In principio c’era la Catizonese, poi venne Eugenio e Guarascese fu perché in entrambi i casi parlare di Cosenza per i tifosi era diventato dannatamente difficile.
La Storia, aveva teorizzato già parecchio tempo prima un filosofo ed economista tedesco piuttosto noto, ha il brutto vizio di tendere a ripetersi. E quando c’è da replicare una tragedia, ama dare il bis sotto forma di farsa. Le vicissitudini dei rossoblu nel nuovo millennio non sono che l’ennesima conferma della bontà di quella vecchia analisi e della sua attualità.
Vent’anni dopo
La prima volta c’erano di mezzo il tragico addio al calcio professionistico dopo il fallimento, la politica (con l’allora sindaca Catizone a rivestire anche l’insolito ruolo di presidentessa di una neonata squadra di calcio), malcontento dilagante tra i tifosi e addirittura un derby: Cosenza Football Club Srl (per i detrattori, Catizonese o Fc Catizone) contro Cosenza 1914 Spa. Era la stagione 2004-2005, annus horribilis per eccellenza nell’ormai ultracentenaria vita sportiva dei Lupi.
Un paio di decenni dopo, il replay. Non altrettanto tragico, vista almeno l’iscrizione al prossimo campionato di Serie C dopo la retrocessione dell’ultima stagione. Ma – difficile pensarla altrimenti – di certo più grottesco. E, proprio per questo, ancora più insopportabile per chiunque abbia a cuore il destino dei rossoblu.
C’è chi dice no: tifosi del Catanzaro invocano la permanenza di Guarascio a Cosenza
Lo chiamavano Guarascese
Il Cosenza almeno stavolta è uno solo, ma ormai lo chiamano tutti, o quasi, Guarascese. Non è roba da poco, se si considera che l’italiano medio ha due cose che non cambia mai nella vita: mamma e squadra del cuore, con relativi nomi di battesimo. Eugenio Guarascio – paradossalmente il presidente a conquistare il più prezioso trofeo della scarna bacheca dei Lupi – è riuscito in un’impresa titanica.
Lo chiamavano Guarascese, il Cosenza, già quando i dirigenti si presentavano tra i proclami a inizio stagione e poi sparivano fino al giorno delle dimissioni. Quando gli steward rivendicavano in piazza mancati emolumenti e nelle pagine social del club entrava in vigore un inedito blocco dei commenti per i sostenitori. O quando in ritiro la rosa era di quattro gatti, magari in prestito, e si aspettava sistematicamente gennaio per rimediare a mercati d’agosto mai all’altezza delle aspettative.
Continuavano a chiamarlo Guarascese
E continuavano – e continuano – a chiamarlo Guarascese dopo l’imperdonabile stop iniziale al memorial in onore di Gigi Marulla, così come ogni volta che sulla stampa locale, snobbata dal club in più occasioni, è spuntata qualche ipotesi di cessione societaria. Quelle trattative che a maggio – Guarascio dixit – sono «situazioni concrete» che potrebbero «arrivare alla definizione in brevissimo», per citarne soltanto una, e a luglio diventano – sempre parole di Guarascio – «offerte praticamente a costo zero».
A quale delle versioni opposte credere se a pronunciarle è la stessa persona? Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione più che eccellente risulta deprimente.
Alfredo Citrigno, che in primavera aveva cercato di acquisire il club da Guarascio, ha smentito di recente le dichiarazioni dell’imprenditore lametino sull’esiguità della cifra offerta per rilevare il Cosenza. Senza renderne pubblica l’entità, però
Derby d’Eccellenza
A ravvivare gli animi ha provato il senatore Fausto Orsomarso con un’inattesa proposta. L’esponente di FdI, che nonostante le smentite di rito qualcuno ipotizza possa correre per il dopo Occhiuto alla presidenza regionale, suggerisce di creare una nuova squadra. Sostiene che ci sia una cordata di imprenditori «già pronti» – non a mettere soldi nell’attuale società, però – a darle vita e farla ripartire dall’Eccellenza. Campionato, giusto per la cronaca, i cui calendari sono già stati stilati e non parrebbero prevedere la presenza di nuovi ipotetici club cosentini.
L’augurio di tutti resta quello di rivedere appena possibile il Cosenza in serie B; la speranza (forse anche dello stesso Guarascio), di farlo con un presidente diverso; il timore quello di assistere l’anno prossimo a un Guarascese-Orsomarsese.
Carchidi, chi era costui? Viene da scomodare Manzoni nel tentativo di analizzare il fermo del direttore di Iacchitè da parte della polizia cittadina e le relative immagini, passate in poche ore dalle chat su Whatsapp alla ribalta delle testate nazionali (molto meno di quelle locali). Siamo a Cosenza in via degli Stadi, Gabriele Carchidi è a terra, quattro agenti su di lui. Lo bloccano con modalità che a qualcuno hanno ricordato quelle fatali per George Floyd. La causa? Avrebbe rifiutato di farsi identificare, rendendo necessario secondo i poliziotti portarlo in questura – con le buone o con le cattive – per chiarire davvero chi fosse.
Stando alle cronache, lo accusano di resistenza a pubblico ufficiale; a sua volta promette denunce per il trattamento ricevuto. La Procura ha aperto un fascicolo, Avs preannuncia un’interrogazione parlamentare.
Ma chi è Carchidi? Difficile che a Cosenza qualcuno non lo sappia o non abbia un’opinione su di lui. Il ventaglio dei pareri è piuttosto ampio, come dimostrano i commenti che a centinaia hanno accompagnato la notizia sui social network. In estrema sintesi: si va dal bugiardo alla bocca della verità, dal diffamatore seriale all’eroico baluardo della libera informazione. Sono rare le mezze misure nel valutare ciò che appare sul sito che ha fondato, il più letto di nascosto della città (e non solo).
