Autore: Benedetta Caira

  • «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    Comincia il conto alla rovescia per il XXII Festival delle Invasioni, all’insegna – è ormai il claim di questa edizione – della contaminazione e della contemporaneità.
    Il 13 e il 14 luglio nel centro storico risuoneranno rock, elettronica, jazz, world music (qui il programma): ne abbiamo parlato con il consigliere comunale Francesco Graziadio, ideatore insieme al direttore artistico Paolo Visci, di un cartellone che vuole riproporre atmosfere post punk e suoni elettronici come negli anni d’oro della kermesse e archiviare certe edizioni «da sagra paesana dell’era Occhiuto». È l’occasione per un primo bilancio di questa esperienza a Palazzo dei Bruzi: l’entusiasmo, le difficoltà e quel silenzio irreale che regna dentro un municipio incredibilmente deserto.

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    Bagno di folla per Calcutta alle “Invasioni” del 2019, il sindaco era Mario Occhiuto
    Come te le immagini queste serate del festival?

    «Sotto il profilo artistico e musicale me le immagino fantastiche. E so che non resterò deluso. Sotto il profilo della partecipazione me lo immagino come tutti quelli che organizzano eventi di questo tipo: alle 8.00 penso che sarà un successo, alle 8.05 penso che saranno un fiasco clamoroso, alle 8.10 sarà tutto bellissimo e stupendissimo, alle 8.15 sotto il palco saremo in sette compresi mia moglie e mio figlio e così via… In realtà è una vera e propria incognita: ho percepito una grande attesa per un evento che è rimasto fermo per tre anni, ottimi riscontri per il cast artistico da parte degli appassionati, ma anche una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi».

    Clock DVA saranno sul palco del Festival delle Invasioni 2023
    Sono state fatte scelte musicali molto particolari. Che percezione hai del pubblico cosentino?

    «Cosenza è una città con una sua storia e una sua tradizione. Ha un orecchio educato anche a sonorità non esattamente commerciali. Ho incontrato cosentini in concerti a Roma, Milano, Londra, Barcellona. Ascoltano rock, punk, post-punk, metal, elettronica, hip hop… Sono incuriositi dalle sperimentazioni. Comprano dischi, leggono riviste specializzate, fanno musica. Malgrado la posizione geograficamente periferica Cosenza ha sempre accolto con entusiasmo tutti i grandi movimenti musicali degli ultimi 50 anni, dal Beat e dal Progressive in poi. Gli artisti che si esibiranno il 13 ed il 14 sapranno soddisfare i palati più raffinati. Senza nulla togliere agli altri, possiamo dire che Clock DVA e The Bug sono nomi che hanno fatto e stanno facendo la storia della musica».

    John Cale (foto Rex Huang – Wikipedia)
    Qual è il è il tuo ricordo più bello legato alle edizioni passate del festival delle Invasioni?

    «Questa è davvero, davvero difficile. Mi devi concedere almeno una doppia possibilità. Dal punto di vista musicale sicuramente il concerto acustico di John Cale al Duomo. Il leggendario leader dei Velvet Underground, cresciuto nella Factory di Andy Warhol, a pochi metri da me. L’urlo finale alla fine di Fear mi fa ancora accapponare la pelle. Ma Invasioni non è stata solo musica e non dimenticherà mai la performance di Fura del baus su Corso Mazzini. Uno spettacolo fantastico, con la folla che sgomitava per salire sul loro mezzo postatomico e surreale per scenderne sporca, sudata ed irragionevolmente felice. Ma restano fuori i Mutoid, I Tamburi del Bronx, la chitarra di Tom Verlaine…»

    Hai percepito critiche legate al fatto che i concerti sono a pagamento?

    «Qualcuna. Mi rendo conto che si tratta di un cambiamento importante, anche se per Lou Reed abbiamo pagato un biglietto. Devo dire, però, che l’ingresso è davvero popolare, con un prezzo politico, se mi passi il termine. Trenta euro per due serate con nove live di livello sono davvero pochi. Basta fare il confronto con le altre realtà musicali per rendersi conto dello sforzo che abbiamo fatto. Oggi gli artisti non guadagnano più con i dischi ed i concerti sono diventati costosissimi».

    E cosa rispondi a chi potrebbe obiettare che si è passati da scelte eccessivamente commerciali e mainstream – nel decennio occhiutiano – ad artisti noti soprattutto nel circuito indipendente?

    «Non mi permetto di giudicare le scelte artistiche degli altri, di dire che è cambiata proprio la prospettiva. Il Festival delle Invasioni era diventato una specie di cartellone per i cosentini rimasti in città a morire di caldo, una sagra paesana. A me le sagre paesane piacciono moltissimo, ma il Festival delle Invasioni era una cosa diversa, non il luogo dove ascoltare con una pizzetta in mano il musicista che puoi sentire alla radio del supermercato facendo la spesa. Noi abbiamo pensato di tornare allo spirito delle prime edizioni: dare al pubblico uno spettacolo di alta qualità artistica scegliendo fra i musicisti che hanno una prospettiva originale ma riconosciuta dalla critica internazionale. Con umiltà, perché siamo un Comune in dissesto e non abbiamo le disponibilità economiche di 25 anni fa. Ma anche con ambizione, perché la formula che abbiamo scelto (concentrare l’evento in due giorni) è quella di tutti i festival musicali del mondo e speriamo che, con il tempo, possa diventare un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di musica calabresi e, perché no, italiani. Il direttore artistico Paolo Visci, che non ringrazierò mai abbastanza, ha fatto davvero un lavoro fantastico e con lui abbiamo già parlato della prossima edizione…».

    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
    Un primo bilancio di questa esperienza da consigliere comunale nella giunta Caruso?

    «Difficile. Una esperienza difficile persino oltre le previsioni. Delle difficoltà economiche sapevamo, anche se nessuno poteva immaginare il disastro che abbiamo trovato entrando a Palazzo dei Bruzi, ma la carenza di personale è davvero un problema che rischia di rendere vano ogni sforzo. I dipendenti del Comune sono un terzo rispetto a pochi anni fa ed è complicato trovare le risorse umane capaci di portare avanti un programma ambizioso come quello che abbiamo proposto ai cittadini. Le buone idee camminano sulle gambe degli uomini, e quando cammini a Palazzo dei Bruzi puoi sentire l’eco dei tuoi passi, tanto il silenzio che regna in quei corridoi. E poi io sono un tipo pratico, abituato a fare, ma i consiglieri possono fare ben poco. Ma se quel poco è il Festival delle Invasioni posso dirmi soddisfatto. Un’altra cosa: il risanamento dei conti. Se a fine mandato saremo riusciti a rispettare gli impegni presi (e sono ottimista) avremo reso un buon servizio alla città. Di cose da fare ce ne sarebbero tante e so che i cosentini sono critici ed esigenti, ma riuscire a governare senza fare altri debiti mi sembra un obiettivo prioritario. Per rispetto ai cosentini di domani».

  • La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

    La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

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    Quel panino ghiegghiu è indigesto, il capo della comunità religiosa arbëreshe chiama a raccolta i fedeli e li invita a protestare. La questione riguarda il nome dato dalla catena di fast food calabrese Mi ‘Ndujo a un nuovo prodotto presentato alcuni giorni fa e che ha ricevuto formalmente il plauso degli amministratori di molti comuni dell’Arbëria. Il progetto nasce con la nobile premessa di voler valorizzare «questa preziosa e importantissima minoranza linguistica – spiegano i soci della catena – che arricchisce ancora di più la capacità attrattiva e l’immagine esperenziale della Calabria che l’Italia e il mondo non si aspettano».

