Autore: Camillo Giuliani

  • Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Si chiamava Colosimo, Giacomo Colosimo, e a Chicago era arrivato da… Colosimi, piccolo centro del Savuto cosentino al confine con la provincia di Catanzaro. Ma lì in Illinois avevano cominciato presto a conoscerlo con altri due nomi. Il primo era Big Jim, per la stazza non indifferente. Il secondo, Diamond Jim: adorava ostentare pietre preziose sul pomo del bastone, il fermacravatta, la cintura, il bavero di giacche e cappotti, persino le ghette.
    Ma come aveva fatto quel giovane calabrese emigrato negli States in cerca di fortuna a trasformarsi in Diamond Jim? La risposta sta in due parole: Chicago Outfit.
    La moda, però, con questa storia non c’entra nulla. L’Outfit di Big Jim Colosimo è la mafia di Chicago. La chiamano così, comanda nella Windy City da oltre un secolo. E l’ha creata proprio lui.

    Hinky Dink e Bathouse: Big Jim Colosimo si prende il Leeve di Chicago

    Giacomo arriva a Chicago con papà Luigi e mamma Giuseppina nel 1885 e all’inizio ci prova pure a guadagnarsi il pane onestamente. Consegna giornali, fa lo sciuscià, lavora alle ferrovie. Ma per arrotondare passa presto a furti ed estorsioni mentre, sulla carta, fa lo spazzino. È con quest’ultimo lavoro che conquista i favori di due dei politici più corrotti che Chicago abbia mai avuto: Michael Hinky Dink Kenna e John Bathouse Coughlin.
    Sono loro a comandare nel Levee, il distretto del vizio della viziosissima Chicago, e Big Jim Colosimo gli procura un bel po’ di voti oltre a raccogliere per i due aldermen il pizzo nel quartiere.

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    “Hinky Dink” Kenna e “Bathouse” Coughlin

    Il re lenone e la regina Victoria

    Il calabrese ha carisma da vendere e pochi scrupoli. Gli piacciono tre cose: i soldi, le donne, l’Opera. Grazie alle prime due scopre la sua vera “vocazione” criminale: fare il magnaccia.
    È così che comincia a farsi un nome in certi ambienti e conosce Victoria Moresco. Lei è la tenutaria di due bordelli a Levee. È obesa, più anziana ed è pazza di lui. Jim fiuta l’occasione e nel giro di una settimana la sposa, diventando il gestore delle sua attività. Per ogni cliente che paga 2 dollari “a consumazione”, lui ne incassa 1,20. E i clienti sono tanti. Sempre di più.

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    Victoria (prima a sinistra) e sua sorella con Jim e famiglia

    Circa dodici mesi dopo le nozze, le case del piacere a Levee sotto il controllo di Big Jim Colosimo sono diventate trentacinque. In pochi anni se ne aggiungeranno centinaia, non solo in città. I bordelli più famosi sono il Saratoga e il Victoria, lo chiama così in onore della sua signora. E poi ci sono bische, scommesse, bar e saloon a rimpinguare ulteriormente le casse. I giornali locali lo chiamano vice lord, il Signore del vizio.

    La tratta delle bianche

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    Big Jim Colosimo, il re del vizio a Chicago

    Big Jim e le sue ragazze soddisfano le esigenze di qualsiasi cliente, da quelli che possono spendere pochi spiccioli ai più ricchi e perversi. Nel 1908 buona parte dell’underworld della città è nelle sue mani e anche la “Chicago bene” è di casa nei suoi locali.
    Il suo impero si fonda soprattutto sulla prostituzione, settore che nella metropoli nordamericana degli anni ’10 muove un giro d’affari stimato in 16 milioni di dollari dell’epoca e “impiega” oltre 5.000 persone.
    Per un business del genere servono continuamente forze fresche. Così tra il 1904 e il 1909 Big Jim Colosimo si dedica alla tratta delle bianche tra Chicago, St. Louis, Milwaukee e New York insieme a Maurice e Julia Van Bever, una coppia proprietaria di due bordelli vicini ai suoi.

    La Mano Nera

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    Il fac simile di una tipica lettera della Mano Nera negli States ai primi del ‘900

    Si stima che i tre facciano arrivare in quegli anni oltre 6.000 ragazze, quasi sempre minorenni, nel Levee. Le rapiscono, le drogano, le fanno stuprare dai loro uomini. Poi le mettono a lavorare in qualche casa chiusa o le vendono a qualche altro pappone per farle prostituire in strada. Per Big Jim è un affare da 600mila dollari all’anno, una cifra monstre ai primi del ‘900.
    Tutto quel denaro lo trasforma in Diamond Jim e, come spesso accade negli ambienti malavitosi, quell’ascesa irresistibile si rivelerà fatale per lui.
    A Colosimo nel 1909 arriva una lettera. C’è scritto che deve pagare 5.000 dollari se non vuole guai. E in fondo al foglio c’è una firma che può dare problemi anche a uno come lui che ha sul proprio libro paga gran parte della polizia e della politica locale: una mano nera.

    La Mano Nera è un insieme tanto eterogeneo quanto temibile di criminali italiani che vessano i propri connazionali in America. Nella sola Chicago, tra il 1895 e il 1905, ha ucciso oltre 400 persone che hanno rifiutato di piegarsi alle sue richieste. Colpisce anche fuori dagli Usa se necessario e i calabresi lo sanno bene.
    Big Jim Colosimo stesso ha lavorato per la Mano Nera nei suoi primi anni a Chicago. È del mestiere, insomma, e sa che se acconsente a pagare gli arriveranno presto nuove lettere e richieste di somme sempre più alte. Decide di sborsare il denaro la prima volta, ma azzecca la previsione e la Mano Nera non tarda a rifarsi viva. Stavolta di dollari ne vuole 50mila, il decuplo, e ne vorrà ancora di più se il re dei bordelli accetterà nuovamente di pagare.

    Big Jim Colosimo e l’arrivo di Johnny Torrio a Chicago

    Così Big Jim ne parla con Victoria e lei lo mette in contatto con suo nipote a New York: Giovanni “Johnny” Torrio. Ha già fatto parecchia strada nella malavita della Big Apple, lo chiamano The Fox, la volpe, o Papa Johnny per la sua capacità di mediare tra capi. Le arti diplomatiche di Johnny a Chicago però non balzano subito all’occhio, anzi.

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    Johnny Torrio

    Organizza un incontro con tre emissari della Mano Nera, ma ad aspettarli ci sono i sicari di Torrio che li freddano sotto un ponte. Un anno dopo fa eliminare un altro rompiscatole, Sunny Jim Cusmano. E sorte simile attende anche una prostituta-schiava scappata da un bordello di Colosimo che vuole testimoniare contro di lui in tribunale. È nascosta a Bridgeport, Connecticut, in attesa del processo quando alla sua porta bussano alcuni uomini. Si presentano come agenti federali, la fanno salire su una macchina, le scaricano dodici pallottole in corpo.
    Processo sulla tratta delle bianche chiuso.

    Il Colosimo’s e Dale Winter

    La serenità ritrovata non è l’unico beneficio dell’arrivo di Johnny. Big Jim si dedica sempre di più al locale dei suoi sogni, il Colosimo’s, che ha aperto nel 1910 al 2126-28 di South Wabash Avenue, il miglior ristorante di tutta Chicago. Ci puoi trovare seduto il grande Enrico Caruso e al tavolo accanto un gangster sanguinario o un membro del Congresso. E dal 1913 ci canta lei: Dale Winter.

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    L’interno del Colosimo’s, il ristorante di Big Jim

    A Colosimo l’ha fatta scoprire un giornalista che l’ha ascoltata cantare nel coro di una chiesa metodista da quelle parti. Viene dall’Ohio, ha una ventina d’anni, sogna di esibirsi all’Opera ed è molto carina. Big Jim se ne innamora. La porta nel suo locale e ne fa la stella, le paga lezioni di canto coi migliori insegnanti. E Dale, a sua volta, lo trasforma: il re lenone ora indossa abiti meno sgargianti, mette da parte i gioielli e i modi bruschi, studia meglio l’inglese che non ha mai davvero imparato. E a Chicago qualcuno inizia a chiedersi: Big Jim Colosimo si è rammollito?

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    1917, la pubblicità di una serata al Colosimo’s con Dale Winter protagonista

    Big Jim Colosimo e il Chicago Outfit

    Rammollito o meno, gli affari proseguono alla grande però. A occuparsi di tutto è Johnny Torrio, ormai braccio destro dello zio, dal suo ufficio nel Four Deuces, un bordello da pochi soldi con annesse bisca e sala torture che ha aperto poco distante dal Colosimo’s. Johnny non beve, non fuma, non va a donne e ogni sera, se può, la passa con sua moglie a casa. Non ama sporcarsi le mani e ha sempre l’idea giusta.

    Quando il sindaco democratico nella prima metà degli anni ’10 prende di mira il Levee e manda la Buoncostume a chiudere i bordelli, lui dissemina le ragazze in migliaia di appartamenti sparsi per il quartiere. E a poco a poco gli altri “imprenditori del settore” si mettono sotto l’ala protettrice di Big Jim Colosimo e Johnny Torrio: è nato il Chicago Outfit.

    I due iniziano ad aprire nuovi casini fuori città, lungo il confine con l’Indiana. Sono autentiche roadhouse del piacere da cui clienti e prostitute – si alternano 90 ragazze al giorno – possono varcare in un attimo la frontiera in caso arrivi la polizia e schivare l’arresto. Ad avvisare Johnny e i suoi di eventuali pericoli sono i benzinai lungo la strada, che fanno affari d’oro con tutte quelle macchine da quelle parti.