Ancor più rare quelle utilizzate nei suoi scritti, che pure alla Questura – ubicata a pochi metri dalla sede di Iacchitè – hanno dedicato ampio e non sempre lusinghiero spazio. Senza dubbio più frequenti, invece, i suoi contatti con la polizia cittadina, non fosse altro che per la montagna di querele notificate in redazione dalle forze dell’ordine.
Carchidi chi?
Ed è qui che dovrebbe stare il punto fondamentale della vicenda, non nel proprio gradimento rispetto ai contenuti di Iacchitè. È più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che qualcuno che lavora in Questura a Cosenza non conosca (e riconosca) Carchidi. Potrebbe forse capitare a qualche agente in città da pochi giorni, magari ai due «giovani» di cui si legge nella ricostruzione dell’Agi. Ma che quattro di loro (finanche uno coi capelli bianchi) abbiano bisogno di documenti – o delle semplici generalità, sufficienti a qualsiasi cittadino in situazioni normali – per appurare che chi hanno davanti sia davvero lui a molti è apparso meno probabile di una promozione del derelitto Cosenza in Serie A a fine stagione. E suscita domande.
Perché trascinarlo a terra? Perché ammanettarlo? Accantonando ogni dietrologia, giornalista o meno, Carchidi era un semplice cittadino a passeggio. La necessità di risalire alla sua identità con la forza lascia più di un dubbio che chi di dovere farebbe bene a chiarire prima possibile.
E se domani dimenticassi i documenti a casa e succedesse anche a te?
Doveva essere tutto pronto prima delle Regionali che poi incoronarono Jole Santelli. Era, almeno nelle intenzioni, il simbolico biglietto da visita da consegnare ai potenziali elettori dell’allora sindaco ed aspirante governatore Mario Occhiuto.
Oggi il Parco del Benessere su viale Gacomo Mancini a Cosenza porta il nome della governatrice forzista, scomparsa a pochi mesi dalla conquista della Cittadella, ma resta ancora lontano dal completamento. E la spesa, immancabilmente, continua a salire. Tutto mentre il fantasma dell’opera (pubblica) – la principale, ossia la metro leggera che dovrebbe attraversare il viale costeggiando il parco – continua ad aleggiare sull’area. E nessuno chiarisce se i tram da lì passeranno davvero prima o poi.
A volte ritornano: la metro a viale Parco
Della metro su viale Parco – come lo chiamano tanti cosentini in barba al pur amatissimo titolare del toponimo originale – infatti non si parla più da tempo. Eppure soltanto pochi giorni fa il Comune ha approvato una perizia di variante ai lavori nell’area che pare proprio tirare l’infrastruttura fuori dal polveroso cassetto in cui sembrava ormai marcire. Costa pochi spiccioli – 175mila euro – rispetto alle decine di milioni in ballo, ma non è detto che, seppur bassa, la somma sia insignificante.
Dalla determina dirigenziale 2338/2023 si apprende, infatti, che ai piedi del centro commerciale Due Fiumi «[…] La variante prevede che venga ripristinata la forma della Piazza come da Progetto Metro Cs: la forma della piazza, che tra le due progettazioni era variata per forma e dimensioni, verrà realizzata in conformità al Progetto Metro […]». Che non significa eliminare soltanto quel che resta dei chioschetti per gli aperitivi estivi.
Coperti d’estate, copertoni d’inverno: uno dei chioschetti nella piazza
Non solo: anche il tratto di strada tra via Lupinacci e via Serafini non verrà più chiuso al traffico. Sarà un caso, proprio «come peraltro era previsto dal progetto afferente all’opera principale “Sistema di collegamento metropolitano tra Cosenza – Rende e Università della Calabria”». Il progetto del Parco, invece, da tempo ufficialmente svincolato da quello della metro, prevedeva l’esatto opposto: l’interdizione di quel tratto del viale alle auto.
Uno dei tram che avrebbero dovuto percorrere viale Mancini
Due indizi, secondo Agatha Christie, sono una coincidenza: ne arriverà un terzo? Troppo malizioso, forse, credere di trovarlo nel punto in cui la stessa determina ribadisce che a dicembre 2021 Comune e Regione hanno «concordemente stabilito di lasciare inalterata l’area di ingombro del parco per come configurata dal progetto esecutivo della Regione Calabria, così da evitare ogni possibile interferenza, anche di lieve entità, tra il realizzando Parco Urbano e l’opera principale». A pensar male si fa peccato, ma…
Metro o non metro, gli interventi nel parco sul viale
Nel frattempo, ecco alcuni degli altri interventi nella variante. I principali riguardano le aree verdi e quelle per lo sport. Ci sono ulteriori siepi e «percorsi pavimentati, lateralmente e tra i campi da gioco, con un grigliato salvaprato: un sistema di piastre modulari componibili che rendono calpestabile il prato, mantenendolo compatto e folto». Tutte cose che rendono necessari anche altri impianti di irrigazione per la vegetazione extra. Niente più campo da squash, poi, con alcuni degli altri campi a cambiare posizione rispetto alle origini per «un più efficiente ed equilibrato assetto distributivo tra gli spazi». Quanto allo skatepark, «la Stazione Appaltante ha proposto di effettuare delle modifiche sulla progettazione dello stesso in modo da avere una pista che potrebbe essere utilizzata anche nelle competizioni agonistiche».
Operai al lavoro vicino ai campetti
La demolizione è il destino che attende, ai piedi della Sopraelevata, «i 20 mt di pista ciclabile esistente, in quanto realizzati al di fuori sia del presente contratto d’appalto, sia del precedente contratto per la realizzazione della Metrotranvia e non integrati con il progetto esecutivo». Al loro posto ci sarà un prato. Invece «le aree cementate saranno demolite al fine di realizzare delle aree pavimentate ed una rampa pedonale per l’attraversamento della rotonda stradale».
Il laghetto artificiale su viale Mancini
Si sposteranno alcuni lampioni e arriveranno panchine nella zona dei tavoli da ping pong. In previsione anche 60 metri di ringhiera a lato della cosiddetta “area bambini”. Meglio evitare che i piccoli possano cadere nel dislivello tra il parco e la via privata che lo costeggia, nessuno ci aveva pensato prima.
