Non può esservi storia nazionale senza storia locale. Quella affidata, dalla notte dei tempi, anche a poemi e versi. Una poesia che, nelle molteplici correnti succedutesi nei secoli, ha continuamente rivendicato spazi di libertà nel suo essere polimorfa, sociale, ironica, sagace, sdrammatizzante, strumento di conoscenza dei luoghi e delle persone. Una poesia mai doma, come quella creata da Giovanni Amendola, cantore della piccola comunità di Nocera Terinese.
Giovanni Amendola e la Nocera del Secondo dopoguerra
Nato nel 1934 nel paese in provincia di Catanzaro affacciato sul Tirreno, Giovambattista Amendola, per tutti Giovanni, ha legato la sua intera esperienza esistenziale e artistica alla sua terra traversata dai fiumi Savuto e Grande, sorta sui resti delle antichissime città di Temesa e Terina che non possono non conferirle, tutt’oggi, un’aura quasi mitica.
Ne hanno visti di cambiamenti Nocera e il suo figlio Amendola: la lenta alfabetizzazione, non soltanto in meri termini scolastici, del popolo; il secondo conflitto mondiale; il re-innesco dei dissanguanti flussi migratori mentre altrove esplodeva il Boom economico; la fuga dalle campagne e il popolamento delle marine, con la susseguente creazione dei paesi doppi – quello vecchio in alto, il moderno giù sulla costa –, una sperimentazione politica e culturale che mutò la morfologia della regione e che riguardò Nocera e tanti altri centri calabresi, sia sul versante tirrenico, sia su quello jonico.
Un panorama di Nocera Terinese
I disagi quotidiani e la passione popolare
Fine osservatore dei mutamenti in atto, attraverso il suo dialetto, la lingua delle radici, Amendola ha raccontato in versi le piccole e grandi debolezze dell’umanità, sentimenti comuni a ogni etnia e latitudine.
La poesia di Giovanni Amendola, definita “poetante” perché più musicale ed efficace, si caratterizza per l’insaziabile ricerca della parola, quella più appropriata, quella più giusta, al fine di penetrare a fondo la storia popolare, di stigmatizzare i costumi e cantare le difficoltà quotidiane e le piccole gioie – con le prime che appaiono sempre più rilevanti e insostenibili – di generazioni di noceresi. E lo fa senza ergersi a giudice, ma permettendo al suo autore di partecipare alla passione della sua gente – e di passione, Nocera, col suo secolare rito dei Vattienti, ne sa qualcosa – e i lettori partecipi delle fragilità del poeta.
Un vattiente e un Ecce Homo, uniti da una corda (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Giovanni Amendola e il mondo che non c’è più
Nei suoi componimenti, Amendola ha cantato con nostalgia «gli stigmi di un mondo che non c’è più», sorridendo sommessamente dinanzi ai bocconi amari della vita. Ché, come ripeteva sovente con la colorita ma incisiva saggezza degli antichi, «‘u cane muzziche sempre u cchjù sciancatu» (il cane morde sempre chi è più storpio, chi sta peggio). In una sorta di appiattimento antropologico sugli “ultimi” le cui vicende tragicomiche hanno rappresentato un inesauribile bacino in cui placare la sete dell’ispirazione.
Plasmatasi sulla scorta di una prima, scolastica, formazione umanistica affinata negli anni con letture e studi da autodidatta (si autodefiniva un eterno studente e un divoratore di enciclopedie), quella del poeta calabrese è una poetica soltanto all’apparenza semplice, ma che cela un denso sostrato di complessità.
Giovanni Amendola è stato un uomo «dotato di quello strabismo intellettuale necessario a fissare contemporaneamente il locale e l’universale con uguale attenzione e intensità per fonderli nella poesia», sostiene Antonio Macchione, storico medievista con la passione per la letteratura calabrese e curatore de La poesia poetante di Giovanni Amendola (Graficheditore, 2023), opera fresca di stampa dedicata al poeta di Nocera Terinese.
Una sfida tra versi e ironia
Una delle raccolte di poesie di Giovanni Amendola
«Mettere alla prova la propria capacità di leggere il mondo», ha scritto Silvio Mastrocola, è stata la scommessa poetica di Amendola. Una vera e propria sfida, di superare le diffidenze e fragilità del paese, «di impadronirsi dei suoi meccanismi più riposti, di dragare con cura paziente i fondali della vita sceverando granello dopo granello la sabbia dell’esistenza, lasciando scorrere ciò che nulla può aggiungere al difficile quadro del vivere e trattenendo, invece, i segni più preziosi della vicenda terrena». E come ogni scommessa implica una percentuale di rischio. Il rischio di sentirsi esclusi, emarginati, soli, abbandonati. Però, a ben pensarci, è questo l’humus che favorisce lo sprigionamento della poesia, quella autentica.
Arrivismi, inganni, tradimenti noti a tutti fuorché, come si conviene, al tradito, gravidanze impreviste, espedienti d’ogni genere e altri piccoli casi tipici di ogni civiltà si trasformano nell’immaginario di Giovanni Amendola in stigmi antropologici che sottili stratagemmi letterari fotografano assieme a minuscoli attimi di vita quotidiana, al lavoro o in famiglia; divertissement utili a distrarsi, per non pensare alla fame e alla vita grama.
Ed è stata pure questa cifra della poesia amendoliana: indagare con ironia il tempo antico, non con un approccio vuotamente scherzoso, parodistico o nostalgico, bensì in maniera giovevole a comprendere i cambiamenti avvenuti e quelli in corso, l’omologazione, la corruzione linguistica e dei costumi, il rinnegamento (vissuto con ingiustificata vergogna) del passato e delle differenze.
L’opera di Giovanni Amendola
Nel corso della sua vita spentasi nel 2022, Giovanni Amendola ha ricevuto vari riconoscimenti in concorsi di poesia in vernacolo e ha pubblicato quattro raccolte poetiche: ’A vrascèra (Edizioni Ferraro, Napoli 1985), ’U tilaru (Edizioni ARE, Amantea 1990), ’A pacchiana (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2002) e ’U trappitu (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2013).
Altri quaderni e altri versi sono invece in attesa di incontrare i lettori, di suscitare in loro emozioni e scuoterne, con la riconosciuta vena graffiante, gli animi.
Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.
La Tropea da cartolina
Una mare di Museo a Tropea
Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).
Undici milioni di anni fa
Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.
Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea
Una balena a Cessaniti
È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.
La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.
Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea
Le giraffe di Calafrica
Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.
Il riccio di mare dedicato al direttore del museo
Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.
Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo
Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.
Lo squalo di 20 metri
Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.
Da una quarantina d’anni si è diffuso in Calabria il costume di dipingere con monumentali affreschi le mura, gli esterni dei palazzi, i portoni dei paesi con l’auspicio di dare loro nuova linfa vitale. Non è un’operazione semplice, ma pare che l’idea, oramai ben radicata, stia dando i suoi frutti. Uno degli ultimi esempi è quello di Vena di Maida, frazione arbëreshe del comune di Maida fondata, affidandosi ad alcune fonti, nella seconda metà del Quattrocento, nell’ambito della diaspora albanese dai Balcani successiva alla conquista turca di Costantinopoli e alla morte dell’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, capo della rivolta contro gli Ottomani.
Da qualche mese, Vena di Maida ospita un percorso artistico a cielo aperto che rimembra e magnifica le sue antiche tradizioni albanofone.
Il murale – da non confondere col deturpante graffitismo – è un’opera d’arte pubblica offerta alla collettività. Ma è anche una forma di comunicazione che, ridando tono a strutture e angoli disabitati, interloquisce più direttamente con le classi rurali, coi ceti meno avvezzi agli incontri con l’arte, e che sovente si fonda su una chiara connotazione sociale e ideologica.
In principio fu Diamante
La vicenda dei murali – o murales – in Calabria cominciò già nel 1981 quando a Diamante, comune dell’Alto Tirreno Cosentino, partì la cosiddetta Operazione Murales su spinta del pittore Nani Razetti e col placet del sindaco di allora Evasio Pascale. Fu una scommessa vincente: oggi, con oltre trecento affreschi a illuminare i suoi vicoli, Diamante è una tra le cittadine più dipinte d’Italia e tra le località turistiche di maggiore notorietà della Calabria e dell’intero Meridione.