    ‘U ghiegghiu

    Fin qui tutto bene, se non fosse per il nome che – «simbolicamente e scherzosamente», sottolineano gli ideatori – è stato dato al panino: ‘u ghiegghiu. Ossia il non sempre affettuoso nomignolo affibbiato da secoli agli arbëreshë dai litìri (letteralmente latini, nello specifico i calabresi non albanofoni).
    «Eleviamo la nostra protesta e chiediamo a chi ha avuto l’infelice idea di ritirarla» è il monito di Papàs Pietro Lanza. «La nostra identità non si può racchiudere in un panino e in un termine ancor oggi usato in modo dispregiativo».

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    “L’anatema” dal profilo Fb Papas Pietro Lanza contro il panino Ghiegghiu

    Ironia o “cattivo gusto”?

    Il religioso arbëresh, attraverso la sua pagina Facebook, condanna la scelta di un termine che ricondurrebbe a stereotipi che da sempre hanno un peso sull’immaginario legato al suo popolo e quindi chiede che il nome del panino venga modificato. «Non possiamo avere un panino denominato ‘u ghiegghiu che si prefigge di rappresentare il patrimonio identitario e la presenza Arbëreshe in Calabria. È semplicemente offensivo». Molti fedeli sono già pronti ad aderire alla protesta.

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    Papas Pietro Lanza chiama i fedeli alla protesta contro il panino ‘U ghiegghiu

    Ma c’è anche qualcuno che, in controtendenza, invita il papàs a cogliere l’ironia di questa scelta. Qualcun altro, addirittura, la vede come un’occasione da sfruttare anche per una sana autocritica: «Magari di fronte a un bel panino può nascere una discussione proficua. Chiediamoci piuttosto cosa stiamo facendo noi arbëreshë per preservare e promuovere il nostro patrimonio».

  • Il sindaco del rione Santa Lucia

    Il sindaco del rione Santa Lucia

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    Nelle rughe di Faustino Olivito detto “il Caporale” sono scolpiti settant’anni di storia cosentina. I solchi sulla sua fronte sono un reticolato di strade e vinelle, personaggi e aneddoti, profumi, voci, panni stesi al sole e minestre fumanti sui fornelli: c’è dentro la vita di Santa Lucia, uno dei quartieri più suggestivi e chiacchierati della città vecchia.

    Lo chiamano “il sindaco” perché ha l’autorevolezza della memoria storica. E poi ha le chiavi. Faustino è il custode delle chiavi della piccola chiesa di origine medievale dedicata a Santa Lucia, la santa protettrice degli occhi e della vista da cui prende il nome il quartiere. Gliele consegnò anni addietro don Giacomo Tuoto quando era parroco e rettore del Duomo. Sapeva di metterle in mani sicure per garantire a chiunque di visitare quel luogo sacro così importante per i cosentini, nonostante durante la pandemia la statua della Santa sia stata portata nella cattedrale per evitare affollamenti e non sia ancora tornata nella sua casa.

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    Faustino ci pare le porte della chiesa di Santa Lucia (foto Benedetta Caira)

    Faustino con le sue chiavi è l’emblema della resistenza, di chi non scappa e resta aggrappato a ciò che rimane, tra cumuli di macerie e spazzatura, palazzi sventrati dai crolli, vicoli deserti, topaie spacciate per alloggi e date in affitto ai rom.

    Faustino e la festa di Santa Lucia

    Ogni 13 dicembre, giorno della festa di Santa Lucia, lui rinnova il rituale e apre il portone della chiesa ai fedeli che di anno in anno sono sempre meno. E invece ricorda quando la folla era così tanta che la gente doveva sostare sulla scalinata a fare la sua preghiera mentre la piccola navata della chiesa era gremita. A ogni ora a partire dall’alba, veniva celebrata una messa. C’erano i venditori di candele, se ne vendevano migliaia, «ce n’erano di vario tipo – ricorda Faustino – quelle più semplici costavano 50 lire. Tutti i fedeli accendevano i ceri in chiesa e le cassette delle offerte erano sempre piene».

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    Niente più candele accese all’interno della chiesa

    Era una festa solo religiosa, un momento di raccoglimento in cui la comunità si ritrovava, ma oltre ai canti risuonavano tra i vicoli zampogne e tamburi. «Gli zampognari arrivavano da Laino Borgo o da Serra San Bruno all’inizio di dicembre e restavano in città per un paio di settimane, proprio qui sopra – Faustino indica una viuzza – si affittavano letti e loro alloggiavano lì». Non camere ma letti, in quelli che erano B&B ante litteram.

    Il tempo si è fermato

    La piccola chiesa di Santa Lucia, con il suo rosone in pietra, resta un punto di riferimento, nonostante sia stata privata della statua tanto amata dai fedeli, un colpo che ha impoverito il quartiere e ridotto ulteriormente i momenti di socialità. «Spesso arrivano cosentini emigrati, che vivono lontano dalla Calabria e tornano qui per ritrovare la magia di questo luogo, l’atmosfera della loro infanzia. Io apro la porta della chiesa – dice Faustino – e per molti è una emozione grande rivivere il ricordo della festa».

    Faustino “il sindaco” arriva ogni mattina presto e apre le porte della sua piccola putica. Il negozio di alimentari ha oltre cento anni perché fu suo padre ad aprirlo. Qui – come in un incantesimo – il tempo sembra essersi fermato. Cristallizzato a quando – dove adesso non c’è più nessuno – arrivavano i bambini col grembiule a comprare il panino. «Ci mettevo dentro una fetta di mortadella o di salame e costava trenta lire». Le bottiglie di moscato di una marca che non esiste più, la grossa bilancia su cui si posavano gli occhi curiosi degli scolari in attesa della merenda avvolta nella carta oleata, vecchie lattine impolverate e gli adesivi con le réclame che oggi più nessuno conosce.

    Il quartiere che non c’è più

    In vendita sugli scaffali ci sono ormai solo detersivi e poco altro, in questo luogo del cuore Faustino torna ogni mattina non perché deve, ma perché non può farne a meno. «Ci hanno lavorato mio padre, mio zio, mio fratello che ora è in America. Io ci sono entrato quando ero un bambino, ora ho 81 anni: la mia vita l’ho fatta tutta qui dentro. A questo quartiere sento di appartenere nonostante oggi sia irriconoscibile: disabitato, abbandonato».

    Gli occhi di Faustino brillano, sembra quasi di vederle le immagini che scorrono nella sua memoria. Con il dito indica i palazzi, ricostruisce pezzi di storia a partire dai cognomi o dai soprannomi. Si ferma, ricorda meglio, aggiunge un dettaglio. «Ogni casa era abitata. Dove adesso le porte sono sbarrate o murate vivevano intere famiglie. Si festeggiavano continuamente nascite di bambini».

    Sacro e profano

    Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta era la preghiera dei fedeli davanti alla statua della Santa, lo ripetevano in coro i bambini scendendo dai gradini di pietra, senza comprenderne neanche bene il significato. «Era bello qui – racconta Faustino – perché era un posto pieno di vita. I negozi di alimentari non si contavano, poi c’erano calzolai, sarti, il quadararo, cinque cantine che vendevano vino. E poi – e i suoi occhi sorridono – c’erano le signorine».

    Vico IV Santa Lucia era luogo di perdizione e peccato. Le prostitute stavano sull’uscio delle loro case ad aspettare i clienti, spesso in abiti così dimessi che si faceva fatica a non confonderle con le massaie intente a scambiarsi confidenze e ricette poco più in là. Molte di loro avevano nomi d’arte e soprannomi fantasiosi e ammiccanti. Tanto bastava ad accendere l’immaginario dei ragazzini che le spiavano da lontano o contravvenivano al divieto di superare i confini imposti dai genitori.

    «Erano clienti del mio negozio – ricorda Faustino – e io le ho sempre rispettate. Sapevo, ma facevo finta di non sapere». La più bella? Franca, detta “la ballerina”, «mezza bionda, bellissima». Molte di quelle signore sono cresciute, diventate mamme e nonne, invecchiate sugli usci delle porte delle loro case, incipriando il viso e ossigenando i capelli nel tentativo di rimanere appetibili, osservando questa parte di città perdere pezzi, crollare, sparire insieme a loro.

