasche dei politici regionali ogni mese una volta eletti?

    Differenze tra Consiglio e Giunta

    La risposta non è sempre uguale. Sono molte le variabili da considerare quando si parla di emolumenti alla Regione Calabria, tutte relative al ruolo ricoperto dai singoli. Un assessore guadagnerà più di un consigliere, i presidenti delle commissioni o i capigruppo più dei loro colleghi meno “altolocati”, quelli di Giunta e Consiglio più di qualsiasi componente dei medesimi organi. Certo è che tutti loro a fine serata un pasto caldo possono permetterselo senza preoccuparsi di tirare la cinghia per non arrivare al verde a fine mese.

    Il primato della politica

    In una terra in cui il reddito pro capite medio supera di poco i 15mila euro annui, ai rappresentanti istituzionali dei calabresi spettano infatti ogni mese come minimo circa 12.150 euro. E i Nostri possono arrivare, nel caso dei presidenti di Giunta e Consiglio, anche a quasi 18mila. È il massimo consentito per le Regioni a statuto ordinario. In altri territori italiani dall’economia più florida c’è chi ha scelto di percepire meno, ma qui i politici – visti i brillanti risultati ottenuti in mezzo secolo di regionalismo in salsa calabra – hanno optato per fare bottino pieno. Un omaggio alla meritocrazia che sfugge solo agli osservatori troppo maliziosi, senza dubbio.

    Indennità di carica e di funzione

    Ma come si arriva a certe cifre? Presto detto: ogni politico regionale ha diritto a una indennità di carica – lo stipendio vero e proprio, per così dire – pari a 5.100 euro. A questi vanno aggiunti i quattrini della indennità di funzione. In questo caso si parte dai 1.500 euro per i capigruppo per arrivare ai 2.000 destinati ai presidenti di commissione, gli assessori, i vicepresidenti del Consiglio o quello della Giunta. Se poi si guidano la Giunta o il Consiglio l’indennità di funzione, noblesse oblige, aumenta ancora, toccando i 2.700 euro mensili.

    Vettura e autisti

    Se pensaste che il conto sia finito qui pecchereste d’ingenuità. Non vanno dimenticate, infatti, le spese «per il noleggio e l’esercizio delle autovetture utilizzate per l’esercizio delle funzioni». Da non confondere con il salario per gli autisti inseriti nelle strutture degli eletti: i circa 29.000 euro lordi che vanno ogni anno a uno chaffeur al 100% – se ne possono prendere due volendo, purché si dividano a metà lo stipendio – sono un’altra cosa. Per la loro vettura i politici incassano ancora una volta in base al ruolo ricoperto: segretari questori e vicepresidenti del Consiglio si vedono accreditare ogni 30 giorni 2.355 euro, agli assessori ne toccano 3.115. Quando poi si presiedono la Giunta o il Consiglio la somma sale fino a sfiorare i 3.900 euro.

    Massimo cinque missioni, ma soldi ogni mese

    Il timore che l’iperattivismo dei nostri rappresentanti possa portarli alla fame fa sì che alle somme appena elencate se ne aggiungano altre. Tant’è che per ogni componente di Giunta e Consiglio ci sono 6.000 euro mensili destinati alle spese per l’esercizio del mandato. Ogni consigliere ha pure diritto a un’ulteriore somma, pari a poco più di 1.035 euro, «a titolo di contributo forfettario mensile per le missioni». E poco importa che le missioni rimborsabili ogni anno siano al massimo cinque, meno della metà dei mesi del calendario.

  • Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Il pasticciaccio che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane continua a tenere banco. Nei giorni scorsi avevamo intervistato il sindaco di Acquappesa, Francesco Tripicchio, che per replicare alle accuse subite in questi mesi era andato all’attacco di Sateca. La sua versione, però, è diametralmente opposta a quella dell’azienda che ha gestito il compendio termale dal 1936 all’anno scorso. I vertici di Sateca parlano di «opera di disinformazione» da parte dell’amministratore comunale. E smentiscono categoricamente che le proteste di questi mesi siano «una montatura costruita ad arte dai gestori storici» come reputa Tripicchio. Così, per offrire ai lettori un’informazione più ampia possibile, dopo i lavoratori, gli utenti e il sindaco abbiamo sentito anche gli imprenditori affinché potessero dire la loro su quello che sta accadendo.

