Autore: Benedetta Caira e Concetta Guido

  • Caramelle calabresi nella calza della Befana

    Caramelle calabresi nella calza della Befana

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    Considerando che la Befana preferisce il chilometro zero, stanotte avrà fatto rifornimento in Calabria. Calze gonfie come palloncini, giocattoli, monetine di cioccolata, carbone di zucchero, ma soprattutto caramelle e gelatine. E non parliamo dei soliti marchi, quelli super pubblicizzati e famosi in tutto il mondo. Oggi la Calabria può offrire una gamma di golosità, con prodotti dop e ingredienti genuini, che ha pochi avversari in Italia: Silagum. Il nome ha certamente meno appeal rispetto alla celebre griffe degli iconici orsetti gommosi, ma è un’azienda che produce 2.500 tonnellate di caramelle l’anno e da trent’anni è una realtà economica della zona industriale lametina, la cosiddetta ex Sir, a lungo un deserto buio di capannoni vuoti.

    https://icalabresi.it/fatti/calabria-grand-tour-cemento-lamezia-vibo-soverato/
    Lo stand milanese di Silagum a Tuttofood 2021

    Silagum, le caramelle vendute in Russia e Stati Uniti

    Trenta operai, quasi tutti del lametino, e tre turni di lavoro spalmati su ventiquattro ore, perché l’impianto di estrusione, made in Francia, che fornisce le rotelle di liquirizia, lavora giorno e notte. Cinque milioni di euro di fatturato e un grosso investimento per eliminare la plastica dagli incarti. Le caramelle calabresi sono vendute in Francia, Inghilterra, Finlandia, Russia, Stati Uniti. Sono apprezzatissime in Canada ed esportate finanche in Sud Africa e Giappone.

    Primo e secondo tempo

    C’è un primo e un secondo tempo nella cronistoria della Silagum. Nata a fine anni Ottanta per iniziativa della Compagnia delle opere, l’associazione imprenditoriale legata al movimento Comunione e liberazione, grazie ai generosi fondi della De Vico (la legge 44), ha rappresentato un esperimento pilota calabrese dell’imprenditoria giovanile.
    Resta una delle poche superstiti di quell’ondata a distanza di trent’anni. Il tutor è stato il patron del cioccolato Agostoni (prodotto dalla fabbrica lombarda Icam), che è ancora tra i cinque soci. Nel 2005 scoppiava il caso Why Not su intrecci tra potere, fondi pubblici, istituzioni e presunte logge massoniche. L’inchiesta di De Magistris coinvolgeva protagonisti della politica italiana e anche la Compagnia delle opere. Anni di processi e clamori e un finale di assoluzioni.

    Il secondo tempo della fabbrica di caramelle inizia proprio nel 2005, quando entra in azienda Claudio Aquino come direttore commerciale. «Ci sono vari step – spiega – per portare un’azienda al successo. Il primo passo è fare un buon prodotto, poi devi metterlo sul mercato, devi saperlo presentare, dargli un vestito giusto». Aquino, oggi alla guida del marketing ma anche amministratore delegato, sulla vicenda Why Not e fondi pubblici taglia corto. Parla la realtà attuale.

    Nessun sostegno pubblico

    «La Compagnia delle opere ha
 promosso Silagum all’origine, l’ha favorita creando l’incontro tra i soci calabresi e il nostro socio di Lecco Antonio Agostoni, che resta un sostenitore e
 un punto di riferimento. Silagum è un’azienda che cammina con le proprie
 gambe, è una società a capitale privato, che non gode di sostegni pubblici».
 La fabbrica è ancora lì, nella ex Sir, dove qualche capannone si è animato nell’ultimo
decennio. Il trasporto è soprattutto su gomma ma per le destinazioni oltreoceano ed orientali, le caramelle calabresi viaggiano su container, partono da Napoli e non da Gioia Tauro «per scelte logistiche dei nostri clienti» precisa Aquino.

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    Operai della Silagum nello stabilimento di Lamezia Terme

    Silagum: gli inizi con le caramelle al luna park

    «Gli inizi – dice Aquino – sono stati tutti in salita, l’azienda produceva per conto terzi, senza marchio. Si faceva fatica – racconta – ad avere un prodotto di qualità perché mancavano know how e personale specializzato. Le caramelle venivano vendute sfuse nei mercati, nei luna park, nelle fiere. Con caparbietà non ci siamo arresi e abbiamo portato avanti il nostro progetto e abbiamo cominciato ad avere un’identità e importanti riconoscimenti». Oggi il marchio Silagum viene esportato in molti Stati, circa il 30% della produzione è destinato ai mercati esteri.

    La Calabria dentro

    «Abbiamo puntato – commenta Aquino – a farci riconoscere sugli scaffali, prima avevamo un intermediario che rivendeva a marchio suo e non c’era legame con il consumatore. Oggi chi sceglie Silagum sceglie un prodotto di qualità, è questa la nostra forza e il nostro orgoglio». Caramelle profumate e coloratissime, con la Calabria dentro: bergamotti, limoni e arance che provengono da Gioia Tauro e Reggio e poi la liquirizia dop di Naturmed. Siamo molto attenti alle materie prime – precisa Aquino – le gelatine contengono il 20 per cento di succo di frutta e siamo gli unici produttori di rotelle di liquirizia bio».

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    Caramelle al limone prodotte dalla Silagum

    La causa ambientalista

    Il futuro? Roseo, quasi come una gelée alla fragola. «Il post pandemia è stato naturalmente difficile – ammette Aquino – siamo una piccola realtà e abbiamo subìto gli aumenti dei costi delle materie prime. Non possediamo la forza delle multinazionali, ma cerchiamo di innovarci. Da poco è stato fatto un grosso investimento per avere confezioni in carta eliminando la plastica. Siamo molto orgogliosi di dare il nostro contributo alla causa ambientalista».

    Sulle difficoltà e le lamentele di una Calabria arretrata nella produzione e nei trasporti, il presidente del cda della Silagum non segue la consueta linea di molti colleghi imprenditori: «Se hai in testa una cosa e sai che può funzionare, la fai, anche se sei in Calabria. Al centro dell’attenzione non devono esserci le difficoltà, ma bisogna mettere in risalto le caratteristiche positive e le peculiarità. Anche Sperlari, che è di Cremona, ha le sue difficoltà. Diverse dalle nostre, ma le ha. Le caramelle Silagum sono tra le più buone in commercio ed è su questo che dobbiamo puntare».

  • Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

    Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

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    A San Lucido i pescatori under 30 hanno mangiato pastina e acqua salata da piccoli, hanno deciso che da grandi avrebbero fatto questo lavoro già alle prime uscite in mare con i nonni e con i papà. Oggi salgono sui pescherecci di notte come navigatori fenici. Non è un mestiere semplice. I rischi sono diversi. E adesso che il gasolio è aumentato, per una battuta di pesca bisogna fare i conti fino all’ultimo centesimo. Una notte in mare costa almeno 400 euro soltanto di carburante. Bisogna tornare con un bel carico per non perderci.

    Riposa in pace capitano Mazza, tra i primi morti per Covid

    Nel minuscolo porto della terrazza sul mare, così è chiamato il paese del basso Tirreno cosentino, per decenni il San Giovanni e la Nuova speranza sono usciti e rientrati con al timone il capitano Gianni Mazza. Era il più autorevole dei pescatori ed è stato una delle prime vittime di covid in Calabria, morto nel marzo del 2020 a 75 anni. Anche i colleghi del Nord Italia lo hanno ricordato tributandogli manifesti e saluti tra le onde.
    Le barche di famiglia sono accompagnate dal suo volto, formato poster, sulla plancia. Suo nipote ha 20 anni, porta orgogliosamente lo stesso nome, fa lo stesso mestiere. «La prima volta mio padre Andrea, che ha 45 anni, mi ha portato in mare con la pastina a tre anni e mezzo. Siamo una famiglia di pescatori. Io i miei due fratelli, uno di sedici anni e l’altro quasi quindici, mio padre, due zii e quattro cugini».

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    Gianni Mazza, pescatore esperto di San Lucido morto a 75 anni dopo aver contratto il Covid

    A un passo dalla laurea, poi ha scelto il mare

    È sabato mattina. Nel porto di San Lucido l’acqua brilla, una famiglia di papere scivola sul mare, mentre sui pescherecci si srotolano le reti per riparare il tremaglio. Un’arte che solo i pescatori conoscono, che apprendono senza bisogno di teoria, osservando i più anziani. Con gli occhi fissi sulle trame e le mani che si muovono veloci, è questo il momento della condivisione, dei racconti e degli aneddoti che viaggiano da una barca all’altra.
    Francesco Maria Tonnera, 27 anni, è qui da prima dell’alba. Lui e il suo equipaggio sarebbero dovuti uscire presto per la pesca, ma hanno rimandato a causa del vento. «Un giorno, avrò avuto otto anni – racconta, – ho detto a mia madre: io continuerò a studiare, però tu mi devi fare andare in mare. Trascorrevo la notte sul peschereccio, tornavo alle cinque del mattino, facevo una doccia, mi mettevo il grembiule e andavo a scuola».

    Quella di Francesco Tonnera (un destino già scritto nel cognome), è la terza generazione di una famiglia di pescatori. La promessa fatta a sua madre – purtroppo scomparsa due anni fa – l’ha mantenuta: con i buoni voti ha sempre meritato borse di studio, si è diplomato ed era a un passo dalla laurea in Giurisprudenza e da una vita completamente diversa da quella dei suoi. «Ero stato selezionato per un colloquio per un posto in banca a Milano, ma non me la sono sentita: una vita in giacca e cravatta non fa per me, ho scelto la libertà». La libertà è la pace e la poesia delle notti sulla barca sotto un cielo stellato. «Non so descriverla, è una sensazione unica».

    Francesco Tonnera (con il cappuccio) è un giovane pescatore di San Lucido

    Il pescatore 4.0 di San Lucido su Tik Tok

    Ne è passato di tempo da quando si buttavano le rizze a mare e poi si vendevano i pesci sul molo del porto facendo a gara a chi urlava più forte. Francesco non ha l’aspetto del lupo di mare, è piuttosto un pescatore 4.0: da una parte la tradizione, la sapienza e i riti che si tramandano; dall’altra le innovazioni, per esempio le telecamere a bordo per filmare il pescato e un uso efficace dei social. Basta digitare il suo nome e su Tik Tok è un trionfo di seppie e polipi e altri pesci ancora nella rete ma pronti ad arrivare sulle tavole dei clienti che possono ordinare on line.
    A San Lucido i giovani scelgono ancora di fare questo lavoro duro ma soprattutto usurante perché l’umidità e la fatica alla lunga compromettono la salute. A muovere tutto è la passione, ma le difficoltà sono tante.

    Peschereccio nel porticciolo di San Lucido

    Concorrenza sleale

    «Le leggi europee stanno ammazzando il nostro lavoro – dice Tonnera – viviamo con il terrore delle sanzioni, con la costante incognita dei controlli dei militari della Capitaneria che salgono a bordo a controllare il pescato, ma si fa troppo poco invece per arginare la concorrenza del pesce che arriva da altri paesi», il malepesce lo chiamano.
    «La nostra famiglia ha perso tre pescherecci, uno più bello dell’altro», interviene il padre Tullio, 57 anni, cinquanta anni di lavoro, due figli, entrambi pescatori. «La Michelangelo, 18 metri, è stata affondata nel porto di Vibo per pesca illegale del pesce spada. Un altro è finito bruciato. Là – indica la strada – è ferma la Mariella, 14 metri di peschereccio, sequestrata per disastro ambientale, poi ce l’hanno ridata ma a questo punto non è più utilizzabile».

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    Peschereccio rientrato dalla battuta di pesca a San Lucido

    Pesce azzurro e delfini che t’inseguono

    È tanta la voglia di mollare ma alla fine vince il richiamo del mare. Di notte, lontano dalle coste, si capisce quanto inquinamento di luci trasfigurino il cielo. Sul mare quelle delle stelle sono abbaglianti, dicono i giovani pescatori.
    Poi, con le reti in acqua, tutto può succedere. Perché laggiù è un turbinio di pesci che si muove sotto la barca. «È in quei momenti che capisci che dovrai agire col pugno fermo e i nervi saldi, perché ogni tua decisione avrà una conseguenza», dice Francesco Tonnera. E l’obiettivo è rientrare nel porto, quando il sole è già sorto, con un bottino ricco. «Con quello che costa il gasolio, se qualcosa va storto il danno sarà enorme».
    Il mare di San Lucido è uno scrigno di pesce azzurro: alici, sarde, sgombri soprattutto. E il Tirreno regala spettacoli improvvisi di delfini che inseguono il peschereccio o che giocano intorno alle barche ferme, di notte. «Ce ne sono tantissimi, noi pescatori sappiamo quanto possano essere addirittura “infestanti”, perché nel loro periodo di transito spesso danneggiano le reti e le imbarcazioni».

