Autore: Anna Sergi

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

    australia-ndrangheta-porto-melbourne
    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

    griffith-museum-ndrangheta-australia
    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

    australia-ndrangheta
    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.

  • Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

    Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    In un ufficio pieno di carte, con una scrivania disordinata e faldoni incolonnati a terra, legati alla meno peggio con nastri, pezzi di corda e grandi elastici verdi, nell’aprile del 2018 a Manhattan ho incontrato il direttore esecutivo della Waterfront Commission of New York Harbour, la commissione del porto di New York. Un uomo dall’esperienza decennale come pubblico ministero antimafia, o meglio anti Cosa Nostra americana, Walter Arsenault è diventato Executive Director della Waterfront Commission nel 2008. Ha una conoscenza profonda del fenomeno mafioso newyorkese, principalmente e notoriamente legato alle cinque famiglie storiche: Gambino, Genovese, Lucchese, Colombo, Bonanno.

    arsenault
    Walter Arsenault, Executive Director della Waterfront Commission

    Ma in quell’occasione, insieme ad alcuni agenti della Commissione, parlammo di ‘ndrangheta. E – con mio stupore – non solo di traffici illeciti via navi container attraverso il porto – che era il mio oggetto di ricerca in quel momento. Ma andiamo con ordine. La Waterfront Commission è periodicamente sui giornali – da ultimo il Financial Times qualche giorno fa – in quanto la sua esistenza è oggetto di contenzioso. E non di contenzioso qualunque. È addirittura questione di stato. Anzi di Stati: New York e New Jersey.

    New York: da Brando alla ‘ndrangheta

    Se si pensa a mafia e porto di New York, alcuni forse ricorderanno un vecchio film in bianco e nero del 1954, Fronte del Porto, (On the waterfront) con un giovanissimo Marlon Brando. Tra le altre cose, il film ci racconta di Johnny Friendly, a capo del sindacato dei portuali, che detiene il controllo delle banchine, oltre a essersi macchiato di svariati delitti, frustrando gli sforzi delle forze dell’ordine e di una commissione – proprio la Waterfront Commission – sulla criminalità portuale che tentano di portare avanti le indagini sul fronte del porto. La Commissione, infatti, è nata un anno prima dell’uscita del film, nel 1953. E ha fino ad oggi un mandato e una struttura molto peculiare.

    fronte-del-porto
    Marlon Brando diretto da Elia Kazan in una scena di Fronte del Porto

    Un porto per due Stati

    Innanzitutto, è un’istituzione gestita da due stati, New York e New Jersey, perché a cavallo tra questi due stati si spalma quello che è il principale porto della costa orientale degli Stati Uniti d’America. Dopo quasi 70 anni di storia, il mandato della Waterfront Commission è cambiato certamente, ma non poi così tanto. Nata per contrastare il potere delle famiglie mafiose appartenenti a Cosa Nostra americana sulle banchine del porto e soprattutto il loro controllo delle procedure di reclutamento dei sindacati dei portuali, ad oggi ancora si occupa principalmente di questo.

    La Commissione è chiamata a controllare che chiunque lavori o venga in contatto col porto non abbia legami con il crimine organizzato, e in particolare con la mafia. Per farlo, gestisce autonome unità di intelligence e di polizia che sono un unicum spaziale e temporale. Non esiste altrove una realtà simile, con tale competenza sulla criminalità dentro un porto (e anche fuori dal porto a dire il vero) e da così tanto tempo.

    new-york-waterfront-ndrangheta
    Una barca della Waterfront Commission in azione a NYC

    Il New Jersey, la Commissione e il sindacato

    Quale sarebbe dunque il contenzioso? Il New Jersey, nelle persone dei suoi ultimi due governatori, Chris Christie prima e Phil Murphy al momento, ha deciso che la Waterfront Commission non serve più, al punto tale da legiferare, unilateralmente nel 2018, per la rescissione del suo operato proprio in New Jersey. Ne sono nate battaglie legali, finite anche in Corte Suprema – che a marzo scorso ha bloccato l’uscita unilaterale del New Jersey dalla giurisdizione della Commissione.

    Ma all’origine di tutto questo clamore c’è una fondamentale differenza di vedute – o diciamo pure la negazione da parte dei politici del New Jersey – di quello che è oggi il crimine organizzato nel porto di New York, oltre al protrarsi di una sorta di guerra fredda – che dura da 70 anni – tra il sindacato dei portuali, l’International Longshoremen Association (ILA), e la Commissione.

    Il potere della criminalità

    Secondo il governatore del New Jersey Murphy, non ha senso mantenere in vita un ente formato nel 1953, oggi come oggi «inefficace». Un sostenitore di Chris Christie nel 2018, affermava che la Commissione è un impedimento alla crescita economica del porto. Repubblicani e Liberali in New Jersey, insomma, dubitano che serva una commissione che controlli le pratiche di reclutamento del porto, oggi che il potere della mafia a New York è inferiore a qualche decennio fa e l’evoluzione tecnologica ha comunque portato alla riduzione della manodopera sulle banchine. E si sbagliano.

    chris-christie-
    L’ex governatore del New Jersey, Chris Christie

    Infatti l’ultima relazione pubblicata dalla Commissione ci dice che il 18% di chi chiede di lavorare al porto nel 2020 – che tra l’altro è un lavoro particolarmente lucrativo a New York (un stipendio medio da portuale si aggira tra i 100,000 e i 200,000 dollari annui secondo i dati pubblici della Commissione) – è stato rifiutato per ‘legami con la criminalità organizzata’. E dice pure che esistono ancora, come esistevano nel 1953 seppur con le dovute differenze, ingerenze pesanti della mafia cittadina sui sindacati. In particolare sull’ILA, il sindacato dei portuali.

    I Gambino, i Genovese e le assunzioni al porto

    Non stupisce affatto. George Barone, affiliato alla famiglia mafiosa Genovese, durante il processo US vs Coppola (2008-2012) confermò che la cosca utilizzava «intimidazione, paura, qualunque cosa» per continuare a controllare la forza lavoro sul porto, estorcendo i membri dell’ILA e gestendone le sorti grazie a presidenti complici. Uno dei presidenti della sezione numero 1235 dell’ILA, Albert Cernadas, fu infatti arrestato nel 2010 proprio per condotte di racketeering (il termine legale usato in USA per crimini simili a quelli di mafia). Fu rivelato in questi casi, come fu proprio la famiglia Genovese a decidere che un certo Harold Daggett, dovesse poi diventare (e tutt’ora rimanere) presidente dell’ILA.

    Harold-Daggett
    Harold Daggett

    Nel 2007, una causa civile contro l’ILA, ancora non risolta, si spinge a dire che Harold Daggett non era/è solo un presidente corrotto, ma sarebbe proprio membro di un’organizzazione criminale che esercita influenza sul porto di New York, con associati sia delle famiglie Gambino che Genovese, il cosiddetto “Waterfront Group”. La vicinanza, personale e politica, tra Harold Daggett e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, hanno poi fatto ipotizzare la chiusura del cerchio: l’opposizione del New Jersey alla Waterfront Commission si rispecchia spesso nelle posizioni prese dall’ILA. Non è difficile quindi vedere come le percezioni di corruzione e malaffare sul porto siano legate ai legami opachi tra la politica e i sindacati.