Nel corso di questi ultimi quarant’anni, l’impresa adamantina ha registrato svariate repliche quasi sempre sul solco di quella onesta ottica di valorizzazione, salvaguardia e riqualificazione dei luoghi.
Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)
Discorsi ben conosciuti e una terminologia che è stata adottata anche dalla politica e di cui, purtroppo, talvolta ci si riempie la bocca – e così diamo senso al precedente “quasi sempre” –, ma che eticamente, e forse pure fiabescamente, convergono verso quel desiderio comune di riabitabilità dei luoghi, di far sì che essi siano riguardati, nel duplice senso suggerito da Franco Cassano ne Il pensiero meridiano: di avere riguardo, cura dei posti e di tornare a guardarli veramente come luoghi vivi e non come presepi da percorrere un festivo all’anno; luoghi palpitanti che ancora potrebbero dare all’umanità che ospitano.
Murales: arte e memoria alla portata di tutti
Sia chiaro: consci che queste iniziative non debbano essere vissute col furore della apologia del “piccolo mondo antico” e che i nostri non sono né la sede né il tempo per confezionare un giudizio su un’operazione ancora nuova, possiamo sostenere senza tema di smentita che, anche tramite i moderni mezzi di comunicazione sociale, per il suo forte impatto e la sua carica popolare l’arte del murale permette a una platea sempre più vasta di conoscere luoghi mai sentiti prima e che fino a non troppi decenni fa soltanto una ridotta cerchia di eletti – studiosi, viaggiatori, persone fornite di una cultura specifica – poteva essere in condizione di conoscerli.
Altre due porte coinvolte nel progetto a Vena di Maida
In una visione di ampliamento, di omogeneità della conoscenza, perciò, questo è di certo uno strumento valido – non l’unico, non il principale, non il solo possibile da mettere in atto, seppur tra i più semplici e immediati – per non lasciare scivolare negli inghiottitoi della storia paesi spopolati e ruderi che un tempo hanno conosciuto “altra vita e altro calore”, per dirla con Cesare Pavese, e per impedire che essi possano entrare – e con ottime probabilità restare, sino alla perdita della memoria storica – nel lungo elenco dei paesi fantasma, termine tanto alla moda che piace ai fotografi della domenica che in quei luoghi abbandonati da Dio e dagli uomini non ci vivrebbero neppure per ventiquattro ore.
Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)
In buona sostanza, la sana e non propagandistica operazione di riqualificazione dei luoghi non può che avere un doppio obiettivo, uno a medio e uno a breve termine: quello di attrarre nuovi possibili abitatori e quello di fare restare i prodi, ultimi abitatori indigeni, ché «restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali», come afferma l’antropologo Vito Teti nel suo Nostalgia (Marietti, Bologna 2020).
Vena di Maida da Dumas padre ai murales
E pure questa volta abbiamo divagato. Ritorniamo perciò a Vena di Maida, centro che oggi conta circa ottocento abitanti e che, sotto i Borbone, tra il 1831 e il 1839 fu comune a sé, breve parentesi entro la quale però a visitarla fu, nel suo fortuito passaggio a dorso di mulo in Calabria dell’autunno del 1835, da Alexandre Dumas padre che strabiliò dinanzi alla bellezza del costume tradizionale delle donne venote. Quella sosta oggi è ricordata con una targa affissa sull’antico caseggiato dirimpetto alla Chiesa arcipretale di Sant’Andrea Apostolo.
Una delle Porte d’artista a Vena di Maida
Nell’estate del 2022 la piccola comunità arbëreshe – una delle trentatré tuttora presenti in Calabria –, grazie al patrocinio del Comune di Maida e alla direzione artistica di Massimo Sirelli – artista poliedrico, diplomato in Digital e Virtual Design all’Istituto Europeo di Design di Torino, autore di recente di una serie di murali a tema magnogreco tra Bivongi, Cinquefrondi, Locri e Monasterace per celebrare il cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace –, è stata coinvolta in un progetto che ha visto undici artisti dipingere le porte del paese con linea guida la sua identità albanese.
Le porte d’artista a Vena di Maida
Porte d’artista è il nome del progetto che, sempre la scorsa estate, ha interessato altri due paesi del Catanzarese, Sersale e Uria (frazione di Sellia Marina), e che in questi giorni sta aggiungendo un’altra tappa: Marcellinara. Tra gli artisti, tutti calabresi, coinvolti nel progetto, oltre Massimo Sirelli: Antonio Burgello, Marco “Moz” Barberio, Claudio “Morne” Chiaravalloti, Vincenzo “Zeus” Costantino, Martina Forte, Andrea “Smoky” Giordano, Immacolata Manno, Alessia Moretti, Roberto Petruzza e Maria Soria.
Un’altra porta dipinta nella frazione albanofona di Maida
Tra i murali freschi di tinteggiatura per le stradine di Vina (questo il toponimo arbëreshë di Vena di Maida) si riconoscono la veste tradizionale che piacque a Dumas, l’aquila nera a due teste della bandiera albanese, figlia diretta del sigillo di Scanderbeg, ma anche immagini contemporanee come quella che ricorda il glottologo di Cirò Marina Giuseppe Gangale.
Il ritratto di Giuseppe Gambale
Dopo Verbicaro, Rogliano, Favelloni Piemonte, Plataci – comune del Pollino i cui affreschi sono improntati pure sulla sua cultura arbëreshë –, San Pietro Magisano, Sant’Agata del Bianco – di recente dipinta con un magnifico ciclo murale dedicato a un suo figlio illustre, lo scrittore Saverio Strati –, un altro paesino calabrese gioca la carta dell’arte di strada per scongiurare il rischio che secoli di incontri, commistioni etniche e linguistiche e tradizioni uniche possano essere spazzati via e che il degrado originato dall’abbandonato fisico dei luoghi possa cancellarne la memoria.
Rispetto è la parola chiave, la stella polare degli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione che partiranno dalle prossime settimane alla Abbazia di Santa Maria di Corazzo, sita nella frazione Castagna di Carlopoli, comune di circa 1.500 anime della Presila catanzarese.
I lavori avranno un approccio corretto, equilibrato e delicato, nel rispetto dell’immenso valore storico, culturale, religioso, paesaggistico e ambientale di quello che è senza dubbio uno dei monumenti più significativi e suggestivi dell’intera Calabria, terra di mare, certo, ma anche di monti, di storia, di tradizioni, di diversità linguistiche e culturali, di beni mobili e immobili di eccezionale pregio. Un patrimonio di cui essere consapevoli e da riguardare, fedeli alla duplice accezione suggerita dal sociologo e saggista Franco Cassano, vale a dire di avere riguardo, premura dei luoghi e di tornare a guardarli e a viverli davvero.
L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo: dalle origini all’abbandono
L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo – per secoli parte dell’Università di Scigliano – prende il nome dal vicino fiume Corace e la sua fondazione risale all’XI-XII secolo. Una più precisa collocazione temporale e susseguente paternità risultano ancora difficili da definire. È confermata la presenza dei monaci cistercensi e dell’abate Gioacchino da Fiore nell’arco di tempo che va dal 1157 al 1188 circa. Non trova, invece, al momento attestazione l’ipotesi caldeggiata da molti di una precedente edificazione dei monaci benedettini.
La fine dell’Abbazia coincide con i drammatici terremoti del 1638 e 1783 che sconvolsero la popolazione calabrese e cambiarono per sempre l’aspetto paesaggistico della regione. Dopo un secolo e mezzo di trascuratezza e silenzio, dal 1934 il sito è tutelato dallo Stato italiano (legge di Tutela n. 364 del 1909).
Rispettoso, conservativo e delineato a seguito di un’attenta analisi conoscitiva, il progetto di restauro e consolidamento punta a valorizzare il bene tenendo fissa in mente la sua funzione originaria. Quindi non condannandolo, tracciando la strada, a una futura trasformazione in una luccicante attrazione turistica e macchina per fare soldi nell’interesse di pochi e a scapito di tutti gli altri.