    1919: «We’ll stay with the whores, Johnny»

    L’anno della svolta è il 1919. Con l’elezione del nuovo sindaco repubblicano William Hale Thompson nel 1915, il Chicago Outfit ha di nuovo chi gli consente di spadroneggiare in città da qualche anno. Ma nel ’19 entra in vigore il Volstead Act, la legge che dà il via al Proibizionismo. E nello stesso tempo Big Jim decide di lasciare sua moglie Victoria, la zia di Johnny, per sposare Dale.
    «È quella giusta», dice al socio per spiegarli la scelta, quello commenta: «Sarà il tuo funerale».

    Una manifestazione contro il Proibizionismo nell’America degli Anni ’20: «Vogliamo la birra»

    Non va meglio quando parlano di alcolici. Secondo Johnny Torrio il Volstead Act è il più grande regalo che lo Stato potesse far loro: quelli che bevevano – e sono tanti – vorranno bere ancora di più ora che è vietato e a dissetarli di nascosto e a caro prezzo saranno proprio lui e Big Jim. Con la polizia locale già al loro servizio e gli immobili che hanno, si prospettano affari d’oro. Ma stavolta a gelare l’altro è Big Jim: «We’ll stay with the whores, Johnny», continuiamo con le puttane.

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    Una retata della polizia durante il Proibizionismo

    Il Proibizionismo prima o poi passerà, prostituzione e gioco d’azzardo ci saranno sempre, spiega il boss al suo vice. Sono già milionari così e non ha senso rischiare problemi con i federali per fare altri soldi, insiste. Ma non lo convince. Per quanto Johnny voglia bene allo zio Jim, gli affari sono affari. Big Jim Colosimo è disposto a investire poche migliaia di dollari in una distilleria clandestina, ma nulla più, quel business non è roba per il Chicago Outfit.

    Un nuovo ragazzo in città

    Ad affiancare Torrio in quei giorni c’è un nuovo ragazzo. Gli guarda le spalle perché la precedente guardia del corpo ha provato a ucciderlo ma restarci secca è toccato a lei. Arriva da New York, dove The Fox gli ha fatto da “maestro” di strada prima di trasferirsi a Chicago. Lo manda Frankie Yale, al secolo Francesco Iuele, calabrese di Longobucco a cui il nipote di Victoria Moresco ha affidato i suoi affari nella Grande Mela al momento di partire per l’Illinois. Di nome fa Alphonse Gabriel, ma tutti lo chiamano Al o Scarface, lo sfregiato, perché un coltello gli ha lasciato un ricordino sul volto. Il cognome? Capone. Anche lui, la storia è piuttosto nota, pensa che contrabbandare alcolici non sia un affare a cui rinunciare.

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    Al “Scarface” Capone

    A marzo del 1920 Big Jim divorzia da Victoria e le versa 50mila dollari affinché non abbia più nulla da pretendere. Pochi giorni dopo sposa Dale Winter in Indiana e se ne va in luna di miele. Torrio, nel frattempo, fa il Papa Johnny: parla col resto della mala di Chicago e coi suoi ex capi newyorkesi. Quando vengono a sapere che Colosimo ha di nuovo pagato la Mano Nera per paura che qualcuno facesse del male a Dale concordano tutti: si è rammollito. E non sarà certo un debole come l’ex Diamond Jim a tenerli fuori dall’affare del secolo. Johnny ha l’ok per farlo fuori.

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    Jim e Dale poco dopo il matrimonio

    Delitto al ristorante italiano

    La mattina dell’11 maggio 1920 a casa Colosimo squilla il telefono. È Torrio, dice a Jim che nel pomeriggio alle 4 sono in arrivo due carichi di whiskey per il suo amato ristorante, ma lui non potrà esserci. Tocca a Colosimo aspettare i corrieri. Ci va smadonnando in italiano per tutto il viaggio, racconterà il suo chauffeur alla polizia. Al Colosimo’s di quella consegna nessuno sa nulla, però. Jim aspetta fino alle 4:25 e si avvia verso l’uscita. Spunta un uomo dal guardaroba, gli ficca un proiettile dietro l’orecchio e sparisce per sempre.

    Pochi giorni dopo una bara da migliaia di dollari, tutta in bronzo, attraversa Chicago tra una folla oceanica. Ci sono migliaia di fiori ad accompagnarla, due bande musicali, nove aldermen, due membri del Congresso, un senatore, membri dell’ufficio del governatore, il direttore dell’Opera. Il funerale non è stato in Chiesa, però, e non c’è spazio per la salma nel cimitero cattolico. Il divieto arriva dall’arcivescovo George Mundelein in persona, ma solo perché il defunto è un divorziato.
    Big Jim Colosimo finisce in una cappella tutta per lui nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Sulla lapide la data di morte è sbagliata (o forse, in fondo, non troppo): 1919.

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    La folla di fronte al Colosimo’s durante i funerali di Big Jim

    Chi ha ucciso Big Jim?

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    Frankie Yale

    Lascia dietro di sé due grandi misteri. Il primo è quello su chi lo abbia materialmente ucciso. Capone anni dopo racconterà a Charles MacArthur di essersene occupato di persona. Eppure il sospettato principale di quel delitto ancora oggi senza colpevoli ufficiali resta Frankie Yale. Era a Chicago quel giorno, lo hanno beccato alla stazione mentre prendeva un treno per New York. E l’unico testimone del delitto, un cameriere del Colosimo’s, ha dato una descrizione dell’assassino che pare combaciare perfettamente con lui. In giro si dice che Torrio abbia promesso a Frankie 10mila dollari in cambio di quel favore.

    Era Yale il tizio che, dopo aver mangiato un gelato e bevuto un drink all’albicocca, ha lasciato scritto dietro lo scontrino un misterioso saluto «So long Vampire, so long Lefty» ed è riapparso dal guardaroba con un revolver in mano prima di dileguarsi? Il cameriere si rifiuterà di confermarlo in aula. Quanto a Frankie, torna a New York e resta lì fino al 1937, quando una raffica di mitragliatrice Thompson consegna all’oblio eterno la sua versione dei fatti.

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    Il coroner simula per i giurati la dinamica del delitto Colosimo nel suo ristorante

    Dove sono i soldi?

    L’altro grande mistero è che fine abbia fatto l’immenso patrimonio di Diamond Jim. Dopo l’omicidio i suoi avvocati trovano solo 67.500 dollari in contanti e titoli e poco meno di 9.000 in gioielli nelle proprietà di Colosimo. Pensavano che solo a casa ci fosse a dir poco mezzo milione. Nessuno scoprirà mai dove sia il resto del malloppo.
    Dale Winter prova a chiedere l’eredità, invano: una legge dell’Illinois vieta a chi divorzia di risposarsi prima di un anno, il suo matrimonio con Big Jim è nullo. La famiglia Colosimo le dà 60mila dollari in titoli e diamanti e altri 12mila li consegna a Victoria, tagliando ogni ponte con le due donne.

    Chicago e l’eredità di Big Jim Colosimo

    Torrio controllerà Chicago fino al 1925, prima di cedere al suo alunno migliore il comando dopo aver subito un attentato dagli irlandesi nel North Side. Qualche anno dopo passerà il tempo a dare consigli a un altro suo allievo di gioventù newyorkese, Lucky Luciano. Morirà nel 1957 su una sedia da barbiere, d’infarto però.
    Capone, sempre più violento anche per la sifilide contratta in uno dei bordelli di Big Jim, diventa presto il pericolo pubblico numero uno per la stampa statunitense e l’FBI di Hoover. In galera ci finirà qualche anno dopo, nel 1932, ma per evasione fiscale. Libero ma ormai demente per la malattia, si spegnerà nel 1947.
    Il Chicago Outfit, invece, è più vivo che mai ancora oggi.

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    La tomba del gangster calabrese
  • Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Avevano promesso loro un pezzo di terra nel cuore della Sila, dov’erano nati e cresciuti. E quella terra la ottennero. Solo che a migliaia di chilometri di distanza. Dall’altro capo dell’oceano. In mezzo al nulla.
    È una storia di menzogne e sfruttamento, sacrifici e sogni infranti, quella delle famiglie che l’Opera per la valorizzazione della Sila (Ovs), all’inizio degli anni ’50, inviò da San Giovanni in Fiore in Brasile per fondare una città, Pedrinhas. E ha i tipici ingredienti delle storie di fallimenti targati Italia: interessi politici, poveracci fregati, annunci distanti anni luce dalla realtà.

    La riforma agraria, l’Opera Sila e Pedrinhas

    opera-sila-pedrinhasIl Ventennio fascista si è concluso da poco, lasciando in eredità macerie e povertà. Nonché un ente, l’Icle (l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero) che ha creato Mussolini e fino a quel momento ha gestito con scarsi risultati e parecchi denari i flussi migratori dalla Penisola al resto del mondo. Nella neonata Repubblica parte la riforma agraria, una battaglia contro il latifondo per una più equa distribuzione delle terre ai contadini. Ma in Calabria, più che altrove, le cose vanno a rilento.
    La legge Sila, che prevede gli espropri ai ricchi possidenti locali, è del ’51. A San Giovanni in Fiore l’Ovs, nata quattro anni prima, prende possesso di quasi 3.300 ettari di terreno. Diciotto anni dopo quelli ridistribuiti saranno ancora poco più della metà, circa 1.800. E il malumore nella “capitale della Sila”, dove il rosso è il colore politico più in voga, inizia presto a farsi largo.