    La maledizione delle tartarughe

    E nonostante l’esperienza, lo stupore è sempre grande davanti alle tartarughe – «tante, enormi, meravigliose», dice Tonnera – che si incontrano lungo il cammino. «Specialmente di notte capita di avvistarle in acqua, stanche, affaticate. Quando possiamo le teniamo un po’ a bordo per farle riprendere e poi le rimettiamo in mare». Guai a far loro del male e non solo perché le sanzioni in caso di controlli della Capitaneria sarebbero altissime, ma soprattutto perché secondo una credenza popolare, «le tartarughe bestemmiano», quando sono in pericolo o vengono catturate emettono dei suoni cupi e quella è una maledizione che colpirà chi le uccide.

    Francesco Tonnera porta i segni del morso di uno squalo azzurro: 75 punti

     

    Azzannato dallo squalo azzurro

    Hai mai avuto paura? La domanda è rivolta a Francesco, ma risponde suo padre Tullio: «Paura unn’avi mai». Francesco ha il suo trofeo, mostra una enorme cicatrice sul polpaccio, è il morso di una verdesca, lo squalo azzurro. «Era finita nella rete e dovevamo smagliarla per poi farle riprendere il largo. Io e mio padre abbiamo dovuto tirarla a bordo, è un pesce molto mobile con una torsione rapidissima: uno scatto e mi ha azzannato alla gamba, il risultato è questo, hanno dovuto mettermi 75 punti di sutura».

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    La statua di Cilla a San Lucido, che perse marito e figli in mare

    La donna che perse marito e figli in mare

    Sulla gente marinara di San Lucido veglia Cilla, la moglie e madre ormai leggendaria che ha perso i suoi uomini in mare. È ritratta da una scultura di Salvatore Plastina che sembra una donna in carne e ossa affacciata sul belvedere. I sanlucidani raccontano che nelle notti di mare grosso la sentono lamentarsi.
    Ha pianto lo scorso venti agosto. Gianni Mazza, il giovane pescatore di razza, era al largo di Belmonte insieme con l’equipaggio della Nuova speranza e «all’improvviso ci siamo trovati davanti una tromba marina, con onde alte fino a tre metri. È stato un momento veramente difficile. Ma siamo riuscito a tornare nel porto. Mio nonno ci ha insegnato a capire il mare. Lui, diceva non vuole caputoste, non si può sempre sfidare, altrimenti soccombi».

    Il grande squalo bianco

    Gianni Mazza è stato il capitano di tante imprese. Nel lontano 1978 prese lo squalo bianco, la creatura più temuta dai bagnanti, che rare volte si è vista nei mari calabresi.
    Lui e la sua famiglia sono i protagonisti del documentario dell’antropologo Giovanni Sole “Pescatori d’argento. Alici e lampare in Calabria”.

    È anche nelle notti calme e silenziose che possono accadere cose starne. «Una volta eravamo a motore spento con le reti calate – racconta Francesco Tonnera – c’era una pace assoluta e soltanto la luce delle stelle. Ero a prua, quando all’improvviso ho visto sollevarsi l’acqua per una lunghezza di circa dieci metri, come se ci fosse un pesce in superficie. Ho seguito l’enorme sagoma che lentamente si muoveva di fianco alla barca a filo d’acqua. Sono certo che si trattasse di un enorme capodoglio».

  • Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

    Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

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    Ci sono giganti e fragole a Curinga, borgo calabrese che sembra un quadro di Van Gogh. Il personaggio illustre del paese vive da mille anni in località Corda. È il platano orientale, patrimonio italiano, medaglia d’argento al contest 2021 “European Tree of the Year”. Un monumento verde, probabilmente piantato dagli stessi monaci basiliani che qui fondarono l’eremo di Sant’Elia.

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    Il platano millenario di Curinga

    Fragole e tramonti

    Puoi entrarci dentro e cantare, ballare, riposare. L’apertura a grotta è larga tre metri e dell’altezza del gigante si narra da anni. Venti, venticinque, trenta metri.
    Le piante di fragole sono milioni, in questo pezzo di Tirreno dell’istmo catanzarese che adesso si chiama Riviera dei tramonti. Negli anni Ottanta e fino a una decina di anni fa era un vero paradiso. Oggi servirebbe una varietà locale che ancora non esiste, ma iniziano a nascere campi di sperimentazione per crearla.

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    Pino Galati, presidente della Cooperativa Torrevecchia

    “Sabrina”, la fragola capricciosa

    La “Sabrina” è il tipo di fragola che ha attecchito. Capricciosa e gentile, ostinata e fragile come il cristallo. Non a caso ha un nome di donna. I filari traboccano di frutti rossi e sodi al punto giusto. La raccolta è una corsa contro il tempo: domani mattina dovranno essere sui banchi dei mercati, la loro perfezione è fugace ed entro tre giorni sfumerà. È questa la condanna, una specie di sortilegio per compensare tanta bellezza.
    «Lo senti il profumo? È così forte che si può raggiungere un campo di fragole anche ad occhi chiusi». Dopo quarant’anni con le mani nella terra, Pino Galati si muove nelle piantagioni come fosse a casa sua. Dal 2010 è il presidente della Cooperativa Torrevecchia che, nata nel 1978, tiene insieme alcuni fragolicoltori della piana di Lamezia Terme.

    Nove piccole aziende, tra Curinga e Pizzo, che, in totale, fanno numeri di tutto rispetto: una produzione annua di 10mila quintali, di cui solo il 30 per cento destinate al mercato calabrese. Il restante 70 per cento va nelle altre regioni italiane. «Il nostro è un territorio storicamente vocato a questo tipo di coltivazione – spiega Galati, 61 anni, – fin dagli anni Ottanta era una coltura leader, qui si produceva un frutto di una qualità molto al di sopra degli standard. Oggi, è inutile negarlo, le cose non vanno più tanto bene».

