Autore: Attilio Lauria

  • Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Nel 1959 Pier Paolo Pasolini attraversa l’Italia in macchina, una Fiat 1100 prestata da Federico Fellini. Non per un film, come in altre occasioni, ma per un reportage insieme al fotografo Paolo Di Paolo: La lunga strada di sabbia, pubblicato in tre puntate sulla rivista Successo (www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=4179).

    CALABRIA, PASOLINI A CUTRO «PAESE DEI BANDITI»

    L’obiettivo è raccontare un Paese in trasformazione, dove il boom economico sta trasformando contadini in vacanzieri, e il mare in merce. Attraversa anche la Calabria e, tra tutte le tappe, ce n’è una destinata a rimanere nella memoria per le polemiche sollevate: si tratta di Cutro, che Pasolini descrive così: «Ecco, a un distendersi delle dune gialle, in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi». Non serve molto di più per accendere la miccia. La stampa calabrese esplode di indignazione, il Comune di Cutro chiede scuse formali, e persino un deputato democristiano – un certo La Russa (bizzarri ritorni della storia) – alza il vessillo dell’«offesa al popolo calabrese».

    L’attacco di certa stampa a Pasolini dopo le parole pronunciate dall’intellettuale su Cutro

    IL PREMIO A CROTONE

    La questione, naturalmente, non è solo letteraria: a venti chilometri di distanza, a Crotone, governa il Partito Comunista, mentre Cutro è democristiana fino al midollo. E così, quando a novembre Pasolini riceve il Premio Crotone per Una vita violenta, la polemica diventa scontro politico a cielo aperto.
    Fedele al suo talento per infilarsi nei guai con grazia, Pasolini scrive una lettera aperta a Paese Sera, con il tono che gli riconosciamo, diretto, ironico, spietato: «I banditi mi sono molto simpatici. Quindi da parte mia non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. […] Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene. Non è colpa vostra se siete poveri ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso».

    Pier Paolo Pasolini incontra i giovani di Cutro

    PASOLINI, CUTRO E UNA CALABRIA FUORI DAL TEMPO

    Era un tentativo di spiegazione, ma anche un manifesto: Pasolini non accettava l’idea di “mettere il velo” sulla realtà. La Calabria del 1959 era povera, dura, fuori dal tempo, eppure, in un Paese che stava correndo verso la televisione, le vacanze in Riviera e la Fiat 600, dire la verità era già un atto di eresia.

    Per altri versi, quel viaggio è una sorta di Viaggio in Italia al contrario, e se Goethe veniva a cercare la luce, Pasolini trova le ombre: dune ingiallite, coste vuote, volti segnati dalla fatica. Nel frattempo il turismo esplode, con gli italiani in vacanza che raddoppiano tra il 1959 e il 1965, rendendo così il reportage una doppia testimonianza, l’istantanea di un Paese che cambia, e l’addio a un mondo che scompare.
    Quaranta anni dopo è Philippe Séclier a provare a rifare lo stesso viaggio, reportage pubblicato da Contrasto, e ancora nel 2024 ci pensa un tedesco, Michael Ernst, per un volume pubblicato da teNeus con foto di Paul Almasy.

    Anche lui, nel percorrere sessantacinque anni dopo “la lunga strada di sabbia” passa da Cutro, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine: «Anche io mi sento come nella scenografia di un film western. Nessuno per strada, voci di uomini rumorose dietro una porta solo accostata, mentre si sporge il viso di una donna di almeno cento anni che chiude rapidamente la persiana quando mi vede guardare verso di lei. Non resterò un’ora in questo posto, anzi nemmeno mezza!». Come dire, la stessa impressione, sessantacinque anni dopo, di un luogo che non appartiene al presente.

    CUTRO E LA SUA TRAGEDIA

    Nel frattempo, Cutro è tornata sulle pagine dei giornali, e non per una polemica letteraria, ma per una tragedia: la strage di migranti, novantaquattro morti, a Steccato di Cutro, nel febbraio 2023. Le stesse coste dove Pasolini vedeva i “banditi” sono diventate la frontiera del dolore di altri “banditi” del mondo contemporaneo.

