Autore: Antonio Pagliuso

  • Pasolini e il medico di Paola

    Pasolini e il medico di Paola

    Intellettuale anticonvenzionale, indipendente, unico e ineguagliabile. Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini, assassinato sul litorale di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un poeta, giornalista, regista e letterato che ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana del Ventesimo secolo e che ha scandagliato in profondità i tormenti, le ipocrisie, i vizi e i cambiamenti del popolo italiano.

    Renzo Paris racconta la morte di Pier Paolo Pasolini nel suo ultimo libro - la Repubblica
    Il ritrovamento del corpo di PPP

    Dai campagnoli di Casarsa ai sottoproletari delle borgate romane, fra i popoli umili che più hanno intrecciato le loro sorti al vissuto di Pasolini un posto di rilievo ha la gente di Calabria. Quello fra PPP e la Calabria è stato un rapporto burrascoso ma intenso, sviluppatosi attraverso i reportage, i film, i documentari, anche la poesia, con le parole di Profezia, componimento del ’64 poi diffuso col titolo Alì dagli occhi azzurri, che anticipò il dramma dei migranti nel Mediterraneo e in particolare lungo le coste calabresi.

    “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
    a milioni, vestiti di stracci,
    asiatici, e di camicie americane.
    Subito i Calabresi diranno,
    come malandrini a malandrini:
    ‘Ecco i vecchi fratelli,
    coi figli e il pane e formaggio!’”

    Pasolini in Calabria: banditi a Cutro

    La complessità del legame fra Pasolini e la Calabria si fonda sul caso scoppiato lungo il vespro dell’estate del 1959, a seguito della pubblicazione – il 5 settembre – della terza e ultima parte di un reportage in Italia, da Ventimiglia a Pachino, da Reggio Calabria – luogo in cui, scrive, gli piacerebbe «vivere e morirci, non di pace, […] ma di gioia» – a Trieste, che Pier Paolo Pasolini confezionò, con gli scatti del fotografo Paolo di Paolo, per la rivista Successo. La parte conclusiva del documentario dal titolo La lunga strada di sabbia si concentrava sulla risalita della Penisola, dallo Jonio calabrese all’Adriatico, tragitto durante il quale il poeta passò, fugacemente, a bordo della sua Millecento a quattro cilindri, da Cutro, paesino immerso in un paesaggio bucolico di calanchi oggi in territorio di Crotone, al tempo rientrante nella provincia di Catanzaro.

    Parliamo della famosa polemica dei banditi – così come Pasolini appellò la gente di Cutro –, cavalcata dalla pubblicistica locale e dal governo democristiano di Cutro con a capo il sindaco Vincenzo Mancuso.
    «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

    Premi e polemiche

    Alla diffusione di queste pagine, sulla stampa calabrese si scatenò un’isteria collettiva. L’intellettuale corsaro provò, a suo modo, a chiudere la questione con una replica, uscita il 28 ottobre su Paese Sera. Un passaggio della Lettera sulla Calabria sosteneva che «la storia della Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa». Ma la querelle proseguì, raggiungendo il picco poche settimane dopo, a metà novembre, quando PPP ricevette a Crotone – città in contrasto politico con la vicina Cutro considerata l’amministrazione di colore rosso, retta dal primo cittadino comunista Vincenzo Corigliano – il prestigioso Premio Crotone per il suo romanzo Una vita violenta. «Il Premio Crotone assegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro» metteva nero su bianco, indignato, Il Messaggero della Calabria.

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    Pasolini in Calabria per il Premio Crotone

    Il dottor Pasquale Nicolini

    È una vicenda famosa, di cui si è scritto molto. Poco tramandato è invece uno scambio di lettere, avvenuto a cavallo fra l’uscita del resoconto incriminato e la consegna contestata del Premio Crotone all’autore, fra Pasolini e un medico calabrese.
    È il 26 settembre 1959 quando dalla Calabria parte una raccomandata. A firmarla è un dottore, ufficiale sanitario di Paola, Pasquale Nicolini.
    Vicino agli ultimi, ai più deboli, Nicolini era quello che oggi definiremmo un attivista. L’uomo si impegnava a promuovere il diritto alla salute per le famiglie meno abbienti e per la costruzione di abitazioni moderne, che strappassero le genti più povere della cittadina tirrenica dalle loro casupole malsane e lesionate a seguito dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale – lascito di quegli orrori della guerra che il dottor Nicolini aveva sperimentato negli ospedali militari.

    L’uomo possedeva anche una profonda cultura umanistica, amava discettare di filosofia e letteratura e non disdegnava di comporre poesie dedicate alla sua terra. Interessatosi chiaramente alla controversia scoppiata a seguito delle parole di Pasolini sulle pagine di Successo, il dottor Pasquale Nicolini pensò dunque di scrivere, con la cortesia e l’acume che lo distinguevano, una lettera privata al poeta.
    Di seguito, estratti della missiva, pubblicata il 23 luglio 2012 da Roberto Losso, giornalista scomparso nel 2023, sulle colonne del Quotidiano della Calabria:

    Una lettera per confrontarsi

    «Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto La lunga striscia di sabbia, pubblicato nel numero di settembre di Successo, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so se l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così?

    Ella, dunque, percorrendo la ‘lunga strada di sabbia’ della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada».

    Pasolini tra le braccia di Morfeo?

    «Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in ‘turboreattore’, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro-tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?».

    «Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello…» […]

    Povera ma bella

    «E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo ‘carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita’. Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».

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    Quel che resta del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone)

    «Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? […] Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo. Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite.»[…]

    «Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».

    La replica di Pasolini

    Apprezzando il tono e la cultura classica espressa da Nicolini, PPP decise di rispondere. Già il 1° ottobre con la sua Olivetti 22 il poeta replicò al medico calabrese. Riportiamo alcuni lacerti della risposta:
    «Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose ‘dune giallastre’ durante la notte.» […]

    «E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».

    Manie di persecuzione, lotta e realtà

    «Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica». […]
    “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato.

    E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».

    Pasolini torna in Calabria

    Il carteggio non fu divulgato, come esortato dallo stesso Pasolini. «Persona degna di ogni rispetto e anche affetto», il dottor Nicolini lasciò la preziosa corrispondenza nel cassetto, lontana dalle grinfie di cercatori di scoop e fomentatori della diatriba.
    La polemica si affievolì presto e, trascorsi alcuni anni, Pasolini ritornò in Calabria. Il rapporto con la regione, terra genuina, reale, trascurata e anarchica quanto bastava per non essere stata ancora corrotta dalla omologazione e dalle brutture conformistiche imposte dalla modernità, da quel “genocidio culturale” inflitto agli italiani, proseguì raggiungendo l’acme nel ’63-’64 con le riprese del Vangelo secondo Matteo.

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    Pasolini durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo

    Il poeta e regista, deluso dalle trasformazioni del paesaggio avvenute in Medio Oriente, scelse di girare in diversi luoghi rupestri del Meridione, fra cui le calabresi Le Castella e Cutro, panorami «ferocemente antichi», scampati al disastro «economico, ecologico, urbanistico, antropologico» del tempo, che meglio potevano ricordare la Terra Santa di duemila anni prima.
    E il colto dottor Pasquale Nicolini? Voci perpetuate nei decenni vogliono che Pasolini abbia incontrato, negli anni successivi a quella turbolenta seconda metà del 1959, quel medico intellettuale paolano che aveva avuto l’ardire di scrivergli direttamente per metterlo a parte del suo pensiero e per avere un confronto, e che grazie all’educazione e all’accesa passione per le proprie radici si era meritato non soltanto la risposta, ma pure la stima di uno dei massimi pensatori del Novecento.

    Voci, indiscrezioni mai confermate che nulla tolgono a una corrispondenza preziosa, tassello importante per ricostruire il rapporto tormentato e ricco di fascino fra Pasolini e la nostra terra.

  • La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    «Affittasi spritz o gin tonic per selfie.
    1 €»

    Siamo a Chianalea, villaggio marinaro della cittadina di Scilla, perla di uno dei tratti più affascinanti della Calabria. Perlomeno finora. Accanto all’ingresso di un bar campeggia questa scritta. Forse passa inosservata alle migliaia di turisti che ogni giorno d’estate sfilano per la stradina di Chianalea, stretta fra il mare e la roccia, sempre più sgombra di residenti – stranieri nella loro terra – e più ingombra di baretti e negozi di souvenir. Forse però no. Perché se quel cartello – perfetta sintesi del consumismo ego-edonistico che distingue il nostro secolo – si trova lì, in bilico su una colonnina di mattoni, una ragione ci sarà.

    Parola d’ordine: Turismo

    È l’estate l’ultima speranza della Calabria, terra abusata e abbandonata, vilipesa e “perduta”, per riprendere la tanto criticata espressione di Corrado Augias di qualche tempo fa, periferia d’Europa che nelle ultime stagioni ha scelto il turismo come asso vincente per ribaltare l’esito di una partita forse davvero già scritta.
    Lo slogan lanciato dagli apostoli dello sviluppo economico – da prassi disinteressati al progresso sociale – è chiaro e unanime: è sul turismo che bisogna puntare. Senza remora alcuna, senza più tergiversare.

    E così che internet, radio, giornali e telegiornali ci inondano di articoli e servizi dai toni sensazionalistici che celebrano il boom turistico della Calabria e le sue meraviglie da scoprire. Un bombardamento mai visto prima, esercitato con una coralità inedita, tirannica. E pazienza se poi i visitatori in realtà sono dei transitatori diretti soltanto ai tre o quattro paesini della costa convertiti sempre di più in luna park per gli stupri di gruppo, socialmente accettati, dei turisti verso il patrimonio ambientale e sociale della nostra fragile regione; pazienza se accanto alle bellezze permangano orrori che ancora facciamo fatica a nominare.

    Corrado Augias racconta pagine della nostra Storia - Teatro di Roma
    Corrado Augias

    “Nemici del popolo”

    La narrazione è quella e non ammette rettifiche o dubbi. Pena, essere bollati come disfattisti e nemici del popolo che “non vogliono il bene della Calabria”.
    È un profluvio di discorsi fascisticamente omologati, conformi al canone imposto dal totalitarismo del pensiero dominante capitalistico, copiati da altre civiltà credute superiori per quel non sanabile senso di inferiorità che noi calabresi ci portiamo dentro. Proclami retorici, parziali, acritici e tornacontistici, e che perciò restano in superficie, giustificati attraverso la solita filastrocca del “bisogna fare vedere le cose belle”. Ché noi quaggiù siamo sempre pronti a parlare solo degli aspetti negativi della nostra terra, giusto?