Sempre per scongiurare cadute (con bagno annesso) si installerà pure un parapetto, assente dalle previsioni iniziali, in acciaio corten lungo 2/3 dei bordi del laghetto artificiale. Sul restante terzo, toccherà a una siepe proteggere gli utenti della ciclabile da tuffi indesiderati.
Luci della città
Col laghetto, però, ecco un ulteriore problema: non c’era modo di alimentare gli impianti di sollevamento dello stesso e delle fontane circostanti. Così come i 5 ulteriori pali della luce alti 12 metri da installare che dovrebbero supplire alla scarsa illuminazione della zona. O, ancora, l’impianto a LED per abbellire lo specchio d’acqua. Le ragioni? «Di natura tecnica, logistica ed amministrativa», che non hanno reso «possibile attivare una nuova fornitura».
Ancora il laghetto. A sinistra, la pista ciclabile. In fondo, gli uffici del Comune nel complesso Due Fiumi
C’entreranno qualcosa i 5 milioni di euro di bollette elettriche non pagate da Palazzo dei Bruzi tra il 2020 e il 2022, che il Comune dovrà iniziare a saldare tra pochi giorni e finire di pagare a giugno 2026? L’atto non lo precisa, fatto sta che toccherà rifornirsi di elettricità altrove rispetto alle previsioni iniziali. Nello specifico, con un collegamento sotto la sede stradale di via Baccelli tra gli impianti nella piazza e «una fornitura già attiva dell’Amministrazione Comunale e localizzata all’interno dei locali tecnici del complesso commerciale “Due Fiumi”».
Usa e getta
Ulteriori spese le dobbiamo a due classici intramontabili per Cosenza e il viale: gli sprechi e i rifiuti. Pagheremo parte dei 175mila euro della variante, ad esempio, per «rimozione, trasporto e conferimento ad impianto di recupero autorizzato, di 150 griglie metalliche in ghisa alla base delle alberature». Le abbiamo comprate e installate. Magari qualche volta, senza esagerare troppo, pure manutenute. Oggi apprendiamo che «rappresentano una limitazione ed una strozzatura per la crescita della pianta e che potrebbe, addirittura comprometterne la crescita e sopravvivenza».
Un addetto alla pulizia del viale in pausa
Sborseremo, infine, qualche altro quattrino per smaltire «macerie di calcestruzzo e bitume non imputabili alle lavorazioni del presente contratto d’appalto». Le hanno trovate gli operai scavando per realizzare il laghetto. Erano lì, forse, da quando si costruiva il viale, nella sua forma originaria, posando l’asfalto sulla spazzatura.
Alle tradizioni non si rinuncia, alla metro non si sa.
Non c’è appassionato di ciclismo che non ami il Giro d’Italia e non c‘è gommista o meccanico che non lo odi, almeno in Calabria. Da parecchio tempo, infatti, la mitica corsa a tappe organizzata dalla Rosea a queste latitudini è sinonimo, più che di sport, di bitumazione. Che – ricordiamo per i tanti calabresi che, non vedendola da anni, lo hanno dimenticato – è quella cosa con cui i Comuni ripristinano il manto stradale eliminando le innumerevoli buche che troppo spesso lo costellano.
Un garbato invito alla bitumazione rivolto al sindaco di Cosenza
Il Giro d’Italia in Calabria tra il 1929 e il 2024
Il Giro d’Italia in Calabria è passato una sessantina di volte, La prima, nel 1929, vide trionfare il grande Binda, ma all’epoca da queste parti ci si spostava percorrendo mulattiere. Nei successivi 95 anni le cose – corridori e bici a parte – non sono poi cambiate così tanto, se non per un particolare: le strade in Calabria fanno sempre schifo come allora (o quasi), tranne – appunto – quando c’è una tappa del Giro d’Italia.
In quel caso, complice il passaggio in tv delle località interessate dal tracciato, le amministrazioni locali sembrano trasformarsi nelle ben più efficienti omologhe giapponesi. Ogni buca, come per magia, si riempie in un attimo, anche quelle che erano lì da anni; l’asfalto all’improvviso sembra quello di qualche cantone svizzero. E per chi si guadagna da vivere riparando gomme e giunti sono guai.
Un gommista all’opera
Officine in festa, automobilisti e Chiesa un po’ meno
Meccanici e gommisti anche stavolta possono, però, tirare un sospiro di sollievo: niente Giro d’Italia in Calabria nel 2024. Il crollo degli affari registrato in concomitanza della tappa 2022 tra Palmi e Scalea non si ripeterà.
Non è dato sapere se siano state le due potenti lobbies o quella dei ricambi a convincere quelli della Gazzetta a non portare la corsa più a sud della Campania. Ma è probabile che in parecchie officine, con la diffusione del percorso ufficiale della prossima edizione, abbiano stappato lo champagne. Disappunto, al contrario, nel mondo della Chiesa: il mantenimento delle attuali condizioni stradali potrebbe comportare un aumento delle imprecazioni tale da permettere alla Calabria di sorpassare il Veneto nella classifica dei bestemmiatori.
Unica consolazione per tutti: la Regione eviterà figuracce a caro prezzo come nell’edizione 2020.
Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankeeTony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.
Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa
Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.
Il cinema dei pionieri
Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».
Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)
Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.
Dall’East Coast alla West Coast
È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.
Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana
Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro
Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Feardel regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore.Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.
La locandina di Out of the fog
A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.
Ventimila leghe sotto i mari
La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.
Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.
Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese
«Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».
Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.
Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson
È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».
Nove vite
Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
«Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.
Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra
Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.
Il “fotografo violinista”
E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.
Eugene e Tony Gaudio
Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».
C’era La Niña (e non solo) e cantava anche bene: tanto di cappello alla sua virata finale sull’acustico, scelta intelligente vista l’esiguità dei presenti.
