Negli uffici della multinazionale statunitense Kellog’s a Vimercate, la pausa pranzo produce una ricaduta positiva sull’economia di un piccolo coltivatore calabrese. Nella sede milanese di Banca Intesa il coffee break è a base di spremuta d’arance di Corigliano. I dipendenti della Microsoft a Natale al posto del panettone hanno ricevuto ceste di limoni femminelli prodotti nella piana di Sibari. Marchi come Tiffany, Colgate, Sony, Iliad hanno adottato orti digitali sostenendo la rete di produttori che fanno fatica a rimanere sui mercati, pressati dai costi dell’intermediazione della filiera agroalimentare.
Con Biorfarm si può scegliere un albero e adottarlo
Agricoltura etica e sostenibile
Una rivoluzione dal basso, portata avanti da contadini che vogliono continuare a coltivare la terra, si battono per avere un guadagno più equo e allo stesso tempo per garantire la qualità e il contatto diretto con i consumatori. Alla guida di questa impresa c’è un giovane calabrese, Osvaldo De Falco, 35 anni, fondatore di Biorfarm, la prima azienda agricola diffusa e condivisa attraverso una piattaforma web con numeri da record: 108 agricoltori e aziende agricole coinvolti in tutta Italia, 55mila utenti della community che adottano alberi, partnership importantissime.
Biorfarm ha scelto la strada dell’agricoltura etica e sostenibile
Addio Milano: il ritorno a Corigliano-Rossano
Quella di De Falco è una storia di radici e innovazione. È andato via dalla Calabria per studiare, nel 2014 lavora a Milano nella multinazionale Siemens come consulente finanziario, dopo la laurea in economia e una breve esperienza a New York. Quell’anno suo padre, che ha una piccola azienda di arance e clementine a Corigliano Calabro (che adesso è Corigliano-Rossano), è in difficoltà, rischia di chiudere. Così lui torna per dargli una mano. «Come la maggior parte dei piccoli produttori locali – racconta – mio padre era schiacciato da un sistema che economicamente non è più sostenibile: costretto a vendere per pochi centesimi la frutta che viene poi messa sul mercato a prezzi lievitati. Tutto questo a discapito dei consumatori e della qualità, perché il prodotto viene trasportato diverse volte e stoccato anche per mesi».
Dal produttore al consumatore
È a questo punto che De Falco unisce alla sua passione per la terra le competenze acquisite. Ha un’intuizione: aggregare i piccoli produttori e metterli in contatto diretto con i consumatori, eliminando ogni intermediazione. Così, nel 2015 insieme al suo socio Giuseppe Cannavale, fonda Biorfarm che raccoglie le adesioni degli agricoltori e cresce rapidamente grazie anche alle fortunate operazioni di crowdfunding nel 2018 e nel 2021.
L’idea è semplice: chiunque, in qualsiasi parte del mondo, può diventare un agricoltore digitale, adottare un albero o un frutteto, seguire le fasi della crescita delle piante e interagire con gli agricoltori, per poi ricevere a casa i prodotti biologici, oppure andare a raccoglierli.
«Diamo un supporto concreto alla produzione locale – spiega De Falco – perché paghiamo l’agricoltore fino a tre volte di più rispetto alla filiera tradizionale. Il progetto coinvolge i privati, ma soprattutto le aziende. Abbiamo partnership che adottano alberi e frutteti, sono azioni di green marketing che oggi sono molto importanti per trasmettere credibilità e affidabilità. L’adozione dura un anno e poi può essere rinnovata». Ci sono aziende che decidono di destinare la frutta ai dipendenti, di regalarla ai clienti o anche di non ritirarla, per sostenere – senza nulla in cambio – agricoltori che si trovano in un momento di difficoltà. Un’importante casa editrice ha appena acquistato 17mila alberi per un progetto sull’educazione ambientale che coinvolgerà tutte le scuole d’Italia.
Gli agricoltori sono pagati fino a tre volte di più
L’agricoltura dei piccoli produttori
Chi adotta un albero o un frutteto segue tutto il processo, dalla piantagione alla raccolta, attraverso il “Diario di campagna”, una bacheca con contenuti multimediali postati dall’agricoltore per mostrare ciò che fa quotidianamente e come e dove crescono i prodotti. Entro massimo due giorni dalla raccolta la frutta viene spedita. «Promuoviamo un’agricoltura sostenibile – dice De Falco -supportando i piccoli agricoltori bio che ogni anno rischiano di scomparire e sono preziosi per la tutela del territorio e per salvaguardare la biodiversità ed evitare lo spopolamento delle campagne».
Dal Trentino alla Sicilia, ci sono i volti e le storie di decine di produttori che fanno parte di questa grande azienda agricola digitale. Dalle mele ai vigneti, dai mandarini ai mirtilli, la community è un’esplosione di colori e profumi, da un angolo all’altro dello Stivale. Ma c’è anche la frutta che non t’aspetti. E arriva soprattutto dalla Calabria, dove si producono giuggiole, feijoa, passion fruit, fichi secchi, kiwi, lime, ribes, zafferano. Non solo uliveti e agrumeti: la biodiversità, parola-jolly da utilizzare nei convegni sull’agricoltura da sempre cari alla politica regionale.
Uno degli imperativi di Biorfarm è salvaguardare la biodiversità
Senza finanziamenti o sovvenzioni
«Mai avuto a che fare con la politica o con gli ambiti istituzionali – precisa De Falco – non chiediamo finanziamenti o sovvenzioni. Biorfarm è apolitica» – sorride. Ma quando si parla dell’agricoltura calabrese, il tono si fa serio: «Abbiamo due grandi problemi: il primo è la mancanza di infrastrutture, il secondo è la mentalità. Perché non si comprende quanto sia importante lavorare insieme, fare rete. Fino ad ora gli agricoltori non sono stati in grado di farlo, ma ho 35 anni e sono ottimista. Le nuove generazioni riusciranno certamente a fare di meglio».
Il nuovo concorrente di Glovo e Deliveroo non utilizza i rider, consegna a domicilio piatti internazionali low cost e – soprattutto – parla cosentino. Si chiama Underkitchened è una start up tecnologica a valore sociale. Vende on line piatti di cucina globale. Per ora solo in Italia ma, potenzialmente, ai clienti di tutto il mondo. L’idea è di quattro imprenditori che hanno già all’attivo sperimentazioni nel mondo del gusto e che dopo aver analizzato le criticità del mercato hanno messo su un progetto partito il primo marzo.
Underkitchen non si serve di riders per consegnare le pietanze nelle case
Leonardo Stancati e Carlo Schiavone, rispettivamente Cto e Ceo della società ed entrambi della città dei Bruzi, hanno voluto subito legare il progetto al territorio calabrese. La sede operativa si trova nel cuore di Cosenza, a due passi da corso Mazzini. È qui il “cervello” del progetto, il terminale degli accessi al sito, degli ordini e delle spedizioni, in costante collegamento con le cucine. Ma c’è di più: presto potrebbero essere i futuri chef cosentini e calabresi a realizzare i piatti.
L’idea originaria del progetto, infatti, prevedeva il coinvolgimento dell’istituto alberghiero “Mancini” con cui dall’inizio erano state condivise le linee guida. Poi la pandemia ha bruscamente interrotto la collaborazione, ma dirigente e docenti dell’istituto restano interessati a portarla avanti.
Intanto, a un mese dal suo esordio, Underkitchen ha già raggiunto numeri molto soddisfacenti e, nonostante il respiro internazionale, una grande fetta di utenti è proprio cosentina.
Underkitchen: il mondo a casa tua
È un sito, ma anche un’app, che permette di ordinare specialità internazionali preparate dalle mani di cuochi specializzati e le spedisce a casa. In pratica funziona così: scegli un piatto tra quelli proposti – dal guacamole di Cancun al Jerk chicken giamaicano, dalle polpette in salsa teriyaki giapponesi al gulasch ungherese – scorrendo un menu che va da un capo all’altro del mondo, attraverso i piatti più iconici della gastronomia internazionale.
Ordini, paghi ed entro 24 ore arriverà a casa tua un box termico con tutto il necessario (in confezioni sottovuoto) per mettere in tavola in pochi minuti, scaldandolo nel microonde o in acqua bollente, il piatto fumante. I prezzi sono bassi, dai 16 ai 35 euro per pacchetti da cinque monoporzioni, ma ci sono anche i last minute per ulteriori sconti. Il valore aggiunto lo dà il fatto che le ricette si preparano nelle cucine delle scuole alberghiere italiane.
Così c’è una ricaduta positiva sulla formazione degli studenti, che acquisiscono competenze professionali specifiche da sfruttare nel mondo del lavoro. A portare a termine il progetto pilota sono stati i laboratori di cucina di Multicenter School di Pozzuoli, che è anche tra i soci fondatori.
Cibo sostenibile e a basso costo
«Siamo molto contenti perché la risposta è stata molto positiva: in questo primo mese hanno ordinato 3500 piatti», spiega Stancati. «Abbiamo avuto da parte dei nostri clienti un riscontro molto positivo e i numeri premiano la qualità delle preparazioni e della materia prima». Merito anche di una grafica accattivante del sito che riproduce il city board, il tabellone dell’aeroporto che indica tutte le destinazioni: in questo caso sono le città di provenienza delle ricette.
Polpette in salsa teriyaki
Il rimando al viaggio è costante. Underkitchen vuole trasmettere insieme al piatto la narrazione dei luoghi attraverso la musica, il cinema, la storia, l’iconografia che li rende riconoscibili e desiderabili. «A premiare è anche una politica di prezzi contenuti, i piatti costano un terzo rispetto ai nostri concorrenti – spiega Stancati – ed arrivano a casa tua, entro 24 ore dall’ordine. Il nostro è un modello di food delivery sostenibile, sociale ed inclusivo, che taglia fuori le multinazionali del settore. Infatti non sfrutta i riders, ma utilizza operatori di logistica internazionale per portare a domicilio prodotti abbattuti freschissimi. E c’è di più: difendiamo la cultura gastronomica mondiale, non alimentiamo la diffusione del cibo spazzatura. Anzi, promuoviamo piatti che rappresentano il patrimonio di un paese e la sua cultura».