    C’è qualcosa di spaventosamente coerente in tutto questo. Se nel 1959 Pasolini veniva accusato di aver insultato la Calabria per averne descritto la povertà, nel 2023 quella stessa costa è teatro di un’altra forma di povertà, non più interna, ma globale.
    Forse aveva ragione lui quando scriveva che «la realtà non si può velare» e che il compito di chi guarda, di chi viaggia, scrive o fotografa non è consolare, ma disturbare.
    Sessantacinque anni dopo, la Calabria continua a essere un luogo che «impressiona», per usare le sue parole, solo che adesso, a impressionarci, non è più la parola “banditi”. È la realtà, nuda e disperata, che ancora ci assedia.

    di Attilio Lauria

  • La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    Ebbene sì, c’è un autore che era già stato in Calabria prima del festival di fotografia di Corigliano, quello che ha reso la nostra regione una tappa ineludibile della grande fotografia contemporanea. Ospite della Fondazione Napoli Novantanove, Mimmo Jodice ha ripercorso a fine millennio il viaggio di Norman Douglas, raccontato nel 1915 dallo scandaloso, quanto raffinato scrittore inglese in Old Calabria, diario di viaggi nell’antica Calabria, da Lucera al Salento, ma non solo. Come suggerisce il titolo del libro di Jodice, Old Calabria e i luoghi del Grand Tour, il suo percorso fotografico si muove fra le tracce di altri scrittori in viaggio, da George Gissing a Henry Swinburne, Alexandre Dumas, Edward Lear e Francois Lenormant, solo per citarne alcuni.

    Fuori dalla contemporaneità

    E dunque è una Calabria che evoca un tempo altro dalla contemporaneità quella di Jodice, le cui atmosfere sospese, dense di silenzio, inducono alla riflessione, a “perdersi a guardare”, secondo la frase di Fernando Pessoa che il Maestro ha trasformato nel tempo in poetica dalla felice cifra stilistica: «Osservare, indagare con gli occhi, con la mente, perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà», scriverà nella biografia pubblicata da Contrasto il cui titolo, Saldamente sulle nuvole, è una citazione di quell’Ennio Flaiano che «l’arte è un modo di tenere i piedi poggiati saldamente sulle nuvole».

    Le immagini dei Bronzi di Riace

    È questa lentezza dello sguardo di Jodice, caparbiamente lontano dal virtuosismo dell’attimo decisivo bressoniano, che sottrae il viaggio alla dimensione documentaria per affidarlo ad un’interiorità visionaria e contemplativa, fino a trasformare la realtà in una sorta di paesaggio dell’anima, capace di accarezzare le nostalgie della memoria. Memoria che è soprattutto identità, in questa nostra parte di Mediterraneo vista come luogo di radici e stratificazioni che riprendono vita nelle immagini di certi luoghi o architetture. Tracce di identità altrimenti consegnate all’oblio, la cui ricerca è proseguita poi qualche anno più tardi con le immagini dei Bronzi di Riace, realizzate per la campagna fotografica affidatagli dalla Regione Calabria.

    Uno scatto di Mimmo Jodice a Santa Severina (KR)

    Jodice non fotografa la Calabria, la ascolta

    Come tra volto e anima, per Jodice c’è un legame indissolubile fra dimensione esteriore e interiore che caratterizza tutto ciò che riguarda il Sud, dove “si fondono bellezza scenografica del paesaggio e dimensione sociale che viene dal passato”, come dirà in un’intervista.
    E forse è questo, in fondo, il dono più grande che Mimmo Jodice ci ha lasciato: aver guardato la Calabria non come un “altrove” da raccontare, ma un luogo dove la bellezza non è mai solo estetica, ma memoria viva, carne e spirito.

    Da calabrese, non posso che riconoscere in quelle immagini il respiro lento della mia terra, la luce che indugia sulle pietre, il silenzio che sa dire “più di mille parole”, la malinconia che da noi è una forma d’amore. Jodice non fotografa la Calabria per spiegarla: la ascolta. E in quello sguardo sospeso, tra mare e montagna, tra mito e realtà, ci restituisce l’essenza di ciò che siamo: un popolo che resiste al tempo, ancorato alla propria storia ma sempre, ostinatamente, con i piedi poggiati sulle nuvole.