    La soluzione arriva da un accordo che il nostro governo e quello carioca hanno siglato nel ’47: l’Italia invierà manodopera in Brasile, in cambio di forniture varie. Sembra il modo di prendere due piccioni con una fava: i contadini avranno la terra che spetta loro, seppur in un altro continente, e, con la scusa di aiutarli, ci si libererà pure di qualche rompiscatole di troppo spedendolo all’altro capo del mondo. L’Opera Sila, a forte trazione democristiana, non si lascia sfuggire l’occasione e lancia l’operazione Pedrinhas.

    Dal manifesto a… l’Unità

    E così sui muri dei paesi silani, nel dicembre del ’51, appare un manifesto che inizia così: «La terrà è poca e non basta a soddisfare le esigenze di vita e di lavoro di tante famiglie di contadini della Sila. Per superare queste difficoltà, l’Opera per la valorizzazione della Sila ha concordato con la I.C.L.E., in uno spirito di cordiale collaborazione, un programma di emigrazione organizzata che inizia la sua attuazione il 2 dicembre. In tal giorno alcune famiglie partiranno da San Giovanni in Fiore dirette verso il Brasile, generoso ed ospitale, ove riceveranno una terra ed una casa. L’atto di solidarietà nazionale, che ispira la riforma, trova così un’eco nel gesto di solidarietà del Paese amico che accoglie i nostri lavoratori».

    Quel 2 dicembre non è una data casuale: è il giorno in cui arriva in Sila l’onorevole Luigi Gui, sottosegretario all’Agricoltura, insieme al presidente dell’Ovs Vincenzo Caglioti per una cerimonia in cui è la propaganda a farla da padrona. Sono 52 le famiglie, spiegano i due, che partiranno dalle montagne calabresi verso il Brasile. «Riformatori o negrieri?», titolerà L’Unità a distanza di qualche giorno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Pedrinhas e l’Opera Sila in Parlamento

    Giacomo Mancini ricorderà quella giornata pochi mesi dopo alla Camera, definendo l’operazione Pedrinhas «un’indegna farsa» per celare «l’attività negriera» dell’Opera Sila. In effetti, la terra da distribuire in Sila all’epoca era più che sufficiente per non costringere ad emigrare proprio nessuno. Dello stesso avviso il comunista di Acri Francesco Spezzano, che dal suo scranno in Senato tuona contro l’Ovs: «Da Opera di applicazione della riforma fondiaria, da Ente esecutivo della riforma fondiaria, si è trasformato in ente di organizzazione dell’espatrio in massa dei contadini. Potrei dire anzi, che, per diminuire la pressione dei contadini, da ente di riforma si è trasformato in ente di vendita di carne italiana».

    Brasil…a: dal latifondo al deserto rosso

    A 550 km dalla capitale São Paulo, a 50 dalla città più vicina, in una sconfinata distesa di terra rossissima, fertile ma in gran parte ancora da bonificare, arrivano i primi italiani. Sono 143 famiglie provenienti da 16 regioni diverse, nove arrivano dalla provincia di Cosenza. Ma la parte del leone della nascente colonia l’avranno i veneti, in particolare quelli che arrivano da San Dona’ di Piave.
    Guida, spirituale e non solo, di Pedrinhas sarà infatti Ernesto Montagner, prelato partito insieme ai sui parrocchiani verso quel remoto angolo di Brasile. E “l’atto di nascita” della cittadina italo-brasiliana è proprio la posa della prima pietra della chiesa di San Donato nel bel mezzo del minuscolo paese a settembre del ’52, anche se il primo nucleo di operai italiani è lì già da dodici mesi. I sangiovannesi arrivano il 23 dicembre dello stesso anno.

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    I primi italiani ad arrivare in Brasile per la fondazione della città

    Le speranze di un futuro migliore lasciano presto il posto alla durissima realtà. Il clima torrido è un inferno per i silani e la vita brasiliana è ancora peggio di quella tra i monti calabresi.
    A raccontare la delusione è Virgilio Lilli, inviato sul posto dal Corriere della Sera nel ’54. «Quando le famiglie trasportate sulle belle navi giunsero a Pedrignas (confini Stato Paranà-Stato San Paolo), trovatesi di fronte alla terra rossa incolta, alle case ancora deserte, al silenzio della terra tropicale (malgrado l’altezza), scoppiarono in pianto. Anche le donne di quelli che resistettero piansero sei mesi di fila, tutte le notti; poiché avevano intravisto il lusso, il conforto, la felicità, in mare, ed ora si scontrarono con la dura vita degli inizi. Quanto ai deboli, arrivarono gridando che volevano tornare a casa e ottennero un giorno di tornare a casa».

    «Tutto quello che ci hanno fatto lo devono pagare»

    È ancora Mancini a far conoscere al Parlamento le condizioni dei coloni, leggendo alcune loro lettere inviate ai familiari in Calabria dal Brasile.
    «Cara madre, ti scrivo con un po’ di ritardo, causa che ho voluto prima vedere la situazione. Qui tutto male. Ci hanno imbrogliato bene, a cominciare dalla paga che non basta solo a me per il sapone e per qualche pacchetto di sigarette, perché qui è un caldo che non si resiste. Ci danno 35 cruzeiros che ammontano a mille lire italiane; 500 se le trattengono al giorno per la mensa e le altre se ne vanno così: sapone prima base, perché qui è una terra rossa che siamo diventati tutti rossi. Quindi questo anno ci debbo stare, perché c’è il contratto che ognuno di noi ci dobbiamo fare un anno di lavoro; appena finisco sono con voi. Un anno di sacrifici, ma tutto quello che ci hanno fatto a noi i signori lo devono pagare».

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    Contadini al lavoro nella neonata Pedrinhas

    «Fuori dalla civiltà umana»

    Un altro colono sangiovannese si rivolge così al marito di sua sorella: «Caro cognato, in quanto mi dite che avete inoltrato domanda per venire in Brasile ti prego di rinunciare subito. Le nostre condizioni sono molto tristi in quanto non abbiamo niente di buono. L’acqua viene tirata dai pozzi; è filtrata, un’aria tropicale e un caldo insopportabile. Come paga non abbiamo niente; come vi ho già scritto che abbiamo 35 cruzeiros, 15 di mensa, 10 se li trattengono per il viaggio, e possiamo mandare il quaranta per cento del guadagno ma non dobbiamo fare nient’altro né fumare, né bere una birra né sapone; fatevi voi il conto se possiamo mandare soldi a casa; e non possiamo neanche scrivere a nostro piacere: per i francobolli ci vogliono 6 cruzeiros. Caro cognato qua si vive fuori dalla civiltà umana, non c’è distinzione di giorni, né domeniche, né feste, sono tutti i giorni uguali. Sono andato alla direzione della nostra compagnia e ci ho detto che ci rimpatria subito così sono io che vi devo raggiungere».

    Fuga dalla schiavitù

    I contadini silani a Pedrinhas sono tra i primi a ribellarsi. Minacciano di dare fuoco alle case appena costruite e nel giro di un anno si ritrovano praticamente tutti al porto di Santos per tornarsene in Sila. Le fughe dalla colonia sono solo all’inizio. A settembre del 1953 oltre 150 coloni italiani scappati da Pedrinhas sono a São Paulo in attesa di rimpatrio. Le famiglie vanno via in piena notte, incuranti di aver abbandonato casa, attrezzi, bestiame.
    Un anno dopo 170 coloni già ingaggiati con contratti capestro lasciano Pedrinhas, denunciando di aver subito un trattamento da schiavi. Restano per mesi nella Hospedaria de Imigrantes di São Paulo dove li trattano «peggio dei prigionieri», abbandonati da tutti. Rosario Belcastro, futuro dirigente della DC e della Cisl calabrese, pur di farsi rimpatriare preferisce spacciarsi per comunista agli occhi della polizia brasiliana, finché questa non lo accompagna alla frontiera e lo rispedisce in Sila.

    Basta Pedrinhas: l’Opera Sila e i passaporti strappati

    I calabresi a restare a Pedrinhas sono pochissimi, come ricostruisce Pantaleone Sergi in un articolo per il Giornale di Storia Contemporanea del 2016 che ripercorre il progetto brasiliano dell’Opera Sila. Ci sono Biagio Talarico, che è arrivato lì con altri familiari presto rientrati tra i monti calabresi, e il sarto Francesco Mascaro. Entrambi, però, si trasferiscono dopo pochi anni in città più grandi. E c’è Francesco Romano, che resiste invece in mezzo a quella terra roxa «che penetra ovunque, si respira nell’aria, s’attacca ai panni e alla pelle, colora di rosso ogni cosa, segnando tutto col suo marchio inconfondibile».pedrinhas-paulista-06-1-opera-sila

    Poco tempo dopo lo raggiungerà anche un fratello, ultimo dei “bra-silani” di quel poco riuscito tentativo di emigrazione programmata. E gli altri lavoratori ingaggiati in Calabria? Niente più Pedrinhas per loro, riferirà ancora Mancini in Parlamento: si sarebbero presentati negli uffici dell’Opera Sila per poi stracciare il passaporto in faccia ai funzionari dell’ente «che, per incoscienza o per cinismo», si erano dati da fare «per fornire altra carne di lavoratori di San Giovanni in Fiore al Brasile generoso e ospitale di Caglioti».

    Pedrinhas Paulista, 2023

    Settantuno anni dopo la sua fondazione, Pedrinhas Paulista è una cittadina di circa 3.000 anime, il doppio rispetto agli anni ’50, in buona parte di origini italiane. Le stradine si incrociano con Avenida Brazil e Avenida Italia, arterie principali del paese, e pare si viva anche bene da quelle parti. Di certo, meglio che agli inizi. Ci sono statue di centurioni e della Lupa capitolina che allatta Romolo e Remo. Una targa ricorda i nomi dei primi coloni e i loro sacrifici per tirare su il villaggio. Accanto alla chiesa di San Donato c’è il Memorial do Imigrante. Un grande arco, un colonnato e gli stemmi dei posti da cui arrivarono i “padri fondatori”, Regione Calabria inclusa.