Underkitchen: da Cosenza alle grandi città
L’obiettivo adesso è ampliare la rete delle scuole alberghiere, a partire proprio dalla Calabria. Nella sede cosentina arrivano ordinazioni da Milano, Genova, Roma, Bologna, Napoli, Torino. Dopo l’assaggio i consumatori ricevono l’invito a inviare recensioni vocali pubblicate poi sul sito, molto più gradite delle tradizionali foto dei piatti che rischiano di restituirne la bellezza ma non l’emozione.
Nei laboratori della scuola alberghiera di Pozzuoli gli studenti realizzano i piatti nelle ore di alternanza scuola-lavoro, con la supervisione degli chef esperti di cucina internazionale. «Non forniamo piatti-pronti, che comportano costi di produzione e logistica che finiscono per ricadere in termini di costi sull’utente finale – aggiunge il Cto – ma un prodotto preparato con materie prime di alta qualità e messo sottovuoto (mantiene così intatte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali di un prodotto fresco), abbattuto artigianalmente, e consegnato in un packaging rigenerabile in cinque minuti».
Il cibo passa dall’abbattitore prima di essere confezionato e spedito
Presto anche all’estero
Stancati e Schiavone, insieme ai soci Giorgio Scarselli (titolare dello storico ristorante Il bikini di Vico Equense) e Armando Aruta, adesso puntano all’Europa, ma seguendo una rotta diversa: il progetto Underkitchenporterà la cucina italiana oltralpe, contando sempre sulle professionalità presenti negli istituti alberghieri.
“Cheap flights, great food” (Voli economici, grande cibo, ndr) è il refrain pubblicitario. E quest’attesa di un nuovo viaggio fa già venire un certo languorino.
Nina sta saltando con i piedi scalzi nella pozzanghera. Mael guarda sul fondo alla ricerca di pesci e creature misteriose che, talvolta, emergono dal fango. Il fatto che stia per piovere e che oggi ci sia un vento freddissimo non sembra preoccupare né i bambini né gli adulti. Siamo nel mondo delle Terre di Castalia, due curve dopo il vecchio tracciato ferroviario di contrada Santo Stefano a Rende e questo giardino è una scuola.
La scuola libertaria senza banchi e campanella
Senza banchi e senza campanelle, perché è una scuola parentale a ispirazione libertaria. Ce ne sono solo tre in Calabria, le altre due si trovano a Catanzaro (Cascina Montessori) e a San Nicola Arcella (Scuola di Pace). Si tratta di una alternativa alla scuola pubblica, una forma di istruzione riconosciuta dal Miur che segue il programma ministeriale, ma si svolge al di fuori delle strutture istituzionali. Gli studenti – guidati dai loro educatori – ogni anno sostengono un esame di idoneità per il passaggio all’anno successivo.
Imparare tutti insieme: dal più piccolo al più grande
Imparo quando voglio
Perché “scuola libertaria”? Perché qui sono i bambini e le bambine a scegliere, individualmente e in gruppo, come, quando, che cosa, dove e con chi imparare. In una scuola libertaria i verbi più usati sono: Ti va di farlo? Ti piacerebbe farlo? Non ci sono voti ma solo complimenti e incoraggiamenti.
Le Terre di Catalisa sono popolate da 21 bambini tra i 3 e i 9 anni che frequentano la scuola dell’infanzia e la primaria, ad occuparsi di loro 8 educatori che preferiscono definirsi “accompagnatori”. Gli obiettivi di apprendimento della scuola libertaria – che si mantiene con i contributi e le donazioni dei genitori attraverso una tariffa mensile definita “sociale” – coincidono con quelli indicati nei programmi ministeriali, ma vengono perseguiti attraverso attività diverse e certamente senza l’urgenza di stabilire tempi e scadenze.
Educazione libertaria
Libertà – chiarisce subito Emilio Ruffolo, coordinatore scientifico della scuola – non significa mancanza di regole o di una pianificazione del percorso. «La progettazione educativa è pensata intorno agli interessi dei bambini e nel rispetto di ciò che gli piace fare. In una scuola all’aperto viene stimolata la libera esplorazione e la scoperta, non ci sono attività strutturate e men che meno obbligatorie». Si impara attraverso il gioco e la curiosità, «gli obiettivi si raggiungono incrociando l’interesse e il piacere». Terre di Castalia è una piccola comunità in cui le attività, sempre orientate dal curricolo ministeriale, sono co-progettate da un’assemblea quotidiana in cui i bambini sono protagonisti.
«Non è una scuola dei campioni – sorride Emilio Ruffolo – e non garantiamo neanche che alla fine del percorso i nostri allievi sappiano più degli altri che frequentano le scuole pubbliche. Il nostro impegno è quello di piantare i semi del pluralismo, della democrazia, della libertà di esprimersi e di crescere liberi da ogni stereotipo. Nella nostra scuola, ad esempio, i maschietti si tingono le unghie, se lo desiderano».
Attività all’aperto anche in pieno inverno nelle Terre di Castalia
«Vedrai che passerà in fretta»
«Ho le manine congelate!». Anna ci interrompe e mostra i palmi arrossati. «Questo succede perché hai giocato nell’acqua e oggi fa molto freddo». Emilio non si scompone. «Adesso, se ti va, potresti andare dentro, cambiare i calzini e il pantalone sporchi di fango e stare un po’ al caldo. Vedrai che passerà in fretta». Alle Terre di Castalia il contatto con il fango, la terra, la pioggia è un’esperienza quotidiana. «I bambini così sperimentano con le mani, entrano in contatto con la natura, sviluppano la propria creatività, arricchiscono il proprio sistema immunitario, vivono esperienze indimenticabili» – spiega Ruffolo. Per fortuna ci sono scaffali pieni di vestititi puliti, rigorosamente di seconda mano, a disposizione di tutti.
L’educazione libertaria promuove le peculiarità di ogni bambino, «piuttosto che costruire un metodo in cui gli viene detto cosa fare, cosa non fare, in che modo e con quanta dedizione apprendere – continua Ruffolo – mettiamo gli scolari nelle condizioni di sperimentare quella libertà, quello spirito critico che poi ci aspettiamo che abbiano alla fine del percorso educativo».
Il momento dell’assemblea nelle Terre di Castalia
Scuola libertaria: i bambini votano
È quasi ora della merenda, sul terrazzo arriva una cesta di frutta. Nerone scodinzola alla ricerca di coccole e di qualcuno che gli lanci un bastone per correre a riprenderlo. Intanto, dentro, è tutto pronto per il momento dell’assemblea. Sulla lavagna i punti all’ordine del giorno: si vota ad alzata di mano per l’elezione del bibliotecario, ci sono tre candidati. L’assemblea stabilisce poi chi parteciperà ai laboratori di pittura, teatro, danza e capannismo previsti per la settimana. Infine, il gruppo dei più piccoli porta all’attenzione di tutti una questione da risolvere: i bambini più grandi ultimamente dicono troppe parolacce. L’idea fondante è quella di condividere le regole, il gruppo si fa carico delle esigenze dei singolo, si sostiene vicendevolmente.
Arrampicarsi sugli alberi e costruire capanne
«Nella scuola a ispirazione libertaria – prosegue ancora Ruffolo – si pensa al bambino e alla bambina come persone autorevoli, competenti rispetto alla loro vita ed è per questo che si mette ognuno di loro nelle condizioni di esercitare la propria responsabilità sulle questioni che riguardano la quotidianità».
Nelle stesse ore in cui loro coetanei stanno seduti al banco, gli allievi delle Terre di Castaliasi arrampicano su un albero, costruiscono una capanna, ascoltano una storia sdraiati sull’erba. «Costruiamo delle attività finalizzate a ottenere i livelli di apprendimento richiesti dal curricolo – prosegue il referente scientifico della scuola – ma attraverso una pluralità di metodologie, in modo da riuscire ad aderire ai diversi modi di apprendere degli scolari, ai loro stili cognitivi».
Il sogno di ogni bambino: costruire una capanna sull’albero
Una scuola che non divide i bambini per età
Qualche giorno fa i bambini si erano messi in testa di costruire un forno solare, i più grandi hanno illustrato le fasi del progetto ai più piccoli, alla fine hanno festeggiato insieme il risultato del lavoro di squadra.
«Nel gruppo gli interessi si socializzano» – spiega Luana Florio, coordinatrice educativa delle Terre di Castalia. «Il nostro progetto sceglie di non dividere i bambini per età ma di avere una pluriclasse. La suddivisione per età nelle classi sostiene l’idea che ci sia un’età precisa per determinati apprendimenti. Un’idea superata. La programmazione strutturata – continua – serve più agli insegnanti e alla scuola, non risponde alle domande degli allievi, offre risposte preconfezionate che sono uguali per tutti. La suddivisione per età limita la possibilità che una persona più competente aiuti quella meno competente. Che il grande aiuti il più piccolo in matematica, che il meno competente guardi le persone più grandi di lui e ne sia in qualche modo ispirato».
È ora di andare. Le nuvole sono scomparse, i bambini sono tutti dentro per il laboratorio di teatro. In giardino, disseminati, i segni di un’altra giornata di giochi e scoperte. Gli stivali di gomma abbandonati vicino alla pozzanghera, i piccoli abiti sporchi di fango stesi ad asciugare. La bandiera che sventola sulla casa costruita sull’albero. Nel silenzio della campagna Nerone, il bidello di questa scuola, scodinzola e mi segue fino al cancello, vuole accertarsi che venga chiuso bene.
Cinque paia di pantofoline colorate sistemate all’ingresso. I riscaldamenti accesi già da qualche ora. In cucina il profumo buono di una ciambella appena sfornata. Comincia così, molto presto, la giornata di lavoro di Erminia: madre single, due figli appena adolescenti, professione tagesmutter. Letteralmente “mamma di giorno”, ma la definizione non chiarisce il complesso mosaico di compiti e competenze di queste professioniste riconosciute dal Ministero dello Sviluppo economico.