    Mimmo Jodice
  • Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    “I trogloditi di Africo”: il titolo di un articolo pubblicato su “L’Europeo” nel 1948 è senza appello, come altrettanto impietose sono le foto di Tino Petrelli a corredo, che il tempo ha trasformato in icone neorealiste della miseria. Ce n’è una, oltre quella più famosa della classe con i bambini scalzi e la carta geografica della Calabria alle spalle, che mi è tornata alla memoria in questo momento, scattata all’interno di un ambiente che la famiglia condivide con un letto, un maiale ed una capra. So bene che a più di qualcuno il parallelo sembrerà eccessivo, ma l’associazione fra questa foto e quella del crollo della facciata di una palazzina di Lamezia Terme, avvenuto qualche giorno fa, ha un suo legame concettuale.

    La casa di Lamezia: la frattura simbolica

    La cronaca di eventi come terremoti, attentati, o fughe di gas ci ha abituati alla visione di interi palazzi sventrati che offrono la propria intimità al nostro sguardo come teatri dalle scenografie di vita interrotta. Cucine e letti disfatti, armadi aperti come confessionali forzati: gli interni più privati diventano scena pubblica, la rivelazione improvvisa di uno spazio intimo che insieme alla frattura dei muri porta con sé la frattura della distanza simbolica tra l’interno e l’esterno, ponendoci di fronte ad un intreccio complesso tra psicologia dello sguardo, estetica del disastro e tensione etica.

    Se da un lato la visione delle rovine suscita empatia e compassione per la quotidianità interrotta, dall’altro la stessa visione può alimentare un piacere segreto, una fascinazione che rientra in quella che Susan Sontag ha descritto come “l’attrazione del disastro”, dove l’atto del guardare si situa in una zona ambigua, oscillante tra compassione e consumo estetico della sofferenza. Sintomo, quest’ultimo, della tensione moderna tra documentazione e spettacolarizzazione che rinnova ogni volta l’interrogativo sui limiti morali del nostro desiderio di vedere, assai vicino, talvolta, ad una sorta di voyeurismo.

    Lamezia, la casa col punctum di Barthes

    Ma pur volendo distogliere lo sguardo da intruso, c’è qualcosa di diverso nel crollo di Lamezia, un dettaglio da punctum barthesiano che mi tiene incatenato a quell’immagine. Un elemento perturbante che emerge da quello spaccato di quotidianità agendo come una frattura semantica: una vecchia Fiat 600, apparentemente partecipe della normalità dello spazio domestico come in quel tempo non troppo lontano documentato da Petrelli. In realtà si tratta sicuramente di uno spazio dedicato a rimessa ma non solo, condiviso probabilmente con damigiane, bottiglie di pomodori e suppressate appese a stagionare, ma comunque contiguo alla casa.

    Epperò quell’accostamento tra casa e macchina, come in passato fra casa e animali, rimanda a una specificità culturale, soprattutto nel meridione d’Italia, dove in molti contesti la casa non era/è semplicemente un contenitore separato dalla vita economica e sociale, ma un organismo esteso, secondo una logica di prossimità e custodia: ciò che è prezioso, vitale o identitario viene collocato all’interno.

    La 600, icona della motorizzazione di massa e della modernizzazione italiana del dopoguerra, rappresenta una traccia biografica e culturale fortemente connotata, e la sua collocazione in uno spazio a portata di sguardo, contiguo a quello domestico, la trasforma in reliquia, oggetto d’affezione e al tempo stesso testimonianza di una temporalità sospesa, quasi un fossile domestico investito di una nuova aura simbolica. Non più strumento di spostamento, poggiata sui cavalletti al posto delle ruote, ma deposito di memorie, feticcio familiare che abita lo spazio come un ospite ingombrante ma accettato.

     La casa sventrata a Lamezia, vite e fragilità

    Nel più ampio contesto della mise en scène forzata della palazzina messa a nudo, i cui interni appaiono espressione di una comunità socialmente omogenea, quell’auto si presta a incarnare un simbolo di identità e di memoria collettiva della piccola comunità che è un condominio, raccontando una storia più ampia di vita, di cura e di perdita che appartiene a tutti noi. Alla fine, quelle stanze aperte come vite esposte ci ricordano la nostra fragilità; guardarle è guardare noi stessi, e capire quanto sottile è il confine fra certezze e perdita.