Malazioni simili vedrebbero l’imponente Abbazia vittima di un altro “terremoto”, non di minore entità – anzi, assai più grave considerato che sarebbe generato da chi è soltanto ospite della Terra e non da chi la governa – rispetto alle calamità naturali che ne determinarono prima la distruzione, poi l’abbandono – seppur documenti ne attestino residenti sino ai primi anni dell’Ottocento – e infine la progressiva espoliazione dei materiali e delle opere che vi erano conservate. Tra questi da citare quello che dovrebbe essere il portale della navata principale, collocato nella chiesa di San Bernardo della vicina Decollatura.
Ritorno all’antico pensando al futuro
L’intento è dunque di agire soltanto sulle problematiche in atto – sulle lesioni dannose e la vegetazione deleteria per l’integrità degli elementi delle murature –, lungi dall’alterare l’aspetto dell’antico monumento.
Nello specifico, l’intervento consterà nella installazione di stampelle di acciaio per sorreggere le creste murarie, di griglie metalliche poste a copertura degli ambienti ipogei, di parapetti e luci gentili, non impattanti, che accompagneranno, giorno e notte, i visitatori. Una serie di operazioni per rendere sicuro e accessibile il rudere medievale, anche per le persone diversamente abili.
Dettaglio importante e che manifesta una lieta sensibilità e lungimiranza: gli interventi di consolidamento e restauro di questa gemma preziosissima del patrimonio artistico e culturale della Calabria, eredità per l’intera regione, saranno potenzialmente reversibili. I componenti impiantati, un domani, potranno essere estratti, non intralceranno l’operato di più avanzate attività che potrebbero avere luogo nei decenni e secoli futuri. Rispetto sia per il bene sia per le generazioni postere, per l’appunto.
Il progetto per l’Abbazia di Santa Maria di Corazzo
Il progetto ha ottenuto il via libera – diversamente da un altro, assai più aggressivo e snaturante, che prevedeva l’installazione di pareti in cristallo e di un tetto in legno lamellare, presentato nel 2020 (allora si parlò di «intervento di tipo conservativo ma allo stesso tempo innovativo») – dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle province di Catanzaro e Crotone.
Rendering del progetto di restauro respinto
A realizzarlo, il Comune di Carlopoli e i professionisti della Giannantoni Ingegneria srl: gli ingegneri Andrea Giannatoni e Isabella Santeramo, l’architetto Luisa Pandolfi. L’elaborazione ha beneficiato del supporto e della consulenza scientifica dell’archeologo e docente Francesco Cuteri, del soprintendente Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone Stefania Argenti, del docente e architetto Riccardo dalla Negra, del docente e architetto Giuseppina Pugliano e del geologo Marcello Chiodo.
La presentazione del progetto
A presentare gli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione della Abbazia di Santa Maria di Corazzo sono stati invece Wanda Ferro, sottosegretario al Ministero degli Interni, Mario Amedeo Mormile, presidente della Provincia di Catanzaro, Emanuela Talarico, sindaco di Carlopoli, Antonio Chieffallo, presidente dell’associazione Muricello, all’interno del Municipio di Carlopoli lo scorso 19 marzo nell’ambito degli eventi di chiusura del Premio Muricello.
Oltre la morte non si può andare.
Non si dorme, non si ama.
Si riposa infinitamente.
Il riposo infinito che giunge soltanto dopo la fine. Sì, perché la vita dell’autore di questi versi fu tutt’altro che serena e sgombra di affanni. Afflitto dall’angoscia di vivere, Lorenzo Calogero fu un poeta solo. E solo un poeta. Considerato, post mortem, fra i più alti poeti del Novecento da molti insigni pareri – fra questi anche quello di Carmelo Bene –, Calogero è tuttora poco conosciuto nella sua terra di origine, la Calabria, sempre molto incline a sostenere la liceità della locuzione latina d’evangelica memoria di Nemo propheta in patria.
Gli studi e le prime poesie
Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà, paese dell’entroterra Reggino, a breve distanza da Palmi e dalla Costa Viola, Lorenzo Calogero è il terzo dei sei figli – cinque maschi e una femmina – di Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Cattolici, abbienti, possidenti terrieri, i Calogero-Cardone sono una delle famiglie melicucchesi più in vista del tempo.
Dopo i primi anni di studi – dapprima nel paese natio e poi a Bagnara, presso dei parenti della madre –, nel 1922 Lorenzo Calogero si trasferisce con la famiglia a Reggio Calabria, dove il ragazzo consegue la maturità scientifica, e nel 1929 a Napoli per iscriverlo alla facoltà di Ingegneria della prestigiosa Università Federico II. Si tratta di una breve liaison quella con l’ingegneria, sicché dopo poco lo studente passa alla facoltà di Medicina. L’insicurezza sul percorso accademico da intraprendere lascia intravedere la fragilità caratteriale del poeta fin dalla giovinezza.
Disinteressato alla politica del periodo, agli inizi degli anni Trenta Lorenzo Calogero comincia a soffrire di un arcano disagio che lo accompagnerà fino al termine dei suoi giorni: patofobie, vale a dire il terrore, spesso confuso con la convinzione, di contrarre o già essere affetto da gravi malattie. Nel caso di Calogero, la tubercolosi e il cancro.
In quel decennio, comunque, il giovane compone i primi versi. Risalenti al triennio 1933-35 sono le liriche poi raccolte in Poco suono, stampato, nel 1936 e a pagamento, da Centauro, editore che l’anno precedente aveva pubblicato sedici sue poesie riconosciute meritevoli dalla giuria del Premio Poeti di Mussolini.
Nel ’37 Lorenzo Calogero consegue la laurea in Medicina e ottiene a Siena l’abilitazione alla professione che, dopo nuovi tentennamenti, inizia a esercitare in Calabria: prima nella natia Melicuccà, poi, sempre per parentesi brevi o brevissime, in numerosi paesi come Sellia Marina, Gimigliano, Zagarise, Jacurso e San Pietro Apostolo.
Lorenzo Calogero, dal primo amore alla Val d’Orcia
Caduto il fascismo e trovato un abbozzo d’indipendenza economica – seppur le patofobie non accennino a svanire, tanto che nel 1942, preso dallo sconforto,si spara un colpo in petto (parlare di tentativo di suicidio ci pare irriguardoso dell’intelligenza del poeta e del lettore, considerato che il nostro era comunque un medico e un medico sa bene come ammazzarsi e come non ammazzarsi) –, nel 1944 Calogero fa la straordinaria scoperta di un altro aspetto della vita: si innamora e fidanza con una studentessa conosciuta anni prima a Reggio Calabria. Purtroppo, le angosce, l’insoddisfazione cronica e le continue manie di cui soffre il giovane medico – in quel periodo è convinto di aver contratto la rabbia da un cane – inveleniscono il rapporto. La ragazza tenta in tutti i modi di tirare fuori Calogero dalle secche in cui sta scivolando, ma ogni tentativo si rivela vano. La complicata relazione si interrompe già con la fine di quell’anno.
Conclusa la guerra, Lorenzo Calogero riprende a comporre poesie e fa ritorno a Melicuccà. Qui resta per un periodo abbastanza lungo, sino al principio del 1954 quando, dopo aver vinto un concorso, viene nominato medico condotto a Siena e spedito nel paesello collinare di Campiglia d’Orcia. La sua esperienza professionale in Val d’Orcia, però, è sì tanto disastrosa che appena un anno dopo è costretto a lasciare l’incarico. Scrive al fratello Paolo: «Come medico non godo alcuna simpatia da parte della popolazione»; la gente di Campiglia, infatti, aveva fatto presto a non fidarsi e a disertare lo studio di quel dottore così introverso e nevrastenico. Di fatti, l’isolamento in Val d’Orcia ha peggiorato il nervosismo e la suscettibilità del medico-poeta e ha acutizzato un’altra sua dannosa tendenza, quella di abusare di barbiturici e tabacco.
Nessun sostegno dal mondo letterario
Lasciatasi alle spalle l’esperienza infausta in terra toscana, Lorenzo Calogero si getta totalmente nella poesia cercando un editore che possa pubblicare i componimenti scritti nel dopoguerra e quella montagna di inediti giovanili che si porta appresso da anni. Dopo il rifiuto ricevuto da Einaudi, nel 1955 è costretto ancora una volta a ricorrere alla stampa a pagamento, in questa occasione presso la casa editrice senese Maia. Le due raccolte portano il titolo di Ma questo… e Parole del tempo.