    ‘Ndrangheta a New York

    E che c’entra qui la ‘ndrangheta? Il riferimento non è (del tutto) diretto; a parte qualche indagine, per esempio Columbus o New Bridge che hanno osservato nuclei ‘ndranghetisti muovere cocaina tramite il porto di New York con l’aiuto di sodali in loco, pochi e sporadici – seppur costanti – sono i dati pubblici sui collegamenti della ‘ndrangheta con le famiglie newyorkesi. Eppure, è proprio nelle parole della Waterfront Commission che troviamo un dato interessante. Nella relazione del 2018 infatti la Commissione rivela di aver ricevuto domande di impiego al porto – non approvate – da soggetti italiani, calabresi, legati alla ‘ndrangheta.

    'ndrangheta-new-york-cinque-famiglie
    I boss protagonisti di “Fear City”, docu-serie di Netflix sulle cinque famiglie

    Questo dato apparentemente banale, rivela molto di più. Infatti, appurato che l’influenza sul porto di 2 delle 5 famiglie di New York, Gambino e Genovese, rimane particolarmente invasiva per quanto riguarda il reclutamento, rimane da chiedersi quale sia il rapporto tra questi presunti ‘ndranghetisti – che vengono addirittura ‘mandati’ dalla Calabria a lavorare al porto – e le famiglie mafiose newyorkesi. Non è questo un esercizio di retorica, ma semmai un problema di analisi. Tutte le mafie vivono anche di reputazione: più solido è il loro brand, più saranno resilienti e riconosciute. Nonostante i tanti ‘successi’ criminali della ‘ndrangheta, a New York il brand delle 5 famiglie è quello vincente.

    Calabresi di nascita, siciliani d’adozione

    Da decenni, le ‘ndrine si muovono dentro le famiglie Gambino e Genovese abbandonando la loro ‘calabresità’ e ‘obbedendo’ al marchio dominante. Proprio per questo in nessun altro luogo, come a New York, è così difficile capire il vero potere – oltre ai traffici illeciti – della ‘ndrangheta. Ma ci sono individui, soprattutto legati alle ‘ndrine di Siderno (Commisso-Macrì), della costa ionica, ma anche legati ai cognomi ‘pesanti’ del rosarnese, che oggi hanno raggiunto posizioni apicali all’interno delle famiglie newyorkesi. Negli anni, molti hanno diversificato le loro attività, investendo nella logistica portuale e inserendosi nelle imprese dedite alle infrastrutture del porto. Sono questi individui a ‘invitare’ giovani leve dalla Calabria a venire a lavorare al porto e a indirizzarli nelle file delle famiglie Genovese e Gambino. Sicuramente tutto ciò conferma come la Waterfront Commission sia ancora molto necessaria.

    ndrangheta-new-york-porto-cinque-famiglie-scontro-stati
    Il porto di New York

    Quando si parla dunque di mafia nel porto di New York, bisogna tenere a mente che parte della storia di questa mafia non è oggi molto chiara. E che ancora la si percepisce, errando, con una stereotipata composizione ‘siciliana’. Una volta compreso l’inghippo analitico che affligge ancora la mafia americana, realizzare che la ‘ndrangheta a New York è inserita all’interno delle famiglie storiche da decenni, mantiene i contatti con l’Italia – e, soprattutto, con il Canada (ma questa è un’altra storia…) – ed è oggi una forza dinamica anche all’interno della contestata realtà portuale, potrebbe generare quesiti molto difficili da affrontare, su politica, sindacati e ‘ndrine, tra New York e New Jersey.

  • MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    Le spiagge di Cartagena, città caraibica sulla costa nord della Colombia, in queste settimane sono invase dal sole e dai colori. Cartagena non è solo una bellissima città, dove il giallo-oro ispanico-coloniale si mischia perfettamente al rosso, verde e blu di cibo, vestiario e vita di strada. È anche una città la cui posizione geografica ha sempre attirato molto turismo e reso il territorio un importante hub commerciale, grazie anche al porto, il più importante dei Caraibi.

    giudice-pecci-ucciso-cartagena-si-fa-troppo-presto-dire-ndrangheta-i-calabresi
    Il magistrato paraguayano Marcelo Pecci con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera

    Marcelo Pecci ucciso in luna di miele a Cartagena

    L’isola di Barù a poche miglia da Cartagena è stata l’ultima meta turistica del procuratore paraguayano Marcelo Pecci, ucciso il 10 maggio 2022 a colpi di pistola da individui su una moto d’acqua venuta dal mare, mentre era sulla spiaggia con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera. I due, appena sposati e in luna di miele, avevano appena annunciato sui social di aspettare il loro primo figlio, cosa che ha reso questo omicidio, se possibile, ancora più tragico.

    giudice-pecci-ucciso-cartagena-si-fa-troppo-presto-dire-ndrangheta-i-calabresi
    Il procuratore Marcelo Pecci e la moglie: le scarpette del bambino che il giudice non potrà conoscere

    Marcelo Daniel Pecci Albertini aveva 45 anni e aveva dedicato gli ultimi anni della sua professione alla lotta al narcotraffico e al crimine organizzato, anche nelle sue manifestazioni terroristiche, tra Paraguay, Colombia, Bolivia e il resto dell’America Latina. “A Ultranza Py“, l’operazione anti-droga e antiriciclaggio che lo aveva coinvolto in prima linea insieme alla Drug Enforcement Administration – la DEA americana – colleghi uruguayani e forze di polizia di Europol, aveva portato, solo un paio di mesi fa, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez a chiedere le dimissioni di due ministri, per il loro coinvolgimento con dei narcotrafficanti tra Brasile e Paraguay.

    Le vie della coca: Paraguay e ‘ndrangheta

    L’operazione, infatti, si concentra sul ruolo che il Paraguay ha assunto nel panorama del narcotraffico da Bolivia e Colombia verso l’Europa sfruttando i container, la logistica e i network brasiliani da un lato, e i porti, la rete di distribuzione e la disponibilità di capitali in nord Europa. Che il Paraguay sia diventato un paese chiave per comprendere il traffico di cocaina dai paesi produttori, non è una novità.

    L’indice globale sulla criminalità organizzata redatto dall’Ong The Global Initiative Against Transnational Organized Crime nota come in Paraguay sia non solo aumentata la capacità di lavorare la coca, dunque diventando una tappa importante della catena di produzione, quanto sia anche aumentata la presenza – proprio per questo – di gruppi brasiliani sul territorio, come ad esempio il PCC – Primeiro Comando da Capital – temuta organizzazione criminale che da anni – si dice – essere in combutta con i peggiori (o migliori, dipende dai punti di vista) ‘ndranghetisti. Dal Brasile infatti, ‘ndranghetisti importatori di stupefacenti, hanno da lungo tempo stabilizzato una delle rotte più importanti dell’approvvigionamento di cocaina verso l’Europa.

    giudice-pecci-ucciso-cartagena-si-fa-troppo-presto-dire-ndrangheta-i-calabresi
    Il Paraguay è una tappa fondamentale della catena di produzione e commercializzazione della cocaina

    Colletti bianchi in Sud America

    Questo lo sapevo sicuramente Marcelo Pecci, che infatti proprio a dicembre 2021 si era recato a Buenos Aires a incontrare l’esperto per la sicurezza italiana stazionato in Sud America. Avevano discusso anche di ‘ndrangheta, come ricorda proprio un suo tweet. In un’intervista rilasciata sotto Natale a La Nacion, il procuratore parlava molto lucidamente della presenza della mafia calabrese in Paraguay e avvertiva che membri di questa organizzazione nel suo paese «sono persone con preparazione accademica e senza precedenti penali», le cui attività commerciali «vanno da ristoranti a hotel, il tutto con un sistema di comunicazione attento e cifrato»; i soliti fixer in colletto bianco. Marcelo Pecci notava come ci fossero cittadini italiani indagati, ma come ciò non significasse che venissero necessariamente considerati parte dell’organizzazione.