    Acconìa, il posto delle fragole

    Acconìa, frazione marina di Curinga, è il posto delle fragole. Rischia di perdere il suo primato e le ragioni sono due: la mancanza di manodopera e la genetica. «Abbiamo coltivato per tanto tempo una varietà di provenienza Californiana, la Cammarosa – continua Galati, – oggi sostituita dalla Sabrina, proveniente dalla Spagna. In questo passaggio, dettato dalle leggi del mercato, abbiamo perso alcune delle caratteristiche che facevano delle nostre fragole un frutto inimitabile altrove». L’obiettivo è tornare a produrre un prodotto peculiare. «L’Università di Forlì sta lavorando alla creazione una varietà autoctona che sia specifica della zona di Curinga. Siamo in una fase sperimentale che sta dando ottimi risultati».

    Sapore, colorazione, tenuta e consistenza sono i parametri con cui si misura la qualità. «Basta guardarsi intorno per capire che noi coltivatori continuiamo a dare l’anima per portare sui banchi dell’ortofrutta un prodotto eccellente, ma il futuro non è roseo». La preoccupazione maggiore riguarda la manodopera. È diventato sempre più difficile reperire raccoglitori, nonostante le tutele del contratto.

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    I lunghi filari di piante di fragole a Curinga

    Un’azienda leader, che lavora in solitaria, non associata alla cooperativa è la Vito Galati, cognome molto diffuso nel Lametino. Al contrario delle altre, vende in Calabria il 70 per cento della sua produzione, mentre il 30 per cento parte per l’Emilia Romagna, la Lombardia e, a sud, per la Sicilia. Si possono trovare le “sabrine” dai fruttivendoli di nicchia, quelli che hanno anche l’annona di Reggio Calabria, le merendelle del catanzarese e i pomodori di Belmonte, nella grande distribuzione, nei mercati. Maggio è il mese più felice nel posto delle fragole, il periodo della fase fenologica, quella della piena vitalità.

    Tommaso Galati, ingegnere informatico tornato da Firenze per lavorare nell’azienda di famiglia

    «Impossibile non avere problemi con la ‘ndrangheta»

    Tommaso Galati, 31 anni, figlio di Vito, 56, è un ingegnere informatico che da Firenze è rientrato nel villaggio agricolo di Acconìa, per lavorare nell’azienda di famiglia, accanto al padre, agli zii.
    «È un lavoro faticoso ma molto dinamico. Bello perché significa stare a contatto con la natura». Tra i filari, mostra le “crude”, le mature, le colture fuori suolo, la tecnologia a basso impatto ambientale. «Purtroppo non sempre si viene ripagati dei sacrifici fatti, è il motivo per cui i più giovani non si dedicano alle attività agricole». Anche suo cugino Dario, stessa età, lavora in un’altra azienda, sempre di forte tradizione familiare. Spesso discutono di tecniche, futuro della produzione, export e trasporti che non aiutano, distese ariose e cappe irrespirabili in territori dove «è impossibile non avere problemi a causa della presenza della ‘ndrangheta».

    Mancano le reti di impresa in Calabria

    Il platano è a un quarto d’ora di macchina da Acconia, più su, in collina. Qualche anno fa è arrivato a Curinga un famoso “cacciatore” di alberi rari, Andrea Maroè, per misurarlo in arrampicata. Trentuno metri. Nella sua grotta sono entrate, comode, dieci persone. I cugini di Acconìa entrano nella piantagione e tornano con le fragole più belle in mano. «È il frutto dei diabetici, è dolce eppure il contenuto di zuccheri è modesto, ricco di vitamine e di fibre. E’ un buon alimento anche per le donne in attesa, perché ricco di acido folico».
    Nei magazzini gli operai stanno confezionando la merce in partenza.

    «Ogni stagione produttiva è un’incognita, possono sorgere tanti problemi, a iniziare dalle conseguenze degli eventi climatici. Altrimenti quello dell’agricoltore sarebbe il mestiere più redditizio del mondo», dice Francesco, 54 anni, zio di Tommaso. E’ appoggiato a un grosso contenitore colmo di pomodori profumati e bitorzoluti. Accanto ce n’è un altro pieno di ortaggi vari. Tutta merce destinata al macero, «invendibile». Per combattere tanto spreco ci vorrebbero segmenti di lavorazione agroalimentare, accanto alla produzione. «Nei distretti produttivi calabresi manca la rete d’impresa. Questo è uno dei problemi più grossi».

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    Raccoglitrici di fragole a Curinga

    I giovani non vogliono raccogliere fragole

    Le raccoglitrici portano copricapo colorati e cappelli di paglia. Staccano le fragole una per volta. «La manodopera specializzata è ormai un miraggio – spiega il presidente della cooperativa Torrevecchia. – I vecchi raccoglitori stanno progressivamente andando in pensione e le nuove generazioni non vogliono fare questo lavoro, come se ci fosse una vera e propria repulsione. Eppure la paga, rispetto ad altri settori, non è affatto male». Attualmente sono impegnate nei campi duemila persone ma ne servirebbero molti altri. Sono nella maggior parte donne, si muovono tra i filari con i carrelli, su cui adagiano con grazia i frutti. E intanto ridono, raccontano, si scambiano confidenze sotto il sole di maggio che è ancora clemente.

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    Una parte del centro storico di Curinga

    Fragole, giganti e resti archeologici

    «Chiudiamo l’annata con oltre mezzo milione di piante. Ognuna produce fino a un chilo di frutti», spiega Tommaso. L’azienda Vito Galati pratica la coltura tradizionale nel terreno. La metà delle piantine invece compie il suo ciclo vitale nel “fuori suolo”, cioè su strutture alte, ben irrigate. «Tutta acqua che recuperiamo e riutilizziamo, con un notevole risparmio idrico. Ciò significa non disperdere nulla nel terreno. Compreso i concimi e le poche sostanze chimiche che usiamo, con giuste quantità e modalità».

    Anche perché ucciderebbero sia i parassiti, sia gli insetti antagonisti, cioè i predatori introdotti tra le colture. L’orius laevigatus divora i tripidi e i fitoseidi mangiano i ragnetti rossi. È un metodo efficace per evitare i pesticidi. Le api ronzano intorno. A loro tocca l’impollinazione, in questa storia di fragole, giganti e resti archeologici. C’è la torre di vedetta di località Mezza praia, che dà il nome della cooperativa e c’è un sito archeologico di pregio, con i resti di antiche terme romane. Il platano veglia. Sulle fragole, sulla costa dei Feaci, sulle raccoglitrici e sulla battaglia degli insetti. Combattuta tra i parassiti e i piccoli predatori che ogni anno salvano distese di fragole.