    In fuga

    Il turismo riuscirà a risollevare la regione dal suo sottosviluppo economico, dal suo isolamento culturale e dalla sua regressione morale? La carta del turismo si rivelerà davvero la panacea di tutti i mali della Calabria come molti credono? A partire magari dallo spopolamento, principale causa e conseguenza della crisi della “penisola della Penisola”?
    Di recente l’Istat ha fotografato una volta ancora che la fuga dei calabresi dalla regione e il suo conseguente invecchiamento non cessano, stimando un progressivo declino demografico almeno fino al 2050. Nello specifico, il fenomeno migratorio riguarda il 5,5% della popolazione stanziale in Calabria, più del doppio rispetto alla media dell’intera Italia che si attesta al 2,3%.

    Le ragioni della emigrazione e dello spopolamento della Calabria problema che interessa il 75% dei comuni calabresi, 306 su 404 totali – sono note a tutti, anche a chi suole ficcare la testa sotto la sabbia per negare la realtà. Si abbandona la regione per mancanza di opportunità di lavoro, si fugge a causa della mobilità interna disastrosa, perché i , si va via perché il diritto essenziale della salute è tutt’altro che garantito.

    La carta sbagliata del turismo

    Al fine di invertire la rotta, la Calabria non è certo la prima terra in difficoltà dell’Europa di frontiera a puntare tutte le fiches sul turismo. E non sarà sicuramente l’ultima: messaggio chiaro lo lanciano le compagnie aeree a basso costo che ogni giorno annunciano nuovi itinerari per collegare, turisticamente, i punti più estremi del Vecchio Continente. Giungendo a questa decisione coi suoi tempi, la Calabria si ritroverebbe quindi addosso una indubbia colpa: rifiutarsi di vedere che i territori che nel recente passato hanno puntato troppo sull’industria del turismo si trovano già in difficoltà, perché non riescono a contenere lo straripamento o la flessione del settore, a gestire il sovraccarico turistico – il cosiddetto overtourism – o, per converso, una eventuale sorte negativa del numero magico su cui hanno concentrato tutte le risorse.

    Autentica come i social

    Fra luglio e agosto, momento della massima, relativa pressione turistica, i paesi della Calabria cambiano pelle. Di colpo vengono vestiti a festa per mostrarsi al turista desideroso di trovare quello che si aspetta, ovvero quello che gli hanno raccontato. I paesi si trasformano in oggetti culturali da servire in pasto ai voraci e insaziabili clic di malcapitati turisti a caccia di “esperienze autentiche”, osservatori esterni sorpresi dall’esotismo – pur artificiale, allestito per l’occasione – che si dispiega, contorce e libra dinanzi loro.

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    Un venditore ambulante sulla costa calabrese

    Ecco un contadino che zappa la terra, dei ragazzini che calciano il pallone in una piazzetta assolata, un capannello di signore in abiti poveri che sfornano il pane, una vecchina che rammenda un calzino.
    Scaglie di vita indigena, frammenti di quotidianità che senza rispetto vengono profanati e messi alla berlina – per scopi commerciali e di immagine – sulle reti sociali dalla pletora di nocivi influencer e content creator, per poi essere cinicamente ghettizzati sotto il marchio di “vita lenta”.

    Gli adoratori

    Di estate in estate si moltiplicano le greggi degli adoratori della “vita lenta” – che poi sarebbe la quotidianità della civiltà contadina in progressiva estinzione dal secondo dopoguerra.
    “Vita lenta”, certo. Quel che importa è che sia quella degli altri, ché i suddetti adoratori non ci vivrebbero neppure un giorno coi problemi cronici e autentici – loro sì – del Mezzogiorno: le strade dissestate, l’acqua pubblica che oggi c’è e domani chissà, le connessioni internet a singhiozzo, i disservizi che sono la regola quasi dovunque, in specie nelle aree interne. Difficoltà sistemiche e strutturali con cui i residenti convivono da sempre, trasformate dai clic di massa in folclore da mostrare ed enfatizzare. “Restare è un’arte” scrive l’antropologo e pensatore Vito Teti, restare è “un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali”. Insomma, vivere al Sud non è affatto per tutti.

    W la vita lenta (degli altri, però)!

    Eppure, la “vita lenta” piace assai proprio a chi non potrebbe mai rinunciare all’efficienza generale dei luoghi di residenza – l’Altitalia e l’Europa centrosettentrionale –, ai ritmi della città, agli stimoli della metropoli, all’affidabilità dei trasporti pubblici “di su”, al benessere diffuso, al lavoro performante, alla serenità derivante dallo stipendio sicuro e da una posizione sociale riconosciuta – fattori che, sovente, al Sud rappresentano vere e proprie chimere.

    “Vita lenta” guardata, fotografata, mostrata, consumata ed espulsa, a debita distanza, dal di là della gabbia, non sia mai che qualche indigeno esca dal ruolo imposto di “soggetto da fotografare”, si avvicini e ci chieda di barattare la sua “vita lenta”, lentissima, improduttiva, all’apparenza immobile, con la nostra reale quotidianità fatta di giornate frenetiche e produttive, di call una tira l’altra, di reperibilità assoluta, di onnipresenza sociale e virtuale, di aperitivi in centro, di weekend fuori porta, di tavoli prenotati al secondo turno nella pizzeria gourmet più à la page del momento.

    L’economia del folclore

    I problemi reali trasfigurati in esotismo – o neo-esotismo – dalle lenti distorte dei turisti si affiancano alle messe in scena simulate, confezionate per imbambolare il “forestiero” e rafforzare il carico di triti stereotipi che si porta dietro, dargli quel che si aspetta di vedere.
    “Abbelliti” per il turista, i paesi ne escono invece snaturati, sempre più imbruttiti e piegati al cattivo gusto dei vacanzieri o degli ex residenti che, chissà per quale perverso ordine di idee, desiderano sempre trovare tutto come lo si è lasciato al momento della fuga. I paesi si strappano così dalle mani di chi ci vive – da chi li vive –, si addomesticano come bestie selvagge e si rendono buoni per il mercato estero, esportabili un po’ come le ricette dei tanto celebrati amari calabresi, aggiustate per piacere al palato degli stranieri.

    Rodolphe Christin

    Paesi mercificati, tenuti in vita soltanto per il divertimento del turista, il suo passaggio e, chiaramente, la sua spesa, ché è pure superfluo aggiungere che codesti teatrini sono spesso allestiti per ragioni di marketing e per fini economici.
    “Interi aspetti della realtà sono ormai costruiti o tenuti in vita per il beneficio principale di un turista che non farà altro che passare e spendere” scrive il sociologo francese Rodolphe Christin nel suo Manuale dell’antiturismo.

    Più da perdere o da guadagnare?

    La turistificazione incentiva il meccanismo di semplificazione delle complessità di terre contraddittorie e plurali come la Calabria. E c’è più da perdere che da guadagnare, con le alterità tipiche che vengono sradicate, così come le tradizioni, le consuetudini di vicinato, i legami financo; col pericolo che ogni peculiarità e diversità autoctona venga pian piano soppressa, scartata “a beneficio di messe in scena protette, in cui il turista circola incanalato in itinerari, […] entro spazi resi propizi all’esecuzione di attività programmate, spesso commerciali”, nota sempre Christin.

    Il rischio concreto è quello di vedere cancellato il conio antropologico dei luoghi, assediati prima e intossicati poi da un turismo sempre più di passaggio, mordi e fuggi, consumistico, che occupa gli spazi senza animarli.
    Siamo seriamente convinti che stravolgendo l’aspetto e il ritmo dei paesi, uniformandoli a un standard unico, si possano salvare comunità abbandonate a se stesse, martoriate da decenni di soprusi e saccheggi, dissanguate e umiliate nella completa indifferenza dei governi centrali e locali?

    Piatti da consumare

    La domanda è rivolta a tutti coloro che contribuiscono a questo genocidio culturale in itinere, ai diversi attori che traggono profitto dall’industria del turismo: albergatori, gestori di bar, lidi e bed & breakfast, operatori turistici, influencer, organizzatori di eventi. Tutti assieme, accumunati dal cinismo e dalla pressoché assoluta carenza di etica e senso di responsabilità, bramosi soltanto di denaro, apparecchiano il piatto da consumare – verbo centrale del nostro tempo, secondo lo spartito del capitalismo cui la nostra società occidentale afferisce – anche attraverso l’organizzazione di centinaia di pacchiani e inutili manifestazioni, eventi e festival, pure loro del tutto appiattiti a modelli dominanti, ridotti a un conteggio onanistico di presenze, realizzati spesso senza alcuna attinenza territoriale e culturale: feste della birra – in quella che per i greci era l’Enotria… –, revival anni ’80 e ’90, sagre della ’nduja e del tartufo, scopiazzati qua e là e trapiantati con brutalità squadrista in ogni angolo della regione durante la “bella stagione”.

    Arriverà l’emergenza overtourism in Calabria?

    Fortunatamente – e ce lo confermano i dati Istat – in Calabria restiamo comunque lontanissimi dal parlare di fenomeno overtourism – o iperturismo –, ché come una rondine non fa primavera, anche una giornata di sovraffollamento eccezionale non certifica un fatto.
    È però evidente che alcuni segnali ci siano e che sia ferrea la volontà, soprattutto politica, di turistificare la Calabria, di “smeraldizzarla” tutta, dalla Costa dei Cedri a quella dei Gelsomini. Pertanto, è fondamentale parlare fin d’ora dei rischi della turistificazione forzata dei territori.

    Una lettrice solitaria sulla spiaggia di Zambrone

    Il turismo condiziona la qualità della vita dei residenti – destinati a essere sempre di meno, lo abbiamo visto – e lo fa in maniera positiva soltanto in minima parte, con il guadagno immediato di oggi, ma particolarmente in maniera negativa, nel medio-lungo periodo, con l’inquinamento ambientale prodotto dalla eccessiva e insostenibile pressione turistica a cui segue l’aumento del traffico, dei rifiuti, delle criticità legate alla insufficienza idrica, l’inasprimento dei rincari sulle tasche dei locali e, infine, delle inevitabili tensioni sociali fra residenti resistenti (in diminuzione) e visitatori (in crescita) – a queste condizioni è impossibile creare un sano rapporto fra le due parti, condicio sine qua non per concepire un buon turismo.