    La ‘ndrangheta dietro la morte di Marcelo Pecci?

    Il procuratore paraguayano aveva compreso bene, dunque, che la ‘ndrangheta d’oltremare è una criminalità affarista, che si protegge spesso con la legge – nei gangli della società – e non dalla legge – come spesso fanno i gruppi di narcotrafficanti, con armi, forza bruta e terrore. Nonostante la chiarezza delle analisi di Pecci (decisamente più bilanciate di tante disamine italiane sull’argomento della ‘ndrangheta all’estero), e sicuramente complice lo shock della notizia del suo omicidio, è subito stata paventata, da alcuni canali di informazione italiani e non solo, l’ipotesi che dietro questo atto efferato ci fosse proprio la ‘ndrangheta. Non a caso si parla, in Italia, dell’ombra della mafia calabrese tra i possibili mandanti del crimine.

    giudice-pecci-ucciso-cartagena-si-fa-troppo-presto-dire-ndrangheta-i-calabresi
    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Marcelo Pecci diventa pm antimafia

    A sostegno di questa tesi, sposata anche da canali spagnoli, proprio quelle indagini discusse da Pecci nel dicembre 2021, e alcuni arresti che ne sono seguiti. Non mancano riferimenti alla sua discendenza italiana. Tra i giornali italiani si intervistano magistrati, da Gratteri a Ingroia, perché speculino (ché di pura speculazione si tratta) su queste voci e in generale ché parlino dei rischi di chi è esposto in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Non a caso poi Pecci, il cui ruolo ufficiale era ‘Fiscal Especializado contra el Crimen Organizado’, diventa nelle news italiane ma anche straniere “pm antimafia”. Perché quando si tratta di morire per mano di gruppi organizzati dediti, tra le altre cose, al narcotraffico e al riciclaggio, siamo noi – italiani, o meglio siciliani e calabresi – a saperne di più, nel bene e nel male.

    In quest’ottica la corsa a far commentare la notizia dai procuratori nostrani non è di per sé cosa stranissima: Gratteri ammette di non averlo conosciuto di persona e si concentra sui metodi “mafiosi” utilizzati. Vista la nota efferatezza dei narcos, Ingroia si chiede come mai non fosse protetto. Altri commentatori poi dicono che «è perfettamente possibile» che ci sia la ‘ndrangheta dietro all’omicidio.

    L’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia

    Perché potrebbe non essere un omicidio di ‘ndrangheta

    Sarà anche perfettamente possibile ma è veramente improbabile per almeno tre ragioni con la natura del crimine organizzato di cui si occupava il procuratore Pecci. Primo, quei narcos efferati, come li definisce Ingroia, come già detto scelgono lo scontro diretto con lo Stato perché il loro potere si fonda – tra le altre cose – sulla paura (e non solo sul consenso) e sulla sopraffazione violenta di qualunque competitore: i loro mezzi sono pertanto molto più violenti che in altre parti del mondo e soprattutto impiegati senza necessariamente che ci siano delibere dall’alto del gruppo criminale, spesso molto più fluido nell’organizzazione.

    Questione di metodo

    Secondo, se si va a guardare quel metodo mafioso di cui parla anche Gratteri, non può non notarsi che se il metodo terrorista-brutale è stato certamente usato dalle nostre mafie (cade questa settimana proprio il trentennale del morte di Giovanni Falcone), la ‘ndrangheta è stata molto più parsimoniosa di questo strumento soprattutto per “esterni” all’organizzazione. Bisognerebbe poi capire di “quale” ‘ndrangheta staremmo poi parlando, perché – come ci ha ricordato Pecci – in America Latina – soprattutto Paraguay, Brasile e Colombia – non sembra esserci capacità decisionale dell’organizzazione calabrese a questi livelli – quindi il massimo ipotizzabile è una partecipazione secondaria degli ‘ndranghetisti a una vicenda del genere.

    Terzo, infine, non dimentichiamo poi che un omicidio a migliaia di chilometri di distanza, in territorio altrui non è organizzabile in poche settimane (come in questo caso sarebbe successo se davvero l’operazione A Ultranza Py fosse la ragione scatenante) perché richiede contatti locali e supporto in caso seguano indagini dal carattere imponente; un’organizzazione cauta e sotto-esposta come la ‘ndrangheta dovrebbe, a rigor di logica, vedere un omicidio del genere come un’attività molto rischiosa e poco utile.

    Orgoglio e pregiudizio

    Detto questo, come mai si vuole tirare dentro per forza in questa vicenda la ‘ndrangheta, come mandante, o anche solo i metodi mafiosi? Da una parte perché la nostra concezione della mafia, come anche dell’antimafia, è etnocentrica e relativista: cioè, in molti magari pensano che la mafia, e dunque anche la ‘ndrangheta, siano non solo archetipo ma anche prototipo del crimine organizzato nel mondo. Così non è, le mafie sono in realtà tra le forme di crimine organizzato meno diffuse sul pianeta, senza volerne negare diffusione o pericolosità ovviamente.

    Inoltre, soffriamo in Italia – e ultimamente anche in Calabria – di orgoglio negativo nei confronti della mafia e della ‘ndrangheta. Il paese, l’Italia, che ha l’antimafia più forte del mondo (così va il noto adagio) – orgoglio positivo – ha anche le mafie più forti del mondo – orgoglio negativo. Così forti che diventa possibile, anche quando altamente improbabile, che siano i mandanti di un omicidio come quello di Marcelo Pecci.

    Conferenza stampa della Polizia colombiana dopo i 17 arresti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del procuratore Pecci

    Le indagini: 17 arresti e la pista che porta al clan Rocha

    Le indagini vanno avanti: ci sono stati almeno 17 arresti di individui di varie nazionalità in Colombia. Le piste sono concentrate, al momento, sul clan Rocha, un gruppo criminale su cui Marcelo Pecci indagava, legato al Primeiro Comando da Capital (PCC) brasiliano e dedito al traffico di stupefacenti da Bolivia, Perù e Colombia verso Stati Uniti, Africa ed Europa. Mentre ci auguriamo che si faccia presto chiarezza, oltre ogni ragionevole dubbio, su mandanti ed esecutori, e si riflette sul come si possano evitare in futuro altri atti così tragici, qui da noi sarebbe auspicabile mettere da parte il protagonismo, soprattutto quello negativo.

  • MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Alzi la mano chi non conosce la storia di Maria Serraino. Mamma Eroina è stata una di quelle donne che hanno sbaragliato il mito della donna di ‘ndrangheta che può solo essere vittima. Maria Serraino era carnefice, se vogliamo dirla tutta. Ai vertici di una delle famiglie di ‘ndrangheta più influenti del reggino, nella sua propaggine milanese, La Signora ha dominato il mercato dello spaccio di eroina e di hashish in Lombardia negli anni ’80.