    Faustino nel deserto di Santa Lucia

    Continuando arrampicarsi sui gradini, ci si spinge nel cuore del quartiere, si attraversano le sue stratificazioni. Un gruppo di bambini rom trascina un fascio di rami che serviranno per scaldare la notte gelida, montagne di rifiuti, scorci meravigliosi di pietre antiche, case senza tetto, stendipanni carichi di indumenti appena lavati. Da una finestra una signora ci invita a salire: «Ho ammelato mo’ mo’ i turdilli, venite a provarli!».

    Ci si perde tra le strettoie e si incontrano più gatti che esseri umani. Sparse qui e lì ci sono tracce di vite e di devozione: fiori finti e lumini spenti davanti a immaginette sacre ed edicole votive abbandonate. Da lontano si sente una strina, voci di bambini, murales, colore. Poi, d’improvviso, ancora deserto: edifici vuoti, macerie e spazzatura, un cane che abbaia sfinito. Solo il muschio a colorare il grigio dei mattoni, sui portoni i cognomi scritti a penna, sovrapposti a quelli di chi abitava qui quando tutto era integro.

    Un quartiere di paradossi

    Una bestemmia sul muro e una Madonnina afflitta in una teca di plastica: nichilismo e devozione. Perché il quartiere di Santa Lucia è da sempre un luogo di paradossi, ossimori, asimmetrie: sante e puttane, nobiltà e miseria, canti e silenzi profondi come abissi. Pieni e vuoti, memoria e rimozione. Ora per esempio, sta per arrivare una pioggia di fondi del Contratto Istituzionale di Sviluppo: 90 milioni di euro, 24 cantieri che in tre anni dovrebbero trasformare il centro storico e migliorare sensibilmente la qualità della vita di chi lo abita: accessibilità, cultura, turismo.

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    Gli abitanti del quartiere si lamentano della mancata raccolta dei rifiuti (foto Benedetta Caira)

    È il momento di tirare fuori le idee, assicurano gli amministratori, perché tutti i progetti validi saranno finanziati. L’ultima volta lo aveva promesso il Contratto di quartiere, non se ne fece praticamente nulla. Si può cautamente ricominciare a crederci. Non sarà facile ritrovare l’ottimismo, ma viene come sempre in soccorso la saggezza popolare: Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta.

  • Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

    Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

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    Un signore distinto si aggirava nei mesi scorsi tra i vicoli del centro storico di Cosenza, incuriosito e affascinato dalle pietre antiche di Corso Telesio. Quel signore si chiama Giorgio Pala, è un architetto di fama nazionale, che recentemente ha lavorato al restauro del parco archeologico del Colosseo. Cosa ci facesse da queste parti è presto detto: il suo studio romano si è aggiudicato i lavori di riqualificazione di piazzetta Toscano e per qualche mese ha frequentato la parte vecchia della città in cerca dell’idea migliore per ripensare questo luogo.

    I soldi del Cis per piazzetta Toscano

    Una partita da un milione e duecentomila euro (soldi previsti dal Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della cultura) per mettere mano all’opera più controversa della città, con la sua spigolosa copertura di ferro e di vetro nata per “custodire” l’area archeologica sottostante (i resti di una domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale), ma da decenni oggetto di polemiche per lo stato di inesorabile degrado in cui versa. I fondi sono quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) al cui iter per la destinazione alla città dei Bruzi aveva dato un forte impulso la Cinquestelle Anna Laura Orrico, in veste di sottosegretaria nel governo Conte bis.

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    La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico

    Due giunte, altrettanti progetti

    La struttura attuale, progettata dall’architetto Marcello Guido e realizzata negli anni ’90, è danneggiata in più parti, la manutenzione è complicata e costosissima, i resti romani hanno finito per essere ricettacolo di sporcizia, coperti da erbaccia e buste di spazzatura. Nel 2018 l’allora sindaco Occhiuto annuncia un finanziamento per «una rivisitazione» dell’opera che – garantiva il primo cittadino – l’avrebbe resa «più funzionale, accessibile, visitabile anche nella parte archeologica». Nulla, però, è accaduto.

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    Le erbacce sotto la copertura che impedisce la piena fruizione dell’area

    A distanza di anni, con una nuova giunta in sella, riecco il Cis con un altro progetto. Anzi, due: Pala e il suo team, infatti, nell’aggiudicarsi i lavori hanno presentato due proposte (con una identica previsione di spesa) per la riqualificazione urbanistica e funzionale di piazzetta Toscano con la valorizzazione dei reperti. La prima opzione prevede di salvaguardare l’attuale copertura. La seconda, invece, propone di “smontare” l’opera realizzata in ferro e vetro e dare una nuova vita all’area lasciando la piazza aperta e il parco archeologico fruibile dai visitatori.

    La promessa di Alimena: lavori al via ai primi di gennaio

    Chi deciderà? A scegliere la migliore tra le due proposte presentate dal prestigioso studio romano dell’architetto Pala, aggiudicatario dell’appalto, sarà la Conferenza dei servizi che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo tutti gli enti che a vario titolo sono interessati al futuro di piazzetta Toscano. L’ultima parola sulla riqualificazione di quest’area dall’immenso valore storico e artistico, spetta però alla Sovrintendenza, che potrà porre il suo veto nel caso in cui non ritenga garantita la tutela dei reperti.

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    Il consigliere comunale con delega al centro storico Francesco Alimena (PD)

    Pare quindi che il 2023 sarà l’anno del restyling della vituperata piazzetta, l’apertura dei cantieri è prevista per i primi di gennaio, «la tempistica è chiara, già a metà del mese i lavori partiranno» garantisce Francesco Alimena, oggi consigliere comunale con delega alla città vecchia ma sostenitore dei Cis fin dalla prima ora. «Stiamo per cambiare il volto del centro storico – dice – e questa volta non si tratta di proclami ma di fatti».

  • Negozi gratis, la solidarietà batte la crisi a Cosenza e Rende

    Negozi gratis, la solidarietà batte la crisi a Cosenza e Rende

    Ti piace questa maglietta? Prendila, non costa nulla. In cambio, se vuoi, puoi lasciare qualcosa che a te non serve più e metterla a disposizione di qualcun altro. Funzionano così i negozi gratis anche a Cosenza: alla base c’è la sharing economy, l’economia della condivisione, che promuove un uso consapevole e circolare di vestiti, scarpe, oggetti e il loro riutilizzo per evitare che finiscano in discarica.

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    Il negozio gratis all’interno del centro sociale Sparrow a Rende

    Nella provincia di Cosenza esistono due negozi di questo tipo, uno si trova all’interno del centro sociale Sparrow a Rende, l’altro è nel centro storico di Cosenza. Piccole isole di utopia in cui il baratto manda avanti un microsistema economico che non prevede l’uso del denaro. Basta trascorrere qualche ora nel negozietto gratis di corso Telesio per scoprire quanto questo pugno di metri quadri strabordante di vestiti, riesca a raccontare il quartiere.

    Elena e Simona

    Ad accoglierci ci sono Elena e Simona, amiche e “colleghe” in questa avventura. Il negozio è di tutti, è una porta sempre spalancata, è luogo di chiacchiere, di risate, di scambio di informazioni e di sostegno. Arriva una mamma con il passeggino, lo sistema sull’uscio ed entra. Ha bisogno di tutine per il piccolo, di lenzuola e magari di un vestito per lei. «Guarda questo – le dice Elena – lo hanno appena portato. Secondo me ti sta benissimo». Intanto un signore cerca tra le pile di magliette qualcosa di colore blu che sia della sua taglia. «È un nostro cliente affezionato- sorride Elena – conosciamo bene i suoi gusti».