    Ecco, forse sarebbe ora di considerare i residenti non come mere comparse di un set cinematografico messo a punto per altri, ma di coinvolgerli nell’elaborazione dei piani turistici, affinché le attività turistiche comincino a essere integrate a quelle locali.

    La scelta del turismo in Calabria

    Se non accompagnato da una consapevole e attenta politica di prevenzione, il tanto angelicato turismo, il menzionatissimo “volano di sviluppo” buono per condonare decenni di empietà e negligenze, crollerà spiaccicato a terra. Le rovine giaceranno, sparse un po’ ovunque, come le assi di legno dei lidi già belli e smontati con la prima pioggia di settembre, mentre il balneare di turno reciterà la parte dell’impresario in deficit e qualche politicuccio di paese racconterà al microfono dell’amico blogger la favoletta della destagionalizzazione.

    Il turismo non salverà la Calabria. Più verosimilmente, se non compreso e regolato secondo la vocazione naturale della regione e dei suoi abitanti – applicando il sacro principio della medietas, il senso della misura –, ne accelererà il processo di disintegrazione dell’identità.
    Una terra che questa volta non sarà più violata dai capoccioni di Roma, ma finirà tradita e straziata dai suoi stessi figli. Svenduta, regalata per quattro soldi, anzi, per un euro. Il prezzo di uno spritz per selfie a Chianalea.

  • Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Quella di Cecilia Faragò è una storia in cui si intrecciano pregiudizi, credenze popolari, timore del soprannaturale, manipolazione della verità e ignoranza. È la storia di una di quelle donne che, ieri come oggi, fanno paura per la volontà di affrancarsi dal ruolo imposto loro dalla società e di uscire dalle gabbie in cui sono state confinate.
    Calabria, seconda metà del Settecento. Nell’entità amministrativa borbonica della Calabria Ultra, precisamente nel piccolo centro di Soveria Simeri – in un territorio che doveva rientrare in quello dell’antica (e storicamente dai contorni leggendari) Trischene – si svolse un processo destinato a imprimere un cambiamento nelle sorti del Regno di Napoli, e con esso dell’Europa intera.

    Mentre altrove si viveva il Secolo dei Lumi – per dirne una, nel 1763 usciva il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, scritto fondamentale sulla libertà di credo e di opinione in cui una buona volta veniva definito “barbaro” il diritto all’intolleranza –, a Soveria Simeri una donna, esperta di erbe officinali, veniva accusata di essere una magara, una strega, una di quelle figure che da sempre suggestionano l’immaginario collettivo dei popoli preda della superstizione.

    Le bramosie del clero locale

    Nata fra il 1710 e il 1712 a Soveria Simeri o nella vicina Zagarise, entrambi comuni della Sila Catanzarese, Cecilia Faragò intorno ai vent’anni era andata in sposa a Lorenzo Gareri, piccolo proprietario terriero di Soveria. I due ebbero due figli: Sebastiano, indirizzato presto alla vita conventuale, e Andrea, cagionevole di salute e morto prematuramente per una malattia che i mezzi e, ancor di più, i saperi del tempo non riuscirono a curare. Proprio dalla scomparsa del secondogenito principiarono le vicissitudini della Faragò, già vedova, e la strada che la portò a ricorrere prima alla Regia udienza provinciale di Catanzaro e poi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli per reclamare i suoi diritti.

    Questo è quanto accadde. Nelle penose ore del lutto, Cecilia Faragò fu indotta con l’inganno a siglare un contratto col quale il figliolo appena estinto disponeva che tutte le sue proprietà – un cospicuo patrimonio di terreni lasciatogli in precedenza dal padre – andassero a un prete del posto.
    Non intenzionata a soccombere alla truffa che la avrebbe condannata a una vita di stenti, la Faragò si recò al Palazzo di Giustizia, riuscendo in un primo momento ad avere la meglio. Ma i due prelati, bramosi di non mollare gli averi della vedova, non si diedero per vinti. Facendo leva sul loro ruolo e potere sociale, presero a far circolare delle voci per macchiare la reputazione della donna e mettere in dubbio la sua credibilità, colpendola sul lato morale quanto su quello economico.

    «È alleata del diavolo dagli oscuri poteri. […] È stata iddha, è andata alla stregheria e ha fatto la magarìa, quella della polvere della morte: Purbara ’e mortu ti veni a pigghiara, ti vegnu a jettara e fin’a ra morta ti vogghiu levara».

    Le accuse a Cecilia Faragò e il suo storico processo

    In buona sostanza, i preti diffusero la voce che Cecilia Faragò non fosse una banale erborista, ma una magara, una lucifera, una pericolosa fattucchiera. Insinuarono che, a causa dei suoi dissapori con l’avido clero locale, avesse già cagionato il malore e poi il decesso di un sacerdote, Antonio Ferrajolo – morto per cause non accertate –, ricorrendo ai suoi misteriosi intrugli e incantesimi. Un castello di accuse costruito sulle fondamenta del pregiudizio e della superstizione, ma tutt’altro che fragili in certi contesti sociali, lontani dai luccichii della ragione. E così nessuno più si recò dalla Faragò, tacciata di essere capace di produrre filtri d’amore e magarìe d’ogni sorta. Nessuno acquistò più i suoi oli profumati, i suoi infusi e unguenti di erbe, per paura di fare la fine del Ferrajolo.

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    Una statua in memoria di Cecilia Faragò

    Presto incarcerata, la presunta strega dimostrò un coraggio e una tenacia invidiabili. Conscia dell’ingiustizia riservatale e dei propri diritti nonostante la totale assenza di studi, affidò la sua difesa a un giovanissimo avvocato, il ventenne Giuseppe Raffaelli, che con una brillante arringa dimostrò l’inesistenza della stregoneria (la perorazione è raccolta da Mario Casaburi nel libro La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli). Il legale convinse la corte della innocenza della sua assistita e, allo stesso tempo, della cupidigia dei due reverendi artefici di quelle ignobili calunnie.

    La stregoneria non è reato

    L’affaire Faragò valicò presto i confini del paesello del Catanzarese e conquistò una notevole eco. Diede così occasione al re di Napoli Ferdinando di Borbone di abolire per sempre il reato di stregoneria e fattucchieria, una scelta sapiente che presto adottarono altri Paesi del Vecchio Continente.
    Il finale della vicenda di Cecilia Faragò ha un sapore agrodolce. Prosciolta pienamente dall’accusa di maleficium, la donna non riuscì comunque a rimettere le mani su tutto il suo legittimo patrimonio e si spense in povertà. Innalzò però se stessa a icona di resistenza contro le violenze e le sopraffazioni, emblema di indipendenza e di emancipazione femminile, paladina di ogni donna costretta a nascondersi dietro una posizione non scelta ma assegnatole forzatamente dalla società.

    Cecilia Faragò: quando l’arte vince l’oblio

    La sua storia di coraggio e di difesa della propria libertà ha ispirato libri e monologhi teatrali, riscoperta dalle arti dopo secoli di oblio. Per lunghissimo tempo, infatti, la faccenda Faragò è stata un tabù, «una ferita irrisolta per la comunità» scrive Emanuela Bianchi, attrice, fondatrice nel 2004 della compagnia teatrale Confine incerto e autrice dello spettacolo teatrale LaMagara e del libro L’ultima strega (Oligo, da cui sono tratte le citazioni del presente testo), anche nel luogo in cui si svolsero gli avvenimenti, Soveria Simeri.

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    Uno scatto dallo spettacolo “LaMagara”

    Finalmente riemersa, la storia di Cecilia Faragò è stata anche oggetto di tesi di laurea, in specie di studenti delle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze della comunicazione.
    Di Cecilia Faragò, infine, dal 2001 porta il nome un parco pubblico a Soveria Simeri, comune in cui da qualche anno si svolge una rievocazione storica che coinvolge molti giovani volontari del paese, artigiani, musicisti e ballerini folk e un po’ l’intera popolazione. La storia di una comunità illuminata che si riappropria di un pezzo della propria memoria, che restituisce la voce a una sua figura storica: «la voce di un passato che bussa alle nostre mura, fino a sgretolarle».

  • Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro. Così recita un arcinoto proverbio, certamente pronunciato innumerevoli volte in questi giorni di lutto per la morte di Francesco, il “papa venuto dalla fine del mondo”, e di trepidazione per l’elezione del prossimo vescovo di Roma, successore di San Pietro.
    Chi è chiamato a “farlo” il prossimo pontefice, sta piano piano convergendo da ogni continente – settantuno i Paesi rappresentati, dal Brasile a Timor Est, da Capo Verde a Tonga –, verso il Vaticano, e più precisamente verso la Cappella Sistina. È lì che si sceglierà il duecentosessantasettesimo papa della Chiesa cattolica, e chissà che non sia calabrese.

    I 133 cardinali chiuderanno alle loro spalle la porta della principale cappella del Palazzo Papale nella giornata del 7 maggio, dopo aver celebrato la messa Pro Eligendo Romano Pontifice e pronunciato la tradizionale formula extra omnes.
    Quello in partenza si preannuncia un conclave abbastanza celere, sulla falsariga degli ultimi due – ma, in linea generale, è così dalla metà dell’Ottocento a seguire –, quelli che hanno portato al soglio pontificio Benedetto XVI e Francesco, durati poco più di ventiquattro ore e, rispettivamente, quattro e cinque scrutini.

    Il “totopontefice” e cosa aspettarsi

    Sarà davvero un conclave breve come tanti osservatori e financo alcune berrette rosse prevedono? E poi, il prossimo Santo Padre sarà conservatore, progressista o realista? Quale nome papale sceglierà? Seguirà il sentiero tracciato da Francesco o assisteremo a una restaurazione in seno al Vaticano? E se a distanza di quasi mezzo secolo dovesse riaffacciarsi in San Pietro un papa italiano, questi sarà utilizzato per esibire una rinnovata centralità del nostro Paese sulla scena mondiale?
    Sono tutte sfumature di un esercizio oltremodo futile. Come futile – e pure un pelo sacrilega – è la tendenza dei giornalisti, dei vaticanisti e del popolo a volere indovinare il nome del prossimo rappresentante di Dio in terra. Ma si sa, in questa epoca di crisi del giornalismo ogni briciola di notizia è buona per riempire una pagina, cartacea o digitale che sia.