    Come spesso accade per le donne al potere, la sua è una figura ambigua, ambivalente. Ricordata come “madre amorevole” eppure condannata per aver guidato “un’organizzazione criminale che ricorreva all’eliminazione fisica dei concorrenti”, Mamma Eroina, originaria di Cardeto (RC), è stata donna di vertice nella ‘ndrangheta in un periodo di enorme cambiamento per l’organizzazione criminale, in Calabria, in Italia e nel mondo. È morta nel 2017, agli arresti domiciliari.

    La fiction sulla nipote di “Mamma Eroina”

    Chi non dovesse conoscerla, Maria Serraino, può vederla in versione fiction su Amazon Prime, nella nuova serie Bang Bang Baby. Interpretata da Dora Romano, il personaggio di Donna Lina è Mamma Eroina, o meglio, Nonna Eroina in questo caso, come tra l’altro è conosciuta in inglese (Granny Heroin). La serie TV, infatti, non è inspirata alla storia di Maria Serraino, quanto a quella di Marisa Merico, sua nipote.

    mamma-eroina-mafia-princess
    Maria Serraino in un singolare ritratto di famiglia

    Figlia di Emilio Di Giovine, primo di 12 figli di Rosario Di Giovine e Maria Serraino, Marisa non è una rampolla di ‘ndrangheta come tutte le altre. A renderla diversa è sua madre, Patricia Riley, inglese, che incontrò e sposò Emilio a Milano e che, quando la situazione familiare diventò insostenibile (cioè spararono a Emilio, anche se non fatalmente, in un ristorante milanese) decise di andarsene, con Marisa, a Blackpool, in Inghilterra.

    La storia di Marisa non è nuova, è stata raccontata in un documentario del 2015, Lady ‘Ndrangheta. E soprattutto l’ha raccontata lei stessa nel 2010 nella sua autobiografia Mafia Princess, pubblicata da Harper Collins, come si legge sul suo sito web. Giornali, riviste, true-crime podcast, e interviste hanno raccontato del rapporto di Marisa con la famiglia milanese/calabrese, con la nonna Maria che – nonostante la vita a Blackpool – Marisa continuò a vedere nelle estati della sua adolescenza.

    Marisa Merico e la scalata al clan

    Si è raccontato del rapporto di Marisa con suo padre, della ‘scalata’ nei primi anni 90 ai vertici della famiglia Serraino di una Marisa appena ventenne e sposata con Bruno Merico, fedelissimo della nonna e del padre, prima come ‘banchiera’ della famiglia e poi come emissaria della famiglia anche all’estero. In seguito al pentimento di sua zia Rita Di Giovine, nel 1993, che ha inflitto un colpo quasi mortale a tutto il clan, Marisa scappa in Inghilterra e nel 1994 viene arrestata con l’accusa di riciclaggio (1.9 milioni di sterline in un conto in Svizzera usati per l’acquisto di un’abitazione). Marisa sconterà tre anni a Durham in carcere tra altre donne ‘pericolose’, tenute a regime carcerario particolarmente duro.

    La piccola Marisa Merico in braccio a suo padre Emilio Di Giovine

    La seconda vita in Inghilterra

    La seconda vita di Marisa inizia qui. Uscita dal carcere, completerà una laurea triennale in criminologia all’università di Lancaster, è intanto diventata madre due volte.

    marisa-merico-mamma-eroina-laurea
    Marisa Merico il giorno della sua laurea

    In Italy vs Merico, il tribunale amministrativo inglese, che nel 2011 decise di non concedere l’estradizione di Marisa all’Italia per il completamento della sua sentenza di condanna, non menziona mai né la parola mafia, né la parola ‘ndrangheta. E conclude che Marisa è «nonostante il suo passato criminale, una madre responsabile e una figlia devota». Marisa ha svoltato. Oggi utilizza la sua particolare esperienza di vita per spiegare cosa, per lei, sono crimine organizzato ed esperienza carceraria. E come si passa da essere principessa di ‘ndrangheta, il suo brand, a donna ‘normale’, laureata in criminologia, quasi attivista, a Blackpool.

    mamma-eroina-nipote
    Maria Merico con sua nonna Maria Serraino

    Nonna Maria e mamma Patricia

    Ora che Bang Bang Baby è disponibile su Amazon Prime, e la storia di Marisa è nuovamente alla ribalta, è forse necessario provare a riallineare qualche elemento di questa storia. C’è infatti un lato dimenticato nella narrazione che se ne fa. E cioè la dimensione inglese dell’identità di Marisa, e di sua madre Pat.

    La prima cosa che incuriosisce è come i giornali inglesi raccontano di questa storia. E soprattutto quali giornali inglesi. Si tratta per lo più di tabloid, giornali che cercano il sensazionalismo con molte foto e con titoli risonanti, dal The Sun al Mirror al Daily Star. La storia è considerata una storia di costume, chiaramente schiacciata sulla dimensione criminale mafiosa. Che però non è né compresa, né tantomeno raccontata criticamente.

    Tanta Italia, poca Inghilterra

    Il Daily Mail parla di una “Milan ‘Ndrangheta Gang”; il The Sun compara la nonna Maria Serraino al Padrino. Si legge chiaramente in queste storie che a fare notizia è l’influenza che la mafia ha avuto su questa ragazza prima-donna oggi di Blackpool. Non si chiede mai il contrario, e cioè l’influenza che essere cresciuta a Blackpool – una tipica cittadina balneare inglese spesso raccontata (in modo eccessivo e stereotipato) come uno dei posti peggiori, e uno dei più violenti, in cui vivere in Inghilterra – possa avere avuto su una Marisa ragazzina che andava e veniva da Milano e dalla ‘ndrangheta.

    blackpool
    Il lungomare di Blackpool

    Cos’è che non “tornava”, cos’è che appariva strano o diverso o anche uguale e familiare della calabresità milanese della ‘ndrangheta di famiglia a questa donna che per devozione al padre e alla nonna ha scelto vie criminali? E, ovviamente, non si chiede poi mai nulla su Pat, la donna inglese che si era trovata a cercare di capire cosa volesse dire entrare nella famiglia Serraino a Milano con una figlia destinata a far parte della ‘ndrangheta. Sicuramente avrebbe avuto molto da dire Pat, prima della sua morte nel 2012.

    Tabloid e pregiudizi

    Per i tabloid inglesi la storia di Marisa Merico, suo padre Emilio, sua nonna Maria e tutti gli altri personaggi, è interessante perché permette di consolidare sia i pregiudizi che si hanno sulla mafia – esterna – diversa – ‘fenomeno-che-non-ci-riguarda’ – seppur condita di un ingrediente in più, Blackpool, sia i pregiudizi sulle donne che commettono crimini e finiscono in carcere per questo.

    Per dirla diversamente, l’esperienza di Marisa come esperienza di donna, e madre, di Blackpool, che uscita dal carcere ha studiato e, sicuramente non senza fatica, ha provato a tenere insieme tante diverse identità, passate e presenti, e (tramite i suoi figli) anche future, passa in secondo piano rispetto alla sua esperienza come donna di ‘ndrangheta, come principessa di mafia, come detenuta speciale.