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    I resti delle terme romane a Curinga
  • Il tesoro di Alarico esiste e costa 25 euro al grammo

    Il tesoro di Alarico esiste e costa 25 euro al grammo

    Questa è un’avventura di impresa resistente, di identità e di passione per un tesoro che la Calabria non sa di avere.
    Dalla città di Cosenza partivano carichi di zafferano in pieno Rinascimento, richiesti in tutto il mondo. Nel 1844 Luigi Zucoli, autore di una guida per viaggiatori, cita questa ricchezza bruzia. In “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative” del 1862, Carlo Arrivabene parla di tre rarità del sud: i vini siciliani, le donne di Bagnara e lo zafferano di Cosenza.

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    Una pagina del libro “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative”, pubblicato nel 1862

    La spezia di Cleopatra a Castiglione

    Oggi piccole aziende, sparse per la regione, lo hanno riscoperto. Una di queste è lo “Zafferano del re” di Castiglione Cosentino, impresa partita benissimo e che, come tante, ha subito la batosta pandemica. Ma le sorelle Linardi, Benedetta e Maria Concetta, non mollano. La spezia più costosa sul mercato, fino a 25 euro al grammo, ha fatto tanta strada da Cleopatra alla Calabria. La regina egizia lo usava ogni giorno per dorare la sua pelle. E così lo riscopriamo come antenato dei gettonati illuminanti della cosmesi di oggi.

    «Sì, è così, la provincia cosentina era una delle maggiori esportatrici al mondo. Ci sono fonti storiche che raccontano della sua produzione in Presila nel 1500». Benedetta Linardi, 35 anni, laureata in scienze politiche e consulente finanziaria, insieme con sua sorella Maria Concetta, 39 anni, laurea in scienze della nutrizione, hanno ereditato i terreni di famiglia e hanno deciso di cambiarne il destino.

    La collina si tinge di viola

    C’è un momento, tra ottobre e novembre, in cui la collina di Castiglione, a 400 metri sul livello del mare, si tinge di viola, proprio mentre intorno l’autunno ha già spento tutti i colori. È l’ora della fioritura dello zafferano e dura circa 15 giorni. «Andiamo a raccogliere i fiori uno per uno – spiega Benedetta Linardi – un lavoro che facciamo personalmente perché richiede estrema cura». Il fiore raccolto deve arrivare integro alla fase dello “sfioramento”, parola ricca di fascino poiché contiene in sé l’atto di eliminare il fiore dal gambo, ma anche la necessità di farlo con estrema delicatezza.

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    Una cesta con i fiori di zafferano appena raccolti

    L’azienda è nata nel 2018 e i clienti sono per lo più ristoratori. La spezie, cara alla Sardegna e indispensabile per il famoso risotto alla milanese, oggi è laboratorio gastronomico di chef stellati che valorizzano tradizioni calabresi. «Le nostre ricerche – spiega ancora Benedetta, – ci hanno permesso di rintracciare un legame forte con il territorio e di farne un racconto. Ed è un aspetto fondamentale, perché il tipo di consumatore medio vuole apprezzarne le qualità ma anche conoscerne la storia». Sono grandi chef gli amici partner dello Zafferano del re (sul sito https://www.zafferanodelre.it, nella sezione partner, ci sono i loro piatti coloratissimi e i video sulle relative preparazioni). Come Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, ambasciatore nel mondo della buona Calabria a tavola, oggi chef nelle strutture del lussuoso Four Season Hotel di Doha in Qatar.

    Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, è chef del rinomato Four Season Hotel di Doha in Qatar

    La grande sfida, adesso, è riprendersi dalla crisi

    L’azienda delle combattive sorelle Linardi, da startup di successo si è dovuta subito scontrare con il Covid. Quarantamila euro di fatturato, 20mila bulbi l’anno, sono numeri di tutto rispetto per una realtà appena nata.
    L’impresa è partita nell’anno in cui si faceva un gran parlare di scavi per trovare il tesoro del Sacco di Roma nei fiumi cosentini e le due sorelle, un po’ per cavalcare l’onda, un po’ per scherzo, l’hanno battezzata “Zafferano del re” pensando ad Alarico. «Il vero tesoro, quello che abbiamo sotto gli occhi, è la terra. Noi ci crediamo. In un territorio, piuttosto che inseguire qualcosa di inesistente, bisogna cercare e preservare ciò che realmente c’è».
    «I primi duemila bulbi siamo andati a prenderli in Toscana – continua Benedetta.- La nostra scommessa è nata a partire da quel piccolo scrigno».

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    Uno dei campi di zafferano delle sorelle Linardi

    I compaesani “prestano” gratis i loro terreni

    I terreni – in contrade dai nomi che richiamano un passato lontano, Pristini, Canterame, Orbo – sono appezzamenti di famiglia. Altri se ne sono aggiunti, concessi in comodato gratuito da privati. «Erano abbandonati e incolti. Ci sono stati consegnati volentieri, i nostri compaesani hanno creduto in noi e il loro modo per dimostrarcelo è stato offrire quello che poteva servirci». È il Genius loci che si manifesta nell’idea di comunità che condivide terra e sapienza. «Nei piccoli paesi è facile che si inneschi questo meccanismo di supporto reciproco», sorride.

    Fiori d’ottobre

    Quella dello zafferano è una produzione molto semplice: «piantiamo i bulbi intorno a ferragosto, quando la temperatura comincia a cambiare. La pianta cresce in pochi mesi, a fine ottobre fiorisce». È questo il momento più importante, perché tutto deve essere svolto in pochissimo tempo e manualmente, per non rovinare i fiori, molto delicati, che devono essere adagiati nelle ceste. A questo punto la lavorazione avviene nel laboratorio, dove il fiore viene separato dal pistillo (è questa la cosiddetta “sfioratura”) che verrà poi essiccato. Lo zafferano ottenuto viene infine conservato nel vetro, in attesa di essere imbustato e confezionato.