C’era pure la pinta: con 5 euro potevi prenderne una di birra fresca in una Villa vecchia con quasi più bagni chimici che avventori, a pochi metri da una pleonastica distesa di forze dell’ordine intente a controllare il deserto.
Ma nemmeno la Santa Maria avrebbe potuto compiere il miracolo di riempire piazza XV marzo a Cosenza venerdì per la seconda serata del redivivo Festival delle Invasioni. Non c’era riuscita, d’altra parte, nemmeno la laica quanto magica parola capace di attrarre a tutte le latitudini masse da ogni dove: gratis.
Conferma inequivocabile che Cosenza e l’arte vivono da tempo una relazione complicata.
Polizia stradale, provinciale, municipale, Carabinieri, Finanza e ambulanza alla Villa Vecchia di Cosenza per Invasioni
Top of the flop
Il “dramma della solitudine” si era consumato già la sera prima, con una diserzione di massa epocale: meno di 30 biglietti venduti e Rendano Arena – così avevano ribattezzato l’area ai piedi della statua di Telesio per l’occasione – che, complici le temperature, ricordava più il Sahara che un concerto in piazza. Un risultato per Cosenza paragonabile in altri ambiti solo a successi come il primo viaggio del Titanic o al Mineirazo ai Mondiali brasiliani del 2014.
Così da Palazzo dei Bruzi avevano provato a mettere una pezza a poche ore dal probabile secondo, tragico, vuoto: niente più biglietto da pagare e ingresso libero come in tante edizioni del passato. Toppa tardiva e, secondo molti, peggiore del buco. Comunque di dubbia utilità: queste Invasioni a Cosenza avevano fatto storcere il naso prima ancora che cominciassero, tant’è che gli spettatori sono sì decuplicati rispetto alla sera prima, ma sempre 2-300 (poliziotti, infermieri e artisti inclusi) in tutto saranno stati i presenti nei momenti di piena.
Il Comune di Cosenza: Invadete Invasioni!
Il primo a temere il fiasco era stato, su queste stesse pagine, il consigliere comunale di Cosenza che più si era impegnato nell’organizzazione di queste Invasioni, Francesco Graziadio. Avvertiva «una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi» nei giorni scorsi e non si sbagliava. Impossibile non notarlo lì in prima fila, la birra mezza vuota, appoggiato alle transenne con sguardo sconsolato.
Attorno a lui nessun big dell’amministrazione, soltanto quei pochi cittadini che avevano risposto al disperato appello sui social del Comune di poche ore prima seguito al flop di giovedì sera: «Oggi è importante che sia la nostra città ad invadere il suo festival, riscoprendo non solo le avanguardie musicali presenti in cartellone, ma soprattutto facendo proprio un appuntamento che acquista il suo senso solo grazie alla presenza e alla partecipazione».
Francesco Graziadio ai piedi del palco durante il concerto de La Niña
Tutta colpa del biglietto?
L’appuntamento con l’acquisizione di senso al momento è rimandato al 2024, presenza e partecipazione hanno optato per altri programmi serali. In compenso, non mancherà il tempo per riflettere su una serie di errori da non ripetere in futuro.
Non tanto quello di aver chiesto di pagare un biglietto (con l’immancabile codazzo di polemiche a riguardo): a Cosenza i ticket per Invasioni non sono una novità assoluta, sebbene la stragrande maggioranza delle venti edizioni precedenti siano state interamente gratuite.
E forse nemmeno quello di aver puntato esclusivamente su nicchie musicali di indubbio valore per gli appassionati del genere, ma non certo calamite di folle oceaniche. I grandi nomi a Invasioni ci sono sempre stati, ma a Cosenza si sono esibiti anche artisti meno noti eppure capaci di attirare e conquistare lo stesso il pubblico. E quelli di quest’anno non avevano nulla da invidiare ad altri colleghi passati dal medesimo palco in precedenza.
I Ghetto Kumbè a Cosenza sul palco di Invasioni 2023
Cosenza, tu chiamale se vuoi… Invasioni (ma erano altro)
Il vero problema, probabilmente, è che le Invasioni – e non da questa edizione – sembrano sempre più solo un brand per Cosenza. Un’etichetta da appiccicare a un concertoestivo qualsiasi– che la musica sia alternativa o commerciale poco conta – convinti che solo di quello si tratti. E che basti solo quello perché vada tutto bene. Tra i pochi in piazza ieri erano in tanti a ripeterlo, un motivo ci sarà.
Non c’entra la nostalgia, è proprio lo spirito del festival a essere ormai un fantasma. Era successo con Mario Occhiuto sindaco, seppur a piazze piene, tant’è che si era affrettato a richiamare Franco Dionesalvi nell’organizzazione nel tentativo di rimediare. E si è ripetuto anche stavolta sotto Franz Caruso.
La Niña si esibisce di fronte a quattro gatti
Una volta il Festival delle Invasioni si protraeva per giorni, tra iniziative (non solo concerti) disseminate per Cosenza: l’arte, il confronto, l’incontro con culture differenti invadevano, appunto, la città, la contaminavano in positivo. Ora l’obiettivo – rispettabile, certo, ma non altrettanto nobile – pare sempre ridursi al far lavorare i commercianti attorno alla piazza e al dire «da noi ha suonato il celeberrimo Tizio o Caio» perché fa figo.
Invasioni sui social? Brescia – Cosenza
E poi c’è la questione della promozione. I nomi in cartellone sono usciti a pochi giorni dall’inizio del festival. Impossibile trovare al concerto qualcuno che confermasse di aver visto un manifesto sull’evento da qualche parte. Perfino sul palco non c’era il logo del Festival delle Invasioni, quasi quella serata a Cosenza vecchia non avesse nulla a che fare con la kermesse.
