Autore: Anna Sergi

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    Caro ‘ndranghetista ti scrivo, ma da distrarsi c’è molto poco.
    Nella generalizzata incapacità analitica che caratterizza gli organi di potere e alcuni organi di stampa, italiani e non, non sorprende che a fare presagi sull’anno che verrà, quando si tratta di criminalità organizzata, ci si confonda soltanto.
    Da una parte, è ormai consolidata una retorica per cui certa parte della criminalità organizzata – primariamente la ‘ndrangheta calabrese – onnipresente e onnivora, sia praticamente indomabile. E, dunque, a che serve fare pronostici?

    Dall’altra, la difficoltà a mettere ordine tra dati, tendenze e orientamenti occasionali di mercati illeciti, che dipendono da tante variabili sovrapposte e sovrapponibili, chiama in causa i ricercatori. Che, si sa, non comunicano sempre molto bene o non sono chiamati a farlo da chi poi si occuperà di comunicazione o politiche di massa. E, dunque, come ci si può districare tra i mille dati, spesso contraddittori?

    Cinque elementi da considerare nel 2023

    Il mondo cambia poi troppo velocemente, tra pandemie, guerre, nuovi e vecchi volti della politica mondiale. E i fenomeni sociali sono un po’ come le funzioni matematiche: una scatola che collega vari elementi, in dipendenza tra loro. Se aumentano gli elementi in campo, i fenomeni sociali – sì, anche la mafia – si atteggeranno e si manifesteranno diversamente. Ma questo non ci esime, al volgere del nuovo anno, dal guardare al futuro. E, una volta tirate le somme di quello appena trascorso, da quelle somme immaginare l’anno che verrà.

    L’anno che verrà per la ‘ndrangheta è un anno schizofrenico. Come schizofrenica è la realtà che circonda clan, favoreggiatori, e tutta la popolazione che sta intorno ai clan – sia in supporto che in contrasto. Ci sono però almeno cinque elementi da considerare nel 2023, ognuno dei quali può cambiare la mafia calabrese, fermarne quanto agevolarne gli affari e il potere locale e internazionale.

    Il mercato della cocaina cambia

    Primo fra tutti, il mercato della cocaina che in questi ultimi anni – tendenza assolutamente confermata nel corso del 2022 – è sicuramente cresciuto. Cresciuta la produzione nei paesi dell’America Latina – fino a oltre 4 volte in più rispetto a cinque anni fa – e cresciuta l’importazione e il consumo in Europa. Riporta l’EMCDDA (European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction) di come siano aumentate le confische nei porti europei. E come, secondo i dati di Europol, oltre il 40% dei gruppi criminali attivi in Europa si occupi di narcotraffico, in cui la cocaina è regina. Sono tante le rotte della cocaina e ancora di più gli snodi per la distribuzione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    I trend del mercato della cocaina portano a un incremento degli attori criminali e a quella che in principio era apparsa come una frammentazione del mercato, ma che, guardando meglio, ha anche dei tratti di segmentazione. Più attori si occupano di momenti diversi nel mercato in questione (produzione, importazione, traffico, distribuzione) ma al contempo esistono più attori in generale che si occupano di quello stesso nodo. In altre parole, laddove per anni (decenni?) si è raccontata una ‘ndrangheta (indistinta) leader incontrastata nel mercato della cocaina, questa leadership è oggi sicuramente condivisa con altri gruppi criminali in Europa come nel mondo. E, soprattutto, più che una leadership si tratta di una compartecipazione con sodalizi multi-etnici e transfrontalieri.

    Ciò non significa meno soldi per i clan, ma meno potere di influenzare questo mercato criminale rispetto a quello che spesso si racconta. L’anno che verrà testerà i clan di ‘ndrangheta attivi nel mercato della cocaina. Quelli capaci di adattarsi a partnership composite e caratterizzate da cambiamenti repentini riusciranno a mantenere i profitti e margini di manovra. Altri invece, se arrancheranno in questi sodalizi, dovranno pensare a piani B.