  • La battaglia di Ferragosto

    La battaglia di Ferragosto

    La rumorata della raccolta del vetro, più o meno verso le cinque, lo aveva svegliato con i sintomi di chi sa già cosa l’aspetta. E tutto sommato un animo incazzuso è quello che serve per affrontare al meglio il giorno della Grande Battaglia di mezza estate. O dell’inizio dell’inverno, secondo quell’altra scuola di pensiero che inizia a tirare fuori le scatole del presepe. Entrato immediatamente nel clima “sennò non troviamo posto”, il pater familias inizia così ad andare su e giù per casa stile sergente Haartman (Full Metal Jacket, per gli smemorati) al grido di ‘jamu che è tardi’ (andiamo che è tardi), esortazione che nel brevissimo volgere della pazienza diventa un ‘maniatevi’ (sbrigatevi), la cui sfumatura di minacciosità è tutta nell’assenza sottintesa del ‘tardi’, e soprattutto in quel certo tono della voce appreso in anni di tappina (ciabatta) Montessori lanciata al grido di ‘chi te mu…!’ (bip). Occhi abbummati (gonfi di sonno) e cuffiette tattiche per non sentire il ripasso dei compiti una volta giunti a destinazione, alle 5e30 la famiglia è già in auto in assetto da guerra. Caricato tutto secondo ottimizzazione bestemmiante dello spazio che funziona solo nei tutorial YouTube, Haartman ha già lo sguardo da sorpasso alla Gassman; Mamma custodisce con sguardo a intermittenza ‘u frigoverre di polpette di melenzane, che sa già come va a finire, mentre i figli giacciono finto stravaccati alla stessa intermittenza, come ostaggi addormentati.
    Superata con una botta di serendipity la fase parcheggio, almeno questa!, all’arrivo le tribù combattono già per la prima fila. A ciascuna il suo ombrellone come stendardo di famiglia, e via a piazzare il melone dintra mare, che senza di lui non è Ferragosto (che poi, vallo a riconoscere in epoca di overtourism, considerata la caratura media intorno ai 20kg…). Nel caso da noi abbastanza diffuso di famiglia numerosa, gli accampatori erigono prontamente cattedrali tendate di stoffe multicolor, difese al suono di racchette da padel come tamburi di guerra.
    Bypassato dalla panzata dell’entusiasta di turno, segue momento dell’acclimatamento, sospesi a parlare tra acqua e sole, accompagnato da urla di bambini e grida di mamme che comunque, oltre a fracassare i marroni di quelli che si erano scordati che è ferragosto, allontanano i gabbiani in volo sulle vettovaglie.
    In attesa del momento topico dell’apertura della stagnola d’a pasta china (pasta imbottita) o della lasagna, secondo localizzazione, le colonie di umani sciamate sulla spiaggia, attratte dalla sabbia bollente, preparano barbecue illegali per grigliate a seguire. I segnali di fumo che si innalzano dal litorale, visibili talvolta anche dalle Eolie, indicano che il momento è ormai prossimo. Alla litania del mangiatevela n’altro poco di pasta che non avete mangiato niente, calorie a miliardi intasano arterie fino allo stato di assenza post-prandiale, con le menti sospese tra coma e pace interiore.
    Là, nella processione di auto a passo d’uomo sulla Paola-Cosenza et similia, si consuma infine l’ultima prova: la coda infinita da controesodo biblico. Finché la notte inghiotte i reduci, e insieme ad Instagram, incastrati nei sedili, bell’a papà, a testimoniare la grande impresa restano solo la sabbia e qualche chicco di insalata di riso fermentata.
    Ma c’era nu mare che era ‘na tavola!” (Ma c’era un mare piatto come una tavola).