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    Le sorelle Linardi piantano i bulbi intorno a ferragosto

    «Il 90% dei nostri clienti sono ristoratori – spiega Benedetta – ma pochissimo di ciò che produciamo resta in Calabria, solo il 10%». Le sorelle dello zafferano in pochi anni sono diventate un caso, un esempio di impresa giovane, coraggiosa, attenta alla qualità e al territorio. L’azienda ha ricevuto premi e riconoscimenti.

    Il prodotto più contraffatto al mondo

    «Il 2020 è stato un anno nero – ammette -. Un po’ per tutti, certo, ma noi abbiamo avuto un crollo quasi totale della produzione. Nessun aiuto, nessun sostegno, perché tecnicamente rubricati come florovivaisti e non come agricoltori, non ne avevamo diritto». Con la ristorazione in ginocchio la loro attività ha subito una brusca battuta d’arresto. «Eravamo un’azienda in crescita. Abbiamo investito moltissimo e aspettavamo di raccogliere i primi frutti. Non avremmo mai immaginato di trovarci invece a dover affrontare un’emergenza tanto grave come una pandemia. Non è facile sostenere i costi di produzione in una situazione del genere e questo alla lunga non può reggere».

    Bisogna poi considerare il problema della concorrenza. «Lo zafferano è il prodotto più contraffatto al mondo – aggiunge – e la nostra piccola produzione deve misurarsi con quelle intensive dell’Iran, del Marocco e della Spagna. Questi paesi portano sui mercati uno zafferano che al grammo arriva a costare due euro, contro i venticinque di quello italiano».

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    I colori inconfondibili dello zafferano

    L’afrodisiaco di Richelieu

    Non c’è rassegnazione nelle parole di questa giovane e caparbia imprenditrice. «La strada da seguire è sicuramente quella di unire le forze», dice. «Noi piccoli produttori siamo tanti e tutti abbiamo difficoltà simili che possiamo superare creando una rete, una collaborazione che ci consenta di stare sul mercato e di diventare davvero competitivi. In questo momento siamo a terra, ma stiamo valutando nuove strategie».
    Piccoli ma tenaci come il fiore di croco dell’oro rosso.

    In passato con lo zafferano si curavano reumatismi, gotta e forti infiammazioni come il mal di denti. Usato anche come polvere abortiva, era più noto come afrodisiaco (tra gli abituali consumatori il cardinale Richelieu). Per gli imperatori e i sacerdoti romani era un prezioso profumatore di saloni sfarzosi e templi, i contadini calabresi lo spargevano sul letto della prima notte degli sposi. Una spezia dai mille usi, un mondo da scoprire. Oltre il risotto alla milanese.

  • I pianoforti Made in Calabria alla conquista della Cina

    I pianoforti Made in Calabria alla conquista della Cina

    Mentre dai mercati di Wuhan la Cina si preparava a infliggere al mondo la peggiore pandemia che si potesse immaginare, un imprenditore calabrese faceva un biglietto aereo per Changsha, capoluogo dello Hunan, nella Cina centro-meridionale, dove lo stavano aspettando per apprendere da lui l’arte di realizzare pianoforti con la sapienza italiana. Questa è la storia di un sogno che ha il profumo del legno laccato e il suono della musica di Beethoven.

    Un piano dalla Calabria

    Per raccontarcela Pasqualino Serra ci apre le porte della sua piccola fabbrica, nella zona industriale di contrada Gidora, a Luzzi, a due passi da Cosenza. Lui è uno dei pochi costruttori di piani a coda, a gran coda e verticali in Calabria, se non l’unico. Ce ne sono a Trento, a Pavia, pochissimi in tutta Italia, figurarsi in Calabria, che non ha questa vocazione. Bizzarrie della terra dell’enfant prodige Alfonso Rendano, che già a otto anni componeva le sue prime partiture e da adulto inventò il terzo pedale che ancora oggi porta il suo nome. Davanti a un imponente pianoforte a coda che sfiora i due metri e mette quasi soggezione, ci spiega cosa ci fa una fabbrica così di nicchia in questo dedalo di strade, dov’è facile perdersi tra capannoni di infissi di alluminio o montagne di pellet.

    Sessantaquattro anni, stazza di chi è abituato alla fatica, Serra ha
    imparato a costruire pianoforti nella mitica Bösendorfer, a Vienna e
    oggi collabora con un imprenditore cinese, «un amico – precisa Serra –
    oltre che un socio d’affari». Lai Zhiqiang, dice, è arrivato in Calabria per
    firmare l’esclusiva di questa intesa, grazie alla quale, negli ultimi anni,
    ha più che triplicato il suo fatturato.

    Pasqualino Serra si siede sullo sgabello di un pianoforte a coda, mentre parla lo accarezza, come se non fosse soltanto un oggetto.
    «Per ventisette anni ho lavorato in importanti fabbriche di strumenti, ho sviluppato e approfondito le tecniche di accordatura», racconta. «Ero affascinato dall’idea di creare in Calabria qualcosa di veramente innovativo». Il nuovo millennio è appena cominciato, lui ha il giusto know-how, passione e determinazione.

    L’uomo del destino

    Ma le aspettative si scontrano con l’impossibilità di trovare un mercato. «Di fronte ad una realtà molto diversa da quella che mi aspettavo ho dovuto desistere. Ho impacchettato tutti i macchinari e ho messo da parte il mio sogno. Per dieci anni mi sono dedicato ad altro, ho avviato un’azienda di prodotti in legno». Il sogno di “creare” rimane sopito, soffocato dalla razionalità e dalle contingenze economiche. È a questo punto, però, che avviene il primo incontro fortunato: quello tra Pasqualino Serra e Jaques Guenot, un matematico svizzero, studioso di Pitagora e pianista per passione.

    Il professor Jacques Guenot
    Il professor Jacques Guenot

    Guenot è tra i fondatori dell’Università della Calabria, preside della facoltà di ingegneria, docente dell’ateneo per 38 anni di fila. Un intellettuale fine e ricercato, schivo ma con un occhio attento e curioso. Sta per andare in pensione, accarezza l’idea di potersi finalmente dedicare alla sua più grande passione: la musica. «Quando gli dissi che costruivo pianoforti, Guenot rimase stupito, la cosa lo entusiasmò molto». Il professore chiese all’artigiano calabrese di mettersi a lavoro per realizzare insieme qualcosa di innovativo. «Jaques mi dava forza, mi trasmetteva il suo entusiasmo, lui ci credeva. Per un anno studio, progetto, provo, fallisco, ritento» racconta.