    I Comuni vi hanno fatto un’offerta affinché le attività nel 2021 proseguissero, perché l’avete rifiutata?

    «La società è stata costretta a rifiutare perché l’accettazione era condizionata dalla seguente formula vessatoria e quindi inaccettabile: “resta inteso che tale proposta è subordinata al ritiro di tutti i contenziosi in atto, nessuno escluso”. E il canone che ci chiedevano era assolutamente fuori mercato in termini economici».

    Eppure secondo Tripicchio le cifre non si discostano da quelle che si pagano altrove. Se in posti come Fiuggi o Chianciano l’acqua costa di più, perché Sateca dovrebbe spendere meno per l’acqua delle Terme Luigiane?

    «Non sappiamo se il sindaco Tripicchio dica certe cose per manifesta incompetenza o malafede. Ma a smentire le sue affermazioni c’è il rapporto del Dipartimento del Tesoro secondo il quale la totalità delle terme del Lazio (compreso Fiuggi) pagano annualmente canoni per 179.000 Euro e quelle della Toscana (compreso Chianciano) 106.000 Euro».

    Quelle però sono le concessioni, la vostra è una subconcessione. Tripicchio spiega che il calcolo del vostro eventuale canone futuro è figlio di un accordo del 2006 tra Stato e Regioni. Perché dovreste continuare a pagare molto meno?

    «In realtà il sindaco fa riferimento ad un documento di indirizzo delle Regioni in materia di acque minerali, cosa molto diversa. È per questo che Fiuggi, distribuendo bottiglie in tutto il mondo, paga un milione di canone. I conti tornano. Forse il sindaco pensa di rimediare al dissesto del suo Comune rifacendosi sulla Sateca? Una pubblica amministrazione non può sparare cifre a vanvera, dovrebbe fare riferimento al mercato. Non a quello delle acque da imbottigliamento, però».

    Per il sindaco sono solo 44 i vostri dipendenti, altri parlano di 250 lavoratori: quanti sono in realtà?

    «Tripicchio purtroppo non sa leggere i bilanci e neanche i certificati camerali. Nella nota integrativa allegata al nostro bilancio del 2019 (ultimo anno pre-covid) si indica un numero medio annuo (quindi riferito a 365 giorni) di 100 lavoratori, per i quali la Sateca spa ha speso 2.122.000 Euro. Se fossero stati solo 44 dipendenti, avremmo pagato uno stipendio medio a dipendente di 48.227 euro. Purtroppo non possiamo permettercelo».

    Voi contestate ai Comuni di non aver pubblicato un bando, loro replicano che la procedura adottata sia equivalente secondo il Codice degli appalti. Come se ne esce?

    «Riteniamo la manifestazione d’interesse non valida e abbiamo presentato ricorso. Purtroppo il Tar ha rimandato a ottobre la sentenza, prevista all’inizio di luglio, su richiesta dei due Comuni e della Regione, che sembra non abbiano fretta di chiarire le cose. Tripicchio fa, inoltre, riferimento all’art.79 del Codice degli Appalti, che però non riguarda minimamente l’argomento in questione. Dopo mesi che chiediamo qualche riferimento normativo alle assurde azioni dei due sindaci, Tripicchio ci fornisce un articolo di legge che non c’entra nulla».

    La subconcessione a vostro favore, comunque, è scaduta da 5 anni. Per quale motivo avrebbero dovuto farvi continuare come se niente fosse?

    «Non esiste al mondo che si sbatta fuori in maniera illegale, come siamo certi verrà dimostrato dalla magistratura, e con la forza il subconcessionario di un servizio pubblico prima dell’insediamento di chi prenderà il suo posto. Vale per tutti i servizi di pubblica utilità, soprattutto per quelli sanitari. Il tutto gridando al rispetto della legge senza mai dire a quale legge si faccia riferimento».

    Su una cosa con Tripicchio potreste essere d’accordo, però: il sindaco trova strano che, oltre a voi, a rispondere all’invito dei Comuni siano state solo ditte campane. Che idea vi siete fatti a riguardo?