  • GBG il calabrese

    GBG il calabrese

    Per chi non le ha vissute da vicino, le persone diventano un collage disordinato di ricordi altrui, a volte solo impressioni. Specie in questa epoca social in cui la memoria sembra non appartenere più alla sfera privata della ‘bonanima’, ma essere un rito collettivo da performare. Difficile sottrarsi alla celebrazione planetaria del ricordo, al c’ero anch’io di un selfie o di un aneddoto.
    Per noi che siamo lontani da tutto, Calabria Saudita ci chiamano, Berengo Gardin è stato una di quelle meraviglie da toccare, alla San Tommaso. Un’incredulità che per trasformarsi in realtà trattenuta ha avuto bisogno di una cittadinanza onoraria e di un libro, edito nientemeno che da Contrasto. Un libro dal titolo che la dice lunga su quella distanza, Viaggio a Corigliano.
    Già, Corigliano, città del Festival che 22 anni fa ha regalato alla nostra terra un tocco di internazionalità, fra l’affetto dei tanti che ogni anno tornano numerosi sui luoghi di questo pellegrinaggio del cuore. Il Festival che ha unito la Calabria in un sentimento misto di orgoglio e riconoscenza.
    Addio Berengo, e grazie per i ricordi che ci hai lasciato da raccontare all’infinito.

  • Arles: foto, cocktail e umanità varia

    Arles: foto, cocktail e umanità varia

    I Calabresi ad Arles. Che detta così fa un po’ provinciale, ma un bagaglio leggero di autoironia è sempre d’aiuto. Azzardata quindi la decisione, e fatta la colletta, la trasferta inizia con la richiesta dell’accredito stampa, primo step ansiogeno di una lunga serie, segnato da controlli compulsivi della mail a intervalli di 10 min. Così, alla vista di quel “We are pleased to confirm your press accreditation for the 2025 edition of the Rencontres d’Arles”, un caloroso mix di sentimenti a base di gratitudine verso la Louise del Press Office ha fatto saltare tappi e scatenato abbracci da scudetto: allora è vero, si parte! Dal “Tito Minniti” di Reggio Calabria, Arles è oramai un sogno possibile, e la consacrazione della testata pure, da ora ufficialmente nota all over the world.

    E siccome certe distrazioni del DNA ti accompagnano ovunque scegli di viaggiare nel mondo, l’esordio da Totò e Peppino a Malano è segnato dal primo sgarro del budget, multa da euro 80 per omissione di tagliandino del parcheggio. Paese che vai, colore delle strisce che trovi, e anche quelle bianche da queste parti sono a pagamento; imparare ha i suoi costi.

    Il kit di sopravvivenza a prezzi salatissimi

    Arles, quanto mi costi?

    Vabbè, ma siamo comunque ad Arles, pazienza. Che in questo periodo dev’essere nell’occhio dell’anticiclone delle Azzorre, stabilmente intorno ai 40° in assenza di una qualsiasi refolella di vento. E lì si comprende la sezione del sito dei Rencontres dedicata al kit di sopravvivenza, 47€ fra cappello, ventaglio e bottiglia termica, con possibili aggiunte di tote bag e guida della città per un totale di 89€. Ancora di più si comprendono i visitatori con il kit fai da te, composto da busta di frutta e scorta d’acqua in bottiglie di plastica, rigorosamente con tappo europeo, il tutto a prezzi da supermercato.

    Installazioni umane deambulanti

    Ma le tappe di avvicinamento al senso della trasferta proseguono con altre scoperte: a inoltrarsi nella folla da overturism il primo appunto sul taccuino del bravo cronista è dedicato proprio allo spettacolo di varia umanità che sciamana per vicoli e piazzette, immediatamente ribattezzati i chARLatain. Gioco di parole necessariamente eccessivo, come richiesto da pezzo di costume: man mano che ci si accalca, si scopre che in mostra qui non ci sono solo fotografie, ma con quel trucco un po’ così, quell’abbiglio un po’ così e quell’espressione un po’ così, moltitudini di installazioni umane deambulanti fanno a gara nel contendersi l’attenzione.