    Le donne appiattite

    E non solo; l’immagine di Marisa come “scolaretta” di Blackpool (“schoolgirl” nel titolo del Daily Mail) catturata nelle trame sinistre di un “sindacato criminale”, o come “un’ordinaria casalinga di Blackpool che si è trovata a gestire l’impero criminale di famiglia” (sul Mirror) ancora una volta appiattisce la realtà della criminalità al femminile su un’immagine della donna come vittima degli eventi e in balia di scelte che non comprende o che sono più grandi di lei.

    marisa-merico
    Marisa Merico (foto Chloe Dewe Matthews per il Sunday Times)

    In Bang Bang Baby, forse si fa un passo in più in questo senso, cioè si rimette al centro la storia di una donna complessa, mai totalmente condannabile ma nemmeno totalmente assolvibile. Però, il problema di narrare l’inglesità della protagonista è qualcosa che anche la serie italiana non sa recepire.

    Le mille identità scomparse di Marisa Merico

    La serie che racconta della teenager Alice (cioè Marisa) e delle sue esperienze criminali milanesi dal punto di vista fluido-pop della mente adolescente della sua protagonista, racconta la ‘ndrangheta ancora con tanti stereotipi (alcuni anche borderline razzisti sui calabresi a Milano, ma questa è un’altra storia…) e senza la dimensione inglese della sua protagonista, che invece viene fatta ‘partire’ dall’hinterland milanese. Sicuramente la storia di Marisa Merico, una storia che tenga insieme tutte le identità di questa donna, il suo accento inglese e il suo sangue calabrese, il suo essere figlia, madre, mafiosa, detenuta, studentessa universitaria, attivista, narratrice, non è stata ancora del tutto raccontata.

    mamma-eroina-bang-bang-baby-e-la-festa-degli-stereotipi
    Il cast di Bang Bang Baby
  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

    pasquale_barbaro
    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

    rinascita-scott-aula
    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

    luigi-mancuso
    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

    Limbadi-Vinci-i-calabresi
    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    Il 24 marzo 2022, la polizia federale brasiliana ha portato a termine un’operazione contro il narcotraffico durata tre anni, su tre stati: Paranà, Santa Catarina e São Paulo.
    Diciassette persone sono state arrestate con l’accusa di aver inviato tonnellate di cocaina in Europa dal porto di Paraguanà. Questo gruppo criminale, dice la polizia brasiliana, lavorava con un clan (non meglio specificato) di ‘ndrangheta che curava la logistica del trasporto del narcotico in Europa, per esempio dal porto di Le Havre in Francia, ma anche tramite gli scali spagnoli o tedeschi.

    I portuali al soldo delle ‘ndrangheta

    Come accade in molti casi simili, lavoratori portuali infedeli avrebbero aiutato fornendo informazioni e offrendo il proprio know-how portuale al gruppo criminale. Il narcotico veniva nascosto all’interno di vari compartimenti dei container – ad esempio nei vani frigo, oppure nascosto tra i sacchi di caffè o di frutta.

    Si usava anche il metodo del rip-on/rip-off, una tecnica che gli ‘ndranghetisti hanno pionieristicamente utilizzato sin dai tempi di Operazione Decollo negli anni ’90. Con la tecnica del rip-on/rip-off (che letteralmente significa “presa in giro” o “fregatura”) si nasconde la cocaina in borsoni che vengono poi piazzati all’interno del container all’insaputa di armatori, trasportatori e altri, per poi venir recuperati all’arrivo, sempre all’insaputa di chi ha ordinato il carico del container.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Santos, in Brasile, è uno dei porti crocevia della coca

    A cercarlo sulla mappa, si nota subito perché proprio Paraguanà sia stato il porto prescelto per questa (apparentemente) nuova venture criminale. Quinto porto del Brasile, Paraguanà è situato proprio sotto il Porto di Santos, il porto più trafficato dell’America Latina e nella top 40 dei porti più grandi del mondo. Da Santos, dicono report e indagini di mezzo mondo, passa una delle rotte più importanti del traffico di cocaina verso l’Europa. E il primato per le importazioni, storicamente ormai, spetta ai broker dei clan di ‘ndrangheta. Da Paraguanà si muove anche il commercio dal Paraguay, che non ha suoi sbocchi sul mare e che ultimamente è diventata una nazione particolarmente interessata dal narcotraffico.

    In Operazione Pollino-European Connection, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nel 2018, si erano già documentati i viaggi che Domenico Pelle aveva effettuato in Brasile per incontrare esponenti broker e rappresentanti di vari cartelli del narcotraffico, con i quali pianificava e definiva le trattative per l’invio in Italia di varie partite di cocaina, in arrivo a Gioia Tauro.

    Nel 2019, a São Paulo, fu arrestato Nicola Assisi, considerato un broker di primo livello dei clan di ‘ndrangheta, soprattutto al nord Italia. Assisi, che era l’erede criminale di Pasquale Marando, altro broker di ‘ndrangheta, aveva contrattato col Primero Comando da Capital (PCC), un’organizzazione criminale brasiliana, per l’approvvigionamento e il movimento di cocaina sul porto di Santos verso l’Europa.

    I colletti bianchi

    E infatti, in Operazione Magma, sempre della procura di Reggio Calabria – che nel 2020 ha rivelato tra le altre cose, i contatti di alcuni associati dei clan a colletti bianchi in Argentina per facilitare la scarcerazione di Rocco Morabito ed evitarne l’estradizione – leggiamo che uno dei fornitori del gruppo facente capo al clan Bellocco di Rosarno, un certo Ruben, sta appunto in Brasile e utilizza proprio Santos come base del suo traffico.

    Lo stesso Carmelo Aglioti, imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina), che si era interessato alla vicenda di Rocco Morabito per conto della sua famiglia, informava un suo collaboratore: «Se ti dice Ruben che in questi giorni ha pronto qua… Se loro riescono a farla venire a Gioia Tauro … […] Ce l’hanno, ce l’hanno. […] Loro dicono di sì […] Ma non diretto da Buenos Aires, da Santos o da un altro porto!». E probabilmente si intende Paraguanà.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo

    Le rotte della coca e i nuovi “varchi”

    Alla luce delle indagini degli ultimi anni tra Italia e Brasile, possiamo identificare quattro ingredienti chiave del narcotraffico, che aiutano anche a comprendere il ruolo della ‘ndrangheta nel mercato della cocaina.

    Innanzitutto, l’importanza di aprire “varchi”, di trovare “porte” d’ingresso – come si dice in gergo – negli scali portuali. Proprio per i volumi di merce in transito dai porti brasiliani, chiunque importi cocaina, dunque deve attrezzarsi per reperire uno o più broker che abbia accesso a tali scali. In questo, molti clan di ‘ndrangheta storicamente impegnati nel narcotraffico, si sono distinti, non solo procurandosi broker esteri, ma inviando proprio emissari che si sono poi “formati” all’estero e sono diventati broker di più clan dunque dominando il mercato. Se il broker riesce a trovare la porta d’accesso a un nuovo scalo, come nel caso del porto Paraguanà, questo influenzerà tutta la filiera di distribuzione.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Le rotte della cocaina dai porti del Sudamerica fino allo scalo di Gioia Tauro

    In secondo luogo, è bene ricordare che le rotte della cocaina dipendono immancabilmente dalle rotte regolari delle merci. In questo senso, avere un varco, aprire una porta, in uno scalo che non ha rotte dirette o frequenti verso l’Europa, non serve a molto. Anche gli ‘ndranghetisti dunque, per quanto capaci, devono adattarsi alla legge del mercato (legale).