    Requiem per un amico

    Poi, l’idea vincente arriva, quella lampadina finalmente si accende. È l’innovazione che aspettavano: «Una bombatura, laterale al piano, con un incavo all’interno dove si mescola il suono della cassa armonica con quello anteriore, rendendo la timbrica più potente». Ma la “gestazione” è complessa: la struttura di legno una volta modellata deve riposare, i pezzi meccanici devono arrivare da lontano, nella maggior parte dei casi dalla Germania.

    Tempi lunghi, in questo caso troppo lunghi. «Nel 2015, quando il pianoforte era finalmente pronto,- sospira Serra – purtroppo Jaques è morto». La scomparsa del professore è un grande lutto. Ancora oggi, a ripensarci, gli occhi diventano lucidi. «Era un amico, una persona meravigliosa. È rimasto qui, tra questi strumenti, in tutto quello che ho continuato a fare grazie anche al suo supporto: ho brevettato quell’innovazione».

    Si vola in Cina

    Accantona l’idea di un’attività in Italia e cerca contatti con la Corea e con la Cina per dare un futuro commerciale ai suoi strumenti. È da Changsha, oggi metropoli con oltre otto milioni di abitanti, che gli arriva una risposta da una fabbrica, la Carod musical instrument, sponsorizzata dal pianista francese Richard Clayderman.

    Richard Clayderman e la sua Ballade pour Adeline, successo da 22 milioni di copie 

    Serra fa il suo primo viaggio in questa città incredibile, negli stessi anni in cui la major del mattone Broad Sustainable Building sta progettando di realizzarvi il grattacielo più grande del mondo (e intanto in diciannove giorni, tira su un prefabbricato di oltre cinquanta piani per i suoi quattromila lavoratori). La Carod piano vuole realizzare pianoforti di qualità e chiede a Serra di guidare gli operai iperspecializzati, praticamente macchine, in una produzione creativa, di alta gamma, con il savoir faire del made in Italy.

    Artigiani della quantità

    «Con la Carod piano è nato un feeling particolare. In Cina la manodopera è molto settoriale, non è flessibile, non è facile fargli intraprendere una lavorazione artigianale come la intendiamo noi. La proprietà ha chiesto la mia collaborazione e la mia guida … e ci ha visto bene». Nel giro di un anno, racconta, la vendita è cresciuta vertiginosamente. «Sono andato quattro volte in Cina. La prima, nel 2015, la fabbrica produceva 600 pianoforti l’anno. Nel 2018, anno del mio ultimo viaggio, ho trovato una realtà diversa: la Carod aveva intanto acquisito altre due fabbriche e ne costruiva quasi 5mila di piani».

    Nella Cina degli strumenti musicali intelligenti, che suonano da soli, senza musicisti, delle ricostruzioni italiane (proprio a Changsha c’è un parco tematico dedicato alle eccellenze tricolori, con riproduzioni di monumenti di Assisi, Venezia e La Spezia), l’imprenditore del Cosentino vede un futuro roseo. E discute di un progetto di extralocalizzazione al contrario: una linea produttiva di alto artigianato con il core businnes nello Hunan e i laboratori in Calabria.

    Pianoforti-i-calabresi
    Un pianoforte di Serra pronto per essere venduto sul mercato cinese
    Il sogno continua

    Tra i due imprenditori il rapporto di affari diventa un’amicizia. Poi, nel 2020, proprio dal Paese asiatico arriva il coronavirus e tutto si ferma. Oggi Serra guarda ancora verso l’estremo Oriente. Nessuno dei suoi figli lavora nel suo laboratorio: quel giovane imprenditore cinese non è solo un amico, ma rappresenta anche l’idea di non disperdere un patrimonio immateriale ma preziosissimo. «La mia speranza resta immutata: realizzare con la Carod in Italia una produzione d’eccellenza qui in Calabria».

    Per Serra è un cruccio la scarsa attenzione verso una sapienza unica, ricercata e valorizzata, invece, in altri paesi. A Changsha il suo metodo funziona. Là tutto è possibile, tutto è realizzabile, l’Italia è un modello da seguire e c’è spazio per la Calabria e – perché no? – anche per Rendano. Gli architetti della metropoli cinese potrebbero costruire un intero villaggio per il musicista calabrese, o dedicargli un grattacielo. Prefabbricato, gigantesco, tutto in freddo acciaio. Tanto poi ci pensa la musica a scaldare l’atmosfera.

  • Fendi si è fermato a Calopezzati: il paradosso della ginestra

    Fendi si è fermato a Calopezzati: il paradosso della ginestra

    È tutta di ginestra: raccolta, filata, tessuta, dipinta a mano. È la hit bag prodotta in Calabria per il progetto di Silvia Venturini Fendi Hand in hand. I suoi disegni stile Longobucco, con i misteriosi codici bizantini della tradizione di quelle terre, hanno i colori del glicine, del mallo di noce, dell’edera, della liquirizia, della curcuma e finanche della cocciniglia, colorante ricavato dalla femmina dell’omonimo insetto parassita.
    È una storia di extra lusso e di paradossi. Un’avventura calabrese, di artigianato resistente e vuoto intorno. C’è tanta ginestra, ma non c’è manodopera.
    Una borsa per pochissimi (e ricchissimi).

    Filippelli e Bossio

    È la storia del maestro tessitore Pasquale Filippelli, originario di Bocchigliero, selezionato con altri diciannove artigiani italiani dalla maison romana. Anche lui, come è stato per l’orafo trapanese Platimiro Fiorenza, che ha intessuto la baguette Sicilia di coralli, dovrebbe essere nominato dall’Unesco “tesoro umano vivente”. Filippelli ha partecipato a Hand in hand con la sodale fabbrica tessile Bossio di Calopezzati. Tessere di mano in mano, entrando nei piccoli scrigni delle botteghe delle regioni italiane, dove nascono meraviglie: questa la filosofia Fendi. Oggi la baguette Calabria è un oggetto d’arte per pochi eletti. La si può trovare esposta, insieme alle altre diciannove, al Palazzo della civiltà italiana di Roma, fino al 28 novembre (la mostra può essere visitata anche in modalità virtual)
    Sono soltanto quindici i pezzi calabresi, per adesso. Raffinata e glamour, la baguette di ginestra è destinata a clienti speciali e segretissimi, perché costa diverse migliaia di euro e anche per quello che racconta il suo ciclo produttivo: realizzata senza elettricità, senza chimica.