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    Il Memorial do Imigrante: sotto l’arco, secondo da sinistra, si intravede lo stemma della Calabria
  • Sanità in rosso? La Lega lancia le “palestre della salute”

    Sanità in rosso? La Lega lancia le “palestre della salute”

    La Lega calabrese come il Padre Gabrielli di Boris? Il sospetto, almeno per i fanatici della celebre serie TV, potrebbe anche venire spulciando il sito del Consiglio regionale della Calabria. Può capitare, infatti, di imbattersi in una nuova proposta di legge che porta la firma di quattro esponenti locali del Carroccio: Giuseppe Gelardi, Pietro Raso, Pietro Molinaro e il presidente dell’Aula Fortugno, Filippo Mancuso. La sanità dalle nostre parti, si sa, ha problemi di bilancio (e non solo) enormi, ma un modo per ridurli c’è. Ed è il segreto della vita che Corrado Guzzanti rivelava all’elettricista Biascica: la palestra.

    Sport, Sanità e conti in rosso

    I quattro salviniani di Calabria, ispirati dai (ma meno accurati dei) colleghi veneti, non hanno dubbi a riguardo e lo mettono nero su bianco nella loro proposta di legge. Dopo attenti studi non hanno potuto che rilevare come risulti «fatto notorio che il benessere psicofisico sia uno dei fattori fondamentali per l’abbassamento del rischio di contrazione di diverse malattie». Qualora non fosse chiaro, lo ribadiscono: «Uno stato di forma ottimale della popolazione porterebbe ad una minor insorgenza di malattie».

    Appurato che di solito mantenersi in forma fa ammalare di meno, è arrivata l’illuminazione: meno malati si tradurrebbero in una minor spesa per il sistema sanitario. Non solo avremmo «una popolazione più sana, e quindi più attiva e più felice». Ci sarebbero pure ricadute positive «in relazione ad alcuni segmenti del bilancio regionale e di quello nazionale».

    Non solo Calabria: la Lega e le palestre della salute

    Ed ecco come la Calabria potrebbe salvare il SSN: mettendo un cartello “Palestre della salute” nelle palestre che esistono già. La legge targata Lega si compone infatti di quattro, scarni articoli. Il primo dice che nel 2023 la Regione riconosce che per realizzare il diritto alla salute fare attività fisica serve, come già legiferato nel 2010. Nel secondo si chiarisce che secondo i nostri governanti le «palestre della salute» – e non, per esempio, le macellerie o i negozi di ferramenta – sarebbero «luogo privilegiato» per la suddetta attività.

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    La Lega di Zaia ha istituito le palestre della salute in Veneto, i salviniani di Calabria vogliono imitarla

    Ma che sono le palestre della salute? Palestre dove – lo certificherà la Regione, spiega l’art. 3 – si faranno attività che fanno bene alla salute con attrezzature a norma. Si prospettano tempi duri, dunque, per quelle dove si va per ammalarsi o farsi male, la Cittadella non avrà pietà per loro. Il quarto articolo, infine, rassicura tutti: non ci saranno costi in più per il bilancio regionale. Il cartello, insomma, se lo pagheranno i gestori.
    La nuova legge deve ancora passare l’esame di due commissioni (la Sesta e la Seconda) e  ottenere l’ok del Consiglio, ma la strada per una Sanità coi conti in ordine sembra già più in discesa.

  • La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.

    Salvatore Caridi, un soldato da medaglia

    E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.

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    1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma

    Da Cirò agli States

    Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
    Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.

    Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”

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    Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America

    Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.

    I nazisti del New Jersey

    Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bund sotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.

    Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.

    Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens

    Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.

    Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.

    Cose buone

    Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
    La camicia era nerissima, l’anima forse no.

  • Cosenza, Sparta della Calabria

    Cosenza, Sparta della Calabria

    Che succederebbe se ai piedi del Partenone scoprissero che Cosenza è nota come l’Atene della Calabria? Forse nella capitale greca assisteremmo a proteste di piazza veementi quanto quelle degli anni in cui la Troika si era abbattuta su Tsipras e i suoi connazionali. Da diversi anni, più che Atene, Cosenza ricorda infatti l’arcirivale Sparta. Nella città che si faceva vanto della sua cultura l’arte fatica sempre più a trovare casa. E quando la trova – se la trova o non la sfrattano dalla precedente – scoppiano immancabili i conflitti.

    Cosenza: l’arte nella Atene della Calabria

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    “La Bagnante” di Emilio Greco è la statua presa più di mira in questi anni sul Mab

    «Prendi l’arte e mettila da parte» in riva al Crati e al Busento, più che un vecchio detto, pare ormai una regola di vita. In principio fu piazzetta Toscano, con la sua futuristica copertura a nascondere antiche vestigia romane. Poi venne la statua di Cesare Baccelli in piazza Spirito Santo: sparita nel nulla anni or sono, riapparsa in un post Facebook dell’allora sindaco Occhiuto, scomparsa nuovamente il giorno dopo.

    Ma l’elenco è lungo e variegato: c’è la penna della statua di Telesio fregata – leggenda vuole – da un ricco studente dell’omonimo liceo; la colonna di Sacha Sosno abbattuta da un mezzo della nettezza urbana che manovrava su corso Mazzini. Ci sono gli atti vandalici sul Mab, i Picasso e Chagall (ma non solo) che la città non è stata in grado di farsi regalare.

    E poi, ancora, i murales su Marulla raddoppiati d’imperio perché il primo non incontrava i gusti di alcuni ultrà, i musei promessi ma mai realizzati e quelli chiusi, i teatri serrati, la Biblioteca civica sommersa dai debiti, i Bocs Art vuoti, i monasteri ultrasecolari sigillati. L’illustre – e parziale – campionario dell’Atene della Calabria si è arricchito negli ultimi giorni di altri due esempi che hanno fatto parecchio discutere a Cosenza e dintorni.

    Dall’Atene della Calabria alla Disneyland di Cosenza vecchia?

    Il primo è quello della statua di Donna Brettia. Personaggio leggendario, presunta prima donna guerriera (cosa che agli spartani non dovrebbe dispiacere) della storia occidentale, la scultura che la raffigura è sostanzialmente un’appendice del già problematico museo storico all’aperto realizzato da un’associazione – la guida l’ex preside Franco Felicetti – a Cosenza vecchia pochi anni fa. E proprio come quel museo ha avuto una nascita a dir poco travagliata. Il progetto di Felicetti e soci risale ai tempi in cui era sindaco Perugini e prevedeva la realizzazione di alcuni murales a tema storico tra le vie della città antica, uno per ogni popolo susseguitosi nella dominazione di Cosenza lungo i secoli.

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    Uno dei dipinti del museo del centro storico

    Come contorno alle opere del percorso, l’associazione ipotizzava che imprenditori locali aprissero locali a tema nelle immediate vicinanze: café chantant in omaggio agli angioini, una taverna spagnola per gli aragonesi, una birreria tedesca per gli svevi e così via, in una ipotetica gentrificazione simil Disneyland che ha fatto storcere il naso a parecchi. Dei murales non si fece nulla, ancor meno di würstel e crauti o nacchere e flamenco.

    Restano salsiccia e broccoli di rapa nelle cucine del quartiere, tributo ai bruzi difficilmente riconducibile al progetto museale: c’erano già prima. E restano i dipinti: il successivo sindaco, Mario Occhiuto, diede il via libera, a condizione che gli artisti li realizzassero su pannelli da appendere e non direttamente sulle pareti secolari di Cosenza vecchia. Neanche il tempo di affiggerli con un telo sopra e già il primo era scomparsolo ritrovarono pochi giorni dopo – prima dell’inaugurazione ufficiale. Un altro l’ha fatto cadere il vento mesi fa ed è rimasto per terra in un vicolo a lungo.

    La statua nell’angolino

    Felicetti, comunque, in mancanza dei bar a tema ha rilanciato. E ha provato a donare alla città anche la statua di uno dei personaggi protagonisti dei dipinti: Donna Brettia, appunto. Una donazione modale la sua, ossia vincolata a determinate condizioni. Il Comune – questo il diktat del donatore – doveva collocare la scultura in piazza Valdesi, porta della città vecchia, con tanto di spadone puntato verso colle Pancrazio.

    A piazza Valdesi, però, per mesi c’è stato solo il basamento. Nessuno si era premurato di coinvolgere la Soprintendenza, passaggio obbligato quando si tratta di intervenire in un centro storico. Poi è sparito pure il basamento, mentre la statua restava chiusa in un magazzino. Nei giorni scorsi l’hanno riposizionata in un punto più defilato, da cui il centro storico, seppur a pochi passi, a stento si vede. La spada punta ora più verso Rende, quasi la soluzione per la città unica fosse l’Anschluss. A Sparta avrebbero gradito, ad Atene chissà.

    Da Donna Brettia ai Bee Gees

    Tutto è bene quel che finisce bene? Macché. Prima che la inaugurassero qualcuno ha pensato di omaggiare Dalì piegando la spada di Brettia come i celebri orologi del pittore surrealista. Poi, a cerimonia avvenuta (e spada raddrizzata), è partito l’appello di storici, archeologi e semplici cittadini contro la scultura. Mistificherebbe la storia di Cosenza in nome del turismo, denunciano in estrema sintesi gli accademici (e non solo) chiedendone al Mic la rimozione.