    Classici intramontabili

    Da non sottovalutare poi, in seconda battuta, il cambiamento che nuove partnership e sodalizi di diversa natura, origine e destinazione, possono poi portare per i vari clan mafiosi calabresi. A caratterizzare l’anno che verrà sarà una diversificazione interna alle ‘ndrine. Aspettiamoci i gruppi criminali storici, dalla Piana all’Aspromonte, impegnati a mantenere il proprio potere locale ‘chiudendosi’ nelle loro pratiche storicamente vincenti, dalle estorsioni all’assistenza locale o anche alla ‘beneficienza’ mafiosa. Questo potere locale non sempre direttamente collegato al potere affaristico internazionale, ma indirettamente a esso propedeutico, permetterà la sopravvivenza e il superamento delle ‘intemperie’ portate dal mutamento dei mercati criminali e dall’attività delle forze dell’ordine.

    Il brand ‘ndrangheta

    Aspettiamoci però anche clan più ‘spuri’, nuovi o di nuova ‘gestione’ che si attaccheranno al brand ‘ndrangheta perché conviene, ma che della ‘ndrangheta non sempre avranno pedigree, (finti) onori e disonori. Lo abbiamo visto nel 2022. E lo vedremo molto probabilmente nel 2023: clan dai cognomi (calabresi) semi-sconosciuti, impegnati in attività locali, che cercano (e spesso ottengono) di ‘diventare’ ‘ndrangheta in Calabria come altrove, per fare salti di qualità possibili solo con un brand forte. Questi ultimi piacciono tanto a certi media o a forze dell’ordine poco avvezzi a farsi domande sul “controllo qualità” nel crimine organizzato mafioso.

    Tradizione e innovazione

    Nuovi e vecchi mercati, recenti e soliti attori, altro non sono che la conferma della tendenza numero tre, che esiste da sempre nella mafia calabrese (e non solo): la tensione tra tradizione e innovazione. Le nuove generazioni di ‘ndranghetisti – proprio come le nuove generazioni di non ‘ndranghetisti in Calabria – alternano consuetudini e mutamento. Il passato, la memoria, la reputazione e la storia dei clan sono parte della pedagogia della mafia e del suo potere sul territorio.

    Ma il business, il denaro, i cambiamenti tecnologici, richiedono menti abili a gestire il cambiamento, a usare telefoni criptati (pensiamo a Encrochat, SKYECC, AN0M) quanto a parlare le lingue, a ‘leggere’ la realtà dei mercati, a sapersi godere la vita senza dare nell’occhio nell’era dei social. Insomma, l’anno che verrà testerà le famiglie di ‘ndrangheta come tante altre famiglie: sapranno i figli fare meglio dei padri, e allo stesso tempo con altrettanto successo?

    La cooperazione internazionale

    Da ultimo, da non sottovalutare sono altre due tendenze che riguardano il mondo dell’antimafia e del contrasto ai traffici illeciti internazionali. Sicuramente il mondo della cooperazione internazionale ha recentemente messo la ‘ndrangheta al centro come forse si era fatto in passato solo con cosa nostra tra Sicilia e Stati Uniti e con altri clan, come il cartello di Cali in Colombia. Interpol con la sua unità I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta) colleziona arresti eccellenti, come Rocco Morabito, e operazione transfrontaliere antidroga e antiriciclaggio, come quella che ha portato all’arresto di tre donne polacche accusate di aver facilitato clan mafiosi nell’est Europa nel dicembre scorso.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Europol non è da meno, con operazioni imponenti, coordinate spesso con Eurojust, la procura europea, della portata di Petrolmafie, nel 2021, ma anche indagini nazionali, specialmente quando si tratta di grosse quantità di stupefacente, come nel caso di oltre 4 tonnellate di cocaina a Gioia Tauro nell’ottobre 2022.