Uomo dotato di scarsissimo amor proprio, in vita Lorenzo Calogero non ha avuto – e non ha saputo condurre a sé – il sostegno di alcun esponente del mondo letterario, un universo prevenuto e distratto che non riusciva proprio a trovare le ragioni e il tempo per comprendere quel poetuccio venuto fresco fresco dal Sud più misterioso. L’unica eccezione è costituita da un altro poeta meridionale: si tratta di Leonardo Sinisgalli.
Leonardo Sinisgalli
Lucano di origini – era nato nel 1908 a Montemurro – Sinisgalli è stato il solo a dimostrare amicizia e interesse per Calogero e le sue poesie. I due condividono pure la passione per l’ingegneria e il critico e poeta lucano non si tira indietro quando il collega calabrese gli chiede, durante il loro primo incontro a Roma, di firmare la prefazione per il suo prossimo scritto. È Come in dittici, raccolta di centosettantasei liriche scritte tra il ’54 e il ’56 e edite sempre da Maia.
Il tentativo di suicidio e il ricovero a Villa Nuccia
Il 1956 e il 1957 rappresentano due anni decisivi, in senso negativo, per l’esistenza di Calogero. Alla scomparsa della madre, cui era profondamente legato, il poeta tenta il suicidio. L’esaurimento nervoso oramai manifesto a tutti, porta i famigliari alla decisione di ricoverarlo nella clinica per malattie nervose di Villa Nuccia, a Gagliano di Catanzaro. Questo periodo di internamento – durante il quale verga gran parte dei versi che finiranno ne I quaderni di Villa Nuccia, volume postumo, nominato dal poeta melicucchese Canti della morte – non giova affatto alla psiche di Calogero. Imprigionato entro le alte mura della casa di cura, egli si sente tradito dalla famiglia, capisce di non potere più contare su di loro.
È così che chiede nuovamente aiuto a Leonardo Sinisgalli, sempre più unico legame col mondo fuori da sé, solo faro visibile dalla sua bagnarola in preda alla tempesta.
Il Poeta ingegnere non gli volta le spalle e il 3 marzo 1957 firma la presentazione di alcune liriche calogeriane pubblicate sulla Fiera letteraria. Nell’estate del medesimo anno giunge la prima e unica gioia letteraria – effimera – dell’autore calabrese con la vittoria del Premio Villa San Giovanni.
La drammatica premiazione di Villa San Giovanni
Premio Villa S Giovanni, Lorenzo Calogero alla destra di Leonida Repaci; dietro di lui Enrico Falqui, Leonardo Sinisgalli, Franco Saccà
Oramai divorato dai suoi demoni, in un primo momento Calogero non accetta l’invito ed è soltanto grazie all’intervento dell’amico Sinisgalli che decide di presentarsi alla cerimonia. La serata, però, è un colpo allo stomaco per chi vi assiste. Minato nella salute e incapace financo di camminare con fluidità, Lorenzo Calogero viene praticamente trascinato sul palco e ritira senza un sorriso il riconoscimento.
L’episodio ricalca i contorni della premiazione di Cesare Pavese al Premio Strega 1950, consegnatogli sessantaquattro giorni prima del suicidio nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
“Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.” Queste le meste parole dello scrittore langhetto qualche giorno dopo la vittoria. «Mi cugghjuniàru». Questa la colorita ma tetra risposta, in dialetto calabrese, di Lorenzo Calogero a un compaesano che gli aveva chiesto come fosse andata al Premio Villa San Giovanni.
La morte di Lorenzo Calogero
Morte mi chiama
col suo peso leggero
come in un sogno.
Gli ultimi anni del poeta sono segnati dai continui ricoveri e susseguenti fughe da Villa Nuccia. Abbandonato da tutti, al termine del 1960 si ritira in solitudine nella dimora di Melicuccà riempendo le sue giornate di innumerevoli cuccume di caffè, manate di sigarette e boccette di sonniferi.
Qui l’inquietudine di una vita cessa, quando il 25 marzo 1961 è trovato morto. Le circostanze del decesso di Lorenzo Calogero non sono state mai chiarite. Con buone probabilità si era tolto la vita da almeno tre giorni con un sovradosaggio di barbiturici, altro episodio che ne paragona la parabola esistenziale a quella di Pavese. Un ultimo punto in comune con lo scrittore de La luna e i falò è il biglietto d’addio che, all’apparenza semplice ma pregno di delirio, arrendevolezza, distacco, apprensione, terrore, Lorenzo Calogero lascia accanto al suo corpo: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».
La poesia
E quel che mi rimane
è un poco di turbine lento di ossa
in questo orribile viavai
dove è alzato anche
un palco alla morte.
Da voracissimo lettore, Lorenzo Calogero accolse nella sua opera, come sostiene Luigi Tassoni ne Il gioco infinito della poesia (Giulio Perrone, 2021), “detriti, tessere, parole chiave, scie ritmiche” di tutti gli autori letti, rimodellati perché potessero aderire con coerenza alla sua poesia, ché questa non ne uscisse come una scialba parodia. Come abbiamo visto, però, i suoi versi ostinatamente tormentosi, scevri di speranza con cui consolarsi, anche antistorici rispetto alla poesia del tempo, non trovarono né lettori né editori interessati a pubblicarli. Il poeta morì in quell’alba di primavera del ’61, ma la sua poesia risorse, o, per meglio dire, sorse, facendo vedere quanto essa sia inconsumabile, prendendo in prestito le parole di Pier Paolo Pasolini.
Estate ’62: Lorenzo Calogero diventa un caso letterario
La diffidenza verso l’opera di Lorenzo Calogero crolla dopo la morte, come sovente accade e come era accaduto poche stagioni prima a un altro gigante della letteratura italiana del Novecento: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell’estate del ’62 non si parla di altro che di quel poeta calabrese morto poco più di un anno prima in circostanze tragiche. Ne scrivono nomi illustri della cultura: Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, Mario Luzi, Leonida Repaci, Sharo Gambino, Carlo Bo, Franco Antonicelli. Addirittura Giuseppe Ungaretti si lascia andare a una frase divenuta celebre: «Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».
Giuseppe Ungaretti
Il nome di Calogero compare su tutte le testate nazionali, La Stampa consiglia i suoi libri tra quelli da portare sotto l’ombrellone, qualcuno avanza paragoni con i Poètes maudits. L’ultimo poeta dell’ermetismo, il nuovo Rimbaud, l’ultimo dei poeti maledetti. I titoloni si sprecano. Poi, passata l’ondata emotiva e modaiola, sul nome di Lorenzo Calogero cala di nuovo il silenzio.
Nel 1966 l’editore Lerici, che aveva pubblicato in due volumi le Opere Poetiche di Calogero e che aveva in cantiere una terza pubblicazione, chiude l’attività lasciando inedita un’altissima catasta di manoscritti.
Gli inediti all’Unical
In centinaia, infatti, sono i quaderni zeppi di poesie del melicucchese oggi conservati all’Università della Calabria – dipartimento di Studi Umanistici, laboratorio Archivi letterari novecenteschi – in pazientissima attesa che qualche anima volenterosa decida finalmente di pubblicarli.
Di e su Lorenzo Calogero, poeta consumato dal suo mal di vivere e dimenticato dal mondo culturale italiano, possiamo leggere:
Opere Poetiche I, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1962);
Opere Poetiche II, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1966);
Poesie, a cura di Luigi Tassoni (Rubbettino, 1986);
Lorenzo Calogero, di Giuseppe Tedeschi (Parallelo 38, 1996);
Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, di Giuseppe Antonio Martino (Qualecultura/Jaca Book, 2003);
Parole del tempo, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi con una introduzione di Vito Teti (Donzelli, 2010);
Avaro nel tuo pensiero, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro (Donzelli, 2014).
Melicuccà oggi ricorda il suo insigne figlio con una via e un monumento, sito lungo la principale via Roma, dell’artista scillese Carmine Pirrotta. L’opera (datata 1966) è stata finanziata con fondi degli emigrati d’Australia e commissionata dal Circolo culturale Lorenzo Calogero.
Melicuccà, il monumento a Lorenzo Calogero (foto Antonio Pagliuso)
«Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane» Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.
Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale
Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.
Al centro, Mario La Cava
Il viaggio in Israele
La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.