    Donna Brettia tornerà in magazzino? Farebbe comunque una fine migliore di quella toccata in sorte per il momento all’altra scultura protagonista delle cronache recenti: il monumento a Sergio Cosmai. O, secondo la più disincantata e insensibile expertise dell’Atene della Calabria, ai Bee Gees, con quelle sagome à la Stayin’ Alive a custodire il ricordo del delitto dell’ex direttore del carcere di Cosenza sull’omonimo viale.

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    Il monumento a Cosmai qualche anno fa, dopo la rimozione della scritta che lo circondava

    Il lungo addio

    Velato omaggio burocratico-amministrativo anche a H. G. Wells e al suo La macchina del tempo – l’inaugurazione dell’opera risale a marzo 2013, il Comune però l’ha commissionata ufficialmente alcuni mesi dopo – l’installazione dedicata a Cosmai era già ridotta a metà da anni. La scritta che la circondava, infatti, risultava pericolosa secondo la Polizia stradale. Su quella sorta di potenziale ghigliottina gravò a lungo il sospetto – poi fugato dal tribunale – di aver causato la morte di due ragazzi in un incidente stradale. La portarono via lasciando lì solo i Bee Gees, di cui la famiglia stessa di Cosmai auspicava da anni la rimozione ritenendo celebrassero più i killer della vittima. A far sparire anche quelli ha provveduto nei giorni scorsi l’amministrazione Caruso, attirandosi subito le critiche di chi l’aveva commissionata, ossia l’ex sindaco e oggi senatore Occhiuto.

    Regimi a Cosenza e una nuova Atene della Calabria

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    C’è chi apprezza così tanto la statua di Mancini da metterle la sciarpa quando fa più freddo

    «Un’opera di arte contemporanea non deve per forza piacere a tutti, semmai deve interrogare in virtù dell’idea che le sta dietro, perché a partire dal secolo scorso l’arte è diventata soprattutto concettuale. Adesso magari metteranno al suo posto l’ennesimo busto celebrativo, come si usa nei regimi totalitari o nei posti dove regna l’ignoranza», ha argomentato con amarezza. Parere simile aveva riservato, pochi mesi fa, alla quasi altrettanto discussa statua di Giacomo Mancini piazzata di fronte al municipio. Ma il problema, probabilmente non è questo. In fondo, come diceva Borges, «chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».

    Il fatto è che poco dopo la rimozione hanno iniziato a circolare in rete foto di quel che restava dell’opera buttato in terra ai piedi di una rete, con polemiche al seguito. Tutto mentre il gruppo consiliare “Franz Caruso sindaco” si affrettava ad assicurare che «l’installazione è attualmente custodita nei locali comunali per essere riposizionata in un altro luogo idoneo e non ostativo della sicurezza e dell’incolumità pubblica. Anzi, è bene precisare che sarà ricollocata l’intera opera, con l’aggiunta, cioè, della striscia in ferro riportante una frase di Sergio Cosmai».

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    “L’ex monumento” a Sergio Cosmai tra i rifiuti

    Qualità della custodia a parte, insomma, alla famiglia del defunto toccherà forse pure la beffa di partecipare a una seconda inaugurazione della già poco gradita scultura. Se non a Cosenza, nell’hinterland: il sindaco Magarò ha proposto di metterla nel suo paese in caso qualcuno a Palazzo dei Bruzi voglia davvero farla sparire per sempre.
    Sarà Castiglione Cosentino la nuova Atene della Calabria?

  • Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Nei sotterranei della Oglethorpe University in Georgia (USA) c’è una camera a tenuta stagna. Sulla porta c’è scritto «Non aprire prima del 28 maggio 8113». È la prima – e più grande finora – capsula del tempo mai realizzata e custodisce per i posteri testimonianze significative di ciò che l’umanità ha prodotto (ed è stata) fino agli anni ’40 del secolo scorso.
    Quando, tra circa sei millenni, la porta si aprirà, gli uomini del futuro – o chi per loro – si troveranno di fronte un po’ di tutto. Dalle voci registrate di Hitler, Stalin, Mussolini alla sceneggiatura di Via col vento, passando per microfilm con dentro la Bibbia e la Divina Commedia, un portasigarette, un rasoio elettrico e dei bigodini.
    Nella stanza ci sono pure la statuetta di un uomo e un foglio. La prima raffigura in scala 1:8 Angelo Siciliano, calabrese di Acri emigrato negli States ai primi del ‘900. Il secondo riporta le misure del paisà: altezza, peso, circonferenza del torace e dei suoi muscoli. Sul foglio c’è anche la foto di Angelo, ma il nome che si legge sotto è un altro: Charles Atlas.

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    L’interno della Crypt of Civilization della Oglethorpe University. La foto risale a poco prima della sua chiusura nel 1940

    Bokonon e la tensione dinamica

    Ma chi era Angelo “Charles Atlas” Siciliano e perché custodirne il ricordo per i prossimi 6.000 anni? Non pensate a roba à la Lombroso (o chi per lui). Un primo indizio si può trovare in quel gioiello della letteratura americana che è Ghiaccio-nove (in originale, Cat’s Cradle) di Kurt Vonnegut.

    Josh, il protagonista, è un giornalista che sta leggendo l’agiografia di Bokonon, immaginario santone venerato sull’altrettanto immaginaria isola caraibica di San Lorenzo su cui si trova in quel momento. È lì ospite di “Papa” Monzano, lo spietato dittatore dell’atollo, e dei figli di uno degli inventori dell’atomica, sul quale vorrebbe scrivere un libro.

    Quando vidi per la prima volta l’espressione “Tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, feci quella che ritenevo una risata di superiorità. Era una delle espressioni preferite di Bokonon, stando al libro del giovane Castle, e io credevo di sapere una cosa che Bokonon ignorava: che quell’espressione era stata divulgata da Charles Atlas, un insegnante di culturismo per corrispondenza.
    Poco dopo, proseguendo nella lettura, appresi che Bokonon sapeva esattamente chi era Charles Atlas. Infatti Bokonon era un ex allievo della scuola di culturismo.
    Era
    ferma convinzione di Charles Atlas che i muscoli si possano costruire senza l’aiuto di pesi o attrezzi a molle, che si possano costruire semplicemente mettendo in competizione una fascia muscolare con l’altra.
    Era
    ferma convinzione di Bokonon che una società sana possa essere costruita solo mettendo in competizione il bene con il male, e mantenendo sempre elevata la tensione tra le due forze.
    E sempre
     nel libro di Castle, lessi la mia prima poesia, o Calipso, bokononista. Faceva così:

    “Papa” Monzano è veramente pessimo
    Senza di lui, però, sarei tristissimo
    Senza il “Papa” cattivo con la sua iniquità
    Funzionerebbe Bokonon
    A esempio di bontà?

    Acri-New York, solo andata

    Se la venerazione per Bokonon si limita all’atollo del romanzo di Vonnegut, quella per «l’insegnante di culturismo per corrispondenza» nella realtà si diffonde invece a macchia d’olio. Per comprenderne la ragione, però, bisogna andare a ritroso nel tempo fino a quando Angelo Siciliano non era ancora Charles Atlas.

    Tutto comincia il 30 ottobre del 1892. Ad Acri, paesone alle pendici della Sila cosentina, nasce il figlio di Nunziato Siciliano e Francesca Fiorelli, giovani contadini del posto. È il giorno della festa del Beato locale e il piccolo si chiamerà in suo onore Angelo. Qui le versioni della storia divergono.

    Secondo alcune, Nunziato undici anni dopo parte per l’America in cerca di fortuna, portando con sé Angelo e un’altra donna. Altre raccontano che Siciliano senior sia fuggito oltreoceano dopo aver ucciso un uomo, abbia trovato una seconda moglie lì e che a New York nel 1904 poi si siano trasferiti anche Francesca ed Angelo, ma a vivere a casa di uno zio.

    Il bullo in spiaggia: da Angelo Siciliano a Charles Atlas

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    Un giovanissimo Angelo Siciliano prima della “trasformazione” in Charles Atlas

    Comunque sia andata, nella Grande Mela Angelo diventa presto per tutti Charlie. È un ragazzo mingherlino che deve fare i conti con la povertà e le angherie come tanti altri emigrati dell’epoca.
    Nell’estate del 1909 convince una ragazza ad andare sulla spiaggia di Coney Island insieme a lui. L’appuntamento, però, va a rotoli.
    Un bagnino, vedendolo magro come uno spillo, inizia a prenderlo in giro e buttargli sabbia in faccia coi piedi (kick sand). Angelo è incapace di replicare al bullo e la ragazza lo molla lì, da solo a piagnucolare.

    Poco tempo dopo visita con la scuola un museo, in una sala c’è una statua di Ercole: il suo fisico è perfetto, a nessun bagnino verrebbe in mente di dar fastidio a uno con muscoli del genere. Angelo decide che si allenerà finché non avrà anche lui un corpo così. A casa Siciliano, però, soldi ne girano pochi, così deve arrangiarsi. Costruisce un bilanciere con un bastone e delle pietre, studia gli esercizi sulle riviste di ginnastica e prova a replicarli. Trova lavoro in una conceria. Ma il fisico di Ercole resta un sogno.

    Per realizzarlo servirà una nuova illuminazione, questa volta allo zoo di Brooklyn.
    Angelo osserva i leoni in gabbia mentre si stiracchiano. Sono così forti – pensa – eppure non hanno avuto bisogno di pesi o panche per diventarlo, com’è possibile? Intuisce che la risposta è proprio in quello stretching dove i muscoli, contrapponendosi l’un l’altro, si allenano a vicenda. Anche se ancora non lo sa, Angelo Siciliano ha appena inventato la Dynamic Tension che farà di Charles Atlas un mito mondiale del fitness e lo renderà milionario.