    Se da una parte questa è cosa buona e giusta, non sempre è fonte di salvezza: l’elevazione della ‘ndrangheta a minaccia globale porta anche con sé il germe dell’incomprensione del fenomeno tra media e autorità estere e del suo conseguente ‘annacquamento’ su scala globale. Si perdono di vista le specificità dei clan e si favorisce un discorso generico e di facile consumo.
    Nell’anno che verrà ci si può aspettare sia l’aumento dell’incomprensione che dell’annacquamento su scala transnazionale, ma anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di raggiungere capitali e latinanti in giro per il mondo, e di coordinare risposte di contrasto.

    Mafie e Governo Meloni

    Last but not least, come si dice, ultimo ma non per importanza, si deve fare riferimento alla schizofrenia nazionale in tema di contrasto alla mafia, a firma del governo Meloni (e in parziale continuità con altri governi precedenti). Alzare il tetto del contante da un lato, il condono del reato di evasione fiscale dall’altro (della serie se lo stato scopre che non paghi le tassi te le fa pagare ma ti condona il reato), l’auspicato e temuto programma di limitazione delle intercettazioni e dell’abolizione dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, nonché la riforma delle prescrizioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione, sono tutti punti in agenda di questo governo che nel 2023 rischiano di tradursi in politiche di matrice regressiva sul fronte della lotta alla mafia e alla corruzione, e che facilitano l’illegalità e l’informalità degli scambi illeciti.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Se da una parte la legge di bilancio e i provvedimenti annunciati accrescono le disuguaglianze sociali e portano solo più pressione proprio in quelle aree del paese che di più hanno bisogno di politiche di sviluppo, l’europeismo di facciata del governo Meloni non aiuterà a combattere quella tendenza che è al cuore della mafia, e soprattutto della mafia calabrese, e cioè lo sfruttamento dei canali dell’economia legale, nazionale e non, per ripulirsi dalla sporcizia dei reati di droga e di estorsione.

    Repressione e voti

    In altre parole, è conveniente e populisticamente efficace iniziare il 2023 dicendo che la ‘ndrangheta è potenza europea e internazionale, e dunque ha bisogno di una risposta efficace in Italia e di cooperazione con tutti i paesi dell’Unione e oltre. Aiuta a creare paura questa retorica, nutrita di orgoglio in negativo per la mafia più potente del mondo; questo, in seguito, aiuterà ad attirare voti in favore della repressione. Ma se poi in pratica si vanno a indebolire proprio quegli strumenti nazionali che permettono di intercettare la crescita economica di quei clan che hanno la fortuna di avere successo nei mercati illegali mondiali, ecco che allora l’anno che verrà in fondo per questa mafia così drammatico – almeno in casa – potrebbe non essere.

    Di certo, l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, e quelli che oggi sono solo tendenze e pronostici potranno essere dati più o meno riscontrati o smentiti dai fatti. Ma c’è poco da rilassarsi.

  • MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

    MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

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    Quando un giorno di dicembre ci si sveglia con i titoli dei giornali della seguente tipologia “Estorsioni a Manhattan: 18 arresti nel crotonese”, ci si aspetta – prima ancora di capire di che notizia si tratti – che gli arresti del crotonese siano collegati ad arresti a New York. Oppure che ci sia evidenza di estorsioni da parte di soggetti del crotonese a Manhattan. Suona un po’ inusuale, ma sicuramente sarebbe una gran notizia. Ma cosa significa che la ‘ndrangheta, un qualche clan di ‘ndrangheta, effettua estorsioni a Manhattan? Il 19 dicembre, una volta uscita la notizia, dettagli su estorsioni a Manhattan non compaiono né sui giornali né nelle carte dell’operazione. Men che meno tra le notizie americane: non ci sono arresti, indagini, niente di niente, a New York.

    Il 19 dicembre, gli arresti a Rocca di Neto sono tutti concentrati sulla realtà crotonese. Nel corso di quel giorno, aspettando documenti dalle procure e giornalisti che iniziano a raccontare la vicenda, si comprende che gli arresti a Rocca di Neto sono legati ai clan mafiosi, di matrice ‘ndranghetista, e soprattutto alla famiglia Comito-Corigliano, legata a doppio filo al gruppo mafioso Iona-Dima e al locale di Belvedere Spinello, oggetto di plurime risultanze processuali sin dagli anni ’80, «coordinato e diretto da Iona Guirino dal carcere il quale agiva anche all’esterno mandando direttive (tramite il figlio Iona Martino) ai sodali» come si legge già in una sentenza del Tribunale di Crotone già nel 2006.