    Un fenomenismo cresciuto negli anni, come del resto il tasso di occupazione di ogni centimetro di muro disponibile con mostre estemporanee, purché nella galleria a cielo aperto più famosa e desiderata del mondo dei fotografanti.
    All’atmosfera tendente al Barnum contribuiscono ovviamente le performance degli stessi fotografanti, dagli ambulanti della minuteira, la fotografia istantanea di strada fatta con grandi chassis di legno, ai concettuali dagli allestimenti simili a flash mob che si confondono con la vita che scorre intorno: invitati di un matrimonio che non sai se comparse di una scenografia, e residenti mimetici che riconosci dall’abilità di slalomisti fino al dileguamento in viuzze laterali.

    Les italiens

    In realtà il paese è piccolo assai, così che la probabilità di incontrare amici e conoscenti di fotografia è decisamente alta, soprattutto in questa settimana inaugurale; e se anche non dovesse accadere, si può sempre andarsela a cercare. In Rue du 4 Septembre, ribattezzata la via des italiens.

    È lì che ho incontrato molti amici e diverse nuove storie, che poi sono sicuramente le cose più interessanti di tutto l’ambaradan, quelle che ti mettono addosso il friccico del cercatore d’oro; per tutto il resto ci sono mappe & app.
    Fra le tante, Alessandro, che immerge le foto in un bagno di thè, così che assumono un colore diverso a seconda di quello usato, thè verde e così via, forniti da un altro palermitano, in arte Faidathè, produttore di un gin al thè, base dei cocktail con olive da giù offerti nello spazio-galleria affittato da Palermofoto.
    O Andrea da Pontedera, con una struttura mobile di 8 cubi di plastica simile al cubo di Rubik su cui sono stampate foto di famiglia che si compongono e scompongono, e ideatore di un progetto di beneficenza che passa per una stampante termica e la progressiva scomparsa della traccia fotografica che sarebbe lungo spiegare.

    E poi le mostre

    E poi, in un piccolo slargo della via, il Livres et Cafè, spazio gestito da Mimesis Edizioni, Gente di Fotografia, e Il Fotografo, sorta di ambasciata d’Italia ad Arles, e tappa obbligata per i connazionali in tour; da Joan Fontcuberta al nostro conterroneo reggino Alessandro Mallamaci, passando per Silvio Canini, sono molti gli autori che hanno presentato qui i propri libri in un’atmosfera assolutamente informale e cazzeggiante, con moka h24 sul fornello, come da promessa.

    Tutta gente che alla sera, quando si tratta di conquistare il diritto di sedersi in un ristorante turistico a prezzi da 3 stelle Michelin, dà vita a tavolate dalle geometrie variabili e talvolta improbabili, che appaiono comunque una rivincita sulle app di dating.
    Si, ma le mostre, la fotografia, vi starete chiedendo dopo essere arrivati pazientemente fin qui… beh, non crederete che ad Arles ci si vada per quello! Ad Arles si va per esserci e raccontarla!

  • Retromarketing: tu premi solo il bottone

    Retromarketing: tu premi solo il bottone

    Sono anni ormai che si parla di retromarketing, tutto un mercato legato all’effetto nostalgia che va dal gaming ai vinili, non disdegnando la fuffa alimentare delle cose buone fatte come una volta. Al ritorno di nicchia dell’analogico, solleticato dalla continua mercificazione del ricordo, in questa estate che stenta si aggiunge un nuovo – e ci vuole del talento per definirlo tale – prodotto: la macchina fotografica usa e getta!

    E pazienza se per lanciare il redazionale bisogna pur trovare qualcosa in stile new-age, tipo «è come se la nostra mente, con una macchina fotografica usa e getta a disposizione, si lasciasse andare alla vita più autentica, all’insegna della leggerezza», con testo dai toni sognanti a seguire; la cosa che fa realmente tenerezza è il dover spiegare come si usa!
    Non so se ricordate l’esperimento della tv svizzera che mise una decina di ragazzini davanti a un vecchio apparecchio telefonico con la rotella, chiedendo loro di cosa si trattasse e come funzionasse. Beh, siamo più o meno da quelle parti, considerato che una sezione del redazionale intitolata “Come funziona la Kodak usa e getta da 27 scatti?” immagina di doverlo spiegare ai potenziali acquirenti, posizionati evidentemente fra Generazione Z e Generazione Alpha, appena un passo dopo i Millennials, impelagati ancora con un piede nell’analogico.