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    Poche e semplici regole nel negozio di Elena e Simona nel centro storico di Cosenza

    Anche per quelle persone che non hanno nulla

    Nel centro storico è confluita la popolazione Rom che per anni ha vissuto nelle baracche sul fiume, si sono mescolate le culture e i bisogni e si è creata una nuova comunità marginale. «Ci sono tante persone che non hanno nulla – spiega Simona – che hanno bisogno di indumenti nuovi e puliti e noi li mettiamo a disposizione. Ci conosciamo tutti, siamo una grande famiglia, per cui sappiamo bene quali sono le necessità di chi abbiamo di fronte». Simona ha 53 anni ed è arrivata nel 2005 dalla Romania dopo una parentesi in Israele dove lavorava come colf.

    Un passato difficile inciso intorno al suo sguardo ma per il futuro ha obiettivi chiari e definiti: «Voglio che mia figlia studi e che possa scegliere il meglio. Ho fatto grandi sacrifici per poterla crescere, ero sola e ho sempre lavorato, anche portandola con me quando facevo le pulizie nelle case e lei era una neonata». Scappa qualche lacrima ma intorno ci sono gli amici di sempre che proteggono con un abbraccio. «Io e Simona siamo due mamme – aggiunge Elena – e siamo due donne che vivono il quartiere con tutte le difficoltà che comporta».

    Un presidio di solidarietà e democrazia

    Questo piccolo negozio gratis rappresenta un presidio importante di solidarietà e di democrazia con la doppia finalità di aiutare sia le persone che l’ambiente, perché il riutilizzo evita che tanti indumenti vengano buttati via. Il negozietto gratis è aperto tutti i sabati dalle 17 alle 20, negli stessi orari è possibile portare vestiti o altri oggetti da mettere a disposizione, bisogna ricordare che il negozio è autogestito per cui chi porta sistema e chi prende non lascia in disordine.

    «Purtroppo ci capita spesso di trovare delle buste di indumenti abbandonate qui davanti alla saracinesca – dice Simona – questo non va bene perché noi siamo attente al decoro di questo luogo, nessuno deve avere l’idea che qui ci si possa liberare di ciò che non si sa dove mettere. I nostri clienti meritano vestiti usati ma non logori, possibilmente stirati e profumati di bucato».

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    Il negozio gratis del centro sociale Sparrow all’aperto

    Negozi gratis: da Cosenza allo Sparrow di Rende

    Stesse regole nel negozio gratis di Rende che ha già una storia perché è nato oltre cinque anni fa e ha spazi molto più ampi, si trova infatti all’interno del centro sociale Sparrow. Qui tutti i venerdì dalle 16 alle 18 è possibile scegliere tra migliaia di capi e accessori oppure portare i propri vestiti non utilizzati.

    L’ideatrice di questo progetto è Sonia Genovese che ha importato l’idea da Berlino, dove si trovava per un programma Erasmus. «Viviamo in una società in cui si accumula sempre di più e le cose vanno a finire nella discarica anche quando potrebbero ancora essere utilizzate – spiega -. Rimettendo in circolo gli indumenti evitiamo di riversarli nell’ecosistema e svolgiamo una funzione sociale perché questo è un luogo di confronto e di aggregazione». Nel negozio gratis di Rende gli utenti sono studenti universitari, migranti, amanti del vintage, appassionati di riciclo e infine tanti pensionati.

    Punto di riferimento per gli anziani del quartiere

    «Questo è un fenomeno in crescita – aggiunge – . Siamo diventati un punto di riferimento per molti anziani del quartiere che trascorrono qui qualche ora: prendono, lasciano indumenti, ci aiutano a mantenere in ordine, insomma è un modo per riempire compagnia il loro pomeriggio». All’interno dello Sparrow, nello spazio in cui il negozio gratis è allestito, si accumulano anche i giocattoli e i vestiti per bambini. «Ci sono famiglie che vengono anche da fuori provincia perché sanno che qui potranno scegliere e portare a casa tutto ciò che può servire, tutto gratis e senza limiti».

    I migranti pieni di gioia

    E negli anni i vissuti e le storie si sono susseguiti, alcuni particolarmente commoventi. Come quella volta in cui una famiglia di migranti era piena di gioia e di stupore di fronte all’idea che fosse tutto gratuito. «Hanno videochiamato i parenti nel loro paese di origine – ricorda Sonia – e i bambini mostravano con estrema felicità ai cuginetti i giochi, per farsi dare un consiglio su cosa prendere».

    Condivisione e solidarietà che sono la norma, «perché – precisa l’ideatrice – qui nessuno guadagna nulla, rimettiamo in circolo vestiti e oggetti usati per dargli una nuova vita e questo è un atto che porta gioia a chi dona e a chi riceve». Unico obbligo: prendersi cura del luogo e delle cose, non sprecare, non sciupare, mettere in ordine. «C’è chi viene a prendere, c’è chi viene a lasciare ma l’autogestione in questi casi produce effetti inaspettati – conclude – perché il negozio praticamente funziona da solo, senza bisogno di mediazioni». Un’altra economia è possibile».

  • Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

    Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

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    Ne ha fatta di strada quest’onda. È nata sulle coste africane e ha viaggiato per migliaia di chilometri prima di arrivare con tutta la sua potenza ad impattare qui, sul litorale calabrese, e farsi cavalcare dalle tavole dei surfisti che l’hanno attesa e sognata per giorni.
    Sono circa trecento i surfisti in Calabria. Impossibile però contarli uno ad uno, lasciano le loro tracce solo nei gruppi whatsapp e sulle pagine social che documentano memorabili giornate in mare. È risaputa la ritrosia a rivelare coordinate precise riguardo alle spiagge su cui arrivano le onde buone, per salvaguardarle dal sovraffollamento. Perché se si è in troppi a lanciarsi in acqua non ci si diverte, o peggio, si rischia di farsi male.

    Il sogno di essere parte della natura

    «Ci studiamo le previsioni del tempo, cerchiamo di conoscere con largo anticipo l’arrivo della mareggiata e una volta individuata ci prepariamo a raggiungerla”. Antonio Ciliberto, più noto come Tony Cili, 34enne di Crotone, è un vero waterman, un appassionato di sport acquatici. Lo si può vedere su Instagram planare sulle onde, felice come un bambino, perché il surfista più bravo è quello che si diverte di più.

    «Da piccolo vedevo nei film i surfisti e sognavo di diventare uno di loro. Adoro le emozioni che questo sport riesce a darmi, adoro sentirmi parte della natura». Ci vuole il fisico, certo, ma questa è un’attività che aiuta a mantenersi in forma. Fino a quando si può praticare? «Spero di poter continuare a surfare fino a 100 anni», scherza Tony. «Del resto in altri paesi mi è capitato di vedere 85enni ancora energici».

    Sport, ma anche stile di vita

    Per entrare nel mondo del surf bisogna familiarizzare con lo slang e comprendere i riti e i tempi di una passione che non è semplicemente sport, ma stile di vita. La Calabria, con i suoi 800 km di coste bagnate dal mar Ionio e dal mar Tirreno offre “spot” con onde di qualità da est a ovest e una gamma inesauribile di scorci da scoprire. Bovalino, Copanello, Squillace, Gizzeria, Roseto Capo Spulico sono solo alcune delle località predilette da chi fa surf. E ogni spiaggia ha un nome in codice a prova di intercettazione: Munnizza, Madami, Certi campetti, Lavazza, La torre, Le serre, Lo scoglio, Zinno point, Copa, Il traliccio, Il parcheggio e molti altri.

    Le stagioni del surf in Calabria

    Da ottobre ai primi di aprile – proprio mentre le mareggiate minacciano le linee ferroviarie e i centri abitati – i surfisti s’infilano le loro mute e si lanciano sulle onde. Si ritrovano dalla sera prima, dormono nei pressi della spiaggia in macchina, nei camper, nei furgoni, aspettano l’alba per scrutare l’orizzonte, pronti a tuffarsi. Da maggio lo Jonio va “in letargo”, mentre il Tirreno riceve mareggiate anche nei mesi estivi.