Bambini giocano con i colori
Oltre gli asili pubblici e privati
Si tratta di educatrici di nido domiciliare formate e le loro case ospitano un massimo di cinque bambini in contemporanea, un’alternativa agli asili pubblici e privati che ha il vantaggio di offrire un’ambiente domestico e una cura familiare, tempi e spazi organizzati in base alle esigenze e ai bisogni dei genitori con i quali si concordano orari e tariffe.
Alle 9 il primo papà suona al campanello e a stretto giro arrivano gli altri bimbi che frequentano questa casa: il più piccolo ha 11 mesi, la più grande due anni e mezzo. Appena entra, ogni bambino sa esattamente cosa fare e lo fa in autonomia: togliere le scarpe, lavarsi le mani, il gioco libero nella sala in attesa che arrivino gli altri.
Pedagogia domestica
Ogni giornata, seguendo i ritmi di quella che sarebbe una routine in famiglia, prevede delle attività da fare insieme: lavare, impastare, cucinare, pulire. «È la pedagogia della domesticità» – spiega Erminia Greco, “zia Erminia” per i suoi piccoli utenti, che è coordinatrice gestionale del servizio Tagesmutter Domus della cooperativa “La Terra”. «Il nostro motto è: proporre, non imporre. Puntiamo alla crescita dell’autostima di ogni bambina e di ogni bambino. Preparare i biscotti o le polpette, lavare i panni, dipingere: i bambini sperimentano tutto in prima persona. Se li lasci fare e non fai le cose al posto loro, si sentiranno capaci e soddisfatti. Aiutiamo anche i genitori a portare avanti questa filosofia, attraverso incontri e seminari con psicologi e pediatri, in maniera che ci sia una continuità educativa tra la casa della tagesmutter e la loro casa».
Coccole e pazienza
I bambini hanno età diverse, il più piccolo viene coccolato dai più grandi che lo aiutano a scegliere i giochi o a sfilare il giubbino. «In questa maniera i bambini si responsabilizzano, fanno comunità e consolidano il loro legame. Ogni attività è pensata in base all’età, perché ogni bambino ha un piano pedagogico a sé». In uno spazio domestico sicuro e senza pericoli, i bambini sbriciolano, esplorano, colorano, si sporcano in libertà.
Impastare è una delle attività principali praticate dai bambini
«Impastare è un gioco che li diverte – continua Erminia – ma è allo stesso tempo un’azione educativa: impastando potenziamo la motricità fine e questo, ad esempio, li aiuterà a impugnare meglio la penna quando saranno a scuola». Facile dedurre che la prima dote della tagesmutter sia la pazienza, indispensabile per affrontare da sola cinque bambini con temperamenti e bisogni molto diversi. «La pazienza, certo. Ma anche tanta fantasia. Quando la situazione precipita perché magari i bimbi piangono insieme o litigano tra loro, ho la mia strategia – sorride Erminia – comincio a cantare a squarciagola: questo di solito funziona».
La Calabria esempio virtuoso in Italia
All’albo nazionale delle tagesmutter In tempi di Covid molte famiglie hanno cercato una soluzione alternativa alle strutture pubbliche ma i micronidi delle tagesmutter sono ancora molto pochi al sud, questo nonostante la Calabria sia un esempio virtuoso in Italia. La Regione è infatti l’unica ad aver disciplinato le tagesmutter all’interno del registro delle professioni atipiche. Domus è l’unica rete di professioniste iscritte all’albo in Calabria (l’albo conta in totale 184 professioniste su tutto il territorio nazionale), anche se – è bene precisarlo – non c’è l’obbligo di appartenere ad un’associazione o ad un ente e in tutta Italia sono numerose le “battitrici libere”. Non in Calabria, dove i nidi domiciliari sono ancora troppo pochi.
La vendemmia dei bambini
«Al momento tra Cosenza e Rende ce ne sono solo due e ospitano in tutto dieci bambini. Abbiamo purtroppo dovuto rifiutare le richieste di oltre venti famiglie» spiega Erminia. E in questo vuoto di offerta c’è il rischio di lasciare spazio a chi si improvvisa solo perché intravede la possibilità di guadagno. «Le tagesmutter devono avere una formazione specifica come educatrici di nido domiciliare – avverte Erminia Greco – . Noi della rete Domus siamo iscritte ad un albo professionale a cui si accede solo dopo corsi che prevedono, tra l’altro, lezioni di primo soccorso pediatrico».
Si tratta di «una professione che offre grandi soddisfazioni ma anche flessibilità, perché i turni si organizzano in base al tempo che si può mettere a disposizione e soprattutto offre alle donne che non possono permettersi alternative, la possibilità di stare a casa e continuare a prendersi cura anche dei propri figli. E intanto garantirsi un guadagno, che varia ovviamente in base al numero dei bambini e alla tariffa oraria concordata con le famiglie».
Tagesmutter? In principio fu il Trentino
La storia dei nidi domiciliari e delle tagesmutter in Italia è relativamente recente. Lo sviluppo delle politiche per l’infanzia ha inizio con la legge 176 del 1991 con la quale il Governo italiano ha recepito la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1989. Il processo di ratifica è poi proseguito con la legge 285/97 (Legge Turco) che costituisce il primo grande strumento di cambiamento nel sistema delle politiche sociali italiane, anche per merito della copertura finanziaria che l’ha sostenuta.
Grazie ai finanziamenti previsti dalla Legge Turco, è iniziata la sperimentazione del modello tagesmutter e si sono sviluppate le prime reti di nidi famiglia che – a partire dal Trentino Alto Adige – hanno poi coinvolto le altre regioni. Anche dal punto di vista normativo non c’è una linea unitaria. Il nido famiglia è generalmente un servizio educativo domiciliare, in Italia regolamentato a livello regionale. Quasi tutte le Regioni hanno adottato una normativa ad hoc che stabilisce le modalità attraverso le quali è possibile aprire un nido famiglia, un nido domiciliare o diventare assistente domiciliare. È dunque possibile lavorare come tagesmutter in autonomia, non è necessario dunque far parte ad un’associazione o una cooperativa.
Libertà e creatività sono due cardini degli asili gestiti dalla tagesmutter
Sold out: la domanda supera l’offerta
«Appartenere a una rete ed essere iscritte all’albo nazionale – chiarisce Erminia – è sicuramente una garanzia. Il nostro è un lavoro molto delicato, è assolutamente controproducente improvvisarsi». Il prossimo corso di formazione della rete Domus partirà tra poco: a febbraio ci saranno i seminari formativi per poter poi accedere alla selezione del corso, il 2 e il 3 marzo.
Sulla pagina Facebook “I nidi delle mamme” curata da Margherita Fortebraccio, coordinatrice pedagogica e presidente dell’associazione, si possono trovare tutti gli aggiornamenti in merito ai corsi. I requisiti minimi: dai 21 anni di età, una casa a norma (soprattutto per quanto riguarda impianti e caldaie) e spazi adeguati (si calcola che servano quattro metri quadri a bambino). «Ci piacerebbe diventare più numerose – conclude Erminia – perché a differenza di altri settori nel nostro c’è il paradosso che l’offerta è inferiore alla domanda. E c’è un vantaggio ulteriore, quello di lavorare a casa, prendendosi cura dei bambini del nido e contemporaneamente dei propri figli».
È sabato pomeriggio. Ci sono due ragazze abbracciate davanti all’obiettivo, sedute su un Sì Piaggio di colore blu. Fanno con le dita il segno della vittoria e profumano di Lulù de Cacharel. Sullo sfondo s’intravede Cosenza. Palazzo degli Uffici circondato dal traffico, le insegne verticali di negozi e agenzie di viaggi, gli autobus arancioni dell’Atac che fanno la gimcana tra le auto in doppia fila. Micidiale, questo è un tuffo negli anni ’90. È l’alfabeto minimo di una ragazza cresciuta negli anni Novanta.
A come aquile
Sono le “A” della scultura di Baccelli (che in realtà sono colombe nelle intenzioni dell’artista), simbolo di piazza Kennedy, la piazza di due generazioni di giovani cosentini. Il sabato sera era una bolgia, si parlava ininterrottamente, un brusio senza sosta, la vita che pulsava, seduti sui motorini parcheggiati, sui gradini, a terra, sul muretto. Uno scenario che i ragazzi di oggi non riuscirebbero neanche ad immaginare, senza schermi accesi e teste chinate, notifiche e storie.
Solo chiacchiere, ennesime sigarette, accendini Zippo che passavano da una mano all’altra. Qualcuno, il solito, che faceva la colletta: «Oh, ma soldi spicci?». Ognuno al suo posto perché ogni pezzetto della piazza segnava l’appartenenza a una tribù: il gruppo della farmacia Chetry, a via Mario Mari gli ultrà fuori e dentro le sale giochi (Matriarca, Number One e Romano), poi quelli della concessionaria e – i più grandi – sotto il monumento.
C’era addirittura chi aveva come riferimento una scritta sul muro, mentre per qualche tempo la piazza ebbe anche un bar eponimo. La piazza si divideva tra “borghesi” col Fay o col Barbour comprato da Mazzocca e “proletari”, quelli del centro sociale, con le borse colorate di Shiva Shop e gli anfibi militari (così originali che leggenda vuole che fossero stati sfilati ai soldati morti in guerra) presi ai mercatini di Lungo Crati.
B come bar
Non c’erano gli apericena, c’era la pizzetta doppia della pizzeria Romana con i suoi sgabelli altissimi e il rumore delle lame sulle teglie di alluminio. Il sabato era obbligatoria una puntatina al bar Mazzini o al Carbone (dietro il bancone c’era il mitico “zio Tonino”) per un cicchetto, una nuvoletta o un Angelo azzurro. La domenica mattina invece il bar era simbolo del vassoio di paste, ad esempio i cannoli alla crema di Cribari a piazza Loreto o lo zuccotto, poco più avanti, da Pedatella.