    Quindi (copia-incolla testuale):
    “La prima cosa importante da sapere è che la pellicola da 27 scatti è già inserita e pronta, non dovrai inserirla. Inquadra e scatta: la Kodak ha un mirino ottico semplice per comporre l’immagine. Non c’è nessun display, ecco che cogliere l’emozione più autentica sarà semplicissimo (oltre che veloce).

    Avanza manualmente: dopo ogni scatto, ruoti una rotella sul retro per far avanzare la pellicola al fotogramma successivo.
    Flash integrato: ha un piccolo flash elettronico attivabile con un pulsante, utile per scattare in condizioni di scarsa luce o al chiuso.

    Sviluppo: Una volta esauriti i 27 scatti, porti la fotocamera in un laboratorio fotografico per lo sviluppo. Lì estrarranno la pellicola e svilupperanno le tue foto, spesso con l’opzione di riceverle anche in formato digitale.”

    Come dire che sebbene sia passato più di un secolo, con un tempo che va più veloce delle ere geologiche, il vecchio jingle della Kodak, quello dei tempi della Brownie a 1 dollaro, si dimostra immarcescibile: “You press the button, we do the rest”!

  • Bandiere Blu Calabria, turismo non olet

    Bandiere Blu Calabria, turismo non olet

    Finalmente, dal fondo di ogni altra classifica possibile, qualcosa che ha il potere di renderci orgoglioni: le famigerate Bandiere Blu, sigillo esclusivo dell’instagrammabilità vacanziera i cui ingressi e uscite dall’olimpo delle mete estive sono attesi ogni anno più della guida Michelin. Ce ne hanno concesse altre 3, da piazzare sul tabellone del risiko turistico per un totale aggiornato di 23, con il sentiment immediatamente appropriativo del ‘ce’ che va ad aggiungere l’ultima conquista agli 11 Siti Unesco, ai 15 dei Borghi più Belli d’Italia, ai 3 Parchi Nazionali, e a qualche altra risorsa varia ed eventuale che in questo momento non mi viene. Un pedigree che nonostante certe campagne promozionali del passato (!), giustifica l’abbondante presenza della Regione Calabria alla BIT, la Borsa del Turismo di Milano, nell’attesa della moltiplicazione dei dépliant patinati in bus & charter.

    Bandiere blu Calabria: meglio delle altre regioni

    In realtà a leggere i dati in una prospettiva che non sia solo quella della classifica nazionale, si scopre non solo che la performance calabrese è migliore del suo piazzamento, terza in sorpasso sulla Campania, quanto soprattutto se ne apprezza comparativamente la dimensione. La Puglia, seconda in Italia per quantità di bandiere Blu con 27, ha uno sviluppo costiero di 1.040 km, il che secondo la statistica dei due polli significa una bandiera ogni 38,5 km; la Calabria, terza in classifica, con i suoi 788,92 km di coste può vantare invece una bandiera ogni 34,3 km.

    Ma è il confronto con due regioni che hanno nelle coste una risorsa turistica potenzialmente ancora maggiore ad essere impietoso: la Sardegna, regione italiana dalla maggiore estensione costiera, con 1.897 km e 16 Bandiere Blu, ne conta una ogni 118,5 km, mentre la Sicilia, con 1.637 km di coste, isole minori comprese, e 14 Bandiere Blu, ne ha una su 116,9 km.

    Bandiere blu Calabria: local e global

    Considerato quindi che i parametri per l’attribuzione della Bandiera Blu non sono proprio all’insegna del baubau miciomicio, dalla qualità delle acque di balneazione a una gestione ambientale che garantisca la conservazione e la biodiversità degli ecosistemi marini, con la novità di quest’anno del Piano di azione per la sostenibilità (Action Plan) da realizzare e monitorare per i successivi tre anni, si può dire – con quell’abbondante meraviglia rasente all’incredulità – che è stato fatto un buon lavoro sulla risorsa primaria di una possibile economia. Si tratta ora di costruire una diversa attrattività, un po’ più local che global, all’insegna di un’altra Bandiera, Gialla come la canzone sessantina di Pettenati.