Una civiltà arcaica in abiti moderni
Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.
Immagine d’epoca di Tel Aviv
Un calabrese in Israele per il processo Eichmann
Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.
Il fascino della Terra Santa
La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.
Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.
Soldati israeliani nella Gerusalemme anni ’60
Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.
L’incontro con Adolf Eichmann nel processo
Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
«Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».
Il gelido nazista
Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.
Una domanda senza risposta
«Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.
Eichmann in cella in attesa dell’impiccagione
Una testimonianza importante
Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.
Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.
È considerato tra i maggiori artisti del panorama italiano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le sue opere hanno valicato i confini sia nazionali che continentali. Francesco Jeraceè senza dubbio tra i figli più illustri della Calabria degli ultimi duecento anni.
Francesco Jerace, da Polistena a Napoli
Nato il 26 luglio 1853 a Polistena – popoloso paese del Reggino, stretto tra la Piana di Gioia e le pendici settentrionali del massiccio dell’Aspromonte –, Francesco Jerace era figlio di Fortunato e Mariarosa. Quest’ultima era discendente dei Morani, famiglia di scultori in legno originaria del Catanzarese che, al principio dell’Ottocento, si era trasferita verso i declivi del “Monte Bianco” calabrese per sfuggire alla prepotenza dei francesi.
Ed è proprio nella bottega famigliare di Polistena – centro ricostruito da pochi decenni dopo il devastante terremoto del 1783 – che il giovane Jerace viene iniziato all’arte del disegno, dell’intaglio e della scultura. Emerso il suo talento naturale, non passa troppo tempo che il rampollo si trasferisce a Napoli, presso la Real Accademia di Belle Arti. Sono i primi anni settanta dell’Ottocento.
Un ritratto di Domenico Morelli
A Napoli – città dove lo raggiungeranno presto i fratelli Vincenzo, anch’egli scultore, Gaetano, pittore paesaggista, e Michelangelo, poi insegnante – Francesco Jerace frequenta Andrea Cefaly, calabrese di Cortale e già patriota e pittore affermato. I suoi maestri sono Saverio Altamura, Tito Angelini, Tommaso Solari e Domenico Morelli. Dopo una prima passione per la pittura, fase non scevra da incomprensioni con maestri e pubblico, è proprio Morelli, insigne pittore e anima dell’Accademia, che indirizza il giovane alla scultura.
La prima commissione di rilievo
A Napoli, Jerace conduce una vita tutt’altro che agiata fin quando nel 1873 non giunge la prima importante commissione della carriera. Marta Somerville lo incarica di scolpire il monumento funebre della madre, la astronoma e autrice scozzese Mary Somerville. Scrive Alfonso Frangipane, biografo dell’artista, che al termine del pesante lavoro – oggi sito al cimitero inglese di Napoli –, la nobildonna, nel retribuirlo per il servigio, gli consigliò di procurarsi un luogo più salubre in cui svolgere il suo mestiere, ché lo vedeva “tanto malandato in salute” (A. Frangipane, Francesco Jerace, in Studii e ritratti calabresi, Casa editrice “La Sicilia”, Messina 1924).
Napoli, cimitero degli inglesi: il monumento funerario a Mary Somerville
Francesco Jerace, lo scultore dell’eleganza e della gagliardia
Il riconoscimento internazionale, comunque, non tarda a venire. Grande fortuna ha il gesso del Guappetiello, il fanciullo del popolo napoletano, riprodotto in molteplici repliche, tra le quali una in bronzo sarà portata all’Esposizione universale di Parigi del 1878. In quell’occasione tutti si accorsero della straordinaria grazia dell’arte di Jerace; la maestria jeraciana, infatti, segnò un progresso nella scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento, per la luce che sembrano sprigionare i suoi busti, per il realismo, per il bello ideale che raggiunge, per la libertà e l’armonia delle forme, lievi nel marmo in cui sono incise. Camillo Boito, architetto e teorico di spicco dell’architettura, esaltò l’artista calabrese definendolo «lo scultore dell’eleganza e della gagliardia».
Un tocco di Calabria nella capitale
Addentriamoci adesso nell’opera di Jerace. Partiamo da Roma, dove è possibile trovare lavori del grande scultore polistenese a Palazzo Madama, a Palazzo di Montecitorio e alla Banca d’Italia – luoghi che conservano tre busti di Francesco Crispi. Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea si trova, invece, il marmo del Trionfo di Germanico. Al Vittoriano, l’Altare della Patria, al lato destro della cancellata artistica di Manfredo Manfredi è collocato il gruppo bronzeo dell’Azione, capolavoro realizzato appositamente per l’apertura del Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II. Di queste due ultime opere monumentali esistono altrettanti bozzetti, conservati all’interno della Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro, ospitata al MARCA, Museo delle Arti della città capoluogo della Calabria.
Roma, complesso del Vittoriano: l’Azione, opera di Francesco Jerace
La Napoli di Francesco Jerace
La città che però conserva il maggior numero di opere del Maestro calabrese è certamente Napoli, dove Jerace visse per lunghi periodi della sua vita. Alle pendici del Vesuvio si possono ammirare le decorazioni del giardino e dei salotti della settecentesca Villa La Fiorita, nell’abitazione sui Colli Aminei l’artista soggiornò, ospite della famiglia del banchiere svizzero Oscar Meuricoffre. Oppure apprezzare l’altorilievo bronzeo sul frontone dell’Università degli studi, in cui, fra le diciotto figure – delle quali una è un ritratto del nonno Francesco Morani –, spicca Federico II, lo Stupor Mundi, fondatore dell’ateneo nell’anno di grazia 1224.
La statua di Beethoven nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella
Ancora nella già capitale del Regnum Siciliae citra Pharum è possibile imbattersi nella statua jeraciana di Vittorio Emanuele II sulla facciata di Palazzo Reale, nei monumenti a Nicola Amore e a Giovanni Nicotera in Piazza della Vittoria, nelle sculture sul frontone del Duomo, nel busto della boccaccesca Carmosina al Museo e Real Bosco di Capodimonte, nella statua di Antonio Toscano, l’Eroe di Vigliena, al Maschio Angioino, nella drammatica Mater dolorosa del monumento Cocchia al cimitero di Poggioreale e nella statua di Ludwig van Beethoven, presentata nel 1895 alla edizione inaugurale della Biennale di Venezia e oggi collocata nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella. Piccola parentesi: alla kermesse della città lagunare, inoltre, Jerace partecipò con altre opere tra le quali il busto di Hadria, poi acquistato da Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia.
In giro per l’Italia
Intorno all’area campana e meridionale sono da citare i monumenti in memoria dei caduti della Grande guerra a Sorrento e ad Aversa, il monumento a Giuseppe Martucci a Capua, la statua di Gabriele Pepe a Campobasso e un bronzo raffigurante Nino Cesarini, compagno del barone francese Jacques d’Adelswärd-Fersen, che il nobiluomo – personaggio da romanzo – fece collocare nel giardino di Villa Lysis a Capri, suo “tempio bianco” sacro all’amore e al dolore. La scultura purtroppo è andata perduta successivamente al suicidio del Fersen nel 1923 e all’abbandono in cui precipitò la Villa.
Il barone Fersen
Menzionando il gruppo dedicato a Gaetano Donizetti a Bergamo – onere che Jerace ottenne a seguito di un concorso in cui trionfò contro una schiera di rivali in buona parte provenienti dal Nord –, proseguiamo l’itinerario artistico dello scultore calabrese giungendo nella sua terra d’origine.
Bergamo, il monumento a Donizetti realizzato da Jerace
Le opere a Polistena
All’interno del Duomo della natia Polistena – dove Jerace ricevette il battesimo – si trova un suo altare marmoreo, quello della cappella del Santissimo Sacramento, su cui campeggia la grande tela dell’Eucarestia, chiaramente firmata Jerace. All’interno del luogo di culto è conservato anche un quadro dell’Ultima Cena (dipinto nel 1904 per volontà del padre), fatica bastevole a ricordare l’altro campo artistico in cui eccelleva il Maestro. L’esterno della chiesa dedicata a Santa Marina Vergine presenta inoltre un frontone realizzato su disegni dell’illustre concittadino.