    Il fatto che alla manifestazione d’interesse abbiano partecipato solo aziende di Castel Volturno, Casalnuovo di Napoli, Casoria etc. , tutte operanti nel settore edile, con capitali sociali modestissimi e senza alcuna esperienza termale e che, secondo il sindaco, questa sia una “strategia”, perché poi con l’avvalimento potranno subentrare altri soggetti, secondo noi è molto preoccupante. E anche delle amministrazioni comunali responsabili dovrebbero preoccuparsi. Perché un’azienda seria e fatta da persone perbene non partecipa direttamente ad una manifestazione d’interesse ma manda avanti delle “teste di ponte”? Questo atteggiamento di Tripicchio non fa altro che alimentare le preoccupazioni e le voci su imprenditori chiacchierati e interessati.

    Il parrocco di Guardia ci ha raccontato di aver ricevuto minacce per essersi schierato dalla parte dei vostri dipendenti. Cosa avete da dire a riguardo?

    «L’affermazione del sindaco “Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato” lascia molte perplessità sulle qualità umane di Tripicchio, non pensiamo che tale affermazione meriti alcun commento».

    Tripicchio però è certo che le Terme riapriranno già nel 2022, con o senza Sateca. Quante probabilità ci sono che vada davvero così secondo voi?

    «Noi della Sateca siamo cresciuti a “pane e zolfo”. Sappiamo benissimo cosa vuol dire avviare uno stabilimento da zero, visto che i sindaci prima di appropriarsene coattivamente ci avevano espressamente richiesto che fosse totalmente sgombro. Ad essere ottimisti, la ristrutturazione – siamo in zona soggetta a vincoli ambientali – e tutta la parte burocratica (autorizzazione sanitaria, accreditamento, budget, autorizzazioni di VVF, certificazioni varie…) necessitano di anni. Anche con lo scandaloso, perché passa il principio che chi distrugge viene premiato, contributo economico promesso ai due sindaci da Orsomarso l’apertura l’anno prossimo è assolutamente impossibile».

    A che pro allora un annuncio di quel genere?

    «Ci auguriamo che il proclama di Tripicchio non vada ad inserirsi nella campagna elettorale di Rocchetti (il sindaco di Guardia Piemontese, il comune che insieme ad Acquappesa gestirà le acque termali fino al 2036, nda) e Orsomarso e che non inizi una campagna di promesse ed impegni sulle terme che nessuno potrà certamente mantenere. Chiediamoci se una Giunta regionale che dovrebbe svolgere solo l’attività ordinaria in attesa delle elezioni possa, invece, promettere finanziamenti, posti di lavoro e contributi a destra e a manca».

    Possibile che gli errori siano tutti della pubblica amministrazione?

    «Il ritardo accumulato dal 2016 ad oggi nel fare il bando è esclusivamente da attribuire ai due Comuni. Non sono stati in grado per anni di presentare la documentazione richiesta dalla Regione, nonostante questa si fosse dichiarata disponibile ad aiutarli. Tripicchio e Rocchetti, anche grazie all’immobilismo della proprietaria delle acque, la Regione, hanno distrutto una realtà imprenditoriale, assolutamente non perfetta, ma che con il suo lavoro teneva in piedi l’economia della zona e consentiva a centinaia e centinaia di lavoratori una vita dignitosa e a migliaia di curandi il benessere. Parliamo di una realtà imprenditoriale mai sfiorata da alcuna collusione con la criminalità, incentrata sul totale rispetto della normativa e dei contratti di lavoro. Di questa distruzione dovranno rispondere sia in sede civile che penale».

    Ma perché dovrebbero accanirsi contro di voi come sembrate pensare?

    «Siamo amareggiati, in Calabria le cose vanno sempre al rovescio: chi distrugge in maniera gratuita aziende e posti di lavoro ha il coraggio di ricandidarsi e chi fa chiudere le Terme Luigiane facendo perdere centinaia di posti di lavoro viene addirittura premiato, proprio dall’assessore al lavoro Orsomarso, con un milione di euro di finanziamento. È iniziata la campagna elettorale, non c’è altro da dire».

  • Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Francesco Tripicchio è il sindaco di Acquappesa, uno dei due Comuni coinvolti nella querelle che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane. Di critiche in questi mesi ne ha subite parecchie, ma sulla strategia per respingerle la pensa come Gentil Cardoso: la miglior difesa è l’attacco. Secondo lui, tutta la polemica intorno alla vicenda sarebbe una montatura costruita ad arte dai gestori storici – sono lì dal 1936 ed era previsto ci rimanessero fino all’affidamento di una nuova concessione (attesa dal 2016, data di scadenza della precedente ottantennale) a chicchessia, loro compresi, da parte dei due enti pubblici – degli stabilimenti. Quanto alla responsabilità dello stallo venutosi a creare, con tutti i danni economici che ha comportato per l’economia del territorio, non sarebbe sua e del suo collega di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti. Né della Regione, apparsa ai più poco incisiva nella crisi che ha portato alla paralisi il compendio termale, abbattendo anche l’indotto che generava. A stabilire chi abbia ragione, come spesso accade da queste parti, finiranno per essere i tribunali.

    Tutti dicono che la politica ha fatto chiudere le Terme lasciando a casa 250 lavoratori, lei cosa risponde?

    «Che la politica non ha fatto chiudere proprio nulla: è stata fatta una proposta alla società che gestiva il compendio termale da 85 anni e quella l’ha rifiutata. Le è stato detto di proseguire le attività nel 2021 a un prezzo di 90mila euro, tenendo presente che fino all’anno scorso ne pagava 44mila».

    Il canone è più del doppio del precedente, non trova normale che abbiano rifiutato?

    «No, perché fino al 2020 spese come la manutenzione delle strade, l’illuminazione pubblica e i consumi elettrici erano a carico loro. Adesso sono passate ai Comuni, che per questo hanno chiesto soldi in più che corrispondono a questi nuovi costi. La società non ha accettato, la loro proposta era di darci 30mila euro all’anno per 40 litri al secondo di acqua calda. Le nostre sorgenti forniscono in totale 100 l/s, di cui proprio 40 di acqua calda.

    Guarda caso vogliono tutta quella calda loro: significherebbe che nel resto del compendio non si può lavorare. Capisco che chi ha avuto un monopolio lo difenda con le unghie e coi denti, ma non può averlo più. E poi chiedevano garanzie per il futuro che nessuno può dar loro perché parliamo di beni pubblici che vanno messi a bando. Quindi Sateca, come tutte le società del mondo, deve partecipare a un bando. E chi lo vince gestirà gli stabilimenti nel compendio».

    I Comuni però non hanno fatto un bando…

    «C’è una manifestazione d’interesse, è la stessa cosa perché l’articolo 79 del Codice degli appalti prevede le manifestazioni d’interesse con procedure negoziate. Hanno partecipato in sei. Compresa Sateca, che ha fatto pure ricorso».

    La procedura scelta non aumenta la discrezionalità degli enti nella scelta del nuovo gestore?

    «Non è così, nessuna discrezionalità. Anche così ci sono parametri e paletti che la pubblica amministrazione deve mettere a tutela dei beni comuni. Chi presenta e chi valuta le proposte si deve attenere a quelli, non c’è nessuna differenza».

    Perché allora nell’avviso parlate di 40 litri al secondo in cambio di 70mila euro annui e a Sateca ne chiedete 90mila per il 2021 e quasi 400mila per il futuro?

    «La base d’asta è di 70mila euro, aumentabili, più una percentuale sul fatturato pari all’1%. Sateca ha lasciato macerie, chi andrà a gestire dovrà investire almeno un milione per poter operare perché la società ha portato via perfino le vasche dallo stabilimento tornato in nostro possesso. Questo sarà oggetto di separata azione giudiziaria. Il canone, comunque, non si discosta di tanto dai 90mila euro chiesti a Sateca.

    Ma di parecchio dai 400mila euro futuri…

    Abbiamo fatto un calcolo sulla base di quanto stabilito nella Conferenza Stato-Regioni del 2006, considerando i valori medi. E i valori medi hanno dato un risultato di circa 370mila euro. Abbiamo dato la disponibilità per applicare il nuovo corrispettivo da dopo il 2022 per arrivare ai 370mila euro progressivamente nel giro di 5-6 anni. Perché Chianciano e Fuggi pagano un milione di euro e le Terme Luigiane, che hanno acque di qualità superiore, dovrebbero pagare cifre molto inferiori?».