    I viaggiatori del ’56

    E come metafora di un sistema di servizi, dall’hôtellerie alla ristorazione, l’escursionistica, la cultura, che arricchiscano l’esperienza del nostro territorio, a volte non all’altezza delle sue potenzialità. È passato del tempo, ma nella memoria incombe sempre l’esperienza raccontata da Stanley e Mary Lee, i due americani che nel ’56 girarono “L’Italia in Topolino”, diario di viaggio antesignano di Tripadvisor che dedicava alla regione una stroncatura di un intero capitolo, “La Topolino in fuga dalla Calabria verso Messina”.

    Intanto, un’altra pubblicità, stavolta aggratis, ce la regala Temptation Island, il reality che per la prossima edizione si sposta a Guardavalle Marina, sempre su quella costa ionica premiata con le 3 nuove Bandiere Blu: in prospettiva, qualcuno di più pragmatico direbbe che turismo non olet…

  • Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Per un Papa – il primo -, che ha scelto di chiamarsi Francesco, quella di essere sepolto con le scarpe ortopediche, sformate e consunte che era solito usare quotidianamente, è una volontà che non dovrebbe stupire più di tanto, considerata l’irritualità del suo papato e la coerenza di azione con il messaggio annunciato da quel nome, sinonimo di avversione al potere temporale e alle sue espressioni ad alto tasso scenografico, tipo funerale del Papa.
    Ma l’abbattimento dei simboli fa sempre notizia, e questo, in particolare, è il dettaglio finale del ‘santino’ che stiamo confezionando, persino con il contributo di circostanza di quanti lo ritenevano un abusivo sul soglio di Pietro, fatta eccezione per quel capo della giustizia minorile, Antonio Pappalardo, prontamente rimosso per improvvidità delle esternazioni.
    Eppure, anche per noi che ci diciamo agnostici per aver coltivato nel tempo la distanza, quelle scarpe non sono indifferenti, possibile metafora dell’uomo nietzschiano che, come Bergoglio, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante. Quei calzari, irrinunciabili come l’andare, sono diventati il cammino, e pertanto, simbolo alternativo che si fa eredità.
    Altri, con altre profondità, sapranno spiegare; a me piace pensare all’ennesimo guizzo d’ironia di Papa Francesco, di colui che lancia un ultimo messaggio perché quell’eredità non vada dispersa. Un Bergoglio che a dirla con l’antica espressione attestata da Gian Luigi Beccaria nel suo “Italiano antico e nuovo”, non intende farsi “fare le scarpe”. E che intanto se la ride per quelle boccucce porpora sussurranti d’imbarazzo: ossignùr, pure le scarpe vecchie!

  • Giacomelli limited edition, il centenario sulle patatine

    Giacomelli limited edition, il centenario sulle patatine

    Da David Maria Turoldo di “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” al packaging delle patatine: basta la circostanza di essere delle stessa Senigallia, Mario Giacomelli e il produttore delle patatine, perché il centenario dalla nascita del primo venga celebrato con una limited edition di patatine del secondo?

    «Il concetto di Arte è sinestetico – recita il comunicato del brand delle suddette – e questa collaborazione racconta proprio come i cinque sensi possono godere della creatività in tutte le sue forme: contemplando la bellezza delle immagini di Giacomelli, immaginandosi gli odori delle campagne marchigiane uniti a quello salmastro del mare Adriatico, mentre si degusta una chip Patatas Nana».

    E ancora: «Le immagini di “Presa di coscienza sulla natura” (1976-’80) e “Metamorfosi della terra” (fine anni ’80) con i loro solchi e le atmosfere lunari che ricordano le pennellate della pittura informale, ma che al tempo stesso comunicano le radici profonde del proprio essere, le ritroviamo sui pack di Patatas Nana da 50g e 140g; i pretini che giocano nel cortile del seminario di Senigallia dalla serie “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” (1961-63) si rincorrono invece sul barattolo dei Fiammiferi, mentre la spensieratezza attonita dei ragazzi al luna park in uno scatto tratto dalla serie “Per Poesie” (1958) scelto per la scatola».
    E poi, come perdere l’occasione di una stampa di Giacomelli da collezione su polipropilene! In vendita dal 6 aprile.