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    Il conclave riunito in Vaticano

    La storia dei conclavi moderni ce lo insegna: l’Habemus Papam – questa volta ad annunciarlo, al netto di una sua nomina, sarà il cardinale protodiacono Dominique Mamberti – lascia quasi tutti sorpresi e non è rara la circostanza che il nome del papa eletto risulti sconosciuto alla massa credente, che esso esuli dalle liste dei papabili al soglio pontificio diffuse dalla stampa. Si dice, d’altra parte, che chi entra in conclave papa ne esce cardinale. Vedremo se anche questo capitolo della secolare riunione plenaria – il primo conclave ufficiale della storia della Cristianità sarebbe quello che nel gennaio del 1276 condusse alla Cattedra di Pietro papa Innocenzo V – confermerà l’adagio.

    Un papa calabrese? I 10 precedenti

    Tralasciando pronostici e speculazioni e analizzando l’elenco dei duecentosessantasei papi finora a capo della Chiesa cattolica, scopriamo che la storia della principale confessione cristiana al mondo ha visto in diverse occasioni un Sommo pontefice di origini calabresi. Radici che, in vero, in taluni casi sono dubbie, non così tanto da non permetterci di annoverarli nell’inventario cui diamo il via.
    Terra di profonda spiritualità, fulcro di approdo e diffusione del Cristianesimo – Paolo di Tarso, uno dei primi santi e martiri della religione cristiana, vi transitò nella sua missione apostolica verso Roma –, la Calabria ha offerto alla Chiesa cattolica ben dieci papi, tutti di origine greca e greca-bizantina.

    Il primo dei papi calabresi della Chiesa risale addirittura al II secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo. Era il 127 circa, sotto l’imperatore romano Adriano, quando Telesforo di Terranova di Calabria – oggi Terranova di Sibari – della diocesi di Thurio veniva elevato al ministero petrino. Si trattava dell’ottavo pontefice della storia. Secondo quanto scritto nel Liber pontificalis – opera di riferimento che raccoglie le biografie dei papi dei primi secoli della Chiesa –, il pontefice della Sibaritide fu autore del canto del Gloria in excelsis Deo prima di morire martire fra il 137 e il 138. Telesforo, il primo papa calabrese, è venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica – che lo ricorda il 2 gennaio – sia dalla Chiesa ortodossa.

    Pontificati e persecuzioni

    Nel secolo successivo, popolo e nobiltà elessero due nuovo papi di origine calabrese.
    Nel 235 fu la volta di Antero, nativo di Petelia, già città magnogreca e poi municipio romano. Il diciannovesimo Santo Padre – citato anche dall’archeologo François Lenormant nella sua monumentale La Grande-Grèce – originario del territorio oggi corrispondente grossomodo a Strongoli, cittadina del Crotonese, durò appena una manciata di settimane, martirizzato pure lui il 3 gennaio 236.

    Un paio di decenni dopo fu eletto vescovo di Roma un altro papa della diocesi di Thurio, così come San Telesforo: si trattava di Dionisio (o Dionigi), papa fra il 259 e il 268, anno al termine del quale morì, pare in questo caso per cause naturali. Papa nei sanguinosi anni delle persecuzioni dei seguaci cristiani da parte dell’imperatore Valeriano, Dionisio definì in maniera più netta, secondo quanto scrisse Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiastica, i confini delle varie diocesi, ammonendo i vescovi al rispetto di questi limiti. Fu sepolto nella cripta papale delle catacombe di San Callisto.

    Editti ed eresie

    Durò soli quattro mesi il pontificato del quarto Sommo pontefice nativo della Calabria. Parliamo di Eusebio da Altano, poi Casegghiano – località che doveva essere vicina a San Giorgio Morgeto –, divenuto papa nell’aprile del 309 ed esiliato, per decreto dell’imperatore Massenzio, ad agosto dello stesso anno in Sicilia. Sull’isola del Mediterraneo morì martirizzato nel 311. Soltanto due anni più tardi, nel 313, sarebbe stato emanato il celebre Editto di Milano, carta con la quale i due imperatori romani di allora – Costantino per l’Occidente e Licinio per l’Oriente – concedevano libertà di culto ai cristiani, favorendo così la propagazione nel mondo del Cristianesimo.

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    La statua dell’imperatore Costantino davanti alla Basilica di San Lorenzo a Milano

    Dopo il Sacco di Roma e con all’orizzonte la caduta dell’Impero romano d’Occidente, fra il 417 e il 418 si registra il papato di Zosimo. Nativo di Messurga, già enotria Reazio e contemporanea Mesoraca – come riportò alla fine del Sedicesimo secolo lo storico Scipione Mazzella nella Descrittione del regno di Napoli –, Zosimo si trovò a fronteggiare con fermezza l’eresia del pelagianesimo – dottrina dissidente sorta all’interno del Cristianesimo – e a scontrarsi con i vescovi delle Gallie, della Spagna e dell’Africa. In generale, il suo ministero fu piuttosto travagliato. Santificato dalla Chiesa cattolica, la celebrazione della memoria liturgica cade il 26 dicembre.

    Agatone, il papa calabrese emulo di Matusalemme

    Fra i secoli Settimo e Ottavo si susseguirono gli ultimi cinque papi venuti dalla Calabria.
    Ricordato per l’animo particolarmente caritatevole è Agatone, papa salito al soglio petrino nel 678. Di lui le generalità sono però assai confuse. In primis le origini: alcune fonti lo portano come siciliano, altre – fra queste l’autorevole Grande Dizionario Enciclopedico UTET – come nativo dell’area attorno a Reggio Calabria. E poi, ancor più incerta, l’età che aveva alla sua elezione. Pare che in quell’anno 678 in cui succedette a papa Dono, Agatone fosse già ultracentenario, essendo probabilmente il 575 il suo anno di nascita.

    Nonostante l’età eccezionalmente avanzata, il suo pontificato non sarebbe durato pochissimo: restò massimo vicario di Cristo fino al 681, anno in cui lo colse la morte a causa di una epidemia di peste. Dando credito alla sua leggenda agiografica, papa Agatone, venerato come santo taumaturgo dalla Chiesa cattolica quanto da quella ortodossa, deterrebbe due primati: quello del più anziano papa al momento della elezione e quello del più longevo al termine del pontificato.

    Leone II e Giovanni VII

    Un’altra disputa riguardo la provenienza emerge pure per il papa che seguì Sant’Agatone, Leone II, ottantesimo pontefice della Chiesa cattolica fra il 682 e il 683. E anche in questo caso la paternità è dibattuta fra Reggio Calabria e la Sicilia, che presenta sul tavolo ben tre possibili nidi: Messina, Piazza Armerina e Nicosia. Papato breve ma significativo quello di Leone II: nel corso del suo ministero fissò la dipendenza della sede vescovile autocefala di Ravenna da quella di Roma. Sarebbe, inoltre, lui ad avere inserito nel rito della messa il Bacio della pace, un segno antecessore dello Scambio della pace di oggi.

    Religioso erudito e di marcata sensibilità artistica, Giovanni VII nacque a Rossano nel 650, figlio di un funzionario bizantino. Fu lui l’ottavo papa che la Calabria diede alla Chiesa cattolica. Giovanni VII fu pontefice dal 1° marzo 705 al 17 ottobre 707, giorno della morte, confermato anche dallo storico e presbitero Gabriele Barrio e dal suo discepolo Girolamo Marafioti. Nel corso della sua parabola papale ebbe dei contrasti con l’imperatore di Bisanzio Giustiniano II e fece costruire la Cappella della Vergine Maria nella Basilica di San Pietro, sito in cui riposa.

    Una pausa di oltre 1250 anni

    Durò per oltre una decade il pontificato di un altro papa di origini calabresi, Zaccaria, nato nel 679 nella antica Siberene, città enotria da far coincidere presumibilmente con l’attuale Santa Severina, nel Marchesato. Figura influente della Chiesa e già vicino collaboratore del precedente pontefice, papa Gregorio III, Zaccaria fu consacrato il 10 dicembre 741, pochi giorni dopo la scomparsa del predecessore. Resse la Chiesa di Roma fino al 15 marzo 752, giorno in cui spirò. Il 15 marzo è anche la giornata in cui ricorre la sua commemorazione.

    Il decimo e ultimo papa calabrese della storia della Chiesa – decimo in poco più di seicento anni, fra il II e l’VIII secolo, uno ogni sessant’anni suppergiù: media a dir poco notevole – è stato Stefano III, già cardinale di Santa Cecilia e Capo della Chiesa cattolica dal 1º agosto 768 fino al 24 gennaio 772. Pure nel suo caso, però, i natali sono contesi: alla presumibile nascita in territorio di Santo Stefano d’Aspromonte si affiancano, infatti, interrogativi circa una origine in realtà siciliana. Stefano III tentò di sanare gli attriti provocati dagli antipapi – pontefici eletti seguendo procedure diverse da quelle disciplinate dal diritto canonico –, e provò con scarse fortune a contenere la politica aggressiva del re dei Longobardi Desiderio.

    Un nuovo papa calabrese?

    Concludiamo questa divagazione papale con un nome: Domenico Battaglia.
    Dal 2020 arcivescovo metropolita di Napoli e dallo scorso gennaio nominato membro del Dicastero per l’evangelizzazione, Domenico Battaglia è nato a Satriano, centro del litorale jonico Catanzarese, nel 1963. Anche lui, don Mimmo, come lo chiamano i suoi fedeli, sarà fra i porporati che da mercoledì si chiuderanno nella Cappella Sistina, nel conclave più affollato di sempre, per eleggere il prossimo Santo Padre.

    Domenico Battaglia con Bergoglio: potrebbe essere lui l’undicesimo papa calabrese della Storia

    Una curiosità finale: don Mimmo Battaglia è stato l’ultimo cardinale creato da Francesco, che lo nominò berretta rossa di San Marco in Agro Laurentino nel concistoro del 7 dicembre 2024. E chissà che proprio dall’epilogo possa sorgere un nuovo principio.

  • Calabrexit: Praia, Aieta, Tortora e quella voglia di Lucania…

    Calabrexit: Praia, Aieta, Tortora e quella voglia di Lucania…

    «Praja-Ajeta-Tortora. Stazione di Praja-Ajeta-Tortora», un ritornello – con quelle “j” reliquie di un tempo in cui la lingua italiana tutelava i dialetti regionali e non tentava di nasconderli preferendo l’asportazione di parole da altri dizionari – ripetuto dalla voce nitida, senza particolari emozioni, degli altoparlanti della prima stazione di Trenitalia all’interno dei confini della Calabria. Una frase che per tantissimi calabresi emigrati al Nord reca il sapore di casa.
    Potrebbe recarlo ancora per poco, però, perché si è riaccesa la questione per cui Praia a Mare, Aieta e Tortora, i tre comuni dell’Alto Tirreno Cosentino, i primi abitati calabresi scendendo verso Sud dal litorale tirrenico, potrebbero in futuro passare ad altra giurisdizione. Quella della confinante Basilicata, appena oltre il corso del fiume Noce che funge da valico fra la Calabria e, appunto, la Basilicata.