    Forse perché lì si parla di acque minerali oltre che termali?

    «Questa, perdoni il termine, è una grande cazzata. Così come 85 anni di gestione indisturbata sono un caso unico al mondo».

    Nei rapporti del Mef degli anni scorsi sulle acque minerali e termali c’è scritto altro, però. Le acque termali e le minerali sono distinte, così come i loro prezzi, e la storia del termalismo italiano è zeppa di concessioni perpetue…

    «C’è differenza tra concessione e subconcessione: la prima la hanno i Comuni, che poi affidano a terzi il servizio».

    La vostra concessione dura fino al 2036, giusto?

    «Sì, perché qualcuno l’ha trasformata. Quanto alla subconcessione, gli enti pubblici possono stabilire, giustificandoli s’intende, i canoni. Addebitare a Comuni e Regione la chiusura del compendio termale è vergognoso: è l’azienda che ha chiuso, che non ha voluto proseguire, che dice di voler tutelare lavoratori ma non tutela nessuno.

    A proposito, i lavoratori non sono 250, secondo i bilanci sono 44. Questo pseudocomitato che scrive a nome dei lavoratori vorrei sapere da chi è composto: il 90% dei dipendenti sono incazzati con la società, mi arrivano tantissimi messaggi e telefonate in questo senso, posso dimostrarlo».

    Le manifestazioni di questi mesi mostrano parecchi lavoratori in protesta però, non le pare che questo contraddica la sua versione?

    «C’è chi si porta i parenti, chi gli amici, mica sono lavoratori delle Terme Luigiane! E in quelle manifestazioni non c’è nessuno di Guardia o Acquappesa, anche perché i posti di rilievo la Sateca li ha dati tutti a gente che non è di qui. I lavoratori veri che protestano sono 3 o 4, se fa un giro per strada e parla con la gente del posto le diranno quello che dico io, non quello che dicono l’azienda o quei 3-4 lavoratori».

    Lo abbiamo fatto e ci hanno detto cose diverse dalle sue. Compreso il parroco, che ci ha raccontato di minacce subite per aver criticato voi politici…

    «Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato. Ma io e il mio collega di Guardia stiamo pensando di denunciarlo perché in un video pubblicato dal Corriere della Calabria ha detto che io e Rocchetti siamo dei mafiosi».

    Nell’avviso parlate di 15 anni più altri 15, quindi di una (sub)concessione fino al 2051, ben oltre il 2036…

    «Parliamo di un’opzione per i successivi quindici anni. Nel momento in cui avremo dalla Regione il rinnovo della concessione – magari verrà fuori che è stato fatto un abuso e che è illegittimo non averla mantenuta perpetua (la Consulta ha stabilito nel gennaio 2010 che modifiche di questo genere sono a norma, nda) – ci potranno essere gli eventuali altri quindici. Certamente non ci potranno più essere altri 85 anni di monopolio assoluto».

    In altre terme, anche calabresi, la situazione sembra identica a quella che c’era da voi e lei contesta. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Io mi occupo del mio Comune, non degli altri. E dopo 85 anni sto cercando di far rivivere le Terme Luigiane. Se responsabilità politica c’è nella situazione che si è creata, non è dei sindaci di Acquappesa e Guardia o di chi è ora alla Cittadella. Semmai è di qualche altro politico regionale precedente, che ha fatto ingerenze e interferenze degne dell’attenzione dell’autorità giudiziaria».

    L’assessore Orsomarso dalle colonne del Quotidiano del Sud ha parlato di «proroghe a ripetizione» prima del vostro avviso pubblico: quante sono state?

    «Due, nel 2016 e nel 2019. Qualcuno dice che i comuni non sono stati in grado di fare il bando negli ultimi cinque anni, ma non è così. I comuni hanno avuto la durata della concessione in loro favore il 18 dicembre 2019: prima cosa potevo mettere a bando se non sapevo per quanto avrei potuto affidare il servizio?. L’iter della trasformazione della concessione da perpetua a temporanea è iniziato in Regione nel 2015, sotto Oliverio».