Nemmeno una mezza foto su Instagram, sebbene servisse forse a poco, dato il numero di followers della pagina del Festival: 383. Poco più attiva la pagina Facebook/Meta: una decina di post dal 28 giugno a questo articolo, non esattamente un bombardamento mediatico. Twitter non pervenuto. Quanto a Tik Tok, se cerchi qualcosa su “Invasioni” e “Cosenza” trovi i video dei bresciani inferociti sul prato del Rigamonti dopo il goal salvezza del rossoblu Meroni ai playout di serie B.
Son soddisfazioni, ma basteranno per lanciare un festival che inizia un mese e mezzo dopo quella partita?
Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.
L’ingresso del ristorante madrileno
Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.
Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?
«Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».
In che senso?
«Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.
Il Big Ben, simbolo di Londra
Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».
Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?
«Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.
L’Hotel Four Season di Milano
La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».
Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!
«Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».
Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?
«Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».
Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri
Finita l’estate sei tornato a Roma…
«Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».
E perché sei andato via da lì?
«Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».
Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…
«Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».
E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?
«Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»
Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?
«Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.
Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay
Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».
Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?
«Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».
Manfredi Bosco e Carlo Cracco
In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?
«Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».
Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante…
«Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».
Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid
Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?
«Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»
Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?
«Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale. Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».
Vitalizi in Calabria: quelli che guadagnano meglio
In Calabria c’è stato un tempo in cui Pino Gentile era il Maradona delle preferenze, oggi invece è il Cristiano Ronaldo dei vitalizi. Avrà anche dovuto cedere la poltrona in aula Fortugno alla figlia Katya, ma, forte delle numerose legislature trascorse tra Consiglio e Giunta, è ancora quello che incassa di più tra i nostri ex governanti per i servizi resi alla collettività. I suoi anni alla Regione valgono un assegno da circa 8.500 euro al mese. Come lui non c’è nessuno, gli altri meglio retribuiti non arrivano nemmeno a quota 8.000.
Si ferma a circa 7.600, per esempio, Mario Pirillo, che troverà comunque modo di mettere insieme il pranzo e la cena con l’altro assegno da ex europarlamentare. Problema (e soluzione) simile per Mario Oliverio, ex governatore e consigliere che si ferma a soli 3.500 euro al mese: può contare comunque anche sulla pensione da deputato e quella maturata per il suo lavoro a scuola, seppur in perenne aspettativa per impegni politici.
Di soldi ne vanno più del doppio, circa 7.100 euro, a Mimmo Tallini. Poca cosa, certo, al cospetto delle lezioni sul fascismo che il politico catanzarese ha generosamente regalato dai banchi dell’Aula Fortugno negli anni. Parrebbe quasi un premio alla cultura se non fosse che Mimmo Talarico, pur autoiscrivendosi al club dei principali pensatori del ‘900, ogni 30 giorni ha diritto a soli 2.700 euro. Al suo omonimo Francesco, preso da ben altri pensieri ultimamente, ne vanno invece 6.200.
La conclusione del curriculum presentato da Mimmo Talarico alle ultime elezioni regionali
Inchieste, danni erariali e vitalizi in Calabria
A volte capita che gli assegni in questione – o, almeno, parte della cifra – tornino automaticamente nelle casse di chi paga. È il caso di quanti, durante il loro mandato, si sono macchiati di danno erariale nei confronti della Regione Calabria, con conseguenze per i loro vitalizi. Solo per citare qualche nome finito in Rimborsopoli: Antonio Rappoccio e Giulio Serra, oppureLuigi Fedele.
Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria
Non sono gli unici percettori di vitalizio ad avere o aver avuto problemi con la giustizia italiana. Nell’elenco dei beneficiari, ad esempio, ci sono alcuni dei protagonisti della recente inchiesta che ha travolto Crotone e provincia. Vincenzo Sculco in primis, con i suoi 3.200 euro mensili, ma anche un habitué (suo malgrado) delle indagini sui politici calabresi come Nicola Adamo, che di euro ne prende quasi 6.900 ogni 30 giorni. O chi, come Peppe Scopelliti, è passato dalle patrie galere dopo gli anni nei palazzi del potere: per l’ex governatore ci sono circa 4.700 euro al mese dallo scorso ottobre. Sono pressappoco 1.500 in meno rispetto al suo predecessore Agazio Loiero, ma comunque più dei 3.900 toccati in sorte a un altro ex presidente della Regione, Giuseppe Chiaravalloti.
In famiglia
Gino e Michele nel resto d’Italia sono i due autori comici tra gli ideatori di Drive-In e Zelig; in Calabria i Trematerra, padre e figlio. A casa loro di euro ne arrivano circa 8.500 al mese, 4.100 al papà e il resto al pargolo. A casa Morrone invece, nell’attesa che Luca raggiunga l’età della pensione (e la relativa indennità) ci si accontenta dell’assegno da 6.400 euro mensili per il babbo Ennio. Nel remoto caso di difficoltà economiche da affrontare, c’è comunque la nuora Luciana De Francesco a poter dare una mano con lo stipendio da consigliera in aula Fortugno.
Luigi Incarnato, a sua volta, si ritrova a lavorare gratis come braccio destro – per gli oppositori più maliziosi: alter ego – del sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ma per fortuna ci sono i vitalizi della Regione Calabria. Nel suo caso, corrispondono a circa 3.800 euro mensili che gli consentono di entrare nel supermercato a fare la spesa senza eccessivi patemi.
Menzione d’onore finale per Baldo Esposito: il suo, sarà che non si chiama più vitalizio tecnicamente, sembra quasi il moribondo reddito di cittadinanza. L’assegno, data la brevità dei suoi trascorsi in aula, si ferma infatti a poco meno di 1.000 euro mensili. Prendono come minimo il doppio di lui perfino i beneficiari degli assegni di reversibilità per gli ex consiglieri deceduti. Sono una cinquantina e costano in totale alla Regione poco meno di 120mila euro ogni mese.
Qual è l’animale (uomo escluso) che uccide più persone ogni anno sul nostro pianeta? Non pensate a feroci predatori: è la zanzara. Il primato era ancora più indiscusso fino a qualche decennio fa, quando la malaria imperversava anche dalle nostre parti. Non c’era ancora il DDT, le aree paludose da bonificare erano tante e per curare le febbri trasmesse dall’insetto il chinino non era abbastanza per tutti.