    Fachiro e modello

    Il ragazzo mette a punto un programma di esercizi che chiunque può svolgere a casa propria senza attrezzature particolari, bastano al massimo un paio di sedie. Oggi la definiremmo un mix tra ginnastica isotonica e isometrica. Si allena in continuazione e quando ritorna in spiaggia per i suoi amici è uno shock. Il Charlie di nemmeno 45 kg bullizzato poco tempo prima adesso sembra la statua di Atlante (Atlas in inglese) che sormonta un palazzo lì vicino. Tutti iniziano a chiamarlo così. E col nuovo fisico arriva anche qualche quattrino in più, che non guasta mai.

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    Il giovane Angelo Siciliano e il suo nuovo fisico

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano molla la conceria ed inizia ad esibirsi come fachiro in un circo. Guadagna 5 dollari per stare coi muscoli in tensione sdraiato sopra un letto di chiodi mentre dei volontari tra il pubblico camminano su di lui.
    Gli introiti aumentano quando comincia a posare per gli artisti. La celebre scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, animatrice dei salotti newyorkesi, lo elegge suo modello preferito, adora la sua capacità di restare immobile anche per 30 minuti di fila.
    Ora guadagna anche 100 dollari a settimana.

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    Angelo in posa nello studio di Pietro Montana

    Angelo Siciliano sta per lasciare per sempre spazio a Charles Atlas, ma da modello “assume molte altre identità” nei monumenti. Posa per Pietro Montana e la sua Dawn of Glory dell’Highland Park di Brooklyn, è Alexander Hamilton di fronte al Palazzo del Tesoro, George Washington in Washington Square Park.

    Addio Angelo Siciliano, è arrivato Charles Atlas

    L’ulteriore svolta arriva nel 1921, quando invia una sua foto per partecipare a un concorso organizzato dalla rivista Physical Culture che eleggerà “L’uomo più bello del mondo”. Trionfa. E l’anno dopo concede il bis aggiudicandosi nel Madison Square Garden gremito da migliaia di persone anche il titolo di “Uomo col fisico più perfetto del mondo”.
    Sarà l’ultima edizione del concorso: gli organizzatori decidono che con Charles Atlas in gara per gli avversari non c’è speranza di vincere.

    Il premio in palio nel 1922 è la parte da protagonista nel film The Adventures of Tarzan o, in alternativa, mille dollari. Angelo Siciliano opta per il denaro e cambia definitivamente nome. Ora è Charles Atlas anche per l’anagrafe e col premio apre una palestra per insegnare il suo metodo, che propone anche per corrispondenza in società con lo scrittore Frederick Tinley. Gli affari però non ingranano fino al 1929, quando incontra un altro Charles che cambierà definitivamente la sua vita.

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    Il premio grazie a cui iniziò la carriera imprenditoriale di Charles Atlas

    Quel gran genio di Roman

    Charles Roman è un giovane pubblicitario fresco di laurea, assunto da poco nell’agenzia che in quel momento si occupa di promuovere le attività dell’italoamericano e Tinley con scarsi risultati. Ed è un genio nel suo campo. Un giorno prende coraggio e si rivolge direttamente ad Atlas. Gli dice che se vuole vendere il suo programma di esercizi deve degli un nome più intrigante e conia Dynamic Tension. Poi si fa raccontare la storia del culturista.

    Capisce che la migliore pubblicità per la Dynamic Tension è Atlas stesso. Il ragazzo qualunque che con la sola forza di volontà ha cambiato il suo destino partendo dal nulla; l’emblema di quel sogno americano di cui gli Usa, nel pieno della Grande Depressione, hanno più bisogno che mai per risollevarsi; l’emigrato che si è trasformato in dio greco, sempre in forma e sicuro di sé, bello come un Apollo e le stelle di Hollywood sempre più idolatrate dalle masse.
    Se salutismo, forma fisica e culto dell’estetica diventeranno le nuove religioni, Roman ha già in mente chi sarà il loro profeta. Compra le quote di Tinley, lascia l’agenzia e insieme al paisà fonda la Charles Atlas Ltd.

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    Roman e Atlas nel loro ufficio a New York

    Roman, poi, disegna una striscia a fumetti: The insult that made a Man out of Mac, “L’affronto che ha fatto di Mac (alter ego di Angelo, nda) un Uomo”. Farà la storia della pubblicità americana. Sono poche vignette che ripercorrono l’appuntamento di Coney Island andato male anni prima: il bagnino che riempie di sabbia Mac, la ragazza delusa che se ne va, il mingherlino di 45 kg che torna a casa e decide di mettere su muscoli, il ritorno a Coney Island con annessa rivincita sul bullo, le altre ragazze ad acclamare il nuovo «eroe della spiaggia». Sotto i disegni, una foto dell’erculeo Charles Atlas che promette: «In soli sette giorni posso fare di te un vero uomo» e cose simili.

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    Il fumetto che ha fatto di Atlas un personaggio di culto

    Muscoli e cervello

    Le pubblicità invadono i giornali sportivi e la stampa per ragazzi. Diventano virali decenni prima che internet ci abitui ad usare questo termine. Dynamic Tension va a ruba, il culto del fisico arriva a oltre un milione di fedeli pronti a spendere 35 dollari per fare come Mac. La Charles Atlas Ltd assume decine di impiegati solo per leggere le loro lettere in cui raccontano i progressi fisici ottenuti grazie alle lezioni. L’azienda è ormai un impero internazionale.

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    1969, Charles Atlas, alle soglie degli 80 anni, in uno scatto di Diane Arbus

    I due Charles si dividono i compiti: Atlas ci mette i muscoli, che continuerà a curare ogni giorno finché campa; Roman il cervello, ideando sempre nuove dimostrazioni di forza del suo socio per accrescerne la fama. Se il primo ha “inventato” il fitness per tutti, il secondo è il padre del marketing applicato.
    Atlas in pubblico trascina locomotive per decine di metri, solleva auto e gruppi di ballerine, strappa elenchi telefonici a mani nude. Una volta si esibisce in uno dei penitenziari più famosi d’America. Roman detta il titolo ai cinegiornali: «Un uomo piega una sbarra di ferro a Sing-Sing: i prigionieri esultano, nessuno scappa».

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    1939, Charles Atlas solleva le Rockettes sul tetto del Radio City Hall

    E chi sei, Charles Atlas?

    Ormai negli States quando qualcuno compie o dice di aver compiuto qualcosa di eccezionale è facile che gli rispondano: «E chi sei, Charles Atlas?». L’emigrato di Acri che le prendeva dai bagnini adesso partecipa al compleanno del presidente Roosevelt.
    Anche i “giornaloni” sono pazzi di lui: Forbes lo mette tra i venti migliori venditori della storia; Life gli dedica un servizio fotografico; il New Yorker lo fa intervistare da Robert Lewis Taylor, un Pulitzer. Lui gli racconta di aver perfino dato dei consigli gratuiti a Gandhi: «L’ho visto tutto pelle e ossa».

    Pazienza se il Mahatma, dopo averlo saputo, liquiderà la storia con un sorriso e una battuta sulla tendenza degli americani, «Mr Atlas in particolare», a spararle grosse per farsi belli. Il programma di esercizi funziona lo stesso se hai costanza – ancora di più se il Dna ti dà una mano – ed è quello che conta. E se poi l’ex ragazzino di 45 kg trasformatosi in Atlante non bastasse come testimonial di se stesso, non mancano altri esempi di successo tra i suoi allievi.

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    Il grande Joe Louis, The Brown Bomber, dà una controllata ai bicipiti di Charles Atlas

    Sei fissato col body building? Thomas Manfre è diventato Mister Mondo nel 1953 dando retta a Charles. Sogni di poter stendere con un pugno qualcuno che ti ha maltrattato? Grazie a Dynamic Tension pugili come Max Baer e l’immenso Joe Louis sono saliti sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. Vuoi conquistare la donna dei tuoi sogni? Anche il mito Joe DiMaggio ha forgiato i suoi muscoli seguendo Atlas. E chi ha sposato poi? Marilyn Monroe. Se poi vuoi far paura a qualcuno… beh, dietro la maschera di quel cattivone di Darth Vader nella trilogia originale di Guerre Stellari c’è un altro atlasiano doc come David Prowse.

    Culturisti di culto

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano, insomma, non è stato solo un culturista. È parte della cultura popolare americana (e non solo). La sabbia in faccia, per esempio, è un’espressione entrata nel vocabolario comune. La trovi in We are the Champions dei Queen come nei testi di Roger Waters (Sunset Strip) e Bob Dylan (She’s Your Lover Now).
    Gli Who hanno inserito una pubblicità di Charles all’inizio di I can’t reach you, nel disco The Who Sell Out in cui il bassista John Entwistle appare in copertina travestito proprio da Atlas in versione Tarzan.

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    John Entwistle prende in giro Atlas sul retro di The Who Sell Out

    Robin Williams ne L’attimo fuggente si paragona al Mac/Angelo indifeso della spiaggia quando racconta agli studenti i suoi primi approcci alla poesia. Tim Burton lo cita nel suo film d’esordio Pee-wee’s Big Adventure, Terry Gilliam nel Monty Python’s Flying Circus.
    La parodia del fumetto su Mac è finita in una puntata di Futurama e su National Lampoon: qui un topolino bullizzato in spiaggia da un carnivoro più grosso di lui manda una lettera a Charles Darwin, Isole Galapagos, «e dopo pochi milioni di anni di esercizi evolutivi» si ripresenta con ali e artigli per vendicarsi azzannando il rivale mentre tutte le femmine intorno inneggiano al nuovo «eroe dell’habitat».