    Che era stato appena eletto però, il tempo non lo avrà perso chi c’era prima ancora di lui? Si sapeva da 80 anni che la concessione sarebbe scaduta nel 2016

    «L’atto che reputo illegittimo lo ha fatto lui e per quasi cinque anni non ci ha dato la durata della concessione. Poi nel 2019 il sottoscritto si è messo ad andare quasi ogni giorno in Regione per ottenerla. Oliverio e i suoi hanno solo ostacolato i Comuni, l’ho detto anche all’autorità giudiziaria. Ho la coscienza pulita e non ho nulla da temere, faccio quello che la legge prevede di fare. Ora le Terme Luigiane devono rivivere, ma non a vantaggio di un privato che fattura 6 milioni di euro in 4-5 mesi e lascia nei Comuni 44mila euro, 25mila dei quali versiamo alla Regione. Per me i 370mila euro chiesti a Sateca sono pure pochi».

    Eppure anche Orsomarso nell’intervista contestava la vostra scelta di applicare i presunti prezzi medi e non quelli minimi…

    «Ripeto, per quest’anno chiedevamo 90mila euro. Orsomarso si riferisce agli anni dal 2022 in poi. Non c’entra nulla che le acque siano termali o minerali, noi abbiamo calcolato le somme per analogia, sulla base della Conferenza Stato-Regioni di cui parlavo, con il metodo di interpolazione lineare. I 370mila euro sono un prezzo più basso di quello che sarebbe venuto fuori con la media aritmetica».

    Il minimo auspicato dall’assessore, invece, a quanto ammonterebbe più o meno?

    «Circa 250mila euro. Io avrei optato proprio per il massimo, che sfiorava il milione di euro».

    Lei ritiene sia compatibile col mercato un prezzo simile?

    «Assolutamente sì. Solo di budget regionale per le prestazioni sanitarie accreditate Sateca prende da anni 2,7 milioni di euro, senza contare il non convenzionato. Che saranno 370mila euro a confronto?».

    Ci sono pure i costi per l’azienda però, quelli non li considera?

    «I costi li hanno anche gli enti, che peraltro hanno la Corte dei Conti a controllarli. Io ho il dovere di mantenere determinati parametri per evitare che la magistratura contabile mi contesti scelte».

    Il dissesto del suo Comune ha avuto peso nei calcoli sui nuovi canoni?

    «Se lo avesse avuto, avrei dovuto applicare il massimo. Anche sulle concessioni, come per le aliquote, i Comuni in dissesto dovrebbero applicare le tariffe più alte, ma considerando le particolarità del caso e le ricadute occupazionali sul territorio abbiamo chiesto di meno».

    Perché allora nell’avviso che avete pubblicato non si parla del mantenimento dei livelli occupazionali?

    «Una manifestazione d’interesse dà indicazioni generali. Poi, nella lettera d’invito ai partecipanti che hanno i requisiti si mettono una serie di parametri e in base a quelli si assegnano i punteggi. La lettera non è ancora partita, ma lì ci sarà il mantenimento dei livelli occupazionali come criterio premiale. Spero che al massimo entro una decina di giorni venga inviata».

    Come mai si è arrivati a uno scontro e allo stallo totale di fronte a ripercussioni economiche enormi per il territorio, tanto più in pandemia?

    «Nei mesi estivi qui c’è stato il pienone negli alberghi. Probabile che a settembre ci sia un calo, come lamenta qualcuno, ma ad agosto c’è stato un aumento delle presenze».

    Le Terme Luigiane però non lavoravano solo ad agosto…

    «Lo facevano 4-5 mesi all’anno. In base al bando che stiamo preparando dovranno restare aperte per almeno 8-10 mesi e, giocoforza, i livelli occupazionali aumenteranno».

    Altro problema: si parla di condotte a rischio danneggiamento per colpa della chiusura e di pericoli di inquinamento perché l’acqua sulfurea destinata agli stabilimenti ora finisce in un torrente. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Il nuovo subconcessionario non utilizzerà quella condotta, perché quella riguarda proprietà della Sateca. In ogni caso al suo interno ci può essere qualche incrostazione di zolfo che con un minimo di pulizia si elimina, le tecnologie moderne lo permettono. Nessun danneggiamento quindi, né condotte da rifare ex novo».

    Quindi servono comunque nuove condotte se quella utilizzata finora è di Sateca?