Nell’Italia post unitaria, a cavallo tra ‘800 e ‘900, la poverissima e incolta Calabria era tra le regioni più colpite. Così si decise di curare in una colonia la malaria con… l’aria della Sila. E centinaia di bambini si salvarono. Succedeva traCamigliatello e Moccone, in un posto splendido e abbandonato da anni: la Colonia Silana Federici.
La nascita del sanatorio
Siamo a fine giugno del 1910 quando la Colonia apre i battenti, il terreno – tre ettari – su cui sorge l’ha donato il Comune di Cosenza, che aggiunge anche le spese per arredi e trasferimento, personale sanitario e un contributo annuo di 3.000 lire. Nonostante gli aiuti, però, le cose non sono semplicissime all’inizio. Come ricostruisce Francesca Canino in un articolo di qualche anno fa, la farmacia più vicina dista 20 km, mancano illuminazione e riscaldamento e per avere l’acqua tocca rifornirsi alle fontanelle disseminate nella zona. Ma quelli che hanno dato vita alla colonia non demordono e le cose presto migliorano. Proprio a Federici negli anni ’40 arriveranno i primi termosifoni di tutta la Sila.
A mandare avanti le cose ci sono cosentini come il dottor Domenico Migliori, cui per un periodo sarà intitolata la Colonia Silana Federici, ma un ruolo di assoluto rilievo lo hanno i piemontesi: Bartolomeo Gosio, luminare della lotta alla malaria, che ha voluto quel centro in Sila e, soprattutto, Virginia Angiola Borrino e Giuseppina Le Maire.
Borrino è una pediatra, prima donna titolare di una cattedra universitaria di Medicina, che Gosio ha voluto sull’altopiano calabro per occuparsi dei bambini malarici messi peggio. Le Maire, invece, un’educatrice e attivista che collaborerà a lungo con Umberto Zanotti Bianco per il riscatto del Sud Italia e della Calabria. Giuseppina, fonderà anni dopo anche una scuola rurale a Cetraro, e a Camigliatello insegnerà ai bambini le elementari regole d’igiene a loro ignote.
La malaria in Calabria e la colonia in Sila
In Sila, insomma, la malaria si sconfigge anche attraverso l’educazione dei più piccoli e, di riflesso, dei loro familiari. Fino a quegli anni, infatti, i principali rimedi contro le febbri si richiamavano alla medicina tradizionale, se non alla magia. Barbieri e magare praticavano salassi, ai malati si davano da bere infusi di vario genere. Qualcuno beveva gusci di noce tritati e bolliti nel vino con limone e bergamotto. Altri mettevano fichi d’India vicino al focolare o facevano pipì al mattino sui cucuzzielli acriesti maturi, pensando di trasferire alle piante la malattia. A Castrovillari i devoti si rivolgevano così alla Madonna d’Itria in cambio della guarigione: «Madonna mia ‘i l’Itria, chi stai ‘nganna a’sta jumara fammi passà ‘sta freva ‘i quartana c’u jurnu tuju non vugghiu mangia’ panu».
I metodi della Colonia Silana Federici non tardarono a mostrarsi più efficaci. E la struttura crebbe di anno in anno, grazie alle donazioni che arrivarono. Ci furono contributi dalla regina Elena in persona, così come dalla Croce Rossa, dalla Fondazione Carnegie, dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, dall’Associazione Donne di Cremona, dalla marchesa Lucifero di Crotone. Il marchese Berlingieri offrì un padiglione, un altro lo regalò l’ingegnere Barrese. Le Maire donò una campana e la contessa Adorno fece erigere una chiesetta in legno per ricordare suo figlio Enrico, aviatore morto nel corso di un’esercitazione.
Malaria o tubercolosi, si va in colonia in Sila
La Colonia Silana Federici nel frattempo era diventata un ente morale e il fascismo aveva sostituito l’intestazione a Domenico Migliori con una al quadrunviro Michele Bianchi. I bambini guarirono a centinaia e si andò avanti così anche dopo la guerra, quando nella struttura iniziarono a occuparsi anche di tubercolosi. La malaria, in Sila come nel resto d’Italia, era ormai praticamente scomparsa. Salvo rari casi isolati di viaggiatori di ritorno da qualche paese africano, l’abbiamo debellata definitivamente nel 1970.
Sarà forse per questo che proprio in quel decennio a Camigliatello la struttura ha iniziato lentamente a andare in malora. Per un po’ ci ha tenuto corsi di formazione la Regione, poi si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero proprietario della struttura. Vandali e scorrere del tempo nel frattempo hanno fatto il loro mestiere, con la colonia sempre più malridotta.
Sindaci hanno dato vita a petizioni online, giornalisti e associazioni hanno sollevato periodicamente il problema del deterioramento progressivo degli immobili. Che hanno un valore notevole, non solo dal punto di vista storico e sociale. Per anni però non si è mosso nulla.
Una nuova vita, ma senza fretta
Poi, a inizio 2021, sulle pagine web dell’Ente Parco e di vari quotidiani locali arriva l’annuncio: il ministero dell’Ambiente ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero della struttura. Che è del Comune di Spezzano, ma ad occuparsene, sarà, appunto il Parco. Nuova vita per l’ex colonia? Le premesse non mancherebbero. A Federici, si legge nei comunicati di due anni e mezzo fa, dovrebbe nascere «una Scuola di formazione della montagna, destinata alla specializzazione degli operatori, ma pure allo studio e al monitoraggio del bosco, al fine di completare l’Inventario Forestale del Parco Nazionale della Sila». Il tutto condito da efficientamento energetico, foresteria, un centro cultura.