L’Ultima Cena, dipinto realizzato da Jerace su richiesta del padre
Oltre a ciò, Francesco Jerace ha voluto ricordare il sacrificio dei polistenesi nel corso della Prima guerra mondiale con un monumento ai caduti situato in Piazza del Popolo. A sua volta Polistena ricorda il suo indimenticabile figlio con un’opera bronzea di Fortunato Longo, inaugurata nel 1997 e posta nella piazza da cui parte la via dedicatagli, e con la Casa museo Jerace, aperta nel 2018, nelle cui sale sono esposte numerose opere d’arte eseguite dall’artista e dal fratello Vincenzo. Nel Municipio della “perla della Piana”, in ultimo, si trova un bassorilievo di gesso con una testa barbuta – una delle primissime realizzazioni del giovane Jerace – e altri lavori donati in tempi recenti dagli eredi.
Polistena, Monumento ai caduti
Francesco Jerace in Calabria
A proposito di donazioni: abbiamo citato in precedenza la Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro. Lo spazio offre una nutrita collezione di marmi e gessi dello scultore, donati nel 1966 dalla figlia Maria Rosa, come una riproduzione della Victa – busto marmoreo col quale nel 1880 partecipò all’Esposizione nazionale di Torino – e i busti ideali dell’Ercolanea e della principessa Evelina Colonna di Galatro.
Reggio Calabria, il monumento a Giuseppe De Nava
In Calabria la mano di Jerace è rintracciabile in diverse città. A Reggio Calabria il Maestro realizzò le statue di San Paolo e Santo Stefano di Nicea per il sagrato del Duomo: il primo secondo tradizione convertì la popolazione reggina al Cristianesimo, il secondo fu invece il primo vescovo della città. All’interno del Duomo di Reggio si trova pure un suo monumentale pergamo. Per la città sullo Stretto il Genio di Polistena ha scolpito, inoltre, il monumento ai caduti con la Vittoria Alata, il marmo Eroica, il monumento a Giuseppe de Nava e un busto della poetessa locridea Nosside. Da segnalare anche un originale autoritratto a sanguigna custodito all’interno del Museo diocesano della città metropolitana.
Un museo a cielo aperto
Proseguiamo la carrellata citando i lavori di Francesco Jerace accolti alla Gipsoteca Michele Guerrisi, presso la Casa della cultura Leonida Repaci di Palmi, il busto di nobildonna conservato al MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento di Rende, e l’Angelo della tomba Compagna al sacrario della Schiavonea di Corigliano.
Non soltanto gallerie al chiuso: la Calabria rappresenta, infatti, un autentico museo a cielo aperto per quel che riguarda l’opera di Jerace. Per le strade di Crotone si incontrano le statue di Armando Lucifero e Raffaele Lucente; a Cosenza gli Angeli della cappella Greco; a Pizzo, prossimo all’incantevole belvedere di Piazza della Repubblica, il busto di Umberto I di Savoia scolpito nel 1902 per ricordare il sovrano d’Italia assassinato due anni prima per mano di un anarchico; a Stefanaconi il monumento ai caduti; a Scilla la possente statua di bronzo della Sirena; ancora a Catanzaro i marmi dei viali di Villa Margherita, raffiguranti illustri calabresi del XIX secolo tra cui Andrea Cefaly, Francesco Fiorentino e Bernardino Grimaldi.
Cosenza, gli Angeli della cappella Greco
Sul tetto dell’Aspromonte
Impossibile dimenticare, infine, la statua bronzea del Cristo Redentore, realizzata per il Giubileo del 1900 e rientrante nel “grandioso omaggio a Dio” concepito da papa Leone XIII, progetto che prevedeva la collocazione di venti statue su altrettanti monti italiani.
Posto nel 1901 sulla cima dell’Aspromonte, ai 1956 metri di Montalto, comune di San Luca, il Cristo Redentore di Francesco Jerace ha in mano una grande croce e con l’altra benedice l’intero popolo calabrese, perché possa vivere nella fede in Dio e non dimentichi i grandi uomini – religiosi e artisti su tutti – che lo hanno rappresentato nel mondo.
Montalto (San Luca), il Cristo redentore
Francesco Jerace, sculture in tutto il mondo
Membro della commissione permanente di Belle Arti, l’eminente artista fu professore onorario delle accademie di Belle Arti a Napoli, Milano e Bologna e alla VIII Biennale del 1909 gli fu riservata una mostra personale.
Francesco Jerace fu invitato alle rassegne internazionali più importanti del suo tempo, partecipando a varie Esposizioni universali, all’Esposizione italiana di San Pietroburgo dell’anno 1902 e a manifestazioni anche oltreoceano (fu a Saint Louis, Buenos Aires e Santiago del Cile) prima di spegnersi a Napoli il 18 gennaio 1937. Sue opere si trovano oggi in tutto il globo: da Londra a Berlino, da Dublino a Monaco di Baviera, da Varsavia, a L’Aia, Madrid, Atene, Odessa e Bombay.
È stato uno dei terremoti più disastrosi della storia d’Italia, nonché quello che più ha segnato la narrazione recente e l’identità stessa della Calabria, ultimo sud della Penisola. È praticamente impossibile, infatti, partecipare a una conferenza, un intervento pubblico sulla storia della Calabria – dal punto di vista culturale, religioso, artistico o architettonico che sia – e non giungere a un certo punto al terribile sisma che duecentoquaranta anni fa sconquassò e cambiò per sempre le sorti e il volto della regione. Parliamo del Terremoto della Calabria meridionale del 1783.
Le macerie dopo il terremoto del 1908
Conosciuto pure come Terremoto di Reggio e Messina del 1783 – nome sempre meno utilizzato dopo il più noto e vicino sisma del 1908 che cancellò le due città affacciate sullo Stretto –, l’evento sismico fu tra i più prolungati della storia del Paese.
“Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poiché era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitto.
[“Storia d’Italia” di Carlo Botta, volume ottavo, da “Biblioteca scelta di Opere italiane antiche e moderne”, volume 464, Silvestri 1844]
Anticipata secondo gli scritti dell’epoca da un autunno e inizio d’anno piovosissimi – presagio di sventura, e che già aveva provocato alluvioni e smottamenti in molti centri –, la prima catastrofica scossa si verificò poco dopo mezzogiorno del 5 febbraio 1783. Ma nell’arco dei successivi cinquanta giorni se ne registrano altre cinque violentissime, momenti campali di un orrendo tremolio che fino al tramonto di marzo accompagnò l’esistenza dei calabresi.
Quelli di febbrajo esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro, l’ultimo su quelle che verso lo strangolamento d’Italia tra i golfi di Sant’Eufemia e di Squillace sono poste. [Ibidem]
Calabria, 5 febbraio 1783: terremoto a Oppido
Mercoledì 5 febbraio 1783. Il paese epicentro della prima devastante scossa fu Oppido, antichissimo abitato compreso fra la Piana di Gioia e l’Aspromonte. La montagna si spaccò sfracellando case, campagne, il castello e la cattedrale: un sussulto di magnitudo 7.1 (undicesimo grado della scala Mercalli) che rase totalmente al suolo la cittadina del Reggino, mietendo circa cinquemila anime.
Alexandre Dumas padre
In visita – fortuita, ché fu costretto ad approdarvi a causa di una tempesta marina che gli aveva reso impossibile lo sbarco in Sicilia – in Calabria alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, Alexandre Dumas padre scrisse di Oppido che «ebbe la sorte di tutte le belle donne: oggetto di desiderio nella loro giovinezza, di disgusto nella loro decrepitezza, d’orrore dopo la loro morte» [Viaggio in Calabria, Rubbettino 1996].
Dopo quella di mezzodì del 5 febbraio che cancellò Oppido, le scosse proseguirono nelle ore immediatamente successive. Se ne registrarono 949 fino al 7 febbraio quando un nuovo rabbiosissimo sisma – magnitudo 6.7 – annichilì Soriano e il suo Convento di San Domenico, fra i più maestosi del Continente, già distrutto e poi ricostruito dopo il terremoto del 6 novembre 1659.
Nove giorni dopo l’ecatombe
Gli aiuti arrivarono dopo lunghi giorni d’attesa. Le notizie del tremuoto – come si diceva al tempo – raggiunsero Napoli, sotto la cui corona borbonica soggiaceva la Calabria, solamente a nove giorni dai primi eventi. A recapitarle fu l’equipaggio della fregata Santa Dorotea, partita dal porto di Messina il 10 febbraio. Le prime missioni di soccorso giunsero nella regione quando la stessa continuava a tremare.