C come corso Mazzini
A Cosenza i ragazzi degli anni ’90 il sabato pomeriggio si davano appuntamento a piazza Fera, «sotto la E di farmacia Serra», alla fermata del Costabile. Hip hop e swatch al polso sincronizzati con il grande orologio sul display digitale della Cassa di Risparmio. Si ritrovavano e sciamavano verso corso Mazzini intasato dalle auto, altro che isola pedonale e museo all’aperto. Lungo il marciapiedi si respirava l’odore dei tubi di scappamento e le moquette dei negozi erano impregnate di fumo di sigarette.
La cantante cosentina Flavia Fortunato
Davanti alla Banca Nazionale del Lavoro si sentiva sempre la musica melodica calabrese di un cantante di strada che si esibiva al microfono in cambio di qualche moneta. E Cintuzzo, con la sua cassetta di legno per l’elemosina, andava a rimorchio: «Mintaci ancuna cosa per Sant’Antonio». La scala mobile dei grandi Magazzini Bertucci (dove ora c’è H&M) scendeva e saliva. Sopra tra giacche e maglioni a collo alto, fattura tutta italiana, e sotto tra i mille profumi e le sfumature rosa delle ciprie di Guerlaine. In filodiffusione il jingle cantato dalla cosentina (fresca di Sanremo) Flavia Fortunato: «Bertucci, è tutta un’altra co-sa».
D come domenica
La domenica mattina l’appuntamento era fuori o dentro le chiese, poi il pranzo con i nonni, naturalmente lo stadio quando il Cosenza giocava in casa (era il decennio della ritrovata serie B), infine per digerire si andava a ballare all’Akropolis. La discoteca apriva di pomeriggio e fuori c’era la fila di avventori con in una mano i tagliandi for lady. Nell’altra – occultata sotto i giubbotti – la bottiglia di Gin. Mentre il remix di “Please don’t go” faceva ballare mezza Italia, il 20 febbraio del 1993 i Double You arrivavano scortati all’Akropolis: fu il delirio.
E come epoche
La toponomastica racconta anche la storia di una città e negli anni Novanta se qualcuno vi avesse chiesto di via Misasi o piazza Bilotti, rispondere sarebbe stato impossibile. Ma siccome ci si affeziona al suono delle parole, per noi ragazzi degli anni ’90 piazza Fera, corso d’Italia e via Roma non hanno mai cambiato nome.
F come filone
Quando si “tirava filone” si prendeva l’autobus numero 1, Campagnano-Prefettura-Campagnano, per poi infilarsi furtivamente nel Parco Robinson. Nei recinti c’erano ancora i pavoni e i cavalli. L’alternativa era la Villa vecchia, con i cornetti di pasta sfoglia tra i più buoni della città, a guardare le partite dei “filonari” del Telesio. Gli studenti del liceo classico, dentro, erano invece segregati, la ricreazione la facevano chiusi nel cortile sorvegliati dai bidelli. Che invidia per quelli del Fermi. Essendo nel centro città, a ricreazione avevano un quarto d’ora di libera uscita e – si narrava – potevano andare dove volevano.
G come giri
Non c’erano monopattini elettrici ma si potevano noleggiare gli scooter da Ottorino Gualtieri: un’ora di adrenalina e di trasgressione per tutti quelli a cui i genitori non compravano il motorino, magari alla Piaggio, la concessionaria si trovava dietro piazza Europa.
H come hamburger
I cugini dei cugini ci facevano sognare raccontandoci della vita degli universitari a Roma o Bologna, di Mc Donald e concertoni. Noi gustavamo il nostro panino “America” al Free Pub (hamburger, pomodoro, ketchup e senape) e ballavamo sotto il palco dell’Auditorium del Telesio con i 99 Posse (dicembre ‘93) e Casino Royale (giugno ‘95). A metà anni 90, in piena renaissance del centro storico, la movida si sposta su corso Telesio tra Irish Pub e Beat. Una parte della città fino a quel momento off limit diventa luogo di aggregazione e nasce il mito della città europea.
I come Incontri
Uno squillo: richiamami. Due squilli: sto uscendo di casa. I ragazzi degli anni ’90 facevano la fila alla cabina telefonica. Per le chiamate più lunghe c’era la Sip in zona Autostazione dove – la parola privacy non esisteva – si garantiva più intimità e con una tessera da 5mila lire la telefonata, se urbana, era interminabile. S’incontravano alla fermata dell’autobus o nelle villette. Quella di via Roma dove adesso c’è il parco inclusivo della Terra di Piero era un rettangolo di terra ed erba, non illuminato e mal frequentato, con un enorme serpente in cui ci si poteva nascondere per fumare di nascosto una sigaretta o scambiarsi baci furtivi.
L come Luna Park
Quando i costruttori non avevano ancora colto le sue potenzialità, via Panebianco era il posto giusto per il luna park, così grande (si installava nell’area che oggi ospita un hotel) che c’erano persino le montagne russe. Il massimo era riuscire ad avere i biglietti gratuiti che il negozio di scarpe Big Ben, tra gli sponsor, faceva avere ai clienti più fedeli.
Il tagadà, un must per i frequentatori dei luna park degli anni Ottanta e Novanta
M come mercatini
I più famosi erano quelli di Lungo Crati, dove potevi trovare di tutto. Per la bigiotteria e gli orologi c’erano le bancarelle intorno alla fontana di Giugno. Il leader indiscusso per fama e anzianità, fino alla fine degli anni ’90, è stato Ciccio u cravattaru. La novità arrivò a bordo di grandi pullman fatiscenti provenienti da lontano, con quello che veniva definito “il mercatino dei polacchi”, itinerante, ricco di oggetti giunti clandestinamente con la caduta dei regimi: preziosi memorabilia del Partito Comunista, orologi da tasca, binocoli, stampe e tagliacarte di ottone.
N come negozi
Dove adesso impera Scintille c’era Hit Shop, all’interno l’iconica scalinata con la fontana e tutte le griffe del momento, da Best Company a Versace. I jeans, rigorosamente Levi’s, si acquistavano da Corallino, con l’orlo che negli anni si accorciava sempre di più fino a lasciare il posto al risvoltino.
In un’epoca in cui i vestiti erano sempre di buona qualità abbondavano le mercerie: Pinto, Tagarelli, la Carmagnola, luoghi sovrabbondanti di bottoni e nastri, colori e profumi, in cui le nonne facevano scorta di aghi, rocchetti, uncinetti e toppe. Alla libreria Il Seme di piazza Loreto compravamo le biografie dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, spartiti e plettri, i libri di scuola da Percacciuolo a corso d’Italia. Ma la “libreria” era solo la Domus, con il suo labirinto di scaffali di legno e all’ingresso il raccoglitore dei poster più ambiti, da sfogliare.
I regali di compleanno si sceglievano da Cose Così, con il lettering bubble nella mitica nuvoletta bianca. Non c’era coppia di innamorati che non si fosse scambiato un cuore o un peluche preso qui. Due piani di gioia pura, tra lampade, specchi e le delicate fantasie Naj-Oleari replicate su borse, portafogli, cerchietti, portachiavi.
Le camerette poi, erano piene di oggetti acquistati da Famele, Chiappetta, Chiarello, Ianni: le cartolerie, luoghi del cuore di chi ha vissuto i ‘90. Felponi, accessori sportivi e attrezzatura per sciare erano da KamaSport, Alfieri e Montalto. I giocattoli più belli al Fagiolo magico su via Alimena. Le scarpe le compravamo da Spadafora, Forgione Rosso e Forgione Blu (a cui si è aggiunto Forgione Più per l’abbigliamento) ma i più arditi volevano le Cult, quelle con la punta di ferro. Il franchising Energie, a piazza Kennedy, fu tra i primi a mettere la musica a palla e a tenere le porte sempre aperte, bastava poco per ricreare, vagamente, l’atmosfera londinese.
Cult con la punta di ferro
O come offese
“Dietro le poste” era la perifrasi utilizzata per offendere o prendersi in giro, facendo riferimento alle prostitute in attesa di clienti a piazza Crispi. E da lì partiva il puttan tour dei giovani cosentini quando per strada non c’era più niente da fare. Passava dalla Villa Nuova davanti alle macchine parcheggiate con i fari accesi e si spingeva – superate le forche caudine del ponticello a S all’inizio di via XXIV Maggio – fino a via Popilia, dalla mitica “Felicetta” nella casupola che oggi ha lasciato il posto alla rotatoria a favore di discount, all’ombra del ponte di Calatrava. A quel punto i più intrepidi osavano varcare ogni confine lecito. Arrivavano a Gergeri, fino a vedere i fuochi accesi nei bidoni davanti alle baracche dove vivevano le famiglie rom in seguito trasferite nel Villaggio di via degli Stadi.
P come pizze e panini
Quando piazza Kennedy si svuotava, il sabato più classico delle comitive era al Free Pub (vai alla lettera H), con birra, panino e VideoMusic. In alternativa c’era la pizza della Luna Rossa in zona Tribunale o della Sfinge per chi si muoveva a piedi e si impossessava della città. Stella e Black Orchid su via Molinella si contendevano il popolo della notte.
Da Stella, Maurizio e i suoi fratelli sfornavano panini multistrato farcitissimi e il mitico “primavera” (mozzarella pomodoro e insalata) e si finiva a parlare per ore e ore. Il rito del sabato sera prevedeva un’altra tappa, per i più piccoli l’ultima prima di tornare a casa. La Casa del Gelato e del Frullato, «Ciao raga’», ad accoglierli il sorriso buono del titolare e il suo vocione, era un amico dei ragazzi.
Storico adesivo del Free Pub
Seduti ai tavolini si ordinava Banana split o un frullato che oggi chiameremmo frappè, ma c’era la frutta vera esposta al banco, niente polverine. Chi non era qui era alla Cornetteria di piazza dei Bruzi a scegliere tra tanti gusti la novità black and white. La pizza con i genitori o per le feste di famiglia era da Frank a Saporito, Quelli della pizza a Mendicino e Blade Runner a Castrolibero. Fuori dal centro la tappa più gettonata – magari dopo una sosta all’Ipanema per un Barone Rosso o un Angelo Azzurro – era all’Apocalisse, con le interminabili partite con le torri di legno innaffiate da pinte di birra alla spina.