«Siamo pronti – assicurò il Parco per l’occasione – a iniziare questa sfida bellissima, l’ufficio tecnico è già al lavoro sulla progettazione». Trenta mesi dopo, però, a Federici non c’è traccia di cantieri, se non una rete di protezione che col recupero della struttura non ha nulla a che vedere. I soldi, ci hanno assicurato dal Parco, non sono a rischio, il finanziamento è confermato ma è arrivato solo di recente. La progettazione va invece per le lunghe. Il ritardo di Roma nell’erogazione dei fondi ha impedito di fare granché finora. E le parole di gennaio 2021? «Annunci», appunto, ci confessano con un certo candore. Sperando che i fatti li seguano presto.
Tra i monti Appalachi esiste un posto che prende il nome da una parola in uso tra le tribù locali di nativi americani: Monongah. In italiano si traduce lupo. Quella stessa parola, seppure un po’ storpiata, si usa anche da un’altra parte nel mondo, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. In Calabria, a San Giovanni in Fiore, sui monti della Sila, terra di lupi. Lì però vuol dire un’altra cosa. Indica un luogo oscuro e pericoloso e se qualcuno ti augura di jire a minonga (o mironga), beh, non è che ti voglia troppo bene in quel momento.
Ma cosa c’è dietro questa specie di miracolo linguistico e una traduzione così dissonante? Centinaia di morti – decine di calabresi – nel più grande disastro mai accaduto in una miniera statunitense. Una storia chiusa in un cassetto il più in fretta possibile e rimasta lì dentro per oltre un secolo.
La folla radunatasi all’ingresso della miniera 8 dopo l’esplosione
Monongah, un silenzio lungo oltre un secolo
Perché l’Italia si ricordasse dell’ecatombe dei suoi emigrati tra le viscere di quel paesino in West Virginia, infatti, c’è stato parecchio da attendere: 106 anni. Era il 2003, giusto vent’anni fa, e fu l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in viaggio istituzionale negli States a interrompere il lunghissimo silenzio dello Stato su Monongah e i suoi caduti. Dal 6 dicembre del 1907 a quel momento non lo aveva fatto praticamente nessuno. Nonostante in quel lontano giorno siano morte oltre 360 persone, la metà delle quali emigrati dal Bel Paese. E nonostante quel bilancio sia la migliore delle ipotesi, perché nelle stime più pessimistiche – e, purtroppo, più attendibili – il numero delle vittime sale. Sempre. Anche fino ad arrivare quasi a 1.000.
Uomini, ragazzi, bambini. Bruciati in pochi istanti. Spappolati dalle rocce. Coriandoli di carne neri come il carbone che li ha uccisi, sparsi da un’esplosione a centinaia di metri di distanza.
Un villaggio di vedove e orfani
Ai primi del ‘900 l’America cresce e ha un incessante bisogno di carbone per le sue industrie rampanti. Monongah è una company town, una baraccopoli simil villaggio piena di minatori, tirata su nei pressi di qualche ricco giacimento dalle grandi compagnie d’estrazione, in questo caso la Fairmont Coil Company. Ci vivono circa tremila persone, ma dopo quel 6 dicembre in paese ci saranno circa 250 vedove e un migliaio di orfani.
Gli immigrati sono tanti, polacchi e italiani soprattutto. Sono arrivati fin lì per una paga che può arrivare fino a 75 cents al giorno per dieci ore di duro lavoro, soldi che poi spendono nei negozi di proprietà della compagnia stessa.
Gli abitanti di Monongah in disperata attesa di buone notizie sui loro cari
Canarini in miniera
Quei 3/4 di dollaro sembrano pochi spiccioli, ma per chi arriva da un posto come la Calabria di inizio ‘900 rappresentano un tesoro. Equivalgono a 3,75 lire al giorno, che sono quasi il decuplo della paga media nel Meridione per un bracciante agricolo. Uno stagionale in Calabria può svolgere al massimo 100 giorni di lavoro, guadagnando così 40 lire. In miniera non ci sono limiti di questo genere e se il fisico te lo consente in dodici mesi americani arrivi ad accumulare l’equivalente di vent’anni di guadagni italiani.
Devi sgobbare come un mulo, però, e la tua vita è in mano a… un canarino. Per capire se l’ossigeno nei cunicoli è sufficiente i minatori si portano appresso una gabbietta con dentro quell’uccellino: quando il canarino ha problemi a respirare bisogna scappare. E farlo in fretta.
Il grisù
Non è tanto questione di non asfissiare, il pericolo numero uno nelle miniere di carbone si chiama grisù. Niente a che vedere col draghetto dei cartoni animati: è una gas inodore, più leggero dell’aria, che si forma nelle gallerie minerarie depositandosi in sacche sui soffitti. Quando la percentuale di grisù nell’aria supera il 2% il gas diventa infiammabile, dal 5,3% in poi esplosivo. Se poi va oltre il 15% e non è ancora esploso conduce all’asfissia, che paradossalmente, diventa l’ultimo dei problemi.
Anche una piccola scintilla se c’è del grisù di troppo in giro può provocare una catastrofe. È per questo che nelle miniere sono in funzione enormi impianti di ventilazione, tengono la quantità di gas sotto controllo. Ma il 5 dicembre 1907 a Monongah è un giorno di riposo, si festeggia in anticipo la festa di San Nicola, in miniera non va nessuno. E – stando ad alcune testimonianze – qualcuno per risparmiare ha pensato di tenere quegli impianti a mezzo servizio.
I resti dell’impianto di ventilazione dopo l’esplosione della miniera 8
Di chi è la colpa?
Sarà quella la causa dell’esplosione il giorno dopo? Oppure, come sostiene la Fairmont Coil Company, una scintilla provocata da un errore umano di qualche sprovveduto? Nella miniera di Monongah si va avanti col cosiddetto buddy sistem: ogni minatore può portare con sé un aiutante, spesso il figlio o comunque qualcuno più giovane, per dargli una mano, poi divideranno la paga di giornata. E i buddies non conoscono tutti i segreti del mestiere, né si annotano nel registro delle presenze. Nelle viscere di Monongah con ogni probabilità ci sono centinaia di corpi senza nome. E quasi 120 anni dopo una risposta ufficiale al perché di quella tragedia ancora non c’è.