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    Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri del surf in Calabria

    In Calabria il surf è arrivato in ritardo rispetto a quanto accaduto nel resto d’Italia. Le prime tavole sono comparse negli anni ’90 e oggi in acqua cominciano ad entrare le seconde generazioni. Come nel caso di Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri, che ha trasmesso al figlio la sua grande passione. Molto è cambiato in questi anni in cui le spiagge più ambite sono state “colonizzate” da surfisti che arrivano da altre regioni, in particolare Lazio, Campania e Puglia.

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    La passione di suo padre Mimmo ha contagiato anche Marco Gaglianese, qui in azione

    Un’opportunità per il turismo

    Dietro il surf c’è un potenziale turistico che per il momento in Calabria viene ignorato. «Potrebbe essere strategico per allungare la stagione da ottobre ai primi di maggio: praticamente dove finisce l’interesse del turista tradizionale comincia quello del surfista». A spiegarlo è Gianpaolo De Paola, cosentino, in arte Gizmo. «Ma bisognerebbe preservare i punti costieri dove riceviamo onde di qualità. Servirebbe quindi un cambio di passo rispetto a quello che la politica ha fatto fino ad oggi». I pennelli, le famigerate T, spezzano il moto ondoso oltre a creare danni alle spiagge. «Se non ci fossero interessi che evidentemente remano contro, le barriere sommerse potrebbero rappresentare un’alternativa rispettosa della linea costiera. Noi ci spostiamo. Viaggiamo – continua De Paola – e constatiamo come le altre regioni portino avanti esperienze virtuose che risolvono il problema dell’erosione costiera ma hanno un impatto positivo sul turismo».

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    Guerino “Papà” Preite osserva le onde prima di entrare in acqua

    La grande famiglia del surf in Calabria

    Con gli anni la “comunità” dei surfisti calabresi ha imparato a condividere informazioni, esperienza e – vincendo la tradizionale diffidenza – persino le spiagge. «Siamo una grande famiglia. Rimaniamo in contatto attraverso i social e ci aggiorniamo sulle previsioni del tempo. Al momento giusto ci diamo appuntamento e in attesa che arrivi la mareggiata trascorriamo le notti insieme, parcheggiamo vicini i nostri camper o i furgoni e magari accendiamo il barbecue», racconta Gianpaolo.

    All’appuntamento con le onde bisogna arrivare preparati, non basta la prestanza fisica, la caratteristica fondamentale da possedere si chiama acquaticità. E poi bisogna conoscere le correnti e imparare a gestire la paura che in certi momenti – quando ti trovi nel mezzo di onde alte due metri – toglie il fiato. «Sottostimare le dimensioni di una mareggiata o sovrastimare le proprie capacità può mettere a rischio la vita», chiarisce De Paola.

    L’adrenalina vince la paura

    A lui è successo. «Mi trovavo a Guardia Piemontese, un’onda anomala alta circa quattro o forse cinque metri mi ha seppellito. Quando sono riuscito a risalire per prendere fiato ho visto arrivare un treno di altre onde che mi hanno di nuovo mandato giù. Mi ci è voluto parecchio per riprendermi. Sono esperienze di puro terrore che chi pratica surf conosce bene, ma è l’adrenalina che ti fa amare questo sport e ti fa pensare: bene, non sono morto. Voglio rimettermi alla prova». Dopo esperienze di questo tipo si esce dal mare un po’ ammaccati, ma spesso ad avere la peggio sono le tavole che si lesionano a contatto con il fondale.

    Gianpaolo “Gizmo” De Paola

    Tavole da surf made in Calabria

    Francesco Cerra vive a Catanzaro ed è uno shaper, ovvero realizza artigianalmente tavole da surf ed è l’unico in Calabria. «Ho cominciato nel 2017. Avevo voglia di riprodurre una tavola a cui ero molto affezionato – spiega – e che si era rotta. Ho imparato a farlo da me, da autodidatta». È il fondatore dell’associazione Copa Bay Surf di Squillace che oltre a riunire un nutrito gruppo di surfisti, organizza corsi e promuove attività sociali e ambientali come la pulizia delle spiagge e della pineta. «Costruisco e riparo le tavole per i miei amici. È un modo per sentirmi ancora di più parte di questa comunità di surfisti».

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    Francesco Cerra è l’unico in Calabria a realizzare tavole da surf

    I prezzi? Modici: “Non è il mio lavoro principale per cui l’obiettivo non è certo guadagnare tanto, ma rientrare nelle spese per l’acquisto dei materiali: si aggirano tra 350 e 400 euro. Nei negozi specializzati le tavole arrivano a costare da 500 fino a 900 euro». Anche Cerra s’interroga spesso sulle potenzialità del surf in Calabria. «Siamo una regione baciata da mari diversi e onde di qualità che ormai già da anni attirano appassionati da altre parti d’Italia. Sarebbe bello riuscire a rendere tutto questo una opportunità di sviluppo turistico».

    La lezione delle mareggiate

    Dall’album dei ricordi escono le foto più belle degli ultimi anni, giornate indimenticabili che hanno sempre lo sfondo blu del mare in tempesta. «Il 2014 è stato un anno perfetto – racconta emozionato – con tante mareggiate sullo Ionio provenienti da sud-est. Ricordo una giornata a Bova, era Pasquetta, in modo del tutto inatteso ci siamo ritrovati in tanti a surfare e poi a festeggiare assieme». Questa dimensione della socialità è certamente tra le cose da preservare, nello sport e nella vita. Che si rincorrono sempre, proprio come le onde migliori.
    Perché il surf è una grande metafora: attendi il momento giusto, cavalca l’onda, prendi con filosofia anche le sconfitte. Sembrava solo una mareggiata e invece era una lezione di vita.

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    Antonio “Tony Cili” Ciliberto
  • Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Kasbah, borgo, villaggio: il quartiere dell’autostazione è un mondo a sé rispetto al resto di Cosenza. Contenitore di storie e di vite, migranti e stanziali. All’alba, nel silenzio della città che ancora dorme, il quartiere si sveglia prima degli altri tra i rumori dello scarico della merce, le saracinesche che si alzano e il furtivo guardarsi intorno di chi ha trascorso la notte sulle panchine e sa che deve dileguarsi prima che arrivi il primo autobus carico di pendolari.

    Il buongiorno multietnico dell’autostazione di Cosenza

    Una pattuglia della polizia è all’ennesimo giro di controllo e avanza lenta tra le corsie ancora deserte. Nel Buongiorno si intrecciano le lingue. Ognuno ringrazia il suo dio. Il bar sforna cornetti, prepara i primi caffè e comincia svogliatamente a popolarsi. Davanti al money transfer prende forma la mesta processione di chi è in attesa di un aiuto economico da familiari lontanissimi e chi conta i soldi che oggi invierà a casa.

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    Crocevia di storie e persone: l’autostazione di Cosenza

    Il cinese Chang diventa Ciccio 

    In una città in cui i pochi turisti restano incompresi e ci si affida ai gesti per comunicare, il paradosso è che qui i negozianti, anche i più anziani, si sono assicurati un repertorio di frasi per interagire in inglese con clienti di tutte le nazionalità. Nella dimensione comunitaria del borgo i nomi, quelli impronunciabili, si reinventano in chiave cosentina. E così Kaunadodo, che arriva dal Mali, per qualche bizzarra associazione diventa Tonino, mentre Chang che è cinese, per tutti è Ciccio. Il tempo è scandito da arrivi e partenze. I ragazzi nordafricani con i dreadlock, belli come statue, si mischiano agli studenti che a partire dalle sette scendono dai bus in arrivo dai paesi della provincia, incrociano le badanti col velo che tornano a casa dalle notti trascorse ad accudire gli anziani.