    Nelle intercettazioni di operazione Magma, un associato di Aglioti ritiene di non essere più sicuro di far giungere future importazioni sfruttando le rotte con scalo in Brasile delle navi cargo dirette a Gioia Tauro a causa, verosimilmente, dei sequestri degli ultimi anni. Si propone quindi un nuovo canale di spedizione mediante l’occultamento su navi cariche di carbon fossile in partenza dalla città colombiana di Santa Marta, ma con destinazione i Paesi Bassi. «[…] Navi … non
    esiste più! (intende dire navi porta container con destinazione Gioia Tauro, ndr) […] Non esiste più … non c’è … […] Se poi ti dice con la nave carbone … trovano lo spazio nella nave carbone … solo nave carbone … ma Amsterdam o Rotterdam […] Partono da Santa Marta! […]».

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    La “roba” sequestrata dalle forze dell’ordine in attesa di essere distrutta

    Due porti “sicuri”: Le Havre e Gioia Tauro

    Terzo, per poter concludere l’importazione, è necessario avere la capacità di muoversi velocemente anche negli scali di arrivo, anche qualora questi cambino, se cambiano le rotte oppure se il carico è a rischio intercettazione. Ci conferma sempre Aglioti in operazione Magma di quanto sia necessario non solo avere i fornitori in America Latina, ma anche avere chi si occupa dello spostamento della cocaina una volta arrivata al porto di destinazione, qualunque esso sia, in Europa.

    Se l’organizzazione criminale riesce ad assicurarsi varchi all’origine e logistica alla destinazione, l’operazione sarà più sicura. «Noi abbiamo un altro porto sotto mano … “LE HAVRE”, sai dov’è Le Havre? In Normandia, in Francia. Io, prima di partire sono venuti due francesi di là …(incomprensibile) … coi calabresi […] “se voi mandate la roba là, dalla Francia, ve l’assicuriamo noi che la portiamo via dal porto! Al 100%!” … dal porto di Le Havre, dal porto internazionale di Le Havre. Quindi c’hanno 2 porti sicuri in questo momento, Gioia Tauro … [e Le Havre]».

    La reputazione della ‘ndrangheta

    La capacità di adattarsi ai cambi di rotta (letterali a volte) e l’abilità nel forgiare legami sia nei paesi fornitori che negli scali fondamentali per la logistica dell’arrivo sono fondamentali per quei clan di ‘ndrangheta che importano cocaina. Sono questi legami e queste capacità che rendono la mafia calabrese “conosciuta” in questo settore e ne forgiano la “reputazione”. Non bisogna dimenticare, da ultimo, un ulteriore fondamentale ingrediente che rende tutto questo possibile, e cioè la disponibilità di denaro.

    Serve molto denaro per operare a questi livelli. E in questo la reputazione acquisita aiuta gli ‘ndranghetisti. Aglioti conferma di essersi guadagnato la fiducia dei fornitori a tal punto che questi gli concedevano di inviare le partite di stupefacente previo pagamento in anticipo solo del 50% dell’intero valore «[…] tu paghi il 50%, il 50% a nostro carico, a nostro carico. In più, tu metti uno, noi mettiamo due. Tu metti dieci, noi mettiamo venti. Tu metti 50, noi mettiamo cento. Ne paghi 50, poi il resto è vostro», tutto il resto. Perché una volta andavano lì e compravano in conto vendita.

    E dunque, cambieranno ciclicamente le rotte, cambieranno anche le modalità di accesso agli scali portuali, si apriranno nuovi varchi, e si inventeranno nuove modalità di spedizione. Ma fintanto che ci sono domanda, offerta, denaro da investire e reputazione criminale, i clan di ‘ndrangheta che lo vorranno continueranno a scegliere il mercato della cocaina.

  • MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Rocco Morabito, detto U Tamunga verrà estradato in Italia. Così ha deciso la prima sezione della Corte Suprema Brasiliana il 9 marzo scorso, approvando la richiesta di Roma. Ci sono voluti 10 mesi dall’ultimo arresto di U Tamunga, nel maggio del 2021, a Joao Pessoa in Brasile. E ci sono anche delle condizioni per l’Italia: la detenzione di Morabito non potrà durare più di trent’anni e si dovrà tener conto anche del tempo già trascorso in carcere precedentemente.

    morabito
    Rocco Morabito negli anni ’90 e al momento dell’arresto in Sud America

    Narcotrafficante e membro apicale del clan omonimo di Africo, sulla costa ionica reggina, Morabito era stato condannato in Italia nel 1994 in seguito all’Operazione Fortaleza. Trenta gli anni di carcere per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, dall’America Latina alla Calabria e, soprattutto, nel Milanese. Secondo InsightCrime il reggino avrebbe forgiato una collaborazione tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital – PCC, un network para-mafioso brasiliano dominante, tra le altre cose, nel traffico di cocaina.

    U Tamunga, il re della cocaina

    rocco-morabito-documenti-falsi
    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    U Tamunga rimane latitante fino al 2017 quando fu catturato a Montevideo, in Uruguay. A quanto pare aveva vissuto lì per 15 anni sotto falsa identità; aveva ottenuto documenti uruguaiani presentando certificati brasiliani con il falso nome di Francisco Antonio Capeletto Souza, nato a Rio de Janeiro. Durante i suoi 23 anni di latitanza, conosciuto come il “Re della Cocaina”, era considerato il secondo latitante italiano più pericoloso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro.

    L’evasione e il nuovo arresto: dall’Uruguay al Brasile

    Rocco Morabito si è fatto conoscere anche per la sua rocambolesca evasione dal carcere con altri tre detenuti nel 2019. Dopo essere fuggito da un passaggio che portava direttamente sul tetto del carcere di Montevideo, insieme agli altri tre compagni di evasione, U Tamunga si sarebbe introdotto in un appartamento al quinto piano di un palazzo vicino. Avrebbe quindi derubato la donna che ci viveva per poi scappare in taxi.

    rocco-morabito-ricercato-uruguay
    Rocco Morabito e i suoi tre compagni di fuga

    Dopo oltre un anno passato lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay, secondo IrpiMedia, viene ricatturato dalla polizia brasiliana nel maggio 2021 grazie a una partnership promossa da Interpol, I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta). I-CAN, un programma voluto, sostenuto e guidato dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza in Italia, ha altri 11 stati partner in giro per il mondo:

    • Stati Uniti
    • Australia
    • Canada
    • Brasile
    • Argentina
    • Germania
    • Svizzera
    • Colombia
    • Francia
    • Spagna
    • Uruguay

    Al servizio di sua maestà Rocco Morabito

    E proprio grazie all’Interpol e ad I-CAN un altro tassello si aggiunge alla parabola di Rocco Morabito con l’Operazione Magma. A guidarla è la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e si concentra sui traffici di stupefacenti del clan Bellocco di Rosarno in America latina. Nell’estate del 2020 – in seguito a sei arresti guidati da Interpol tra Argentina, Costa Rica e Albania – Magma ha rivelato come Carmelo Aglioti, un imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina) si stesse impegnando anche per conto del clan Morabito, per trasferire 50.000 euro in Uruguay per facilitare la liberazione di Rocco Morabito. Dopo il suo arresto a Montevideo nel 2017 per la famiglia Morabito bisogna evitare l’estradizione.