Marco “Bamba” versione Punk
Tornando a Cosenza, da menzionare è la breve ma felice stagione della “Bamba” di Marco e Sonia, erano giovani e innamorati e il loro era il locale più originale del centro (via Galliano). Nei pomeriggi lenti di una città che offriva pochissimo ai ragazzi, c’erano il juke box e i giochi da tavolo e si potevano gustare tisane e piadine in stile romagnolo.
Nuovi gusti per una generazione pronta a sperimentare anche nel cibo e che ha poi scoperto l’esistenza della soia solo quando su via Alimena è comparsa l’insegna rossa del ristorante cinese, con le sue tavole rotonde su cui, portata dopo portata, ci si ritrovava a fine cena satolli e solo un fondino di grappa alla rosa salvava.
Q come quaglie
Il soggetto della scultura commissionata a Baccelli agli inizi degli anni ’70 per piazza Kennedy (il luogo rievocava l’impegno pacifista del leader americano) sono le colombe, da cui il nome dell’opera. Ma nella vulgata gli uccelli sono sempre stati indicati come quaglie, forse a causa dell’eccessiva stilizzazione operata dall’artista. O per sminuirne il valore.
R come radio
Il decennio 1990-2000 si è aperto con l’occupazione del cinema Italia e con la fondazione di Radio Ciroma e poi del centro sociale Gramna. Tutto in pochi mesi. La radio era la colonna sonora dei pomeriggi degli adolescenti. Lo stereo sintonizzato sulle stazioni locali: Radio Cosenza Nord, Radio Sound, Radio Queen, in attesa del momento juke-box, quello in cui si poteva richiedere un brano. Il numero di telefono? Quello di Radio Sound, grazie a un fortunato jingle. L’avevamo sempre in testa: «La musica che vuoi ascoltala con noi…7-3-0-8-4, uh!» (il prefisso divenne obbligatorio in seguito). Iguana Disco Shop, Orfeo e Piro Dischi erano le tappe irrinunciabili in un’epoca in cui la musica si comprava e vinili, cd e musicassette erano pane quotidiano.
Francesco “u dutture” Febbraio a Radio Ciroma con Oreste Scalzone
S come stampe
Le foto si stampavano, si attaccavano sul diario, sui muri della camera, si raccoglievano nei portafotografie. Raf Caputo, Centro foto meridionale, Restivo erano alcuni dei punti in cui consegnare i rullini da 12, 24 e 36 foto. Dopo qualche giorno la busta Kodak era pronta, con il suo carico di emozione e curiosità e l’odore inconfondibile dei negativi.
Lo storico fotografo cosentino Raf Caputo, scomparso pochi anni fa
T come Totonno lo squalo
“A Juventus è morta!” gridava spalancando la bocca. La giacca lisa, la mano tesa per chiedere i soldi spicci per un panino. È morto a Corigliano nel 2006 ma è stato per tanti anni una maschera (sdentata) della città. E oggi continua a vivere nella memoria dei cosentini: il suo volto, qualche anno fa, è stato impresso su un murales – purtroppo danneggiato dal tempo – realizzato dal Collettivo Fx sulle pareti del centro sociale Rialzo.
Piazza Loreto, il Generale nella sua tipica posa
Totonno u squalo (foto Benedetta Caira)
Corso Mazzini, Alberto e la sua immancabile sigaretta tra le mani (foto Ercole Scorza)
Insieme a lui restano nei nostri cuori anche il Generale (il soprannome dovuto alla sua giacca militare costellata di medaglie) col suo braccio destro alzato nel saluto (solo immaginato) al Duce e Alberto, presenza fissa su corso Mazzini, la sigaretta accesa sempre incollata alle labbra e la voglia di lasciarsi andare e ballare, ballare.
U come The Usual Suspect
I Soliti sospetti (1995), il film amatissimo – è ancora un cult – eppure in quel decennio oscurato da almeno altri due titoli forse più generazionali come Pulp fiction (1994) e Trainspotting (1996) poteva regalare emozioni nelle case dei ragazzi dei Novanta: una volta visti al cinema (niente multisale) si andava di Vhs. Dopo scelte che potevano durare ore davanti alle pareti piene di custodie da consultare per la lettura delle trame, le videocassette si noleggiavano da Only One a corso d’Italia (vedi lettera E). O, più tardi, da Blockbuster a via Panebianco, antro magico che ebbe tra i meriti quello di farci scoprire i gelati Haagen-Dasz.
V come veglioni
Le feste più “in” erano al Garden Club e allo Sporting Club. Luoghi eletti anche per i veglioni di Capodanno insieme al Cinema Garden e al Timer, la sala ricevimenti che si trovava sulla strada per Sant’Agostino e aveva imbroccato la strada fruttuosa delle feste a inviti. Boccoli, molto velluto, calze velatissime, le ragazze degli anni ’90 arrivavano all’appuntamento solo dopo essere state dal parrucchiere e con un outfit impeccabile. Peccato, erano i tempi in cui si poteva fumare anche nei locali e si arrivava alla fine della festa senza scarpe e completamente sfatte. Sì, esattamente come succede oggi.
Z come Zorro
Il gelato? Almeno tre opzioni tutte da provare: lo storico Zorro, bar Mary e Dante Gelo a Rende. Quanto di più distante dalle mousse pannose e burrose dei nostri giorni, che forse hanno bisogno di dolcezze surrogate.
Dopo la colazione con tre biscotti della sua marca preferita e un bicchiere di latte riempito fino all’orlo, Lorenzo vorrebbe andare al cinema. Mentre suo fratello si veste per non arrivare tardi a scuola, lui rimane in pigiama sul divano a guardare cartoni animati di cui conosce a memoria ogni battuta. I suoi coetanei sono in classe e lui riempie quel tempo vuoto di richieste bizzarre, domande difficilissime e pensieri solitari, alcuni lo fanno sorridere altri lo immalinconiscono fino a farlo piangere. Lorenzo è un ragazzo autistico, di quelli che lo guardi e dici «ma sembra normale!» in una società in cui l’etichetta deve sempre accompagnare un giudizio. Lorenzo è un normalissimo ragazzo autistico ormai maggiorenne.
Lorenzo era un genio della matematica
A lui, nel pomeriggio, piace andare in giro. Sarebbe bello se lo facesse con i ragazzi della sua età, ma non ha amici. Soltanto suo nonno vuole uscire con lui e nonostante l’età e gli acciacchi vanno su e giù insieme, a guardare i treni che arrivano alla stazione o a leggere una per una e poi daccapo tutte le offerte esposte all’ingresso del supermercato. Lorenzo era un genio in matematica. Alle scuole elementari davanti alla porta della sua aula si formava sempre un capannello di curiosi che voleva assistere alle sue performance: risolveva le espressioni algebriche a mente, rimaneva immobile, osservava quei numeri scritti sulla lavagna e poi diceva: «50. Fa 50!». Ed era esatto, e tutti applaudivano e lui si tappava le orecchie perché Lorenzo odia il rumore degli applausi.
Un superlativo Dustin Hoffman interpreta un autistico nel film “Rain man”
Un ragazzone che trascorre tante ore da solo
Poi la matematica è scivolata via, insieme alla passione per la scrittura, per la lettura delle storie, alla meticolosità nel disegno, all’amore per il pianoforte. Era un bambino pieno di talento, adesso è un ragazzone che trascorre tante, troppe ore da solo e che a scuola non ci va quasi più. Perché? Perché non è facile comunicare con lui se non si è ha ben chiaro il suo “funzionamento”, perché è cresciuto e intorno a lui sono cresciuti i limiti e le barriere mentali.
A partire dall’asilo ha cambiato un insegnante di sostegno ogni anno, ha provato a fare equitazione, nuoto, a unirsi a gruppi di preghiera, di artigianato, di trekking, non c’è nulla che i suoi genitori non abbiano tentato per regalargli una vita sociale ma non è servito e oggi, sulla soglia dell’età adulta, a tenere compagnia a Lorenzo – oltre ai suoi familiari – ci sono solo educatori a pagamento e qualche ora di svago in un centro diurno per persone con disabilità.
Le mille sfumature dell’autismo
La vita di Lorenzo è come un vestito che si potrebbe incollare così com’è al volto di molti altri ragazzi autistici, perché cambiando scenario e città la situazione rimane simile. Solitudine e interminabili giornate da strutturare, famiglie sfasciate, madri e padri esausti che hanno dovuto mettere da parte tutto, spesso anche il lavoro, per dedicarsi ai loro figli. L’autismo include moltissime sfumature, ci sono persone non verbali e persone molto loquaci, ma è comune la difficoltà nelle relazioni e l’assenza quasi totale di supporto alle famiglie, con l’adolescenza e l’età adulta tutto diventa esponenzialmente più complicato.
La felicità di stare insieme agli altri
«Ha mai visto un ragazzo autistico che va a mangiare una pizza con gli amici?». Angela Villani, presidente dell’associazione “Il volo delle farfalle” di Reggio Calabria evita giri di parole e va dritta al punto. «I nostri figli crescono senza la gioia di condividere qualcosa con i loro coetanei. La mancanza di socialità è un grande vuoto nella loro vita. Noi genitori facciamo il possibile, chi può spende molti soldi per permettergli di fare sport o altre attività, ma c’è qualcosa che nessuno di noi può comprare: la felicità di stare insieme agli altri». E gli interrogativi di un genitore sono lame affilatissime che inchiodano la politica e le amministrazioni, a partire da quelle locali.
Servono più figure specializzate
«Tutte le vite sono uguali? E allora perché i nostri figli devono rimanere isolati? Questa è la peggiore delle discriminazioni». C’è una soluzione? «La politica regionale deve investire sul capitale umano, deve farsi interprete dei bisogni di chi non ha voce. I ragazzi autistici desiderano stare con gli altri, ma hanno certamente bisogno di “mediatori” che li aiutino a rapportarsi nella maniera corretta, per questo c’è bisogno in tutti gli ambienti sociali di figure specializzate che creino la base per costruire i rapporti».