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    Mamma africana con il suo bambino tra le corsie dell’autostazione di Cosenza

    Degrado o luogo come un altro?

    I viaggiatori di passaggio vanno ad acquistare nei bazar gestititi dai cinesi, la comunità araba mangia il kebab dall’egiziano e fa la spesa nelle macellerie halal e nei supermercati che vendono prodotti internazionali. Le ragazze nigeriane si sistemano le treccine con i cosmetici acquistati all’african shop. Qui acquistano prodotti specifici per la loro pelle e trucchi che valorizzano l’incarnato. Ci sono sguardi indignati e sguardi indulgenti. Per alcuni questa babele è causa di degrado e criminalità, per altri è un luogo come un altro.

    I cosentini non si sentono al sicuro

    Il dato di fatto è che i residenti non si sentono al sicuro. Nei condomini quasi tutti hanno potenziato sistemi di allarme e telecamere. «Guardi qui», Anna mostra il suo cellulare, «24 ore su 24 controllo dal mio telefono cosa accade davanti alla porta di casa. Se c’è qualcuno un beep mi avverte. Viviamo così, con la paura costante di rientrare nel portone o nel parcheggio e trovare qualche malintenzionato». I palazzoni che fanno da cintura intorno all’autostazione sono edifici eleganti con appartamenti di metrature smisurate rispetto agli standard attuali. Ogni amministrazione comunale che si è succeduta ha promesso il trasloco delle corsie dei bus con il loro pesante carico di inquinamento atmosferico. «Argomenti buoni solo in campagna elettorale – sbotta una signora davanti al supermercato – ormai abbiamo smesso di crederci. Questo era un quartiere di famiglie, professionisti, negozi. Adesso abbiamo spazzatura, traffico, degrado, prostitute, ubriaconi e risse».

    Autostazione Cosenza: l’amicizia possibile e il compare cinese

    I nomi sui citofoni, cancellati e sovrascritti, dicono qualcosa della geografia di questi condomini multietnici in cui al profumo del soffritto preparato dalla vecchietta del primo piano si mescola l’odore dell’aglio dell’adobo filippino. Arriva su, fino al quinto piano, dove incontrerà le note speziate del pollo in padella affondato nel riso basmati della tradizione pakistana. È tutto un dualismo, un alternarsi, passato e presente, nuovo e antico, prossimità e lontananze. Molti negozi storici resistono, convivono muro e muro con i negozi che aprono come funghi per assecondare le esigenze della popolazione multietnica che gravita intorno all’autostazione. Certe volte i rapporti si trasformano in amicizia, un commerciante cinese ha dato al figlio il nome di un collega italiano e gli ha chiesto di battezzarlo. Certo non è sempre così, ci sono situazioni di conflitto sempre sul punto di esplodere. Bande rivali che ogni tanto seminano il panico.

    «Sono i ragazzi cosentini a darmi fastidio»

    «Questo è un porto – dice un esercente che non vuole esporsi e chiede di restare anonimo – e nei porti si sa, arriva di tutto: la gente per bene e i disperati. Ma se vuole saperlo a me danno più fastidio gli italiani, i cosentini, i ragazzi che ho visto crescere nel mio quartiere e che oggi sono diventati degli sbandati. Mi presentano la tessera del reddito di cittadinanza e pretendono non la spesa ma i soldi. È una continua richiesta, snervante, ossessiva. Gli rispondo: ma c’è scritto banca sull’insegna? Che rabbia. Certe volte sono costretto a chiudere prima, è l’unico modo che ho per sfuggire. A questo siamo arrivati».

    Nel “porto” cosentino c’è tutto un flusso di migranti in partenza e in arrivo, che segue le rotte del lavoro o della sua ricerca, dalla raccolta nei campi alla vendita ambulante. E c’è un indotto cospicuo, di cibo e servizi, dalle ricariche telefoniche al trasferimento di denaro, dal parrucchiere specializzato nelle acconciature afro al disbrigo pratiche burocratiche e interpretariato.

    La vecchia trattoria si trasforma in supermercato multietnico

    «Quando ho aperto, i miei colleghi mi guardavano male. Mi accusavano di aver reso questo posto più pericoloso perché frequentato dagli stranieri. Oggi devono riconoscere che sono stato un imprenditore lungimirante. Avevo visto lungo«. Massimo De Luca ci è cresciuto tra le corsie dell’autostazione, dove gestisce un supermercato di prodotti internazionali “I cinque continenti”. Oggi vende tapioca e aringhe essiccate negli stessi spazi in cui suo padre, negli anni ’60 serviva ai tavoli della sua trattoria i viaggiatori che arrivavano a Cosenza con la littorina, quella col portapacchi sul tettuccio. «C’erano diverse trattorie in questa zona ed erano una tappa obbligatoria per i pendolari. Venire a Cosenza significava godere della gioia di mangiare un piatto caldo prima di ripartire».

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    Tra gli scaffali di “Cinque continenti”

    Serve uno sforzo notevole per immaginare questo posto e ricostruire lo scenario completamente diverso che ruotava intorno alle corsie della stazione degli autobus: l’alimentari-trattoria Scarpelli, il deposito del pastificio Amato, Forgione Calzature, il Paradiso dei Piccoli, il Salone del lampadario. L’ultimo ad abbandonare la sua storica sede è stato Giordano il Musichiere, mentre la trattoria De Luca ha cambiato pelle e si è adeguata ai tempi. Prima Conad Margherita e poi supermercato multietnico. «Tutto è iniziato quando ho cominciato a vedere che la clientela si stava modificando – racconta De Luca – . Cinesi e filippini mi richiedevano dei prodotti, ho cominciato ad ordinarli, poi ho capito che la mia strada era proprio quella di differenziarmi, di rendermi indipendente”.

    Dopo filippini e cinesi con l’istituzione dei i centri di accoglienza legati allo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sono arrivati i nordafricani, tantissimi. Ragazzi e ragazze, intere famiglie. Hanno un disperato desiderio dei profumi e dei sapori dei loro paesi d’origine: il cibo è il ponte che tiene saldi i legami, li ancora alle loro origini. «Qui c’è un movimento di persone incredibile – spiega De Luca – puoi averne contezza solo se lo vivi come me dall’interno». E non solo nordafricani, cinesi, filippini. «Argentini, venezuelani, brasiliani sono in forte aumento. E non dimentichiamo il flusso degli studenti Erasmus».

    Quasi tutti bravi ragazzi, poche teste calde e qualche amico

    De Luca difende la multietnicità dell’autostazione. «Sono quasi tutti bravi ragazzi, a parte qualche sporadica testa calda. Mai avuto un problema nel mio negozio: entrano, comprano, pagano. E spendono anche nei negozi intorno, non solo qui. Dobbiamo vedere la presenza dei migranti come una risorsa, non come un problema». De Luca critica però la gestione dell’area: «Per contrastare il degrado non serve togliere i servizi. È stata eliminata la sala d’attesa, hanno tolto le panchine. A cosa è servito?».

    Ciccio Caruso è diventato adulto dietro il bancone di generi alimentari che gestisce fin da quando era un ragazzo. Il suo core business sono i panini imbottiti, è riuscito a convertire alla schiacciata piccante anche i suoi amici cinesi del vicino ristorante orientale. Ma è anche amico dei ragazzi arabi che gestiscono il piccolo market halal alla sua sinistra. «Siamo tutti sulla stessa barca – scherza – alla fine andiamo oltre la nazionalità e la lingua. Siamo colleghi e in qualche caso anche amici».

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    arabo e italiano: due lingue che si mescolano all’autostazione di Cosenza

    Serve un posto di polizia permanente

    Per Caruso la questione da affrontare riguarda l’afflusso di pendolari. «Gli autobus arrivano nelle corsie dell’autostazione già vuoti, fanno scendere i viaggiatori, in particolare gli studenti prima di arrivare qui. Questo per me significa perdere la parte più cospicua dei miei potenziali clienti. Bisogna migliorare i servizi – dice – rendere quest’area più accogliente e quindi più sicura, magari con un presidio permanente delle forze dell’ordine».