I soccorritori fanno una pausa all’esterno della galleria durante le ricerche degli eventuali sopravvissuti
Terremoto a Monongah
Di certo c’è solo che quando le gallerie 6 e 8 esplodono la terra trema fino a oltre 10 km di distanza e appare subito evidente che per chi era là sotto le speranze sono infinitesimali. I minatori non di turno cominciano a scavare alla ricerca dei compagni, altri ne arrivano da miniere nelle vicinanze. Non è semplice, l’ossigeno è poco pure per le squadre di soccorritori che si alternano rischiando la pelle a propria volta. Ma si va avanti per giorni, con donne e bambini intorno ai pozzi densi di fumo nero a piangere e sperare.
Nel cimitero cattolico del villaggio si scava per far posto agli italiani e ai polacchi morti nelle miniere saltate in aria
Dalle gallerie sono riusciti a scappare solo in 4. Tutti gli altri escono cadaveri. A centinaia, spesso irriconoscibili perché bruciati o mutilati. Lungo la strada principale di Monongah si accumulano le bare, occuperanno un’intera collina nel cimitero cattolico del Calvario. È il destino dei più fortunati, i resti di tanti loro compagni di sventura finiranno semplicemente in una fossa comune.
Centinaia di vittime, decine i calabresi
Tre mesi dopo la tragedia, con le indagini ancora in corso, una corrispondenza da Washington parlerà di 956 vittime, 596 in più dei 361 riportati nelle stime ufficiali. Analisi successive calcoleranno circa 500 decessi complessivi nell’esplosione delle due miniere. Gli italiani estratti dalle gallerie di Monongah risultano 171, il tributo più pesante lo paga il Molise con i suoi 87 morti. E poi c’è la Calabria. Nelle miniere 6 e 8 hanno perso la vita decine di nostri corregionali. I comuni che ebbero delle vittime furono:
Caccuri: Francesco Loria;
Castrovillari: Francesco Abate, Carlo Abate, Giuseppe Abate;
San Nicola dell’Alto: Domenico Guerra, Carmine La Rosa, Francesco La Rosa, Michele Rizzo;
Strongoli: Francesco Todaro.
Un Natale di lacrime a San Giovanni in Fiore
Storia a sé fa San Giovanni in Fiore, capitale della Sila ma anche dell’emigrazione calabrese di quegli anni. Non ci fu Natale nel 1907 a Monongah, scrisse un giornale del West Virginia, ma non ci fu nemmeno nel paese dell’abate Gioacchino. C’erano 32 compaesani morti in miniera in America da piangere:
Francesco Abbruzzino
Francesco Antonio Basile
Giovanni Basile
Salvatore Basile
Saverio Basile
Giuseppe Belcastro
Serafino Belcastro
Antonio Bitonti
Pasquale Bitonti
Rosario Bitonti
Giovanni Bonacci
Giovanni Bonasso
Giuseppe Covello
Luigi De Marco
Antonio De Vito
Giuseppe Ferrari
Antonio Foglia
Antonio Gallo
Raffaele Giramonte
Francesco Antonio Guarascio
Francesco Saverio Iaconis
Giovanni Iaconis
Pasquale Lavigna
Givanbattista Leonetti
Salvatore Lopez
Salvatore Marra
Giovanni Oliverio
Antonio Olivito
Domenico Perri
Tommaso Perri
Francesco Saverio Pignanelli
Pietro Provenzale
Luigi Scalise
Antonio Silletta
Francesco Urso
Gennaro Urso
Antonio Veglia
Leonardo Veltri
Leonardo Giuseppe Veltri
I risarcimenti
La Fairmont fece di tutto per non assumersi la responsabilità del disastro e le autorità statunitensi si lavarono le mani altrettanto volentieri dell’intera questione dopo poco tempo. Alcuni governi europei che avevano perso loro cittadini a Monongah chiesero risarcimenti, ma non l’Italia.
Una raccolta fondi per le vittime servì a racimolare in tutto 150mila dollari, poco più di un decimo messo dalla compagnia d’estrazione. Gran parte di quei soldi non si sa che fine abbia fatto. Qualche vedova ha ricevuto 200 dollari; qualche figlio rimasto orfano prima di compiere 16 anni pochi dollari in meno; il resto chi lo sa.
Padre Briggs e il ricordo di Monongah
Di Monongah nessuno ha più parlato per quasi un secolo. Solo il prete del paese, padre Everett Francis Briggs, ha provato a tener vita la memoria dei minatori morti negli USA col supporto della rivista Gente d’Italia. È grazie a lui e al viaggio di Ciampi che quell’ecatombe di nostri connazionali è tornata alla ribalta anche da noi, seppur con 106 anni di ritardo.
A Monongah oggi c’è un ponte intitolato a padre Briggs
Negli anni seguenti a San Giovanni in Fiore hanno realizzato una scultura in ricordo dei propri caduti e stretto un gemellaggio con Clarksburg, la città attualmente più vicina al luogo del disastro. La Regione Molise ha donato una campana e la Calabria ha dato una mano alla realizzazione di un monumento tra le poche case che restano oggi a Monongah. Stando a Wikipedia il comune di Falerna ha contribuito con 150 euro.
Il monumento all’Eroina di Monongah realizzato nel 2007 col contributo della Regione Calabria
Il monumento in questione è dedicato all’Eroina di Monongah e, nonostante la targa non lo riporti, è probabile che ad ispirarlo sia stata Caterina Davia. Secondo un articolo di qualche anno fa su Little Italy, altra rivista per italoamericani, era la vedova di un minatore scomparso nel disastro. Suo marito è rimasto lì sotto per sempre e lei ogni giorno è andata all’ingresso della miniera a raccogliere un pugno di terra per poi depositarlo davanti casa. Per ventinove anni di fila.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.