    Il maestro Filippelli al lavoro, nella teca la baguette Fendi
    Il maestro Filippelli al lavoro; nella teca la baguette Fendi
    La Fendi per le dive green

    Finirà nel guardaroba di una diva green stile Angelina Jolie, o forse della moglie di un tycoon orientale, di una Carrie della Sex and the city newyorkese.
    Nella fabbrica tessile Bossio di Calopezzati, paese del cosentino, tra la Sila greca e il mare, poco più di 1300 abitanti, c’è tanto entusiasmo ma anche la cautela, saggia, paziente, pragmatica degli artigiani. Dalla capostipite Elisabetta alla figlia Elena, al genero Angelo, al nipote Vincenzo, in questo luogo di fili e macchinari, nato nel 1966, la vocazione è per i prodotti naturali. «Fai la qualità e stai tranquillo» è la raccomandazione tramandata da una generazione all’altra. «Fendi aveva richiesto venti baguette, ma noi siamo riusciti a realizzarne soltanto quindici, perché occorre tempo per creare i prototipi e ogni singolo pezzo e perché l’anello debole di tutto il processo – racconta Vincenzo Bossio, – è la filatura. Nella fase di produzione abbiamo anche provato a cercare sul territorio, senza successo, ginestra già filata».

    Vincenzo Bossio, uno dei proprietari della fabbrica tessile di Calopezzati
    Ma nessuno la fila

    E pensare che non bisognerebbe neanche coltivarla la ginestra, pianta ribelle che cresce dove vuole. Robusta e così audace da rinforzarsi ad ogni potatura, materia prima per realizzare filati che resistono ai secoli. «Abbiamo tessuti – racconta ancora Vincenzo – che hanno anche settanta anni e che sono sempre più belli. È una fibra capace anche di regolare l’umidità, tanto che veniva usata dai romani per le vele delle loro imbarcazioni». La ginestra è lì, infestante come la liquirizia, fiorisce rigogliosa a ogni primavera, ovunque in Calabria, dalla costa degli Dei alla Sila greca, ma non ha avuto la buona fortuna delle altre fibre liberiane, il lino e la canapa, di cui è stretta parente.
    «Ci troviamo in una situazione stimolante, ma difficile. Ci contattano molte aziende, sono incuriosite e affascinate da questo tipo di lavorazione, ma purtroppo non posso produrre il filato che mi viene richiesto».

    L’antico telaio della fabbrica Bossio di Calopezzati
    L’interesse dei giapponesi

    Vincenzo Bossio mostra il suo cellulare. Gli è appena arrivato un messaggio dal Giappone. «Ci scrivono diverse startup. Un marchio di scarpe di lusso ci ha appena proposto di realizzare le tomaie con le fibre di ginestra. Internet ci consente di stare sui mercati mondiali, i social amplificano i nostri orizzonti, ma in questo caso abbiamo bisogno di mani sapienti più che di macchine e di tecnologia».
    La ginestra, come dimostra Hand in hand, può essere un’alternativa green alle fibre sintetiche che infestano i mercati del tessile. Bassissimo costo della materia grezza (basta andare a raccoglierla, ce n’è tanta), il tessuto ottenuto non si deteriora, è resistente e versatile. Quindi? Quindi le lenzuola di ginestra continuiamo a trovarle solo nei musei etnografici, tra telai impolverati e ricostruzioni di ambienti rurali.

    Nel Dna delle tessitrici

    La produzione non può prescindere dal telaio di legno, come quello su cui Elena, figlia di Elisabetta e madre di Vincenzo, fin da bambina ha imparato a tirare la tela. Un’arte tramandata attraverso un codice orale fatto di parole e numeri, un lessico familiare che si traduce nei movimenti lenti e serrati che danno vita al filato, attraverso la griglia di trame e orditi su cui s’imprime il Dna. «E non per modo di dire – spiega Elena – ma perché si trascorrono ore e ore a lavoro sul telaio, concentrate nei propri pensieri, a scaricare la tensione, vedendo crescere il filato come una creatura a cui diamo la vita».

    La ginestra crea economia

    La filatura è la tessera mancante in questa partita della ginestra che potrebbe creare un indotto virtuoso nell’economia calabrese. È per questo che adesso l’azienda Bossio ha deciso di investire nella formazione: «Il settore tessile in Calabria è una nicchia e come tale non ha peso politico» è l’amara constatazione di Bossio. Ma non è rassegnazione perché ci sono grandi progetti in vista : «Non solo vogliamo formare nuovi filatori – annuncia – ma siamo pronti ad acquistare tutto ciò che viene realizzato». È ripartita proprio ieri una giovane allieva di una scuola di tessitura parigina che, nell’azienda di Calopezzati, ha svolto uno stage di tre mesi. Ha vissuto pure lei l’adrenalina del progetto Fendi, ma ha anche ascoltato le storie dei contadini che ammorbidivano i rami di ginestra nell’acqua del fiume: passato e presente dialogano e collegano mondi lontani.

    Filo di ginestra
    Con Fendi fino al 31 dicembre

    Il contratto con la fashion house romana si concluderà il 31 dicembre. «Ancora non so se continueremo la produzione. Il primo contatto c’è stato nel gennaio 2019. Un messaggio, poi silenzio. Fino a quando insieme con Pasquale Filippelli siamo andati con le nostre opzioni di tessuti artigianali nella sede della maison. Quale hanno scelto? Tutti».
    Ogni baguette è un puzzle di stoffe naturali. «Sappiamo che un esemplare lo ha riservato per sé Silvia Venturini Fendi, un altro andrà al museo della maison, il resto sarà acquistato dai clienti lusso. La griffe invia loro un video, mostrando come e da dove nascono le baguette artigianali. Il prezzo? Variabile, 25mila euro e oltre».

    Il lusso si è affacciato in questa realtà, dove la metafora colorata dell’ordito e della trama racconta un pezzo della regione, con i campi di ginestra, i bozzoli di seta nei cesti e i gelsi nei giardini, il telaio meccanico fabbricato dalla Società Nebiolo Torino nel 1960, l’orditoio che sembra un mostro buono, enorme e variopinto con 5600 fili uno accanto all’altro.
    Si è aperta una porta. Troppo piccola per adesso.