    Quando gli ultimi autobus abbandonano le corsie, restano cumuli di spazzatura, gli ambulanti trascinano la merce verso casa. Si sentono le risate di un gruppo di ragazzi fermi sul muretto con una birra in mano. Il lampeggiante annuncia un nuovo stanco giro di perlustrazione. È tutto a posto. O almeno così sembra.

  • Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

    Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

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    Versace torna a casa e adagia la sua nuova collezione sugli scogli di Capo Vaticano, baciati dalle onde e dal sole di questo caldissimo inizio d’estate. Il 15 luglio saranno 25 anni dalla morte del fondatore, l’indimenticato Gianni Versace. Ed è proprio nella sua Calabria che la maison di moda torna per la nuova campagna pubblicitaria La Vacanza lanciata oggi sui canali wordwide.
    La location scelta è la spiaggia di Grotticelle di Ricadi, una meravigliosa insenatura di sabbia bianca e acqua color cobalto circondata dalle scogliere e dominata dal promontorio di Capo Vaticano.

    Versace sceglie la Costa degli Dei

    Foulard, costumi, tacchi vertiginosi, stampe colorate che si abbinano a nuove silhouette sartoriali: gli iconici codici della casa di moda sono incastonati nella bellezza selvaggia della Costa degli Dei ripresa in pochi essenziali dettagli. In sottofondo si sente il rumore del vento e quello della risacca. “Mesmerize, Tantalize, Versace” è uno dei refrain della campagna pubblicitaria la cui testimonial è la modella 21enne Iris Law, figlia dell’attore Jude Law. È lei il volto scelto da Versace per incarnare, negli scatti di Camille Summersvalli, sensualità e passione tra le acque cristalline di Capo Vaticano.

    https://www.facebook.com/watch/?v=551034449949713&extid=NS-UNK-UNK-UNK-IOS_GK0T-GK1C&ref=sharing

    La Calabria di Versace  contro i cliché di Muccino

    Quasi un remake di quanto già fecero Dolce&Gabbana, che diedero una visibilità internazionale alla loro Sicilia. Sulla stessa scia, la scelta di campo di Versace potrebbe imporre l’immaginario calabrese all’attenzione di una smisurata platea. Dopo la sponsorizzazione di Jovanotti che nelle scorse settimane ha girato il suo nuovo video della canzone Alla salute (diretto dal regista calabrese Giacomo Triglia) tra Scilla e Gerace, la Calabria pare vivre il suo momento d’oro. E riscattarsi da campagne pubblicitarie a pagamento, come lo spot di Gabriele Muccino commissionato dalla Regione Calabria e costato un milione e mezzo. In cui, più che promuovere il territorio, venivano riesumati stereotipi e cliché.

     

     

     

     

  • Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

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    L’edizione di quest’anno passerà alla storia per quel «Free Ukraine, fuck Putin!» urlato dai Maneskin sul palco, ma c’è molto altro. Perché il Coachella Valley Music and Arts Festival è il festival musicale più famoso e instagrammato al mondo. Un raduno di musicisti che si avvicendano sui palchi giorno e notte, ma anche di celebrities e influencer che sfilano sui campi dell’Empire Polo Club di Indio, California. La location e l’atmosfera vagamente anni ’70 sono il vero spettacolo, quello che si svolge a favore di telefonini e si riversa sui social.

    https://www.youtube.com/watch?v=hewbCtVY2LU

    Un tocco di Calabria al Coachella

    Dietro il successo di questa edizione c’è anche l’estro di una giovane professionista calabrese che, insieme allo staff dello studio newyorkese con cui collabora, ha progettato un’installazione coloratissima che fa da cornice alle esibizioni sui palchi del festival e, naturalmente, a migliaia di foto postate con l’hashtag #Coachella.

    Una influencer in posa di fronte a Playground, il progetto a cui ha collaborato Anna Laura Pinto

    Lei è Anna Laura Pinto, cosentina, laurea in architettura a Roma e una valigia sempre pronta perché gli Stati Uniti sono ormai la sua seconda casa. Il Playground, questo è il nome dell’installazione che porta anche la sua firma, «è un pezzo di paesaggio urbano vagamente onirico – spiega – nel bel mezzo del deserto: quattro torri colorate che si raccolgono attorno a una piazza pensata come luogo di aggregazione, gioco, relax e che funziona come tale: durante la giornata, in particolare durante le ore più calde, è frequentatissima».

    Una calabrese a New York

    È appena rientrata dalla California, alle prese con i postumi del fuso orario e la valigia ancora da disfare. «Sono rimasta piacevolmente colpita dall’atmosfera che ho trovato – dice – non c’ero mai stata prima d’ora e ne avevo sempre avuto un’immagine diversa, filtrata dalle foto “glitterate” degli influencer. C’è anche quello ovviamente, ma non è la caratteristica predominante: ciò che è straordinario – dice – è lo spirito positivo che anima la collettività del festival, decine di concerti al giorno e migliaia di persone spinte dalla voglia di condividere la propria esperienza con altri. Da un lato le performance dei musicisti, dall’altra quelle degli spettatori. Un’esperienza del genere non può che fare bene allo spirito, direi che ne è valsa la pena».

    Anna Laura Pinto al Coachella Festival

    Quella del Coachella Festival è un’avventura che per Anna Laura è iniziata nel 2019. Si trovava a New York in quanto collaboratrice oltreoceano di Architensions, un prestigioso studio che ha sede nella Grande Mela e a Roma. «Ero venuta in estate a visitare i cantieri di progetti che avevo seguito a distanza. Poco dopo il mio arrivo – racconta – lo studio è stato invitato dalla direzione artistica del Coachella a partecipare a una gara per il progetto di una delle installazioni artistiche per l’edizione 2020, in competizione con altri artisti e designer».

    Un invito raccolto al volo: «In quel periodo vivevo l’ufficio dall’interno e sono stata subito coinvolta fin dalle primissime fasi nella progettazione dell’installazione. Ricordo perfettamente le lunghe discussioni in ufficio con Alessandro, Nick e gli altri membri del gruppo: quando inizi a lavorare ad un progetto e non sai ancora come si concretizzerà, gli scambi di opinioni sono fondamentali per stabilire dei criteri e capire quale sarà la strada che porterà alla definizione dell’oggetto. Il team è una forza».

    L’idea ha preso rapidamente forma: così è nata Playground. «Personalmente ho sempre avuto fiducia nel design di quest’opera – sorride Anna Laura – ho sempre pensato che aveva buone probabilità di essere selezionata. Ho ricevuto la notizia che il nostro progetto era stato scelto dopo il mio rientro in Italia. Fino a febbraio del 2020 pensavo che sarei tornata negli Usa per il Coachella 2020, poi è arrivata la pandemia ed eccoci nel 2022».

    Dall’Italia agli USA

    Anna Laura Pinto ha già all’attivo diversi successi nella sua carriera, il progetto di una casa a cui ha preso parte è stato pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista di architettura e design.
    «Mi sono laureata in architettura ormai tredici anni fa a Roma – racconta -, dove ho iniziato la mia gavetta lavorando in diversi studi. Erano i primi anni ‘10 e molti miei coetanei in quegli anni erano già partiti per fare esperienze altrove. In Italia già allora un giovane architetto aveva poche opportunità di crescita professionale. In Cina c’era moltissima richiesta di architetti occidentali, in Europa le mete più gettonate erano Londra e Berlino. Io ero incuriosita dagli Usa, in particolare da New York che è la metropoli per eccellenza: è normale che un architetto ne sia affascinato.