Come detto, di fatti, il sommovimento tellurico imperversò sulla Calabria – la parte Ulteriore, dall’Istmo di Marcellinara allo Stretto di Messina, interessando in maniera ferale anche la città siciliana – fino agli ultimi giorni di marzo, precisamente il 28. In quella data si verificò un ultimo orribile episodio sismico sulla trasversale fra Feroleto e Borgia, interessando i centri di Maida, Marcellinara, Girifalco e Cortale.
Un’illustrazione mostra il maremoto sullo Stretto del 1783
I paesi demoliti dalla furia del terremoto furono tantissimi. A causa del cosiddetto Flagello, più di centottanta abitati andarono distrutti. Fra questi, oltre ai già citati, Palmi, Seminara, Santa Cristina, Castelmonardo (l’odierna Filadelfia), Mileto, Serra San Bruno, Polistena, Cinquefrondi, Casalnuovo e Terranuova (oggi, rispettivamente, Cittanova e Terranova Sappo Minulio), Stalettì, Bagnara e Scilla. Il susseguente maremoto colpì queste ultime e travolse fatalmente le genti che avevano trovato riparo sulla spiaggia.
Oltre a ciò e al numero elevatissimo di vittime – la stima dell’insigne storico e saggista Augusto Placanica, contenuta nel suo L’Iliade funesta (Casa del Libro Editoriale, Roma 1982), attesta oltre trentamila morti, pari al «10 per cento della popolazione dell’intera provincia» della Calabria Ultra dell’epoca. Altre stime si spingono fino alla cifra di cinquantamila vittime con alcuni paesi che videro perire sotto le macerie oltre sei abitanti su dieci.
Il terremoto del 1783 cambiò volto alla Calabria
Si verificò un mutamento radicale della morfologia della regione. Una sequenza sismica così lunga e devastante portò infatti alla rivoluzione dell’aspetto paesaggistico della Calabria che da quei giorni non sarà più lo stesso. Tra le frane, gli scivolamenti e la liquefazione delle terre – uno scenario, riportano le cronache del tempo, da fine del mondo – la sella di Marcellinara, punto centrale dell’omonimo Istmo, si abbassò, numerosi torrenti e fiumi – come l’importante Mesima – cambiarono il proprio corso, si rovesciarono intere colline e presto si notò un po’ dovunque la comparsa di ampie fenditure, profondi crateri colmi d’acqua e sabbia, acquitrini e laghetti. Interessati dal fenomeno del bradisismo – vale a dire l’innalzamento o abbassamento della terra, assai visibile lungo le coste – furono inoltre i centri di Reggio Calabria, Bagnara e Scilla.
Formazione di crateri di depositi sabbiosi nella Piana di Gioia Tauro (Atlante iconografico allegato alla “Istoria de’ Fenomeni del Tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli”, Michele Sarconi, 1784)
Il Terremoto del 1783 fu una ecatombe talmente colossale che non se ne trovarono eguali a memoria d’uomo, se non in epoche remote. Michele Torcia, membro dell’Accademia regia, nella sua relazione coeva dal titolo Tremuoto accaduto nella Calabria, e a Messina alli 5. Febbrajo 1783 paragonò la sciagura calabro-sicula al violentissimo sisma che nel 17 portò morte e distruzione in dodici città della provincia romana dell’Asia Minore, avvenimento riportatoci da Tacito e da Plinio il Vecchio.
La riscoperta della “penisola della Penisola”
Sancendo, dopo il devastante terremoto del 1638 e altri di minore entità a cavallo fra la fine del Seicento e i primi del Settecento, la posizione altamente sismica della Calabria, l’apocalisse del 1783 fu importante per riaccendere la luce sulla “penisola della Penisola”.
Priva di vere strade che la collegassero al resto del Regno, luogo di transito caldamente sconsigliato ai viaggiatori delGrand Tour – che proprio in quella seconda metà del Settecento andava trasformandosi in una moda irrinunciabile per i giovani letterati e aristocratici della Vecchia Europa e che, sull’onda delle eccezionali scoperte di Ercolano (1709) e Pompei (1748), stava investendo anche il resto del Meridione –, “grazie” al Flagello la misterica e pericolosa finibus terrae di Calabria fu infatti “riscoperta”. Nel senso che si prese coscienza delle sue antiche problematiche, della sua fragilità ambientale, dell’arretratezza del suo disegno abitativo e del suo sistema economico e sociale.
In Calabria il primo regolamento antisismico
Così, oltre al ritorno della nobiltà calabra soggiornata a Napoli – più che altro preoccupata dei disordini scoppiati presso i propri feudi –, conversero in Calabria scienziati, medici, geologi e tecnici da tutto il mondo. Assieme a essi, dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, raggiunsero la regione anche scrittori, letterati, osservatori, membri dell’aristocrazia europea; uomini come Johann Wolfgang Goethe, Stendhal, Edward Lear, George Gissing che ne parlarono, ne scrissero, fecero da cassa di risonanza, avvicinando la Calabria al resto del Continente cui, pure inconsciamente, apparteneva.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
La mal conosciuta punta dello Stivale si trasformò in un cantiere di futuro. I nuovi paesi furono edificati secondo innovativi criteri urbanistici, cosicché in Calabria si assistette alla messa in atto del primo regolamento antisismico d’Europa che certamente contribuì a limitare i danni derivati dai continui terremoti che angustiarono la Calabria anche nell’Ottocento – ben otto quelli con magnitudo superiore a 5.5 registrati dal 1832 al 1894.
Terremoto del 1783: la Calabria e la Cassa Sacra
A coordinare le operazioni di risanamento della parte centromeridionale della regione fu il maresciallo Francesco Pignatelli, marchese di Laino, che Ferdinando IV di Borbone nominò Vicario generale delle Calabrie. Pignatelli si spostò in lungo e in largo per le aree più sconquassate, per i vari stati della Calabria Ulteriore, come il nobiluomo ebbe a titolare, nei resoconti spediti al sovrano, le molteplici zone visitate.
Nuova Pianta della città di Palmi (RC) proposta dai Borboni per la ricostruzione dopo il terremoto in Calabria del 1783
C’è da dire che i soccorsi usufruirono anche della Giunta di Cassa Sacra, un organo straordinario che si occupò di trovare fondi per la ricostruzione anche attraverso la vendita di beni ecclesiastici, mobili e immobili, espropriati a chiese, conventi e monasteri. L’ufficio della Cassa Sacra – che, in aggiunta, non nascondeva l’ambizione di riscattare dal punto di vista economico e sociale la regione (un refrain intramontabile) – ebbe alterne fortune: oltre alla spoliazione del patrimonio culturale regionale, favorì infatti l’arricchimento dei possidenti e dei nobili, lasciando ai margini i ceti meno abbienti.
E mentre l’Europa alimentava una nuova curiosità per la Calabria, i calabresi, stravolti dalle costanti calamità naturali e abbattuti dalla loro incerta e malagiata condizione, cominciarono man mano a perdere interesse verso la propria terra ferita e ostile, a staccarsi da essa e a dichiararsi vinti. Proprio nel momento in cui, forse… ma questa, come dicono quelli bravi, è un’altra storia.
Con sessanta milioni e duecentomila abitanti censiti, l’Italia è la venticinquesima nazione della Terra per popolazione.
È ciò che emerge dall’analisi condotta a giugno 2022 da Worldometers.info, sito web dedicato alle statistiche sui più svariati argomenti. Il dato è ricavato dall’esame di duecentoquarantasette Stati del pianeta terracqueo.
Il Bel Paese però scende in settantaduesima posizione (dati 2018) se si considera esclusivamente la densità, vale a dire la popolazione per chilometri quadrati. Infatti, l’Italia conta circa duecento abitanti ogni chilometro quadrato di territorio.
Una nazione fatta di paesi
In questa particolare graduatoria, siamo circondati da Paesi esotici quali Gambia, Saint Kitts e Nevis e Isole Vergini Britanniche (rispettivamente alle posizioni settanta, settantuno e settantatré), assai meno estesi, popolati e conosciuti del nostro.
