Autore: Attilio Lauria

  • PAROLE ‘MPACCHIUSE | Il mio flip book sognando i Lumiére

    PAROLE ‘MPACCHIUSE | Il mio flip book sognando i Lumiére

    Centotrenta, anniversario tondo, celebrato ufficialmente il 19 marzo. Per l’occasione, il 3 aprile uscirà nelle sale italiane Lumiére. L’avventura del cinema, che è appunto di questo che si parla, della nascita dello stupore.
    Il film, diretto da Thierry Frémaux, megadirettore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumiére di Lione, raccoglie 120 “vedute” dei fratelli Auguste e Louis, fra cui il l’arcinoto arrivo del treno in stazione e l’uscita degli operai dalla fabbrica. Roba da 50 secondi l’una – tanto durava un caricatore di pellicola – restaurate dal laboratorio della Cineteca di Bologna “L’Immagine Ritrovata” senza aiuto dell’intelligenza artificiale. Un film, per chi ha voglia di saperne di più, del quale sono disponibili sul web tutti i dettagli, dal pianoforte di Gabriel Fauré che fa da colonna sonora, alla voce narrante di Valerio Mastandrea, con corollario di recensioni varie, qualcuna alla Bertoncelli.

    Café Lumiére

    Ma c’è una cosa, che dura ancora meno di quei 50 secondi, altrettanto ipnotica quanto la meraviglia del cinema dei Lumiére. Che fu tale che ancora oggi, a distanza di 130 anni, si racconta del pubblico del Salon Indien du Grand Café, lungo il Boulevard des Capucines di Parigi, che alla vista dell’arrivo della locomotiva scappò dalla sala per paura di essere travolto.

    Prima di quel treno si provò in tanti modi a riprodurre il movimento con aggeggi come il fenachistoscopio o il prassinoscopio (qui www.collectorsweekly.com/articles/dawn-of-the-flick/), roba non facilissima da maneggiare, oltre che da pronunciare. Come lo erano invece i flip book, quei libricini che si tengono in una mano mentre il pollice dell’altra gira le pagine così velocemente che le immagini sembrano prendere vita.

    Flip book era il nostro smartphone

    Ce n’è uno con la copertina di un certo tono di viola invecchiato dal tempo, sopravvissuto miracolosamente alla mia infanzia, che conservo in una di quelle scatole magiche che ci vai a frugare quando hai bisogno di ripigliarti, come alternativa low cost ad una seduta dall’analista. È un gadget dei primi del ‘900 delle sigarette Turkish, di cui mio nonno è stato estimatore fino all’enfisema, che riproduce una milf in mutande che fa esercizio ginnico. All’epoca di noi boomer non c’erano gli smartphone a fare da strepito-calmante istantaneo quando sei fuori a tentare di mangiare una pizza, con i genitori ad arrangiarsi come potevano.

    Ecco, quel flip book aveva su di me lo stesso effetto dello schermo di uno smartphone, e in realtà, sempre dell’ipnotismo delle immagini in movimento si tratta. Poi, nel tempo, quel mazzettino mignon di foto stampate ha cambiato funzione, come oggetto per meravigliare amici e soprattutto amiche in odor di piacenza, fino ai giorni di ricordi quasi-bamba.
    Quelli bravi lo chiamerebbero dispositivo ottico, vivisezionandolo in mila pagine dotte, ma la magia del cinema nonostante tutto, nonostante Netflix, pandemia e blablabla, è ancora questa: innescare orditi di ricordi e suggestioni

  • Palombella Prodi

    Palombella Prodi

    Spoiler: non è un tirare i capelli al proprio mulino, aka, non è una riflessione che va a parare da una parte politica. Anzi, da sinistrorso penso che il buon Mortadella abbia già dato, in altre epoche. Perciò keep calm, e parliamo di immagini, che l’occasione è buona per ribadire, allo sfinimento, come non siano mai oggettive. C’è sempre un punto di vista, destinato ad influenzare le nostre opinioni anche quando non è intenzionalmente ideologico, ma semplice posizionamento nello spazio, come in questo caso.
    Intanto, alla notizia della tirata di capelli per una domanda che ha scatenato il Michele Apicella che è in lui, la prima reazione è stata un maddài di non è possibile, come per lo shopping di Fassino al duty free: chi, Prooodi?!? E il servizio tivvù, con lui ripreso frontalmente e gesticolante sembrava alimentare quell’incredulità, nonostante un linguaggio del corpo comunque un tantino sopra le righe.

    Prodi, framing e Bateson

    E invece, scava che ti riscava, viene fuori un’altra clip, questa volta girata da un punto di vista diverso, con inquadratura di spalle. Ed è a quel punto che mi è tornata in mente un’illustrazione che circola da qualche anno sul web, attribuita a David Suter e usata per spiegare il concetto di “framing”.
    C’è un cameraman che filma una scena che si svolge davanti a lui: un uomo scappa inseguito da un altro uomo che brandisce un coltello. Ma l’inquadratura stretta, eliminando il contesto, inverte il senso della realtà: la scarpa dell’uomo in fuga sembra un coltello, e quindi è l’inseguitore a sembrare inseguito.

    Allo stesso modo, l’inquadratura stretta su Prodi della prima clip ha alterato la nostra capacità di interpretare correttamente la scena, ristabilita invece dalla seconda clip. Un esempio dunque da manuale, che farebbe felice Gregory Bateson, il primo a introdurre il concetto di framing, dove i frame sono da intendere in senso psicologico, e definiti come una delimitazione spaziale e temporanea di un insieme di messaggi interattivi che operano come una forma di metacomunicazione. A noi basta sapere, in soldoni, che per il solo fatto di inquadrarla, la realtà, la si altera, e che perciò si può anche disinformare accidentalmente con le migliori intenzioni.
    È così che un maddài diventa un maveramente…

    Attilio Lauria