    Rocco Morabito scortato dalla Polizia brasiliana

    Questa estradizione non s’ha da fare

    Aglioti agiva dunque per conto di Antonio Morabito, cugino di Rocco, U Tamunga: «Il cugino vostro, per riciclaggio è? […] Quindi, il motivo … per cui bisogna fare tutte questa operazione … pi mu staci ddocu (per farlo stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr) quindi non estradato qui in Italia, giusto!? […] Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto o no!? […]». E Antonio Morabito confermava «[…] Mh mh … questa è la prassi che stiamo cercando di fare! […]».

    L’avvocato del diavolo

    I messaggi whatsapp su un’utenza in uso ad Aglioti rivelano i contatti dello stesso Aglioti con Fabio Pompetti, avvocato italiano residente in Argentina, arrestato nel luglio 2020 a Buenos Aires per operazione Magma con I-CAN. «Mi hanno contattato delle persone per dirmi se conoscevo un avvocato in Uruguay, io gli ho fatto il tuo nome perché hanno bisogno di essere assistiti per un loro parente che si trova carcerato in Uruguay. Questi sono persone che pagano, praticamente e lo stesso problema di cui ti sei occupato in passato capito?». «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela», risponderà Pompetti.

    Un caso, tre temi

    Il caso di Rocco Morabito offre spunti di analisi su tre temi interconnessi:

    1. le sfide alla cooperazione internazionale per finalità di polizia;
    2. la natura della ‘ndrangheta all’estero;
    3. il ruolo dei fixer in località come Argentina, Uruguay o Brasile, strategiche per gli affari dei clan.

    Indagini: serve collaborare e in fretta

    I-CAN è un progetto sicuramente innovativo, il cui massimo impegno sta nel facilitare la comunicazione tra paesi e forze di polizia molto diverse tra loro. Quando si tratta di fare indagini transnazionali o transcontinentali infatti il problema primario, soprattutto fuori dall’Europa, rimane la difficoltà delle istituzioni nei vari paesi coinvolti di comunicare velocemente e altrettanto velocemente condividere dati e intelligence.

    È necessario valorizzare, come cerca di fare I-CAN, team di indagine unitari che dall’inizio dei lavori possano condividere ipotesi e dati. Soprattutto perché, e qui arriviamo al secondo spunto di analisi, la ‘ndrangheta all’estero non ha sempre la stessa faccia. Ed è necessario non solo saperlo ma ipotizzare quale faccia ci si possa trovare davanti.

    rocco-morabito-chi-proteggeva-re-della-cocaina-sud-america-i-calabresi
    Milano, la provocazione di Klaus Davi, Pasquale Diaferia e Alberto Micelotta all’indomani dell’arresto di Morabito in Uruguay

    Rocco Morabito e la ‘ndrangheta all’estero

    Prendiamo il caso di Rocco Morabito. Abbiamo un soggetto, Aglioti, che – da associato di un clan tirrenico, i Bellocco – si pone come intermediario per un clan della ionica, i Morabito, grazie alla sua frequentazione di alcuni luoghi, nello specifico Uruguay e Argentina. «No, basta che li avvisano… non c’è problema! Buenos Aires e Uruguay sono due passi, con il traghetto si fa… arrivi a Rio de La Plata e vai fino a Buenos Aires e viceversa!»; Aglioti dimostra di conoscere i paesi in cui egli stesso fa affari. E sa dare consigli a riguardo a chi li chiede, nel suo clan o in altri clan. Questo rende alcuni soggetti particolarmente importanti all’estero.

    La ‘ndrangheta all’estero, infatti, non si presenta mai come un’organizzazione fissa, pre-strutturata e razionale, dunque prevedibile. Occasioni e opportunità individuali per i singoli clan dipendono in larga misura dalla capacità e dalla reputazione internazionale di alcuni soggetti in supporto ai clan; il tutto ovviamente si adatta di volta in volta a cosa conta nei contesti di destinazione, che sia denaro, potere o anche il capitale relazionale di individui e di associati.

    Fixer e broker: un aiuto oltreoceano

    Lo spaccato di Operazione Magma che riguarda Rocco Morabito e il tentativo (vano) della sua famiglia di proteggerlo dall’estradizione ci racconta anche altro. E cioè che è grazie alla figura del fixer – colui che aiuta i clan nelle questioni specialistiche – oltre che alla figura del broker – colui che aiuta i clan negli affari – che si mantiene un piano criminale oltre oceano. Quando il fixer e il broker sono la stessa persona, o sono molto legati come a Buenos Aires sono Fabio Pompetti e il suo ‘collaboratore’ Giovanni Di Pietro (alias Massimo Pertini) – che si occupava anche della gestione del narcotraffico per vari clan calabresi – allora si garantisce la continuità del servizio e dunque la possibilità di espanderlo a più gruppi criminali.

    Pantaleone-Mancuso
    Pantaleone Mancuso

    Non manca di far notare, Aglioti, che la ragione per cui si è rivolto a Pompetti è perché l’avvocato italo-argentino aveva già dimostrato di poter gestire questioni simili a quella di Rocco Morabito. «Dato che allora hanno fermato qua, a coso qua … a Mancuso …… l’ha cacciato lui (lo ha fatto uscire lui, ndr) … per riciclaggio, praticamente» Il riferimento è a Pantaleone Mancuso, estradato in Italia, dall’Argentina, a febbraio del 2015. Per la sua assistenza legale si sarebbe attivato proprio Pompetti insieme ad altri soggetti vicini ai clan della tirrenica.

    Non solo Rocco Morabito

    Tra colletti bianchi che diventano fixer, opportunità di fare affari sia nel legale che nell’illegale grazie a broker che utilizzano i contatti con la nutrita comunità migrante per diversificare il proprio operato, non è difficile vedere come per certi clan, con disponibilità di soldi e uomini, alcuni paesi possano diventare territori chiave.

    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo era il secondo latitante più pericoloso d’Italia

    Rocco Morabito verrà estradato in Italia, ma a preoccuparci adesso dovrebbero essere i contatti che ha forgiato e dunque avviato in paesi come Uruguay, Argentina e Brasile. Quei contatti lo hanno protetto per anni, da latitante o da evaso, e potrebbero proteggere altri come lui, se a chiederlo sono le persone col giusto know-how.

     

  • MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «C’è un vecchio conflitto che ancora persiste tra siciliani e calabresi nella criminalità organizzata locale». A dirlo è stato Guy Lapointe, Ispettore Capo della Sûreté du Québec, polizia provinciale del Quebéc. Siamo in Canada, e più precisamente nella capitale dello Stato francofono, la bellissima Montreal. Da fine gennaio 2022 si sta svolgendo un processo contro Dominico (sic!) Scarfo. Un capitolo importante di una guerra di mafia che da decenni non sembra ancora voler finire.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Domenico Scarfo in foto nell’articolo apparso su Montreal Gazette

    Morti ammazzati in Quebec

    Dominico Scarfo, Guy Dion con sua moglie Marie-Josée Viau, e Jonathan Massari furono arrestati nell’ottobre del 2019 in seguito ad un’operazione – Project Preméditer – della polizia provinciale del Quebec, Sûreté du Québec. I quattro vennero accusati degli omicidi di Lorenzo Giordano e Rocco Sollecito, entrambi morti ammazzati a Laval, una cittadina alle porte di Montreal, nel 2016, e dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Falduto, scomparsi nello stesso anno.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Rocco Sollecito è stato ucciso nel 2016

    Sotto l’ombra di Vito Rizzuto sul Canada

    Rocco Sollecito era notoriamente associato alla famiglia criminale montrealese per eccellenza, i Rizzuto. Suo figlio, Stefano Sollecito, è riconosciuto come il boss della famiglia. Anche Lorenzo Giordano era loro luogotenente, mentre i fratelli Falduto erano aspiranti membri di questo sottobosco criminale nato intorno alla figura e all’aura di Vito Rizzuto.