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    Il Golfo di Policastro, con al centro l’Isola di Dino, visto da San Nicola Arcella

    Chiariamo fin da subito: l’iter non è affatto semplice – lo vedremo – e il dibattito va avanti, fra improvvisi picchi e lunghi periodi di quiete, da dieci anni. Ma esiste un comitato civico, denominato Passaggio a Nord Ovest, che promuove il cambiamento. L’argomento principale? La distanza troppo marcata, non solamente sotto l’aspetto geografico, coi centri del potere regionali: Cosenza e Catanzaro.
    È così che sullo specchio d’acqua dalle mille sfumature del Golfo di Policastro – bacino condiviso da Campania, Basilicata e Calabria – potrebbe accendersi presto uno scontro destinato a provocare uno scossone nella politica regionale.

    Praia, Aieta, Tortora: le ragioni della secessione

    All’origine del proponimento una questione oltremodo spiacevole, ovverosia il disastroso depotenziamento, avvenuto a partire dal 2012, dell’ospedale civile di Praia a Mare – l’unico nosocomio dell’area –, passato a essere Centro di assistenza primaria territoriale. Un presidio che nei fatti, strozzato da molteplici sentenze e criticità di varia natura, non ha mai raggiunto alcuna stabilità. Il Centro “sospeso” oggi risulta soltanto un bluff ai danni della popolazione potenzialmente di riferimento; una beffa che dura da una decade. L’apice? Nel 2017, quando la struttura ospedaliera fu “riaperta” in pompa magna alla presenza dell’allora governatore della regione: la più classica ciliegina sulla torta di una vicenda ancora lungi dalla conclusione.

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    L’ingresso della struttura sanitaria a Praia

    Sta di fatto che, al momento attuale, partendo da Praia a Mare, Aieta e Tortora, l’ospedale lucano di Lagonegro è più facilmente raggiungibile rispetto a quello regionale di Cetraro.
    A differenza della rivierasca Praia a Mare e della montana Aieta – oggi parte del Parco nazionale del Pollino e che fino al 1928 inglobava anche il segmento costiero di Praia, poi divenuta Comune a sé –, Tortora confina già con la regione dei desideri, segnatamente con tre comuni della provincia di Potenza: Maratea, Trecchina e Lauria.

    Il capitolo turismo

    Un altro punto caro al comitato e alla popolazione dei tre centri tirrenici che chiedono l’annessione alla Lucania è il turismo. E in questo tratto dell’antico Sinus Laus, il turismo oggi è lontano parente di quello florido e di qualità della seconda metà del secolo scorso, che pure ha recato ponderosi danni al tessuto sociale e al paesaggio della zona con la sregolata cementificazione e le mirabolanti imprese turistiche abortite nell’arco di poche stagioni. Su tutti, vedi le capanne, le residenze e il ristorante costruiti sull’isola di Dino, difronte alla spiaggia di Praia, negli anni Sessanta per volere nientepopodimeno che dell’Avvocato Gianni Agnelli – che completò l’acquisto dell’iconica isola per cinquanta milioni di lire –, complesso di edifici oggi in irrimediabile stato di abbandono.

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    Quel che resta di uno dei due stabilimenti Marlane

    Il «degrado antropologico» di questi luoghi «che d’inverno diventano terre di nessuno», come sostiene Luca Irwin Fragale in una accurata analisi dei paesi del Golfo, è il male cronico dell’area, divenuta sempre più marginale e povera dopo la chiusura della Marlane, stabilimento tessile punta di diamante dell’economia locale fin quando non ha disvelato la sua vera faccia, ovverosia quella di fabbrica di veleni causa e concausa di un numero indefinibile di morti.
    Il ricordo e la nostalgia dei bei tempi andati – raffrontati alla profonda depressione odierna – aizza la voglia di Basilicata e lo spirito secessionista dei tre centri di questa porzione estrema della regione.

    Praia, Aieta e Tortora alla Basilicata: si può fare?

    Ma, nei fatti, in Italia è possibile il passaggio di un comune o di una unione di comuni da una regione all’altra?
    Il percorso istituzionale è sicuramente erto. Anzitutto occorrerebbe raccogliere un cospicuo numero di firme, incluse quelle dei sindaci e dei membri dei consigli comunali, al fine di richiedere la istituzione di un referendum popolare. La concessione passerebbe dalla Corte di Cassazione. Dopodiché, a referendum ultimato con esito positivo, si dovrebbe attendere il placet delle due regioni interessate.

    Il Palazzaccio, sede della Corte di Cassazione a Roma

    Ma forse stiamo correndo troppo e questo è un passaggio di là da venire. Di fatti, ancora prima di giungere al Palazzaccio, l’istanza potrebbe dissolversi nel nulla. Non è affatto detto che il partito pro Lucania rappresenti la maggioranza dei praiesi, tortoresi e aietani messi assieme, così come non è scontato che le tre entità condividano le medesime opinioni.

    Volontà reale o carenza di attenzioni?

    Sulla autenticità del proponimento, di fatti, aleggia più di un dubbio. Oltre che una manifesta e lecita espressione di malessere, l’intenzione di passare alla Basilicata – di certo, absit iniuria verbis, non la regione locomotiva della Penisola – pare in certa misura una provocazione al fine di ricevere maggiori attenzioni da parte del governo regionale, dalla matrigna Calabria, la “Calabria infame”, direbbe il poeta Franco Costabile.

    E se Praia, Aieta e Tortora diventassero davvero lucane? L’ipotetico “cambio di casacca”, farebbe perdere alla Calabria, sommando i dati dei tre centri, una fetta di territorio pari a più o meno 130 chilometri quadrati e circa tredicimila abitanti. Si ridurrebbe così ulteriormente una popolazione già spremuta dalla emigrazione e ben al di sotto dei due milioni di abitanti con tendenza, per giunta, in continua diminuzione. E la Calabria perderebbe anche una località, Praia a Mare, che seppur lontana dai fasti di un tempo – la cittadina fu raccontata alla metà degli anni Cinquanta, in uno degli ultimi viaggi della sua lunga e ricca vita, dallo storico dell’arte Bernard Berenson – rappresenta comunque una delle destinazioni turistiche più importanti dell’intera proposta regionale.

    Utopie

    Secondo il comitato Passaggio a Nord Ovest, riunitosi in questi giorni a Tortora, i tre paesi di questo lembo estremo della Calabria nordoccidentale sarebbero pronti a guadare il Noce per raggiungere nuovi splendori.
    Magari non quelli della antica città enotria di BlandaBlanda Julia in epoca romana –, identificata proprio in territorio di Tortora, citata da Tolomeo e Plinio il Vecchio e presente in molte carte geografiche del passato come l’Itinerarium Antonini e la famosa Tabula Peutingeriana.

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    Dettaglio di una mappa del 1708 del Regno di Napoli con Blanda, la antica città enotria

    Le aspirazioni a Praia, Aieta e Tortora sono meno pretenziose e antistoriche, ma ben più concrete e comprensibili. I tre comuni calabresi – ancora per adesso – aspirano alla normalità. Uno stato che a certe latitudini e in certe periferie della Repubblica assume spesso le fattezze dell’utopia.

  • Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Degli sfruttati l’immensa schiera/

    La pura innalzi, rossa bandiera/

    O proletari, alla riscossa/

    Bandiera rossa trionferà.

    Una bandiera rossa garriva a Caulonia, seppur per un attimo. Quella che raccontiamo è una pagina poco nitida e menzionata della storia della Calabria, una vicenda maturata al termine della Guerra di Liberazione italiana, che, nella sua brevissima parabola, non rimase relegata ai circoscritti confini territoriali in cui ebbe luogo, ma si riverberò sul panorama nazionale.

    La Rivoluzione d’ottobre fa il bis

    6 marzo 1945. Mentre l’Armata Rossa prepara l’ingresso decisivo nella Germania nazista ed Evgenij Chaldej non sa ancora che fra poche settimane sul tetto del palazzo del Reichstag scatterà una delle fotografie più iconiche del secolo, in tutta Italia sono alle ultime battute le operazioni militari degli Alleati. L’intenzione è di formare un nuovo ordine nella Penisola precipitata nel marasma dopo la caduta del Fascismo, l’Armistizio di Cassibile, l’occupazione tedesca, la nascita dello stato fantoccio di Salò e la sanguinosa guerra civile.

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    La bandiera sovietica issata sul Reichstag nella più famosa foto di Evgenij Chaldej

    In questo scenario a dir poco caotico, a Caulonia, centro della Calabria sudorientale, scoppia una rivolta destinata ad aggiungere un capitolo nella cronistoria del centro che prende il nome dalla antica città magnogreca (fondazione achea dell’VIII secolo a.C.) di Kaulon (o Kaulonìa) che un tempo si credeva sorgesse entro i confini comunali dell’attuale Caulonia, prima delle scoperte archeologiche del primo Novecento che hanno attestato la corretta collocazione a Punta Stilo, nel territorio di Monasterace, circa quindici chilometri più a Nord.

    Falce e martello in un angolo di Calabria

    Il più esteso dei paesi della comunità montana Stilaro-Allaro-Limina, conosciuto come Castelvetere fino al 1863, all’epoca dei fatti contava una popolazione relativamente significativa, circa dodicimila abitanti, il doppio rispetto a quelli del XXI secolo, determinato dal progressivo abbandono del vasto centro storico partito negli anni ’50 del secolo scorso.
    In quei giorni di marzo del 1945 quello sconosciuto angolo della misterica Calabria – ulteriormente impoverita dalla guerra – balza agli “onori” della cronaca nazionale grazie al compimento di una sommossa sullo schema delle azioni criminali della Rivoluzione d’ottobre e successiva guerra civile nella Russia di circa un quarto di secolo prima.
    I moti, maturati negli ultimi giorni della stagione di sangue che culminò con la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, profittando quindi di una situazione sociopolitica oltremodo instabile, portano alla nascita della Repubblica Rossa di Caulonia.