    Tensione dinamica

    L’elenco (parziale) dei riferimenti al culturista calabrese comprende anche i videogame: il Little Mac del classico della giapponese Nintendo Mike Tyson’s Punch-Out è un chiaro omaggio al mingherlino di 97 libbre (97-pound weakling) del fumetto di Roman. E nella prima versione del cult The Secret of Monkey Island c’era una statua che secondo il protagonista «sembrava la versione deperita di Charles Atlas».

    Il principale (e più irriverente) omaggio al bambino arrivato a Ellis Island dalle montagne di Acri, però, resta quello del Rocky Horror Picture Show. Nel musical più libertino della storia lo scienziato pazzo alieno Frank’N’Furter dà vita alla sua creatura, l’amante perfetto dal corpo scolpito, intonando la Charles Atlas’ Song/I can make you a man. E se la porta a letto poco dopo, spiegando in I can make you a man (Reprise) che quei muscoli gli fanno venire voglia di prendere per mano Charles Atlas e di “tensione dinamica”.

    Nemo propheta in patria

    Angelo Siciliano non ha mai ascoltato le due canzoni. Il RHPS è uscito a teatro nel 1973 e al cinema nel ’75, lui è morto di infarto la vigilia di Natale del ’72. Nei successivi 50 anni e mezzo ad Acri pare non gli abbiano ancora dedicato una piazza, una strada, un vicoletto. Nemmeno una targa o una palestra qualsiasi.
    Sarà perché non ci è mai tornato. Sarà perché in Calabria dimenticano i campioni olimpici, figuriamoci un culturista. O, forse, aspettano anche lì il 28 maggio 8113.

  • ‘Ndrangheta über alles: per la Dia è la signora del crimine

    ‘Ndrangheta über alles: per la Dia è la signora del crimine

    Arcaica da un lato, con «la fedeltà alle origini e la strutturazione su base familiare». Modernissima dall’altro, grazie a «massima flessibilità ed intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno». Un mostro dai due volti, la ‘ndrangheta secondo l’ultima relazione semestrale della Dia, che «si conferma l’assoluta dominatrice della scena criminale anche al di fuori dei tradizionali territori d’influenza».

    La Dia e la ‘Ndrangheta nel Nord Italia e in Calabria

    Se esistesse un campionato del crimine, la ‘ndrangheta sarebbe saldamente in testa alla classifica e con parecchi punti di vantaggio sui rivali. Innanzitutto perché – restando alla metafora sportiva – anche nelle trasferte più lontane gioca in casa. «Le inchieste sinora concluse hanno infatti consentito di individuare nel Nord Italia 46 locali, di cui 25 in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige», riporta la Dia. E poi perché quando trova concorrenza sul territorio, tende ad «instaurare forme di collaborazione utilitaristiche con consorterie di diversa matrice mafiosa giustificate per lo più da specifiche contingenze».

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    Le ramificazioni della ‘ndrangheta nel Nord italia nella mappa della Dia

    L’analisi della presenza criminale di regione in regione si trasforma così in un lungo elenco di cognomi tristemente noti a queste latitudini. Si va dagli Alvaro e i Carzo ai Piromalli, passando per i Mancuso e i Morabito, i Grande Aracri e i Gallace, i Farao-Marincola e i Pelle, i Bellocco e molti altri ancora. Ci sono la capitale e il litorale romano, i grandi porti della Liguria ma anche la piccola Valle d’Aosta e il Sud Tirolo. Non importa si tratti di zone a vocazione industriale come la Lombardia, il Veneto e il Piemonte oppure di territori dove sono le piccole imprese a reggere l’economia, come l’Umbria. La ‘ndrangheta arriva e trova il modo di fare affari. Si tratti di appalti in Emilia, smaltimento di rifiuti in Toscana, trasporti in Friuli, ricostruzione post terremoto in Abruzzo.

    Dia: la ‘Ndrangheta fuori dall’Italia

    Impossibile non parlare di cocaina, il business che ha fatto la fortuna dei clan calabresi. La ‘ndrangheta ha ancora un porto come quello di Gioia Tauro in cui ha piantato le sue radici. Ma si dà da fare anche in quelli di Genova, La Spezia, Vado Ligure e Livorno per l’alto Tirreno. Perché «i sodalizi calabresi continuano a rappresentare gli interlocutori privilegiati per i cartelli sudamericani in ragione degli elevati livelli di affidabilità criminale e finanziaria, garantiti ormai da tempo». Quest’affidabilità ha permesso loro di espandere il giro d’affari finanche in Africa occidentale, «in particolare la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau e il Ghana».

     

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    Il porto di Rotterdam

    Ma l’elenco della ramificazione capillare della ‘ndrangheta nel mondo è lunghissimo. L’egemonia criminale calabrese si registra nel campo delle scommesse online a Malta come nei grandi porti francesi, belgi, tedeschi e olandesi, sulla rotta dei Balcani (Romania in particolare) come nei paesi ex sovietici. Qui, scrive la Dia, «in particolare la ’ndrangheta – la più diffusa a livello globale e la più “liquida” fra le mafie – potrebbe trarre i maggiori vantaggi sia dai traffici illeciti indicati in premessa (droga, armi, sigarette e altre merci illegali, ndr), sia dalla ricostruzione postbellica». La ‘ndrangheta canadese ha acquistato maggiore autonomia, nonostante l’indissolubile legame con la provincia di Reggio. Quella statunitense coopera con Cosa Nostra grazie anche ai solidi rapporti che ha con i cartelli della droga dal Messico fino all’Argentina. In Australia è radicata da 100 anni.

    Dove finiscono i soldi della coca

    I clan trasformano così fiumi di droga in un mare di denaro che alimenta tutto il resto degli affari. La ‘ndrangheta con quei soldi, ad esempio, si propone «a imprenditori in crisi di liquidità dapprima come sostegno finanziario, subentrando poi negli asset e nelle governance societarie per capitalizzare illecitamente i propri investimenti». Come prendere due piccioni con una fava: riciclando i guadagni illeciti, le cosche riescono al contempo a impadronirsi di ampie fette di mercato inquinando l’economia legale.

    corruzione-per-il-viminale-solo-il-molise-peggio-della-calabriaE poi c’è l’area grigia in cui si muovono professionisti compiacenti e pubblici dipendenti infedeli che gestiscono la cosa pubblica. Lì, grazie alla loro comprovata abilità, le ‘ndrine sguazzano. Infiltrano «compagini amministrative ed elettorali degli enti locali al fine di acquisire il controllo delle risorse pubbliche e dei flussi finanziari, statali e comunitari, prodromici anche ad accrescere il proprio consenso sociale». Gli affari ora si fanno senza fare troppo rumore, indossando giacca e cravatta. Gli ‘ndranghetisti sono «straordinariamente abili nell’adattarsi ai diversi contesti territoriali e sociali prediligendo, specialmente al di fuori dai confini nazionali, strategie di sommersione in linea con il progresso e la globalizzazione».

    Dia, I-CAN, ‘ndrangheta ed economia

    Ma come si combatte un nemico del genere? In Italia si sta provando un po’ di tutto ma, per dirla con Guccini, quel tutto è ancora poco. Buoni risultati stanno arrivando dal progetto di cooperazione internazionale I-CAN, di cui abbiamo parlato spesso su I Calabresi nella rubrica Mafiosfera. Dal giugno 2020, riporta la Dia, l’attività operativa di I-CAN ha consentito di localizzare e trarre in arresto 26 latitanti appartenenti alla ‘ndrangheta:

    • 2 in Albania,
    • 3 in Argentina,
    • 3 in Brasile,
    • 1 in Canada,
    • 1 in Costa Rica,
    • 1 nella Repubblica Dominicana,
    • 7 in Spagna,
    • 3 in Svizzera,
    • 1 in Portogallo,
    • 1 in Turchia,
    • 1 in Polonia
    • 2 in Italia

     

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    La Dia stessa ha sottratto negli anni alle mafie beni per circa 7,5 miliardi di euro. Una cifra enorme, eppure infinitesimale rispetto al volume d’affari della criminalità organizzata nel medesimo periodo. Secondo uno studio della Banca d’Italia, infatti, «i volumi di affari legati alle attività illegali – attraverso le quali la criminalità organizzata si finanzia e si arricchisce – sono ingenti e si può stimare che rappresentino oltre il 2 per cento del PIL italiano». Nel medesimo documento di Palazzo Koch si spiega anche che «si può calcolare che un azzeramento dell’indice di presenza mafiosa nel Mezzogiorno si assocerebbe ad un aumento del tasso di crescita annuo del PIL dell’area di 5 decimi di punti percentuali (circa il doppio rispetto all’analogo esercizio per il Centro Nord)».

  • Nuovi ospedali in Calabria: la grande farsa della Regione

    Nuovi ospedali in Calabria: la grande farsa della Regione

    Secondo il penultimo annuncio ufficiale sui nuovi ospedali in Calabria, quello della Sibaritide avrebbe dovuto aprire i battenti al più tardi un paio di settimane fa, sedici anni dopo lo stanziamento dei fondi per realizzarlo. A settembre di quest’anno, invece, sarebbe stato il turno di quello di Vibo e a ottobre 2024 quello del nuovo ospedale della Piana. Lo aveva sostenuto a giugno del 2020 l’allora presidente della Regione Jole Santelli in risposta a un’interrogazione dei consiglieri Guccione, Irto, Bevacqua, Tassone e Notarangelo sullo stato di avanzamento dei lavori delle tre strutture.
    L’ottimismo della governatrice era, evidentemente, eccessivo.