    E così arriva dall’altro capo dell’Atlantico. «Sono partita per la prima volta nell’estate del 2013, un viaggio studio per perfezionare il mio inglese. Al mio ritorno in Italia ho conosciuto Alessandro Orsini, architetto italiano ed ex project designer dello studio Steven Holl che aveva da poco fondato Architensions con Nick Roseboro. Da lì a breve è nato il nostro rapporto di collaborazione. Al tempo l’ufficio era ancora molto giovane, ma mi sono trovata subito in linea con la loro maniera di fare e pensare l’architettura. In poco meno di dieci anni sono cresciuti molto, ed io con loro».

    Di nuovo in Calabria

    Ma nel presente e nel futuro di Anna Laura c’è sempre anche la Calabria. «Dopo aver lavorato ad una serie di progetti negli Stati Uniti, attualmente sono la referente sul versante europeo. Abbiamo da poco ultimato un progetto residenziale a Londra e stiamo studiando un piano per la riqualificazione e lo sviluppo di un paesino proprio qui in Calabria, Architensions è stato ufficialmente invitato dal sindaco. Un’ottima occasione di studio e approfondimento, sono contenta di poter portare avanti questa ricerca in un team internazionale: lo scambio di visioni dovute a esperienze in contesti molto diversi penso possa aggiungere valore al risultato finale».

    Un legame forte quello con la sua terra, in particolare con Cosenza, dove è tornata a vivere dopo il primo periodo negli Stati Uniti. «Ho fatto base qui per tutto questo tempo, trascorrendo lunghi periodi a New York e a Roma, sempre con un occhio verso l’esterno. Però non l’ho mai abbandonata. È un rapporto basato fondamentalmente su un legame d’affetto, ma penso che Cosenza sia una città che ha molto da raccontare, piena di potenzialità inespresse che mi auguro possano essere valorizzate. Ancora è presto per entrare nello specifico – conclude – ma devo dire che alcune collaborazioni sono nate proprio in Calabria, dove ci sono degli ottimi professionisti e dove esiste una vivacità intellettuale e culturale che merita di emergere».

  • Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    «Scusi, sa dove si trova la Apricus
    «Chi?!?»
    «Gli apicoltori!»
    «Ma chi, Aiko? La giapponese? Seguitemi, vi accompagno»

    Quando anche Google Maps si era arreso al dedalo di viuzze di una delle tante contrade di Aprigliano, dal finestrino della sua auto un uomo fa segno di seguirlo, superando quello che sembrava un confine oltre il quale il mondo finisce. E invece la strada si fa sterrata, costeggia un burrone e poi si affaccia sulla vallata.

    Bisogna rallentare, fermarsi. È una terrazza naturale sulla valle del Crati con l’eco del fiume che gorgheggia in basso, il verde interrotto dalle macchie bianche dei fiori di erica, il contorno delle montagne incastrato nel blu del cielo. Aiko e Giuseppe ci vengono incontro con larghi sorrisi, indossano gli scafandri gialli. Sembrano astronauti sbarcati su un nuovo pianeta. Poco più giù ci sono le arnie colorate disposte le une accanto alle altre. «Questo è il nostro mondo. È qui che trascorriamo le nostre giornate. È la vita che abbiamo scelto, seguendo quello che più ci piaceva» – dice Aiko.

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    Un amore calabro-giapponese nato in Irlanda

    Aiko Otomo è una cuoca e apicoltrice giapponese naturalizzata in Calabria. Nella prima parte della sua vita viveva a Tokyo e faceva l’infermiera. Nel 2001 si trasferisce in Irlanda per imparare l’inglese. Qui incontra Giuseppe De Lorenzo, anche lui è in Irlanda per studiare. «Ci siamo innamorati e quindi da quel momento in poi non ho più imparato l’inglese, ma l’italiano», dice con il candore di una bambina. Le loro vite s’intrecciano, tornano in Italia, prima in Emilia Romagna, poi si trasferiscono in Sardegna. Aiko tiene dei corsi in cui insegna a preparare il Sushi, che va tanto di moda in Italia in quegli anni. Giuseppe è un’insegnante. Ma la passione comune è quella per la natura.

    «Cercavamo un posto in cui impiantare un apiario – racconta Giuseppe – quindi cinque anni fa abbiamo deciso di tornare in Calabria dove io avevo questi terreni ereditati dai miei nonni. Si trovano in una posizione ideale per il nostro progetto, ci siamo detti che era il luogo giusto. Tornare in Calabria, fare qualcosa di bello nel mio paese di origine, è perfettamente in linea con la nostra idea di puntare sulla biodiversità, preservare questa terra, perché la Calabria ne ha bisogno».

    Per godere dello spettacolo della vita negli alveari è necessario equipaggiarsi e poi superare ogni reticenza, avvicinarsi, mettere il naso nella routine delle api, lasciarsi ipnotizzare dal bombito che prima è ronzio e poi diventa musica. Ma bisogna stare attenti, «oggi le api sono nervose, forse per via del vento», avverte Giuseppe. Nella vallata le fronde degli alberi ondeggiano, ma il lavoro negli alveari prosegue nonostante tutto. «Adesso è un paradiso, ma quando siamo arrivati era una discarica: c’erano carcasse di auto rubate e spazzatura, abbiamo bonificato e trasformato il terreno e oggi qui produciamo tre tipi di miele, cera, polline e propoli».

    Sushi calabrese ad Aprigliano

    Quando Aiko non si occupa delle api, è ai fornelli. Sperimenta, contamina la cucina giapponese con ingredienti calabresi. Partecipa ad eventi in cui presenta percorsi gastronomici originalissimi: il morsello giapponese, il sushi con erbe spontanee o formaggi dei caseifici locali, una rivisitazione dei dorayaki con il fagiolo poverello di Mormanno e le fragole di Curinga, ravioli al vapore col suino nero di Calabria, yakimeshi con la cipolla di Tropea, shumai di maiale con lo zafferano di Castiglione. «Semplicemente cucinare non mi diverte – dice – a me piace farlo utilizzando ingredienti nuovi, magari sperimentare utilizzi inediti di prodotti a km 0 o anche meno».

     

    Quando è quasi ora del tramonto in pochi minuti sull’erba è servita una colazione a base di tè verde con riso integrale tostato e matcha e deliziosi dorayaki con crema a base di borragine, una pianta che cresce spontanea a queste latitudini.
    L’ospitalità calabro-nipponica viene amplificata dalle loro risate e dai loro sguardi d’intesa. «Ci piace vivere qui, abbiamo trovato un equilibrio e il nostro ritmo è quello della natura» – dice Aiko. «Il suono delle api è magico, è rilassante, molti credono abbia proprietà curative. A un certo punto non si riesce più a farne a meno».

    Apicoltori idealisti

    Il legame col Giappone resiste attraverso la cucina, la passione per la calligrafia, gli amici che vengono in Italia a trovarla e i ciliegi, che fioriscono anche da queste parti e la fanno sentire a casa.
    «Io e Aiko ci siamo innamorati dalle api e siamo impegnati a curarle. Non è semplicemente un lavoro, ma una missione. Vogliamo dare il nostro contributo perché sono a rischio estinzione» spiega Giuseppe. «L’apicoltura è essenziale per la vita sulla terra. Le api stanno morendo e hanno bisogno del nostro aiuto, per questo è necessario difenderle».

     

    Un impegno che si concretizza anche attraverso iniziative e progetti di sensibilizzazione sull’importanza della biodiversità. La prossima tappa di questo percorso sarà il 20 maggio, in occasione della Giornata mondiale delle api. Tra Rogliano e ad Aprigliano si terranno convegni, seminari, corsi di apicoltura, jam session, degustazioni di miele, passeggiate nella valle del Savuto e fra le sorgenti del Crati.
    Il sole sta calando, le api si rintanano nelle arnie per riposare, cominciano a vedersene sempre meno intorno alle piante. Sembra che tutto finisca e invece è solo il momento di raccogliere nuove energie.