    La Repubblica Rossa di Caulonia e gli scontri fra contadini e latifondisti

    Vessati dai latifondisti intenzionati a mantenere i propri privilegi anche in vista della nuova epoca oramai alle porte, i contadini di Caulonia decidono di unirsi e di insorgere contro i potenti padroni.
    La scintilla che fa scattare la rivolta è l’arresto del figlio del sindaco del paese, reo di avere rubato presso una proprietà di un notabile della zona. È vero, però, che l’arresto del giovane è soltanto il più classico casus belli, ché il clima nel paesino dell’odierna provincia di Reggio Calabria ribolliva da tempo. Già nel 1750 i braccianti di Castelvetere erano stati protagonisti di una insurrezione contro i Carafa, famiglia dominante dell’area. Negli anni susseguenti alla Grande Guerra, poi, si era registrato qualche nuovo acceso scontro.

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    Contadini al lavoro nei campi (Archivio Istituto Luce)

    Soprattutto, però, è dopo l’8 settembre che gli attriti fra contadini e possidenti, ovverosia fra braccianti rossi e agrari neri, si inaspriscono: ribelli comunisti si macchiano di aggressioni, convinti di potere usare violenza in quanto aderenti alla “giusta” lotta contro i fascisti. Emblematico è l’agguato che vede vittima il curato don Giuseppe Rotella, assalito e bastonato a sangue perché si permette di biasimare la brutalità dei rivoltosi.

    Pasquale Cavallaro issa la bandiera sul campanile

    Capopopolo della sollevazione di Caulonia è Pasquale Cavallaro, classe 1891, sindaco comunista del centro del Reggino, uomo di discreta cultura e grandi capacità oratorie, già oppositore del regime di Mussolini e pertanto confinato per circa quattro anni sulle isole carcere di Ustica e Favignana.
    Descritto come uomo ardito e inquieto, dai personali principi saldissimi, incentrati sulla “defascistizzazione pacifica” del suo paese, quel 6 marzo 1945 Cavallaro occupa l’ufficio delle poste e le caserme dei Carabinieri reali e delle guardie forestali, per poi proclamare la nascita della repubblica filocomunista issando sul campanile della chiesa la bandiera rossa con falce e martello.

    Eugenio Musolino
    Eugenio Musolino

    Già le primissime fasi della “conquista del potere” sono oggetto di discussioni. Uno dei protagonisti politici di quella stagione, Eugenio Musolino (segretario comunista e poi parlamentare del Pci dal ’48 al ’58, nonché membro dell’Assemblea Costituente), inviato sul posto perché chiarisse cosa stesse accadendo nel centro jonico e mediasse una rapida risoluzione della faccenda, riporta nel libro La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? che il sindaco rivoluzionario si era in parte ritrovato nel turbine dei tumulti a causa dell’incontenibile desiderio insurrezionale dei due figli.

    La Repubblica Rossa di Caulonia: caccia ai fascisti

    Quel giorno un gruppo di migliaia di contadini e operai sfruttati dell’are si unisce. I numeri non sono precisi: alcuni parlano di tremila, altri, fra i quali lo stesso Pasquale Cavallaro, addirittura di diecimila unità fra caulonesi e altri braccianti (fra cui anche centinaia di donne) provenienti dai vicini comuni di Camini, Stignano, Placanica, Monasterace, Riace e Nardodipace.
    Accade, però, che la necessità di ribellarsi alle soperchierie storiche dei proprietari terrieri, sul modello di un sistema feudale difficile da intaccare e rimasto praticamente immutato a Caulonia, come in altri angoli isolati del Mezzogiorno, si trasforma immediatamente in una sommossa segnata dalle violenze e dalle vendette personali, regolamenti di conti non soltanto contro i “nemici” fascisti.
    Contando sulla protezione delle montagne sovrastanti, nella Repubblica di Caulonia si alzano barricate, i compagni armati di fucili e mitraglie presidiano le porte del paese e le colline intorno, minano alcuni ponti verso la marina.

    L’umiliazione dei “nemici del popolo”

    I tumulti vengono soffocati già il 9 marzo, ma durante le quattro giornate di Caulonia si assiste a scene mostruose in cui numerosi notabili del paese vengono oltraggiati e torturati dagli insorti e alcune donne sono stuprate con la inammissibile scusante della libertà dei popoli oppressi. I nemici del popolo vengono processati sommariamente da un tribunale del popolo e le umiliazioni pubbliche ai danni di sostenitori dei fascisti, reali o presunti, si succedono. A pagare il prezzo più alto è soprattutto il parroco Gennaro Amato, amico d’infanzia del Cavallaro e simbolo di un mondo che i cosiddetti “mangiapreti” intendono distruggere. Ucciso dall’esercito popolare all’alba della sommossa, il prelato è la sola vittima sulla coscienza della Repubblica Rossa di Caulonia.

    Per quattro giorni l’euforia e il terrore corrono per le stradine del centro agricolo. Infine è l’arrivo della polizia di Reggio Calabria a sedare la ribellione, già affievolitasi con il manifestarsi delle violenze più belluine, chiaramente disapprovate da gran parte della comunità. Il dissociarsi della brava gente di Caulonia non è la sola ragione che porta alla conclusione della parentesi anarchica. Ce ne sono almeno altre due che portano al fallimento, pratico e ideologico, la rivolta della Repubblica caulonese: i ribelli non trovano né il sostegno dei dirigenti provinciali del Pci, né tantomeno l’approvazione della malavita locale, entità che, nel bene o nel male, avrebbero potuto dare consistenza al golpe abortito di Cavallaro e compagni.

    La Repubblica rossa di Caulonia a processo

    Il sindaco/presidente della Repubblica si dimette il mese successivo, le bandiere rosse vengono strappate dai tetti delle abitazioni e circa trecentocinquanta fra i più feroci rivoluzionari di Caulonia sono arrestati con l’accusa di costituzione di bande armate, estorsione, usurpazione di pubblico impiego, violenza a privati e, in ultimo, di omicidio, per l’assassinio del parroco Amato.
    Al processo partito nel marzo 1947 alla Corte di Assise di Locri, per la quasi totalità degli imputati non si procede perché i reati sono dichiarati estinti a causa della controversa amnistia (decreto presidenziale numero 4 del 22 giugno 1946) proposta dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, storico segretario generale del Pci.
    Solamente Pasquale Cavallaro e i due assassini materiali dell’omicidio Amato sono condannati a otto anni di reclusione.

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    Il tribunale di Locri oggi

    Un esempio di liberazione dal servilismo

    «Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti. Questi erano i miei intendimenti precisi, chiari, inequivocabili. […] Fatto sta che a Caulonia si è dato un grande esempio, l’esempio della liberazione del servilismo».
    È un estratto dell’intervista di Pasquale Cavallaro con Sharo Gambino, scrittore, giornalista e intellettuale meridionalista, contenuta nel volume succitato La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita?, che raccoglie scritti di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Vincenzo Misefari e Eugenio Musolino relativi alla Repubblica Rossa di Caulonia.

    Episodio campale della sequenza di ribellioni delle classi oppresse del Sud Italia che negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso lottarono contro le vessazioni dei latifondisti e per la distribuzione delle terre incolte e una legittima riforma agraria, il caso della Repubblica Rossa di Caulonia del ’45 è di fatto scivolato nell’oblio, trovando appena qualche eco nei racconti popolari tramandati per via orale.

    Una piazza per ricordare la Repubblica Rossa di Caulonia

    Recentemente è stata avanzata la proposta di dedicare una piazza a quella rivolta popolare, pare, al tempo, encomiata anche dallo stesso Iosif Stalin, leader del più potente partito comunista del globo, e, negli anni, da taluni riconsiderata, in maniera a dir poco acrobatica, come antipasto della Repubblica italiana. Comunque sia, i propositi celebrativi si sono scontrati con chi invece considera quella breve parentesi, forse troppo mitizzata, certamente contraddistinta da punti tutt’oggi oscuri e di una ricostruzione lacunosa, una pagina da dimenticare considerate le azioni violente esercitate nel corso delle quattro giornate e pure il numero dei contadini puniti successivamente al ripristino dell’ordine.

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    Stalin, segretario del PCUS negli anni dell’insurrezione calabrese

    Per approfondire meglio la complicata storia del governo rosso di Caulonia esiste una ampia e sfaccettata letteratura. Segnaliamo alcuni altri testi: In fitte schiere. La repubblica di Caulonia di Sharo Gambino (Frama Sud), La Repubblica di Caulonia di Simone Misiani (Rubbettino), Cavallaro e la Repubblica di Caulonia di Giuseppe Mercuri (Vincenzo Ursini Editore), Operazione “Armi ai partigiani”. I segreti del Pci e la Repubblica di Caulonia di Alessandro Cavallaro (Rubbettino) e La Repubblica di Caulonia tra omissioni, menzogne e contraddizioni di Armando Scuteri (Rubbettino).

  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

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    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

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    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

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    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

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    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

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    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.

  • La breve vita infelice di Rocco Carbone

    La breve vita infelice di Rocco Carbone

    Un uomo inquieto, contraddittorio, dal carattere ruvido, aspro, spigoloso, peculiarità tutt’altro che affabili che provavano a mettere in secondo piano, a nascondere in maniera impacciata, come un consunto separé, un animo sensibile, fragile, afflitto da una profonda infelicità, di quelle infelicità oscure, che non hanno una origine ben chiara, legate a un episodio distinto della vita, ma che accompagnano l’individuo fin dalla nascita, come un gravoso lascito generazionale, uno scotto da pagare per essere venuto al mondo.

    Lo scrittore Rocco Carbone è stato questo, anche e probabilmente. Sì, perché sarebbe poco riguardoso e molto presuntuoso dare una definizione ultima a una persona che sfuggiva anche ai suoi affetti più stretti. Così complicato, così indecifrabile da restare cristallizzato, per sempre, coi tratti dell’enigma, come una di quelle tele rinascimentali di cui non si riesce a decriptare ogni particolare.

    Rocco Carbone e la giovinezza a Cosoleto

    Rocco Carbone nacque a Reggio Calabria nel 1962 e trascorse la sua infanzia e adolescenza a Cosoleto, paesino alle pendici dell’Aspromonte, contornato da uliveti e affacciato sulla Piana di Gioia, fra quelli più colpiti dal flagello dell’emigrazione. Negli ultimi settant’anni Cosoleto ha perso quasi duemila abitanti, la popolazione attuale del comune non supera gli ottocento residenti.