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    L’ex presidente della Regione, Jole Santelli

    Prioritari ma non troppo

    Ora, infatti, è arrivato l’ultimo annuncio ufficiale sui suddetti ospedali. E siccome in Calabria i cronoprogrammi sono mobili qual piuma al vento e la memoria degli elettori labile, ai cittadini si dice come se nulla fosse che ci sarà ancora da aspettare. Come minimo un paio d’anni, se non altri quattro. E meno male che – in controtendenza rispetto a quando elogiava le chiusure dei nosocomi in epoca Scopelliti  — «nell’azione di governo il presidente (Occhiuto, nda) ha posto tra le priorità anche la realizzazione dei tre nuovi ospedali».

    Dalla Regione è partito all’indirizzo delle redazioni un comunicato a firma di Pasqualina Straface, presidente della commissione Sanità, dal titolo inequivocabile: «Nuovi ospedali calabresi, consegne previste tra il 2025 e il 2027». Le parole di Straface arrivano al termine di una seduta della commissione con protagonista l’ingegner Pasquale Gidaro. Chi è? Il dirigente del settore Edilizia sanitaria ed investimenti tecnologici della Regione Calabria, audito per l’occasione proprio per sapere da lui a che punto sia la situazione a Vibo, nella Piana e nella Sibaritide.

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    Pasqualina Straface, presidente della commissione Sanità

    Nuovi ospedali in Calabria: la Sibaritide

    Prendiamo l’ultimo caso, visto che a detta di Santelli, l’apertura sarebbe stata a marzo 2023. Occhiuto – era settembre 2022 – diceva che sarebbe stato «pronto entro il prossimo anno». Quattro mesi prima aveva indicato pure il mese: dicembre. Qui si dovevano spendere 144 milioni di euro per avere 376 nuovi posti letto.
    E invece? Invece «La struttura portante sarà conclusa nei prossimi giorni. Al 31 marzo lo stato di avanzamento dei lavori era pari al 24% dell’importo contabile per oltre 26 milioni», scrive Straface nella sua nota.

    Il quadro economico precedente, complice l’innalzamento dei prezzi in ogni settore, nel frattempo è cambiato. Ora servono 42 milioni di euro in più. Diciassette, precisa la consigliera, la Regione li ha già erogati in attesa che arrivi anche una variante al progetto «entro il 29 maggio 2023». Poi altri due mesi di attesa per ottenere i vari pareri e autorizzazioni dagli enti preposti e «potranno ripartire i lavori a pieno regime». Quando finiranno? «Il cronoprogramma – scrive ancora Straface – prevede la consegna dell’ospedale della Sibaritide entro il 2025».

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    Occhiuto sul cantiere del nuovo ospedale della Sibaritide nel maggio scorso

    Nuovi ospedali in Calabria: Vibo Valentia

    E a Vibo si potrà andare nel nuovo ospedale già a settembre come prometteva Santelli? Inutile sperarci. Anche qui i tempi di consegna, tra sequestri del cantiere e altri problemi, sono slittati e i costi schizzati alle stelle. Dai 143 milioni iniziali per 339 posti letto si è passati a 190 milioni di spesa prevista dal nuovo quadro economico.  Quanto alla consegna, qui va peggio che nella Sibaritide. «I lavori del progetto stralcio approvati il 27 febbraio 2023 dovrebbero partire tra fine aprile e di primi di maggio. Si prevede la consegna dell’opera nella primavera del 2026», annuncia Straface nella nota.

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    Uomini della Guardia di Finanza nel cantiere del nuovo ospedale di Vibo

    Nuovi ospedali in Calabria: la Piana

    Quelli messi peggio, però, sono i cittadini della Piana. Ottobre 2024, la data ipotizzata illo tempore dall’ex governatrice, passerà senza che di nuovi ospedali funzionanti si veda l’ombra. E, bene che vada, toccherà attendere altri quattro anni. Qui i posti letto in programma erano 352, almeno fino al 2020, per una spesa di 150 milioni. Ora, stando alla nota di Straface, saranno invece 339, tredici in meno. Ma costeranno 158 milioni, otto in più di prima.

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    Rendering del nuovo ospedale della Piana

    Un certo peso nei ritardi sarebbe addebitabile alla burocrazia. Ma, a riguardo, non bisogna sottovalutare la sagace idea di realizzare la struttura in un’area che richiede il «superamento di problematiche di tipo geologico e geotecnico dovute alla presenza di faglie sismo-tettoniche». Ecco perché il cronoprogramma aggiornato, stando alle parole di Straface, chiarisce che «entro il 2027, infine, è prevista la conclusione dei lavori dell’ospedale».
    Altri tre-quattro anni di attesa (se tutto va bene), insomma. Almeno – Cosenza docet – fino al prossimo annuncio, s’intende.

  • Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Roberto Occhiuto come Saverio Cotticelli? Tra il nuovo commissario alla Sanità (nonché presidente della Regione) e il vecchio qualcosa in comune sembrerebbe esserci: la memoria.

    Quella del generale dei Carabinieri era proverbiale e lo ha reso celebre in tutta Italia: aveva dimenticato di guidare lui la Sanità durante il Covid e di dovere, per questo, redigere un piano su come affrontare la pandemia. I primi, vaghi, ricordi erano riaffiorati soltanto in un’epica intervista della Rai, coprotagonista un fantomatico usciere mai inquadrato. Cose che capitano. Giorni dopo, sempre in tv, Cotticelli per giustificarsi avanzò un’ipotesi stupefacente: qualcuno poteva averlo drogato a sua insaputa per confondergli la mente. Promise anche di indagare su se stesso e pare che l’autoinchiesta si sia conclusa senza rinvii a giudizio.

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    Lo stupore di Saverio Cotticelli per il dettaglio dimenticato

    Occhiuto, favorito anche da un’età inferiore rispetto al predecessore, vuoti di memoria di tale portata ancora non ne ha avuti per fortuna. Né, siamo certi, chiamerebbe in causa misteriosi pusher invisibili come ninja per giustificare i suoi. L’ultimo è arrivato proprio nelle scorse ore. E dietro pare esserci, più che una sostanza psicotropa, un morbo che, prima o poi, colpisce chiunque in politica: l’annuncite.

    Occhiuto e il robot Da Vinci dell’Unical…

    Il presidente Occhiuto aveva lasciato la Cittadella per celebrare l’arrivo del robot Da Vinci all’Annunziata grazie anche alla neoistituita facoltà di Medicina dell’Università della Calabria. Giusto esserci, visto che si tratta di «un investimento realizzato dall’Unical, con risorse messe a disposizione dalla Regione». L’apparecchio, d’altra parte, permetterà senza dubbio di «qualificare l’offerta sanitaria della nostra Regione e abbiamo bisogno che i saperi delle università contaminino l’intero sistema sanitario».

    Ma è proprio quando il clima è di festa che il virus dell’annuncite si insinua nei corpi delle sue vittime prendendo il controllo dei loro ricordi e annebbiandoli. E l’entusiasmo intorno al Da Vinci non ha lasciato scampo ad Occhiuto. «L’installazione di questo robot – ha sottolineato ormai preda del morbo – dà la possibilità al sistema sanitario regionale di offrire gli stessi servizi garantiti in altre Regioni. Finora chi doveva subire un intervento alla prostata era costretto ad andare fuori dalla Calabria, proprio perché il nostro sistema sanitario era sprovvisto di questo robot che ormai è ordinariamente utilizzato sia per questo tipo di interventi ma anche per altri che riguardano, ad esempio, la chirurgia toracica, oncologica o ginecologica».

    Al Gom dal 2016

    Il robot Da Vinci, però, tutto è meno che una novità per la Sanità calabrese e Occhiuto dovrebbe saperlo. Esiste e lo usano da diversi anni con successo al GOM di Reggio Calabria. Si parla di una delle eccellenze del disastrato sistema sanitario della regione, abbastanza poche da non poter sfuggire a chi lo governa.

    In una lunga e interessante intervista del giugno 2018 su Strill.it l’urologo Pietro Cozzupoli raccontava quanto Da Vinci fosse stato utile all’ospedale da quando – a novembre del 2016 – era entrato in servizio. Funziona così bene che ad operarsi a Reggio arrivano anche da fuori della Calabria. Lo ha fatto tempo fa finanche il cardinale Robert Sarah, pur non mancando al Vaticano strutture verso cui indirizzarlo. E, proprio nei giorni scorsi, il Corriere della Calabria ha riportato la notizia di un intervento chirurgico in urologia robotica al Gom che ha salvato la vita di un paziente oncologico guineano arrivato fino a Reggio per operarsi con il Da Vinci.

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    Pietro Cozzupoli (foto CityNow.it)

    «Nella nostra struttura – spiegava il dottor Cozzupoli cinque anni faesistono già due equipe formate da quattro, cinque urologi in grado di eseguire interventi robotici e una equipe infermieristica con competenze multidisciplinari. Non solo, esistono già due altre equipe chirurgiche, di chirurgia generale e di ginecologia, che operano con il robot da Vinci. Perché il nostro robot è multidisciplinare, lavora su varie specialità».
    Ma quando il virus dell’annuncite è entrato in un organismo, non c’è chirurgo o robot che possa rimuoverlo.

  • Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.

    Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza

    La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.

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    Una delle sale del Castello dopo ill restauro

    I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.

    Il mostro sulla collina

    A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.

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    L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno

    Neanche mille euro al mese

    Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabrese per partecipare al bando regionale.
    Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».

    Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza

    Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.

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    Il cinema Italia-Tieri

    Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.

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    Una degustazione all’interno del Castello

    Un accordo per estinguere il debito

    Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.

    Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.

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    I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee

    Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo

    C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…