    «No, quelle comunali ci sono già nel compendio. Abbiamo “chiuso l’acqua” nell’altra condotta per non farla defluire in una struttura privata che non aveva più un contratto in essere. Le pubbliche amministrazioni devono tutelare i beni pubblici e possono procedere anche senza l’autorizzazione dei giudici, come abbiamo fatto riprendendoci gli stabilimenti all’interno del compendio».

    Avete fatto almeno un’ordinanza prima di riprenderveli?

    «Non ce n’era bisogno procedendo con l’apprensione coattiva, tant’è che nessuno ci ha detto nulla. Non avevano contratto, l’acqua non gli spettava».

    E l’inquinamento potenziale?

    «Non c’è. Lo scarico utilizzato è quello storico, non si può neanche parlare di sversamento: chiusa la condotta va tutto lì, ma non è un agente inquinante, è quello che fuoriesce naturalmente dal sottosuolo. Se ci fosse stato pericolo d’inquinamento sarebbero intervenuti i carabinieri, no?».

    Le indagini spesso sono lunghe e gli interventi della magistratura arrivano dopo…

    «Al momento nessuno ci ha contestato reati ambientali. Se fosse stato illegale quello che facciamo la prefettura non ci avrebbe mandato forze di polizia a supporto quando abbiamo ripreso lo stabilimento comunale da Sateca».

    Gran parte delle strutture legate al termalismo in zona sono di Sateca, c’è il rischio che le Terme Luigiane muoiano se loro chiudono i battenti?

    «Lo stabilimento San Francesco d’ora in poi sarà di chi si aggiudica il bando e non è detto che gli impianti termali siano più piccoli degli attuali. Lo stabilimento ha tre blocchi, dipenderà dai progetti presentati. E i clienti potranno comunque andare in alberghi esterni, di Sateca come di altri. Se ci sono o meno loro, le Terme Luigiane vanno avanti lo stesso. Tant’è che se quest’estate la Sateca li avesse aperti avrebbe incassato: la gente è andata nei paesi vicini a dormire, avrebbero avuto ospiti come altri».

    Torniamo al “bando”: se Sateca perde e fa ricorso rischia di saltare anche la stagione termale 2022?

    «Chiariamo: io non ho problemi se vince Sateca. Loro cercano di mostrare la loro indispensabilità, ma tutti sono sostituibili al mondo. E i ricorsi possono arrivare da qualsiasi partecipante, non solo da Sateca, a prescindere da chi vinca la gara. Poi dipenderà dal Tar, se darà sospensive, se farà procedere a consegne in via d’urgenza o altro. Io mi auguro che non ci siano ritardi e farò di tutto perché si riparta a regime da subito».

    Cos’ha da dire sulle voci che parlano di imprenditori locali “chiacchierati” che beneficerebbero dello scontro per prendersi le Terme Luigiane?

    «È un tentativo di diffamazione: se, tranne Sateca, alla manifestazione hanno partecipato solo aziende non calabresi quali dovrebbero essere gli imprenditori locali chiacchierati?».

    Chi ha risposto al vostro avviso però non si occupa di termalismo, non lo trova strano?

    «L’ho notato anche io, ma immagino che sia una strategia degli imprenditori. Esiste l’istituto dell’avvalimento: io partecipo a una manifestazione d’interesse, poi nella fase successiva posso dire con chi faccio l’avvalimento. Magari anche Sateca presenterà un progetto in avvalimento con qualcuno. Al momento, tra l’altro, sono loro quelli con i maggiori requisiti, dopo si vedrà».

    Quindi gli imprenditori discutibili potrebbero rientrare dalla porta di servizio, non va specificato dall’inizio che si opera con dei partner?

    «No, solo dopo aver ricevuto la lettera d’invito. E i progetti saranno valutati con la massima attenzione. Io penso che aggiudicheremo la subconcessione entro i primi di novembre. Quindi anche se ci saranno ricorsi in un paio di mesi sarà tutto pronto. La stagione 2022 alle Terme Luigiane si farà. Vogliamo aprirci al mercato e in futuro non escludo che a offrire cure termali possano essere i Comuni stessi, magari in società con qualche privato, con benefici per la comunità e non solo per dei monopolisti».