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    Una strada di Cosoleto

    «Un posto – scrive Emanuele Trevi, scrittore e amico di Carbone, cui ha dedicato, parimenti a Pia Pera, il memoir Due vite, libro vincitore del Premio Strega nel 2021 – di gente dura, fiera, taciturna, incline a una rigorosa amarezza di veduta sulla vita e sulla morte».
    Tutti connotati propri dello scrittore calabrese, che portò con sé fino al termine dei suoi giorni, come la resistenza alle lunghe camminate, propensione vista al pari di un retaggio culturale e genetico assolutamente naturale in una terra come la Calabria, in buona parte tagliata fuori da una reale rete infrastrutturale.

    Gli studi e l’improvvisa morte

    Figlio di madre maestra elementare e di padre a lungo sindaco di Cosoleto, Rocco Carbone al principiare degli anni Ottanta si iscrisse a Lettere a Roma, vivendo nel Collegio dei frati silvestrini, in una cameretta spoglia affacciata su una distesa compatta di tetti fra cui spiccavano le cupole del Pantheon e della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza.
    È nella Città Eterna che visse per gran parte della sua vita e in cui incontrò la morte, che segnò la sua ora nella notte fra il 17 e il 18 luglio 2008.
    Rocco Carbone si spense improvvisamente, a 46 anni, in un incidente stradale a bordo della sua moto, su cui era fatalmente salito in quanto gli era stata rubata l’automobile qualche giorno prima. Da poco era ritornato dagli Stati Uniti d’America, dove aveva preso parte a una serie di seminari.

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    Roma, il monumento a Scanderbeg in piazza Albania

    L’incidente avvenne in zona Ostiense, dinanzi alla statua equestre di Giorgio Castriota Scanderbeg di piazza Albania, l’eroe albanese celebrato nella natia Calabria, su una strada deserta dell’estate romana, proprio come quelle descritte nel suo romanzo Agosto, opera prima edita, dopo una contenuta, ma insopportabile per l’autore, tribolazione editoriale, nel 1993 da Theoria e adesso ripubblicata da Rubbettino.

    La ripubblicazione dell’opera di Rocco Carbone

    La casa editrice con sede a Soveria Mannelli ha infatti intrapreso il progetto di rimettere in circolazione le opere di Rocco Carbone, di dar loro nuovi lettori; disegno principiato dalla ripubblicazione de L’assedio, in cui nella misteriosa città di R. – il classico mondo non determinato, generico e universale dei romanzi dello scrittore nato a Reggio – il cielo diventa di colpo giallognolo e comincia a liberare una fitta pioggia di sabbia che lascia perplessi i suoi abitanti; un romanzo distopico ma coi piedi saldi sulla realtà e che parla a noi uomini contemporanei. Il prossimo testo in cantiere è Il comando, edito la prima volta nel 1996 per i tipi di Feltrinelli.

    I primi scritti

    Ultimata la prima fase di studi con una tesi di laurea incentrata sull’analisi semiologica, del mito e del romanzo, nell’86 Carbone riuscì a dare alle stampe la sua prima pubblicazione: Mito/romanzo. Semiotica del mito e narratologia. Dopodiché proseguì i suoi studi di semiotica dei testi letterari, ovverosia delle leggi che orientano il romanzo, con un dottorato a Parigi concluso con una tesi sullo scrittore e letterato Alberto Savinio (al secolo Andrea de Chirico, fratello minore del pittore Giorgio de Chirico).

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    L’ingresso del carcere di Rebibbia

    Rocco Carbone si avvicinò alla letteratura con dei versi presentati sulla insigne rivista Nuovi Argomenti. Oltre che su Nuovi Argomenti, scrisse per quotidiani come Repubblica, L’Unità e Il Messaggero. Negli anni pubblicò numerosi saggi fin quando, dal 1998, prese la decisione di insegnare al carcere di Rebibbia. Una esperienza intensa che si riverberò nella sua opera, un mondo letterario già caratterizzato dagli echi di maestri quali Jack London, Yasunari Kawabata (Nobel per la Letteratura nel 1968) e Patrick Leigh Fermor, ma anche Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda e Romano Bilenchi, autentici numi tutelari di Carbone.

    La scrittura rigida di Rocco Carbone

    Dai lavori di Carbone emerge una scrittura controllata, scrupolosa, testarda, uniforme e per nulla emotiva, da cui non traspare alcuna emozione; una scrittura lungi da eccessi e dall’adottare artifizi, anche mentre affronta i temi più angosciosi; fulminea e atemporale, quella del calabrese è una scrittura che valica le barriere del tempo, obiettivi che spesso non vengono neppure lontanamente presi in considerazione da tanta narrativa contemporanea.

    Non rincorreva le mode Carbone; la sua prosa scarna, disadorna, tutt’altro che ampollosa e straboccante di lemmi, percorreva altre strade rispetto a quelle in voga al tempo dei suoi titoli d’esordio. E questo certosino lavoro di sottrazione ed epurazione dei suoi scritti, fece di Rocco Carbone uno scrittore pienamente novecentesco anziché esponente della letteratura del secolo seguente, entro cui pubblicò gli ultimi suoi libri: L’apparizione (2002) e Libera i miei nemici (2005). Usciranno poi postumi Per il tuo bene – testo cui stava lavorando al momento del tragico incidente – e Il padre americano.

    La sua era «una lingua totalmente scritta», afferma Emanuele Trevi in Due vite, lettura essenziale per cercare di penetrare nell’animo enigmatico di Rocco Carbone, per metterne a fuoco alcuni aspetti. All’inizio della loro amicizia durata per un quarto di secolo, Trevi e Carbone frequentavano i circoli letterari romani, trascorrevano le serate per le vie della Capitale, presi a districarsi nella sua «ostentata e finta frivolezza» in cerca di avventure, di storie, di spunti che stimolassero la loro arte.

    Un’altra amicizia duratura fu quella con Edoardo Albinati, saggista, scrittore e redattore di Nuovi Argomenti al tempo della conoscenza con Carbone. L’autore de La scuola cattolica – libro vincitore dello Strega nel 2016 – sostiene che «Carbone era uno scrittore antiretorico», un artista della parola capace di portare il lettore nel discorso, nel cuore della storia raccontata, non di allontanarlo da essa innalzando una barriera.

    Il male di vivere di Rocco Carbone

    La scrittura di Rocco Carbone era senza dubbio indirizzata dalle sue inquietudini, dai suoi arcani demoni; le sue «furie», come le chiama Trevi.
    Carbone riservava soltanto alle persone più vicine il suo lato più socievole, mostrava loro il piacere di stare in compagnia, segnale di un uomo desideroso di quella serenità che potesse attenuare la sua irreversibile cupezza, il suo carattere introverso che non veniva affatto mitigato dal successo contenuto dei suoi libri – perlomeno non conforme alle elevate ambizioni dell’autore.

    «Nella storia mondiale della letteratura – scrive sempre Trevi che, nelle pagine del citato Due vite, marca invece la parziale infondatezza dello scontento editoriale dell’amico –, è difficile immaginare qualcuno che abbia preso ogni aspetto del lavoro di traverso come Rocco, dalle copertine alle vendite, dalla qualità delle recensioni ai rapporti con gli editori». Lui riusciva a essere critico verso i suoi lavori fino all’eccesso, ma non poteva soffrire che essi non venissero riconosciuti dai lettori e dalla stampa.

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    Trevi si aggiudica lo Strega 2021 col suo libro su Rocco Carbone

    Rocco Carbone e le donne

    Un altro ingrediente che gli risultò tossico fu la passione per le donne, che Carbone amava con tutto se stesso. Cciò lo conduceva nelle spire buie di quella primordiale possessività tanto tipica negli uomini del Sud. Contrasse matrimonio relativamente giovane con Samantha Traxler, col trascorrere delle stagioni spesso lo colsero violenti febbroni da innamoramento, ma in generale le sue relazioni non godettero mai di quella serenità che ci si augura possa portare con sé un amore.

    L’irrequietezza sentimentale finiva per corrompere ogni altro aspetto delle sue giornate, già irrimediabilmente segnate da quell’infelicità cronica, quella «orrenda e inutile succhiasangue» che ne prosciugava l’esistenza. A Rocco Carbone diagnosticarono una personalità bipolare, la capacità non sana di passare con disinvoltura da una incontenibile felicità a una acuta mestizia e che appesantiva il suo male interiore, il suo profondo imbarazzo di vivere.

    In pace sotto un ulivo

    Un’esistenza artistica e tragica, breve e infelice, diversamente dal Francis Macomber dei racconti di Hemingway, che trovava requie soltanto nell’appartamento spartano di via Lorenzo Valla in cui viveva, a Monteverde Vecchio, quartiere romano di suggestive viuzze e scalinate e villini d’ispirazione liberty sul lato occidentale del colle del Gianicolo.
    Anche il lavoro nel carcere di Rebibbia forse ne rasserenò lo spirito, rese più sostenibile quell’attesa di qualcosa che ne coronasse il lavoro letterario, tutti gli sforzi di una vita, ché, citando Cesare Pavese, «aspettare è ancora un’occupazione», ma è quando non si attende più nulla «che è terribile».

    Quel riconoscimento, però, non arriverà mai. L’attesa rimase insoddisfatta sino all’ultima notte, a quello scontro fatale che archiviò come insoluto il rebus Carbone, “condannando” noi lettori a perdere per sempre la trebisonda fra le pagine della sua opera.
    Sul luogo dell’incidente oggi sorge un ulivo, pianta endemica della terra natale dello scrittore, simbolo di speranza, pace, forza, amicizia e unione. Ai piedi dell’albero, in grado di resistere alle intemperie, tenace e cocciuto proprio come Rocco Carbone, si incontrano con regolarità le persone che gli hanno voluto bene.

  • Il mare non bagna Lamezia

    Il mare non bagna Lamezia

    Apriamo assieme una nuova pagina di Google, sul computer o telefonino che sia. Clicchiamo sulla barra e scriviamo quanto segue: “Marina di Lamezia Terme”. Basta un attimo: “Ma-ri-na di La-me-zia Ter-me”.
    Cosa compare nell’elenco dei risultati? Un sito generalista in cui sono inzeppate le spiagge – vere o presunte – di tutto il Paese. A corredo, una fotografia che non pare per nulla Lamezia Terme. E poi cos’altro? Vaghi suggerimenti di spiagge del Tirreno prossime alla città della Piana di Sant’Eufemia e una manciata disordinata di canali per prenotare viaggi su gomma e su rotaia.