Dal dato sulla densità emerge una realtà che spesso tendiamo a dimenticare: l’Italia non è una nazione fatta di città ma una unità politica e territoriale composta, prima di tutto, da una moltitudine di medi, piccoli e piccolissimi centri di provincia.
Poche le grandi città
Paesi dalle dimensioni contenute se non modeste, scarsamente abitati. È un nitido riflesso del contesto nazionale in cui solo sei città superano i cinquecentomila abitanti. Cioè, in ordine decrescente: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, stando ai dati Istat 2022.
Il sogno del progresso nell’Italia degli anni ’60
Tutto il resto, sono piccoli paesi, con le loro culture, i loro costumi, le loro lingue regionali scorporate in migliaia di dialetti inintelligibili l’uno con l’altro. È un patrimonio straordinario messo però in crisi dal processo di unità linguistica iniziato, sulla carta, con la nascita dello Stato italiano del 1861 realizzato davvero un secolo dopo con la diffusione poderosa e capillare della televisione in tutto il territorio nazionale.
Dialetti e borghi fantasma
Come i dialetti – la cui dissoluzione in favore dell’omologazione verbale e culturale del Paese ha compromesso irrimediabilmente i particolarismi linguistici -, anche i paesi hanno preso piano piano a scomparire, a perdere le tipicità, in quei rivoluzionari primi decenni del secondo dopoguerra.
Fu l’esito di una serie di processi: innanzitutto le rinnovate ondate di emigrazione, sia all’estero sia verso il Settentrione. Ma non si devono sottovalutare i massicci spostamenti interni verso altri centri e nuovi paesi omonimi in costruzione.
Un vicolo deserto di Apice Vecchia
È il fenomeno dei paesi doppi, sosia degli originali abbandonati e destinati a trasformarsi in paesi-presepe. I nuovi centri erano più prossimi al mare e alle moderne infrastrutture: più fertili e salubri, meno soggetti alle catastrofi naturali – eruzioni, smottamenti, alluvioni, terremoti – che per secoli avevano segnato le esistenze di tante comunità. Questa emorragia demografica, da cui non ci siamo più ripresi, ha generato i cosiddetti paesi fantasma, cioè, per usare l’espressione dell’antropologo Vito Teti, «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi».
I “nonluoghi” d’Italia
In tutto il Paese, ci sono tanti posti dimenticati, a seguito, come detto, della volontà di costruire un futuro migliore altrove – che spesso si traduceva in corse vere e proprie al cieco riscatto sociale e all’emulazione, anticamera dell’incultura – oppure cancellati dalla furia della natura, desiderosa di riprendersi i suoi spazi.
Non luogo, non più luogo o non ancora luogo: ecco cos’è oggi Rovaiolo Vecchio, borgo dell’Oltrepò Pavese, abbandonato negli anni sessanta.
Consonno: le rovine del “Paese dei balocchi”
I suoi abitanti traversarono l’Avagnone per andare verso quello che credevano il lato giusto della Valle. Stesso discorso per Consonno, l’iperbolico villaggio dei balocchi brianzolo, messo in piedi, sempre nei “miracolosi” anni sessanta, dall’imprenditore Mario Bagno per sostenere l’ideale della società dei consumi dentro cui, allora, gli italiani si lanciavano spensierati e leggiadri come il Tuffatore di Paestum.
Un sogno rapidamente svanito per trasformarsi in un rudere alla mercé dei graffitari. Così è Apice, nel Sannio, il più grande paese fantasma della Penisola, conosciuto anche come la Pompei del ’900. Idem per la sarda Santa Chiara del Tirso, nata con la sua diga negli anni venti del secolo scorso e arresasi nel giro di qualche decennio al tempo e alla vegetazione.
I ruderi di Rovaiolo Vecchio
Paesi fantasma in Calabria
Sono luoghi in disfacimento, dimenticati e inghiottiti dalla natura in rivolta. Sono espressione di un’Italia profonda, trapassata o in divenire.
Come, in Calabria, Cavallerizzo di Cerzeto e Roghudi Vecchio, paesi flagellati dalle frane e inseriti tra i venti borghi abbandonati protagonisti di Atlante dei paesi fantasma, il saggio di Riccardo Finelli uscito di recente dai tipi di Sonzogno.
Riccardo Finelli, giornalista viaggiatore
Arricchito delle eleganti illustrazioni di Alessandra Scandella, il volume di Finelli (giornalista e viaggiatore, già autore di altri saggi sulle tracce dell’Italia sconosciuta) ripercorre strade antiche, dimenticate, cancellate dalle cartine e dalla memoria.
Scivola per gli Appennini e giunge nella Calabria interna, a Roghudi, paese di lingua grecanica della provincia di Reggio.
Roghudi e l’alluvione killer
Roghudi è stato angustiato da continue calamità naturali. Quella definitiva è del gennaio 1973: un’alluvione che costrinse i roghudesi a lasciare per sempre il grappolo di case abbarbicate sull’irto ciglione che dà sulla fiumara Amendolea. È uno dei paesi fantasma in Calabria. Qui si mescolano memoria storica e leggenda: le urla dei bambini che nei secoli sono precipitati dallo strapiombo, i canti delle Anarade, maliarde dagli zoccoli di mulo sempre pronte a condurre qualche uomo alla perdizione. Anche le rocce, qui, hanno assunto una conformazione mitica grazie al lavorio delle intemperie: la Rocca tu Draku (Roccia del drago) e le Vastarùcia (Caldaie del latte).
La Rocca tu Draku a Roghudi
La frana di Cavallerizzo
Più recente l’apocalisse di Cavallerizzo di Cerzeto, centro arbëreshë in provincia di Cosenza. Questa Ghost town è diversa da Roghudi: qui l’abbandono è iniziato soltanto in seguito all’impressionante smottamento del 7 marzo 2005quando una piccola porzione del centro, costituita per giunta da abitazioni di fresca costruzione, scivolò in un dirupo. L’evento era prevedibile, date le caratteristiche morfologiche del terreno in cui si permise di edificare.
«La bestia aveva vinto» scrive Finelli con allusione a Madre Natura. Ma la “bestia” aveva anche il volto sia di una classe politica che per anni ha intascato i fondi destinati a fronteggiare il dissesto idrogeologico, sia di chi ha disboscato ad libitum la vegetazione attorno a Cavallerizzo. Adesso è uno dei paesi fantasma in Calabria.
E se fosse un suicidio?
Ma qual è il futuro di tali «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi? Soprattutto, sta a noi deciderlo? E se invece i luoghi avessero “deciso” di non farcela, di restare nella condizione di sentinelle solitarie di una Italia impresidiata?
Forse il male minore e accettabile, è essere presi “d’assalto” dagli expat o spatriati, gli emigrati o figli e nipoti di emigrati che ritornano al paese una o due settimane per le feste patronali, in moltissimi casi aggiornate e fatte coincidere con le ferie d’agosto di chi quei paesi ha dovuto o voluto lasciare. Paesi che compaiono e scompaiono, come dietro un verecondo velario.
Come sopravvivono i deserti
Ma il paese c’è e non si riduce a quei tre giorni segnati dalla processione per le vie pietrose col santo di cartapesta in spalla, e dalla sagra del peperoncino o del caciocavallo.
Santo in processione in una festa patronale
Il paese c’è e vive, seppur immobile alla percezione umana. «Anche quando non ci sei resta ad aspettarti», diceva Cesare Pavese: vive per i rovi e le piante che abbracciano le dimore e sfondano pavimenti, solai e tetti. Ed esiste per gli animali che danno un senso a quelle pietre, a quelle mura, a quei terreni incolti, a quelle insegne rugginose. Il paese chiede di essere vissuto, ma non deturpato e snaturato con musei all’aperto, residenze diffuse per anziani (il nome politicamente corretto degli ospizi), parchi letterari, tali solo sul progetto vergato per mettere le mani sui fondi, e chi più ne ha, ne metta. Il paese non vuole essere prostituito, a fini cinematografici o pubblicitari a questo o quell’altro regista.
Forse dovremmo chiederci: cosa vuole da noi il paese? E, soprattutto, dopo le nefandezze perpetrategli negli ultimi secoli, siamo sicuri che la domanda sia rivolta proprio a noi?
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