    Vito Rizzuto, morto nel 2013 più di chiunque altro ha impersonato la figura del mafioso siciliano in Canada. Legata originariamente a Cosa nostra siciliana e, in seguito, ai gruppi mafiosi Italo-Americani di New York, la famiglia utilizza ancora l’eredità di Vito come moneta corrente a Montreal e nel resto del Canada.

    La guerra di mafia tra siciliani e calabresi

    La polizia afferma che a capo della cellula criminale contro i Rizzuto, c’erano dei calabresi, i fratelli Salvatore e Andrea Scoppa. Chiaramente sangue chiama sangue nella mafia: Salvatore Scoppa viene ucciso nello Sheraton Hotel a Laval nel maggio 2019 e Andrew Scoppa sarà fatto fuori in un parcheggio a Pierrefonds-Roxboro a ottobre dello stesso anno. Nel processo contro Scarfo la Corte ha appreso come i fratelli Scoppa, della fazione calabrese, fossero sempre più interessati a consolidare il loro potere criminale e per farlo avrebbero deciso di far fuori i siciliani. La guerra di mafia tra siciliani e calabresi, anche nel suo ultimo capitolo, è ancora una guerra per il territorio, per anni dominato dai Rizzuto, e la protezione/estorsione di quel territorio.

    Non è la prima volta che a Montreal si formano quelle che le autorità chiamano le fazioni criminali siciliane e calabresi nella mafia italiana. Anzi, questa polarità sembra essere la normalità della capitale del Québec. L’ascesa al potere dei Rizzuto si è fondata su una faida coi calabresi, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

    Nel 2011, l’omicidio di Salvatore Montagna (siciliano e membro di spicco dei Bonanno di New York legato ai Rizzuto) fu l’apice di una guerra intestina all’interno del gruppo Rizzuto, in un momento in cui Vito era in carcere negli Stati Uniti, che portava ancora il segno di quella vecchia faida tra calabresi e siciliani. Per la morte di Montagna in carcere finì Raynald Desjardins, addirittura un mafioso non italiano, ma ancora molto influente a Montreal nelle fila della mafia italiana, in vari periodi opposto a Rizzuto e vicino alle fazioni “calabresi”.

    Un articolo de La Presse, giornale canadese, in cui si parla dell'omicidio di Rocco Sollecito-i-calabresi
    Una bara d’oro per Nick Rizzuto, figlio del boss Vito Rizzuto

    C’entrano poco Cosa nostra e la ‘ndrangheta

    Se l’origine del conflitto tra i Rizzuto e i Cotroni-Violi negli anni ’70 poteva essere ancora letta all’interno di dinamiche regionali – in quel magma indistinto che diventa la mafia italiana all’estero – al 2022 questo conflitto tra calabresi e siciliani non sembra più giustificabile in termini di appartenenza regionale. Chi si uccide in queste lotte di mafia sul territorio di Montreal ha di solito discendenza, ma non origine, calabrese o siciliana o italiana.

    C’entra poco Cosa nostra siciliana, molto poco anche la ‘ndrangheta calabrese, che pure esiste in Canada, con identità distinta anche se ibrida. Quando gruppi di ‘ndrangheta compaiono sulla scena – ad esempio quelli nell’area di Toronto legati ai clan di Siderno spesso di interesse delle procure antimafia italiane – non sembrano trovare in Montreal il loro campo di gioco.

    I clan mafiosi “italiani” a Montreal, e un po’ in tutto il Canada (si pensi ad esempio alla città di Hamilton e alla sua mafia doppia, mista ed eterogenea) sono molto compositi; la loro italianità è sempre negoziabile. Quando c’è origine calabrese tra i mafiosi di Montreal è di solito soltanto una questione di “luogo di nascita” e non di socializzazione o appartenenza culturale; in molti casi la migrazione dalla Calabria avviene nei primi anni di vita. Gli stessi fratelli Scoppa, dalle non meglio precisate origini calabresi, rimasero saldamente ancorati alle beghe criminali locali di Montreal, con pochi contatti, e nemmeno rilevanti, con gli ‘ndranghetisti del vicino Ontario o in Calabria, e molti contatti con gruppi libanesi, messicani, greci, a seconda del business criminale – cocaina principalmente – di riferimento.

    Vito Rizzuto, capo della Sesta Famiglia, morì a Montreal nel 2013

    Dichiararsi calabresi ha una valenza identitaria

    In questi casi, il dichiararsi calabrese, e lo stare contro i siciliani, ha una valenza identitaria. I mafiosi, per riconoscersi ed essere riconosciuti, si affidano a un capitale simbolico contestualizzato. Nel contesto di Montreal, la faida Rizzuto vs Cotroni-Violi rappresenta la resistenza al potere dei Rizzuto, ergo è ipotizzabile che chiunque voglia ripercorrere, per qualsiasi ragione, un percorso di contrasto al clan reggente, lo faccia evocando quel conflitto siciliani vs calabresi, di facile riconoscimento, e simbolico, per tutti i mafiosi, o aspiranti tali, del luogo.

    Il free-rider della ‘ndrangheta a Montreal

    Ma c’è di più in questa regionalizzazione del conflitto mafioso in Quebec. C’è infatti la sedimentazione della narrazione, passata e presente. Si può dire, in studi criminologici, che la narrazione contribuisca a creare il fenomeno criminale. La narrazione costitutiva a Montreal è sicuramente quella relativa alla potenza incontrastata dei Rizzuto e all’aura carismatica del suo leader Vito, nonostante la sua morte ormai quasi decennale.

    Eppure, Dominico Scarfo – che spesso cita il film Il Padrino, a cui forse è dovuta la sua fascinazione per il sistema mafioso – avrebbe dichiarato di appartenere alla ‘ndrangheta, sebbene non sembri avere legami strutturali con i clan di ‘ndrangheta sul territorio o fuori dal Canada. Scarfo, il cui nome denota discendenza ma non origine calabrese, è quello che potrebbe definirsi un free-rider della mafia calabrese, oggi brand vincente anche in Canada.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Domenico Scarfo in un articolo apparso sul giornale canadese La Presse

    Ecco, quindi, che alla narrazione criminale primaria se ne aggiunge un’altra secondaria, ma non meno costituente e costitutiva del fenomeno criminale: quella della ‘ndrangheta. La mafia calabrese, considerata e presentata – a torto o a ragione – come la mafia più potente in Italia e quella più presente sul panorama internazionale, costituisce un’alternativa credibile al potere dei Rizzuto. Soprattutto, proprio a Montreal, dunque può diventare una nuova bandiera identitaria per quei “calabresi” che si schierano contro i siciliani.

    Un’ultima annotazione: sottovalutare questo fenomeno dei free-riders (chi potrebbe poi smentirli!) senza dare a queste narrative il giusto peso analitico, rischia di rinvigorire sia la forza percepita della ‘ndrangheta, sia il noto stereotipo etnico sugli italiani, mafiosi all’estero. In entrambi i casi questa narrativa costituirebbe una versione distorta della realtà criminale.

    Anna Sergi

    Professoressa di Criminologia nell’Università dell’Essex