    Forse abbiamo sbagliato noi la ricerca; perciò riproviamoci e scriviamo “Lamezia Terme Lido”. Cosa troviamo adesso? Nuovamente altre cittadelle vicine, ma non ciò che desideriamo, e una lista di megasiti di viaggi che ci propongono esperienze non di nostro interesse. In una parola: decine di risultati che non soddisfano affatto la nostra ricerca.
    Ci sorge, a questo punto, un dubbio, una domanda legittima: ma Lamezia Terme è bagnata dal mare?

    I due lungomari di Lamezia Terme

    Ebbene sì, Lamezia Terme è bagnata dal mare. O perlomeno sembrerebbe. Esiste anche un lungomare. In vero addirittura due – il “Falcone-Borsellino” e quello (senza denominazione ufficiale) di località Ginepri – di costruzione anche abbastanza recente (inaugurati nell’estate 2014). Per circa due chilometri corrono paralleli alla linea della battigia, toccando le altre due località rivierasche ricadenti nel territorio comunale lametino di Cafarone e Marinella.
    La risposta al nostro interrogativo, pur senza il sostegno di Google, pare esserci giunta: Lamezia Terme è bagnata dal mare. E, approfondendo la nostra ricerca, veniamo a sapere che lo è anche per una buona dozzina di chilometri, dal confine con la contigua spiaggia del comune di Gizzeria a Nord fino al pontile della ex Sir, l’area industriale della città, fra i simboli del flop (o della truffa) della industrializzazione della Calabria partita negli anni settanta del Novecento, a Sud.

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    Il pontile dell’ex SIR a Lamezia

    Dai brasiliensi ai “lamentini”

    Del tratto costiero, passato circa a metà dal fiume Amato (l’antico Lametos da cui ha origine parte del nome alla città), però in pochi sono concretamente a conoscenza. In primis gli abitanti della città-miraggio nata il 4 gennaio 1968 a seguito della unione coatta dei tre ex comuni autonomi di Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia, primo esempio di conurbazione fra municipalità che non ha mai portato ai risultati sognati oltre mezzo secolo fa. Quelle bizzarre fantasticherie avrebbero voluto Lamezia Terme la Brasilia del Sud Italia (curioso binomio fondato sulle origini politiche della capitale pianificata, messa in piedi fra il 1956 e il 1960 sull’altopiano del Planalto Central per unire e dare sviluppo a tutto il Brasile, ma forse – ipotesi cialtronesca dell’autore – soltanto perché i dialetti calabresi hanno un suono parente alla lingua portoghese parlata nella nazione al di là dell’Oceano).

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    Vita nel campo di Scordovillo

    L’ambizioso obiettivo era rendere Lamezia il centro politico e culturale dell’intera regione. Così non è stato – chissà se lo sarà mai – con buona pace dei lametini più campanilisti, o anche più ottimisti. Una anomalia sociale quest’ultima, comunque una sparuta minoranza, ché i lametini sono chiamati localmente e bonariamente “lamentini” per la loro tendenza a lamentarsi; una indole spesso aprioristica e ingiustificata, data dalla scarsa coscienza del fatto che attorno, entro i confini regionali, insistono situazioni di degrado e incuria socioculturali ben maggiori rispetto a quelle della città della Piana, in cui la situazione più difficile è storicamente concentrata nel campo rom, il più vasto del Mezzogiorno, di Scordovillo.
    Ma questa è un’altra storia.

    L’estate sta finendo… ma è cominciata?

    Riprendiamo a passeggiare lungo il bagnasciuga del mare che probabilmente c’è di Lamezia Terme. Lo scenario è lo stesso da sempre: attorno a noi pochi bagnanti, perlopiù indigeni, amareggiati dalle acque difficilmente pure e cristalline di questo tratto di costa bagnato dal Golfo di Sant’Eufemia, cronicamente afflitto dai problemi legati alla depurazione e agli sversamenti abusivi di liquami.
    Il sole sta per tuffarsi in acqua, lo sta facendo sempre qualche minuto prima rispetto al giorno precedente. La silhouette di Stromboli si inscurisce e capiamo che un’altra estate sta volgendo al termine. Inizia il tempo in cui stilare un bilancio, ma a Lamezia oramai neppure ci si pone più il problema se sia andata bene oppure no la stagione balneare, ché una vera stagione balneare non è mai cominciata nella breve striscia di spiaggia pressappoco antropizzata con il lungomare dedicato ai due giudici uccisi da Cosa nostra nel ’92 e la pineta in parte vandalizzata e a cui sovente viene donata una nuova incivile destinazione d’uso, quella di parcheggio.

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    Un panorama del Golfo di Sant’Eufemia

    Purché si organizzi…

    L’estate 2023 ha visto sul lungomare “Falcone-Borsellino” di Lamezia Terme spettacoli d’arte, serate musicali e qualche sagra paesana per nulla attinente alle tradizioni locali – delle penne all’arrabbiata, della pizza, della birra, del tartufo di Pizzo. Decine e decine di eventi culturali e culinari – ché il panem et circenses è una garanzia da millenni –, di certo non inediti, non così attraenti per i turisti e svolti con alterne fortune, ma che hanno dato una boccata di ossigeno ai pochi, stoici stabilimenti balneari aperti sulla costa lametina.

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    Il tradizionale (non a Lamezia) tartufo di Pizzo

    Serate che, a detta di molti, non hanno trasmesso grande organizzazione – anzi, piuttosto a emergere era una certa improvvisazione –, in specie dal punto di vista della comunicazione. Eventi senza grosse aspettative, insomma, come se si dovesse per forza organizzare qualcosa al fine di sentire, anche a Lamezia, l’estate addosso; nulla che possa essere ricordato oltre la notte della festa, che lasci un “alone duraturo” nella vita sociale cittadina. E questo è un gran peccato, che riga di rammarico i volti dei tanti lametini – la stragrande maggioranza – che, magari pur non ammettendolo neppure sotto tortura, amano la loro città.

    Cultura e turismo a Lamezia Terme

    Ci si sta focalizzando sugli aspetti turistico-balneari della città, non sulla sua vitalità, ché è indubbio che Lamezia Terme sia una città effervescente. Le associazioni culturali germogliano e lavorano senza sosta, non soltanto quando piovono in casa i soldi di qualche bando. Si svolgono festival letterari e cinematografici con ospiti di caratura nazionale, esiste un museo archeologico statale, dei siti storici e architettonici fruibili come la Abbazia benedettina di Santa Maria di Sant’Eufemia risalente alla seconda metà dell’XI secolo; ci sono caffè letterari, teatri, librerie e biblioteche: un’offerta culturale da fare invidia a quasi tutti gli altri paesi della regione e non solo.

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    L’Abbazia benedettina

    Il turismo poi, seppur la città non abbia mai avuto una spiccata vocazione turistica e nemmeno questo impellente interesse a diventarlo, esiste. Contenuto, che non produce lunghi “oooh” di stupore, ma esiste. Da maggio a settembre, gruppi di turisti, italiani e stranieri, passeggiano per le vie del centro e affollano i locali. Pernottano nei molteplici alberghi e b&b da qualche anno spuntati come porcini e gallinacci in ogni angolo della vastissima città, non soltanto nel centro o nei dintorni dello scalo ferroviario principale o dell’aeroporto internazionale.

    L’aeroporto di Lamezia Terme e i turisti

    Di sicuro l’aeroporto internazionale di Lamezia Terme “Sant’Eufemia” codice IATA: SUF – ché è questa la sua unica denominazione possibile – è il principale artefice della notorietà della città e del flusso turistico locale, sia di passaggio che stazionario. Efficiente punto di riferimento per i viaggiatori e turisti che vogliono visitare la arcaica e misteriosa Calabria – ché mica è cambiata poi tanto la visione della Calabria all’estero rispetto a quella dei viaggiatori del Grand Tour –, quello di Lamezia è pure per tantissimi versi anche il solo autentico scalo aeroportuale della regione, con voli a basso costo di compagnie internazionali volte a promuovere il modo di fare turismo del nostro secolo.

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    L’aeroporto di Lamezia

    Certo, buona parte delle persone che atterrano sulla pista parallela al mare lametino (che c’è allora!) poi si spostano verso le mete turistiche più gettonate e attrezzate della nostra terra (Tropea e Soverato), facendo ritorno nella città della Piana soltanto per salire la scaletta dell’aeroplano del ritorno. Ma è chiaro che a Lamezia qualcuno si fermi, anche per una sola notte, e financo il meno obiettivo dei lametini/lamentini non potrà non ammettere che una corposa affluenza turistica si è vista in città questa estate. E il medesimo poco obiettivo lametino non potrà ugualmente non convenire sul fatto che forse la città non è sembrata così pronta.

    Un piccolo sforzo in più

    Peccato. Un luogo strategico come Lamezia Terme, al centro della Calabria, del Sud e del Mediterraneo, e con una popolazione così vibrante potrebbe fare quel pizzico di sforzo in più per rendersi conforme e più appetibile alle esigenze del turismo d’oggigiorno. Oppure che sia proprio questo il punto? Non sarà mica solo una tattica per non omologarsi ai dettami della società di massa?
    Potremmo rifletterci, ma siamo troppo stanchi, siamo ancora così fiaccati dalla lunga calura estiva. Perciò assopiamoci col rincrescimento – per carità, nulla che ci tolga né la fame né il sonno – di un’altra estate perduta. Senza somme da tirare, senza orizzonti, senza sogni e senza mare.
    Oh, che peccato che il mare non bagni Lamezia.

  • Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    «Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».

    Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.

    La Russia di Corrado Alvaro

    E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
    Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.

    Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.

    Antifascismo e amicizie

    Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

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    Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini

    Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
    Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.

    Dopo la Rivoluzione del 1917

    Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

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    Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio

    La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.

    «Una grande scuola di addestramento»

    Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
    Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

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    Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe

    Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
    Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.

    Corrado Alvaro e la propaganda in Russia

    Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

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    Il poeta Vladimir Majakovskij

    L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.

    Un tour sotto controllo 

    «A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

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    La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30

    Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.

    Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.

    Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku

    Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
    Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

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    Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo

    Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
    «Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
    Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».

    Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia

    Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
    Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

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    Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa

    I bisogni e le speranze del popolo

    Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

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    Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie

    Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
    E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.

    Memorie da un mondo in costruzione

    Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
    Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.

    Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania

    «Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
    Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

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    Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica

    Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.

    L’odio verso gli occidentali

    «I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
    Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».

    In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.

    Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin

    Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
    Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

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    Lenin e Stalin

    Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
    «L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
    Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.

    Russi e calabresi

    Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
    La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
    Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

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    Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese

    E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
    Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
    «Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».

    Contro i totalitarismi

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    Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro

    Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.

    Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.

    Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega

    L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.

    Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.