Il futuro di un figlio
Una prospettiva che per un attimo illumina lo sguardo, ma l’ottimismo è un lampo negli occhi di questi genitori. «Come vedo il futuro di mio figlio? Non riesco a vederlo – sospira Villani -. Dobbiamo lottare per il diritto alle cure, abbiamo appena vinto una battaglia per avere il rimborso dei soldi per le terapie. Siamo ancora a questo punto, come potrei riuscire a vedere oltre?». E invece guardare oltre è necessario, lo sostiene Enrico Mignolo dell’associazione “Io Autentico” di Vibo Valentia. «Per i nostri figli dobbiamo pretendere molto di più dei centri diurni, di strutture in cui fare terapia. I contesti esclusivi sono escludenti, dobbiamo invece educare i nostri contesti ad accogliere i ragazzi con autismo, solo così avremo un cambiamento reale e una prospettiva diversa e duratura».
Le attività di Io autentico prevedono forme di socializzazione legate anche al lavoro
Costretti a mettersi in gioco
Io Autentico ha avviato un progetto che mette in pratica tutto questo, si chiama “Aut Out” e coinvolge ragazzi con autismo e a sviluppo tipico che, divisi in piccoli gruppi, svolgono attività di vario tipo. Per esempio durante le feste natalizie hanno confezionato panettoni e li hanno consegnati a domicilio.
«Abbiamo buttato questi ragazzi fuori di casa – sorride Mignolo – e li abbiamo costretti a mettersi in gioco per conquistare autonomie personali e autonomie sociali che sono indispensabili per il loro futuro. Non è stato facile, lo abbiamo fatto a nostre spese, ci sono stati e ci saranno momenti complicati, ma abbiamo ottenuto grandissimi risultati. Prima venivano visti come “gli autistici”, quelli strani. Adesso abbiamo educato il contesto, lo abbiamo abituato alla nostra presenza e a non mostrarsi diffidente. Domani potremmo abituarli a vedere i nostri figli nella sala di un ristorante sparecchiare i tavoli o lavorare in altri settori in cui si possano sentire a loro agio».
Il contesto crea la disabilità
Una buona pratica da replicare, ma il primo obiettivo deve essere «un cambio di paradigma» dice Paola Giuliani, componente del comitato “Uniti per l’autismo Calabria” che racchiude tutte le associazioni di famiglie di bambini e ragazzi con autismo. «I nostri figli non devono restare chiusi in casa e l’alternativa non possono essere soltanto i centri diurni. Questi ragazzi hanno il diritto di vivere nei contesti in cui vivono i loro coetanei, di fare quello che fanno i loro coetanei, ovviamente affiancati da persone formate, educatori. Simone, mio figlio, non è un problema. Il problema semmai è il contesto che non lo accoglie e non lo include: è il contesto che crea la disabilità. Chi come me è madre di un ragazzo che ha superato i 18 anni sa che quando si oltrepassa questa tappa tutto diventa ulteriormente complicato».
Le mamme rinunciano a lavorare, a vivere
«Con un figlio adulto perdi la forza, le energie, la speranza – continua Paola Giuliani – che qualcosa possa ancora cambiare, sopraggiunge la rassegnazione. Spesso le scuole superiori non sono attrezzate e pronte, non hanno personale specializzato e allora inducono all’abbandono scolastico, ti privano di fatto del diritto allo studio. Rinunciare alla scuola significa ritrovarsi ad avere una giornata vuota e sappiamo tutti quanto è importante per le persone autistiche strutturare i tempi perché altrimenti l’ansia e la frustrazione prendono il sopravvento».
Tutto questo ha una ricaduta sulle famiglie che da sole si trovano a dover gestire ogni difficoltà. E allora? «E allora le mamme – quasi sempre loro – rinunciano a lavorare, a uscire, a vivere. L’unico appiglio è pagare un educatore che per qualche ora può darti respiro e consentirti di andare a fare la spesa o una piega dal parrucchiere. È inutile parlare del “dopo di noi”, parliamo del “durante”, parliamo di quello che si può fare per migliorare la qualità della vita dei nostri figli e quindi la nostra».
Siamo indietro culturalmente
Il territorio regionale è un deserto, conferma Alfonso Ciriaco dell’associazione “Oltre l’autismo” di Catanzaro. «Gli unici svaghi non possono essere logopedia e psicomotricità per i ragazzi autistici. Mancano le opportunità di socializzazione, ma soprattutto siamo indietro culturalmente, l’autismo è un pianeta sconosciuto e anche le amministrazioni comunali, nonostante la buona volontà, non conoscono le esigenze delle famiglie».
Certi momenti la desolazione è devastante
Bisogna sempre mettere insieme tutta la forza di cui si è capaci e continuare a lottare per garantire una qualità della vita dignitosa ai propri figli, lo sa bene Simona Laprovitera dell’associazione “Dimmi A” di Scalea. «Mio figlio Biagio ha 19 anni ed è un ragazzo molto sociale. Gli piace tanto stare insieme agli altri, ma c’è un problema: non ha coetanei con cui possa uscire e trascorrere del tempo. E quindi… io pago per garantirgli questa piccola felicità. In alcuni momenti la desolazione è devastante, noi genitori dobbiamo farci carico di tutto e augurarci di stare bene per continuare a farlo».
I palloncini blu, simbolo della giornata della consapevolezza sull’autismo
Ma lamentarsi non serve, bisogna anche essere propositivi. Pensare ad esempio di coinvolgere attività commerciali, aziende, cooperative, onlus affinché mettano a disposizione piccole opportunità di formazione e occupazione, sulla scorta di esperimenti che in altre parti d’Italia stanno funzionando, come ad esempio il progetto I Bambini delle fate (www.ibambinidellefate.it).
Valorizzare le abilità di questi ragazzi
«Biagio frequenta l’Istituto alberghiero – spiega Laprovitera – in estate dà una mano nel nostro piccolo albergo, si occupa di apparecchiare i tavoli per la colazione e per il pranzo. Piccole conquiste di autonomia che potrebbero essere un giorno la base di un’occupazione che gli consenta di vivere dignitosamente». Simona ha le idee chiare su come procedere, per suo figlio e per tutti gli altri: «Bisogna individuare le abilità di questi ragazzi e insistere su quelle per costruirci intorno un lavoro. È su questo che è necessario impegnarsi e investire. Sappiamo tutti quanto i ragazzi con autismo abbiano un’eccellente memoria, siano metodici e precisi. Questi sono punti di forza da sfruttare. Quante biblioteche ci sono, anche nelle scuole, che devono essere riordinate? Ecco si potrebbe pensare a microprogetti che coinvolgano i nostri ragazzi. Farebbero un ottimo lavoro e si sentirebbero utili e integrati».
Il cinismo della burocrazia
Sembra fattibile, ma questi genitori conoscono bene il cinismo della burocrazia che smorza ogni entusiasmo. «Chiedere è sfiancante, lottare per affermare i diritti è logorante, come biasimare quelle madri e quei padri che a un certo punto alzano le braccia, si arrendono. Ogni genitore vuole il meglio per suo figlio, a prescindere dalla personalità o dai suoi limiti. E allora perché noi dovremmo accontentarci di dar loro solo delle briciole?».
Che fine ha fatto Salutandonio? Nel suo ultimo post su Facebook, l’ex bambino fenomeno del web, masticato ed espulso dal tritacarne dei social, dopo un lungo silenzio riappare sorridente e in forma, appoggiato a un suv scintillante. «Niente è impossibile», recita la didascalia. Marco Morrone, 126mila follower gran parte dei quali impegnati a lapidarlo nei commenti, è tornato.
Gavino l’influencer
Se c’è un posto in cui la porta del successo è aperta a tutti, quello è il web. Sbirci dentro e trovi un party affollatissimo di personaggi, ma l’accento calabrese lo riconosci da lontano. «Non smetterò mai di ringraziarvi per il sogno che mi state facendo vivere». La citazione è di Gavino Piredda, 20 anni, 71mila follower su Instagram e 815mila su Tik Tok, praticamente una celebrità della rete. E così San Lucido, piccolo comune del tirreno cosentino, seimila abitanti quattro case e un forno, diventa grazie a lui il centro del mondo, perché il mondo è quello dei social network. Gavino sogna di entrare nel cast di “Amici”, balla e canta, ma l’x factor risiede forse in qualcos’altro, è quella variabile che traina i follower, che fa di un semplice video postato dalla propria cameretta o dal cortile sotto casa un trend, condiviso e virale.
Gavino Piredda
I soliti odiatori
Appena parte la “live” ovvero la condivisione di un video in diretta, è un tripudio di connessioni e poi di commenti: saluti, domande e naturalmente molte critiche, che sono quasi sempre direttamente proporzionali alla popolarità. «Le persone mi criticano senza conoscermi, si basano sul personaggio che vedono sul web, nella vita fuori dai social non è che sono diverso, ma sono un ragazzo sia serio che divertente» si racconta Gavino. Ecco, gli odiatori.
Da Serra Pedace con furore
La presilana Regina Rosycalabra
Regina.rosycalabra, spumeggiante cinquantenne di Serra Pedace, 26mila follower su Tik Tok, nei suoi video è quasi sempre impegnata a replicare alle offese che le vengono rivolte («Parla in italiano, buzzurra!», «Lavandaia» solo per citarne due), ma lei questo angolo di successo lo ha costruito proprio sulla capacità di restare impermeabile agli insulti, ai quali – nel suo accento silano che rende tutto più preciso, diretto, appuntito – risponde senza mai perdere la calma e con un saluto che è ormai il suo segno distintivo: «bongio’».
Eletto influencer più seguito di Calabria
Di tutt’altro tenore i commenti rivolti a Filippo Lombardo, reggino, 28 anni, modello con un passato da fashion blogger, eletto nel 2019 “l’influencer più seguito in Calabria”. Foto patinate, ciuffo scolpito a colpi di lacca, abiti e ambientazioni che inscenano una quotidianità fatta di lusso, viaggi, scatti “rubati” a momenti di intimità o riunioni di lavoro. La Calabria è solo uno dei tanti sfondi che incorniciano le foto e le stories, ma sul lungomare di Reggio o avvolti dal candore dei paesaggi innevati della Sila ci sono gli sprazzi più autentici della vita del fashion influencer.
Il ginecologo di Polistena
Tra le star calabresi del web c’è anche un ginecologo, è il dottor Giuseppe Lupica noto come Peppe893, 28 anni e un seguito da record: 230mila follower su Instagram e Tik Tok. Originario di Polistena, ma in forze al policlinico di Bari, nei suoi video sfoggia il camice da chirurgo e un sorriso rassicurante, utilizza i social per fare informazione su tabù e pregiudizi intorno al sesso e alla gravidanza. E sul web è diventato una star. «C’è tanta ignoranza in materia medica. – dice – Con i miei tips voglio dare indicazioni base che naturalmente non possono sostituire una visita. Ma c’è bisogno di diffondere contenuti corretti e si può fare anche via social in modo diverso dal solito. E con una figura del medico magari inconsueta, ma adatta ai tempi moderni».
Il calvo catanzarese dal cuore tenero
Da Catanzaro, Pomiro84, 453mila seguaci su Tik Tok, ha conquistato il suo pubblico facendo autoironia sulla sua testa pelata. «Ma dici a me?» è la frase tormentone con cui apre ogni video in cui spesso è in compagnia di sua figlia. Un calvo dal cuore tenero, tra una battuta e un’altra lancia messaggi condivisibili sull’importanza di accettare i propri difetti perché, dice, «nessuno è perfetto ma dobbiamo svegliarci ogni mattina orgogliosi di essere come siamo». Lo fai per i soldi? Gli chiede qualcuno durante le dirette live, «no, quello che guadagno su Tik Tok – chiarisce – lo regalo ai miei nipotini così comprano qualche giocattolo e se vogliono mi offrono una pizza».
Pomiro84
Calabria food porn
C’è chi però un piedino dentro la pubblicità ce lo mette volentieri e allora da semplice passatempo, il web può rivelarsi vantaggioso anche economicamente. L’esperto è Wladi Nigro, cosentino, un ragazzone barbuto in stile Cannavacciuolo, ottima forchetta ma soprattutto grandi doti imprenditoriali poiché ha fatto della sua passione per il cibo un brand: Calabria food porn. Partiamo dai numeri: seguito da 13.400 persone su Facebook, 39mila su Instagram e 5.200 su Instagram. Le gallerie fotografiche delle sue pagine social trasudano olio, cipolla, peperoncino, ‘nduja, crema al pistacchio, perché Wladi – un diploma all’Alberghiero e una laurea in Scienze Turistiche – ha trovato la sua personalissima “chiave” per veicolare i sapori calabresi: entra nelle cucine, fotografa, mangia, recensisce e fa venire voglia di assaggiare, comprare, visitare.
Vlad creatore di Calabria Food Porn mentra addenta un “cuddrurieddru”, il fritto cosentino della vigilia dell’Immacolata
Noemi da Vibo
Glitter, paillettes e un accento inconfondibilmente calabrese che marca le T senza contegno: Noemi Spinetti da Vibo Valentia, ha 25 anni ma è già una veterana del web. Ha 139mila follower su Tik Tok, 41mila su Instagram, è giovane, sveglia, anche simpatica. La scrittura dei suoi testi non è mai banale: così si passa dagli stereotipi sui calabresi alla promozione del territorio (Palmi, Badolato, Reggio Calabria, Tropea, Camigliatello) con qualche incursione a scopo promozionale nei ristoranti e nei locali.
Blow Dry, benvenuti al Sud
Il filone ormai collaudato delle differenze tra Nord e Sud è quello scelto da Manuel Spizzirri in arte Blow Dry che ha un canale Youtube con 149mila iscritti e 56mila seguaci su Tik Tok. Le gag hanno un impianto visto e rivisto negli ultimi tempi: la mamma del Nord contro la mamma del Sud, per esempio. Un tema che evidentemente piace al pubblico dei social, a giudicare dai like.
La Diletta Leotta di Cosenza
Nel mare magnum delle pagine dedicate al calcio, una ventata di glamour e competenza calcistica arriva da Eleonora Cristiani, la Diletta Leotta cosentina, 11mila follower su Facebook, seimila su Tik Tok e 76mila like, attraverso i social propone la sua rubrica “Oltre il 90esimo” in cui intervista a fine partita i tifosi rossoblu, raccogliendo i commenti a caldo – e ovviamente senza filtri, pure troppo – dei tifosi in uscita dallo stadio.
È calabrese, precisamente di Gioia Tauro, il Pancio nome d’arte di Andrea Panciroli, comico nato sul web, che è videomaker, autore, regista e montatore dei suoi lavori. Con numeri di tutto rispetto: la pagina Facebook conta quasi due milioni di seguaci, 629mila su Instagram, 101mila su Tik Tok: un vero fenomeno. Sesso, droga e paradossi nelle sue gag create ad arte titillando tic e manie comuni per poter essere condivise e diventare virali con l’aiuto degli hashtag.
Annibaluzzo, inventore di storie sui cessi
Una passione di famiglia quella per il web, stando alle fonti che attestano che Annibale Astio, nome d’arte Annibaluzzo, – 107 mila follower su Instagram e 7000 su Tik Tok, da Cutro in provincia di Crotone – è il cugino del Pancio. La partecipazione al programma Ciao Darwin lo ha consacrato star del web. Si definisce “comico e muratore” ma anche “inventore di storie sui cessi” che effettivamente sono spesso presenti nella scenografia dei suoi video realizzati sui cantieri.
Gioca con Martex
Ma il vero fenomeno calabrese del web non usa il dialetto e non ingurgita (o almeno non lo fa nelle dirette) cibo piccante. Sta seduto su una poltrona ergonomica e parla il linguaggio sconosciuto ai più del mondo dei videogiochi. Si chiama Simone Martello, in arte Martex, vive a Lamezia, ha 28 anni e sul web fa numeri da capogiro: ottocentomila iscritti al suo canale Youtube, 122mila follower su Instagram. Martex è un gamer, ovvero un giocatore professionista che trascorre ogni giorno diverse ore collegato e intrattiene il suo pubblico mentre supera i livelli di un videogame svelando segreti, bug e trucchi. E, visti i numeri, non è solo un passatempo ma un lavoro che può essere anche molto remunerativo.
Faccia da bravo ragazzo
Ha aperto il suo canale nel lontano 2007 quando era poco più che un bambino. La fama è arrivata con i video su Fortnite con cui spopola sul web. Nel 2018, per festeggiare i suoi 50mila iscritti, ha realizzato una live streaming di tre ore giocando on line con i suoi fan. Per intenderci, quando è ospite di eventi o fiere ha davanti la fila di chi gli chiede un autografo o una foto. Faccia da bravo ragazzo neanche troppo nerd, linguaggio misurato e mai sopra le righe, la sua forza, dice, è l’autenticità.
«Cerco sempre di lasciare un messaggio positivo a chi mi segue – ha detto in una intervista – sono cosciente di rivolgermi ad un pubblico così giovane che può essere condizionato e fuorviato facilmente». Martex parla da influencer, dall’alto dei suoi numeri, seguito e apprezzato da bambini e adulti. Ma come ogni influencer che si rispetti, le storie e le foto postate su Instagram svelano anche dettagli della sua vita privata: l’amore per il nipote e quello per la sua fidanzata a cui è legato da ben 11 anni.
Profumo di videogioco con DodoBax
Martex non è il solo influencer calabrese ad occupare un posto nell’olimpo dei gamer professionisti, accanto a lui troviamo DadoBax, nome d’arte di Corrado Cozza, 26 anni, di Rende. Il suo canale Youtube aperto nel 2012 conta 158mila iscritti (300mila visual) e su Instagram a seguirlo ci sono 12mila persone. Corrado è laureato in ingegneria informatica e ha da sempre una passione viscerale per i videogiochi che adesso si è evoluta in un lavoro, visto che collabora con importanti network. Tre gli scopi che si prefigge: arrivare a tutti, anche a chi non conosce i videogiochi, con un linguaggio facile e accessibile sia ai bambini che agli adulti; approfondire alcuni argomenti sfatando luoghi comuni che girano sul web e infine trasmettere la sua passione per i videogames. «Bisogna sentire il videogioco come se fosse un profumo – dice – come se fosse una musica. Sentirlo sulla pelle».
Ans..ia da cinema
Nasce dall’amore per le consolle anche la carriera di Antonello Santopaolo, cosentino, 27 anni, in arte Ans: oltre 12mila seguaci su Instagram. Studia da influencer e si sta specializzando nelle interviste ai doppiatori dei videogames più popolari. Occhi azzurri e capelli biondo cenere, nei suoi post mostra anche la sua passione per attori del cinema italiano come Paolo Villaggio e Ugo Tognazzi. Passato, presente e futuro che dialogano, come sempre nel web. E anche nella vita.
La fashion influencer Rossella
L’influencer della porta accanto si chiama Rossella Dattolo, vive a Rende, frequenta l’Unical e ha 49mila seguaci su Instagram e 4300 su Tik Tok. I suoi post sono una girandola di outfit griffati e, letta attraverso le stories, la sua vita assomiglia a quella di tante altre colleghe metropolitane che si fotografano negli ascensori dei grattaceli, pronte ad andare a divorarsi il mondo là fuori. Sono i dettagli – nelle foto meno costruite – che riportano al tepore di casa di una adolescente, con le sue fragilità e le sue imperfezioni. I due piani della realtà e dei suoi surrogati si alternano davanti e dietro gli schermi dei telefonini, nello sforzo – anch’esso funzionale all’accumulo di follower – di apparire autentici.
Ciao Omar
Forse ci era riuscito Omar Palermo, in arte YouTubo anche io, morto d’infarto a soli 42 anni ad agosto. Ingurgitava cibo per trattenere il suo pubblico e intanto si raccontava tra le righe, con pacatezza, imbarazzo, gentilezza. Alla fine di ogni abbuffata ringraziava la sua community per avergli tenuto compagnia, merendina dopo merendina è scivolato via.
Per abortire, la prima porta a destra. Percorri il corridoio, evitando di guardarti intorno, ti chiedi cosa ti aspetta e hai già la risposta a quella domanda: «Adesso non è il momento». Non è il momento giusto per un figlio, lo dicono quasi sempre le donne quando arrivano in ospedale con il certificato rilasciato dal consultorio familiare o dal medico curante, entro le dodici settimane di gestazione la loro gravidanza verrà interrotta.
All’ospedale di Cosenza 250 Ivg l’anno
Ospedale civile di Cosenza, reparto di ostetricia e ginecologia: qui ogni anno nascono in media oltre 2000 bambini e – sempre qui – vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza, a praticarle c’è un solo ginecologo, l’unico non obiettore di coscienza.
Francesco Cariati, ginecologo dell’Azienda ospedaliera di Cosenza
È il giovedì il giorno delle Ivg: una sigla per non dire, per capirsi al volo. È il giorno della settimana in cui l’unico medico pro-aborto dell’intera azienda ospedaliera si occupa delle donne che hanno deciso di non portare avanti la gravidanza ed esercitano il loro diritto a interromperla, un diritto sancito dalla legge 194. Fino alla nona settimana di gestazione l’aborto avviene attraverso il metodo farmacologico, dalla nona alla dodicesima settimana – ma fortunatamente si ricorre a questa pratica sempre meno – si deve intervenire chirurgicamente. Il turno in reparto del dottor Francesco Cariati il giovedì è diviso tra le gestanti e le donne in attesa di Ivg.
L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza
Un solo ginecologo non obiettore
«Io sono abituato a dare la vita, è il mio lavoro – chiarisce – ed è molto difficile far coesistere la mia attività di ginecologo che accompagna le donne fino al parto con quella di medico non obiettore che aiuta ad abortire. Da una parte do la vita, dall’altra devo interromperla. Perché lo faccio? Per garantire un diritto: quello che hanno le donne di accedere a un servizio che la legge impone agli ospedali di fornire». Una questione che ne implica molte altre, che spesso rischiano di disperdersi nella pozza torbida del pregiudizio: «ci sono donne disperate – spiega Cariati – che se non hanno la possibilità di abortire in ospedale potrebbero finire in situazioni di illegalità e mettere a rischio la loro vita». Si sente solo? «Molto – ammette -. Soprattutto perché è complicato garantire ogni settimana questo servizio. I ginecologi obiettori di coscienza sono animali in via di estinzione» scherza. Ma poi torna serio, «lavoriamo sul filo dei giorni, il tempo è prezioso. Per le Ivg chirurgiche ho bisogno di anestesisti, ostetriche e infermieri anche loro non obiettori e sono pochissimi, bisogna organizzare e incastrare i turni di lavoro. Al di là delle ferie programmate sempre tenendo conto delle urgenze delle pazienti, non possiamo permetterci di assentarci. Altrimenti il servizio si interrompe».
Leggere nello sguardo delle donne
Nel silenzio ovattato rotto solo dai pianti dei neonati che reclamano la poppata, ad accogliere le donne che arrivano per abortire – dietro porte anonime per garantire la privacy di chi entra – c’è un piccolo staff di professionisti che, innanzitutto, non le giudicheranno. Proveranno ad afferrare sguardi sfuggenti, dopodiché, nel rispetto della volontà di ogni donna, si avvierà l’iter dell’Ivg.
Manuela Bartucci, assistente sociale in ospedale a Cosenza
Manuela Bartucci fa l’assistente sociale in ospedale e lavora in stretta sinergia con Cariati, ha costruito un dialogo costante con la rete territoriale dei consultori familiari. Con lei le pazienti hanno il primo colloquio quando arrivano in ospedale. «Ho imparato con il tempo e l’esperienza a leggere negli sguardi delle donne – racconta – a cogliere un segnale di tentennamento, a decifrare la comunicazione non verbale. Io sono lì per capire se c’è qualcosa che potrebbe far cambiare il destino di quella donna».
Le precarie e le lavoratrici che non vogliono figli
Alla base della scelta di interrompere una gravidanza, racconta, spesso – ma non sempre – c’è una condizione di precarietà: grosse difficoltà economiche, mancanza di una relazione stabile, situazioni lavorative senza garanzie. Ci sono ragazze che hanno appena trovato un impiego e hanno paura di perderlo o studentesse universitarie che temono di non riuscire a portare a termine gli studi. «In questi casi metto sul tavolo tutte le soluzioni che potrebbero rappresentare un appiglio – dice -. Magari non hanno consapevolezza delle opportunità e dei diritti, dal reddito di cittadinanza all’assegno unico. Sono sempre loro a scegliere, ma – afferma con orgoglio – molti bambini alla fine sono nati».
Un cartello di protesta del collettivo Fem.In contro gli antiabortisti
Sono soprattutto italiane
Le donne che intraprendono il percorso di interruzione della gravidanza arrivano sole, oppure accompagnate da un genitore, dal compagno o dal marito. Sono soprattutto italiane, hanno in media tra i 25 e i 35 anni. Poche, circa il 5%, le minori tra i 16 e i 18 anni, qualcuna al di sotto dei 15. Ci sono poi molte donne migranti soprattutto marocchine, nigeriane, romene, moldave.
Ma il quadro non è completo. Dal lockdown ad oggi si è fatto largo un dato nuovo: a richiedere l’Ivg sono sempre di più donne italiane sopra i trent’anni, con una posizione lavorativa stabile ma fortemente determinate a non avere figli, «in questi casi ci troviamo di fronte ad una scelta di vita e dunque a una decisione irremovibile».
Storie di ripensamenti e storie di abbandoni
Adesso sua madre non vede l’ora di essere nonna
Le storie sono tante e rimangono attaccate addosso a chi fa l’assistente sociale in un posto come questo, «è difficile tornare a casa e liberarsene facilmente». Ne ricorda tante, alcune a lieto fine altre no. «Qualche settimana fa si è presentata qui una donna di circa trent’anni. Voleva abortire ma nei suoi occhi ho letto il tormento. Ho provato a parlarle, lei è scoppiata a piangere, si è aperta. Non posso dirlo a mia madre, ha detto. In paese la gente mi criticherebbe e la mia famiglia si vergognerebbe di me. L’ho invitata ad affrontare tutto con lucidità e coraggio, a prendersi qualche giorno per parlare senza timore con sua madre. Beh, lo ha fatto e all’inizio non è stato semplice, ma continua a mandarmi dei messaggi, mi ringrazia per averla aiutata, adesso sua madre non vede l’ora di diventare nonna».
La bimba affidata a una nuova famiglia
Ci sono poi vicende che si evolvono seguendo strade imprevedibili. A luglio una donna si è presentata in un ospedale della provincia per abortire, aveva superato il limite delle settimane di gestazione, non ha potuto farlo. Ha portato avanti la gravidanza e la bimba è nata qui nell’ospedale di Cosenza ma la madre ha confermato la volontà di non riconoscerla. «Ho accompagnato questa donna all’uscita – ricorda – . Le ho chiesto di pensarci, di non avere fretta. Tieni il mio numero, le ho detto. Se dovessi ripensarci avrai tutto il sostegno che ti serve. Quella telefonata è arrivata, ma per comunicarmi la volontà di non tornare a riprendersi sua figlia. Alla piccola è stato dato un nome scelto dalle ostetriche, per venti giorni ha vissuto qui in neonatologia, accudita e coccolata da tutti. Poi è stata affidata ad una nuova famiglia».
L’ingresso della Degenza ostetrica all’ospedale di Cosenza
Le difficoltà non mancano
Sono racconti che fanno brillare gli occhi dietro le mascherine, «spesso si danno dei giudizi sommari sull’aborto, diventa un tema politico, scalda i dibattiti – dice Francesco Cariati – ma bisognerebbe ricordare che dietro ogni storia c’è un dolore da rispettare. Noi qui facciamo il massimo per tutelare le donne e la loro scelta. Certo, le difficoltà non mancano. A partire dalla logistica».
L’aborto è anche un problema di privacy e lingua
Le donne che vengono in ospedale per abortire devono condividere gli spazi con le donne col pancione e con quelle che hanno appena partorito, s’incrociano, si sfiorano. «Siamo molto attenti a garantire la privacy, ad agire con il massimo tatto – aggiunge Cariati – ma il problema c’è, non si può negare. È necessario avere un’ala riservata per le interruzioni di gravidanza. Siamo in attesa che venga realizzata, questo renderà tutto più semplice». Quando? «Non ho informazioni certe sui tempi. Posso dire però che il progetto c’è».
Un altro problema è quello della mediazione linguistica, le donne che non parlano l’italiano precipitano nel vortice di adempimenti burocratici e qualche volta si perdono. «Spesso ho di fronte ragazze sperdute, con le quali ho difficoltà anche solo a spiegare dove devono andare, cosa devono fare, quando devono tornare» dice Cariati. Molte di loro non sono informate sui metodi contraccettivi e capita che tornino anche due o tre volte in un anno. «Ecco, in momenti come questi, in cui rivedo in reparto una donna che ha già avuto più di un aborto volontario, ho qualche difficoltà, la redarguisco. Sono un ginecologo – ripete – il mio compito è dare la vita, questo non lo dimentico mai».
La chiacchierata si è protratta oltre i tempi stabiliti, ma le storie sono tante e tutte raccontano un pezzo di verità sull’aborto. Un’infermiera si avvicina alla porta, sta cercando proprio lui, da lontano gli fa segno con la mano, indica la sala parto. «Devo andare – dice Cariati – c’è un bambino che ha fretta. Lo faccio nascere e torno».
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