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    Rocca Di Neto, teatro della recente operazione della Dda di Catanzaro

    Le relazioni pericolose

    Negli atti dell’operazione, riportati su Il Fatto Quotidiano a firma di Lucio Musolino, poi su altri canali nazionali e locali, fino al giorno di Santo Stefano con ulteriori dettagli da Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud, si legge poi che è proprio al clan Iona di Belvedere Spinello e al clan Corigliano di Rocca di Neto, che farebbero riferimento alcuni soggetti dimoranti da tempo a New York e particolarmente nell’area di Long Island. Si tratta di soggetti attenzionati dall’FBI di New York, per ora a livello investigativo, come Teodoro Matozzo, detto Terry, coinvolto con la criminalità organizzata locale – famiglie Gambino e Colombo si dice – e garante dei servizi in tema di estorsioni a un imprenditore newyorkese.

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    Uno scorcio suggestivo della Grande Mela, dove la ‘ndrangheta prospera grazie a Cosa Nostra

    Matozzo, ponte tra la criminalità locale e alcune nuove (e vecchie) leve calabresi a New York, avrebbe incaricato il gruppo criminale calabrese dei rocchitani di compiere ulteriori estorsioni a danno di imprenditori residenti nello Stato di New York, dopo un’estorsione andata a buon fine. Tale gruppo e il loro piano estorsivo sono diventati dunque oggetto di indagine da parte dell’FBI dal marzo del 2020 – in collaborazione con le nostre procure antimafia tramite I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta) e avevano portato anche a osservare le relazioni tra altri soggetti negli Stati Uniti, lì dimoranti o in visita.

    Estorsioni e unità a New York

    Tra questi, Ernesto Toscano, di Rocca di Neto, che grazie a Matozzo aveva iniziato a frequentare New York con vari intenti, alcuni dei quali criminali, come ad esempio cambiare assegni a nome di una società locale appartenente ad alcuni “amici” per liquidità pari a quasi un milione di dollari. Tra chi ha un negozio di compro-oro e cambio-assegni, e chi gestisce imprese di pitturazione o imprese edili, la comunità della zona della Valle del Neto fa cerchia e sostiene i conterranei, vecchi e nuovi. Molti dei soggetti menzionati in questa operazione e indagine hanno business o dimora nelle zone di Franklin Square e Glen Cove, nella Nassau County a Long Island – a est di New York City.

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    Una mappa di New York e Long Island

    Insomma, dicono le carte e raccontano i giornalisti che in questa operazione e indagini collegate, grazie al coinvolgimento dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia americano, si conferma «l’esistenza di un gruppo unitario di ‘ndrangheta operante nell’area di Long Island, direttamente riferibile ai clan Corigliano di Rocca di Neto e Iona di Belvedere Spinello». Ma, dunque, cosa significa che la ‘ndrangheta di Belvedere Spinello e Rocca di Neto, ‘offre’ estorsioni a Manhattan?

    La ‘ndrangheta come manovalanza di chi comanda davvero

    Di base, significa, che questa ‘ndrangheta viene usata come manovalanza per organizzazioni criminali autoctone – principalmente famiglie di Cosa nostra americana – che si ritengono, o sono ritenute, superiori, al punto da poter commissionare ai rocchitani i servizi di racketeering, cioè protezione ed estorsione. È dunque una ‘ndrangheta riconosciuta in territorio statunitense, sebbene criminalmente – nella gerarchia del crimine organizzato – su un gradino inferiore.

    Si parla spesso di ‘ndrangheta globalizzata, come se fosse in qualche modo quasi un “merito” della criminalità organizzata calabrese riuscire a inserirsi in altre realtà criminali e non. E ancora ci si sorprende che l’antimafia italiana e l’FBI facciano operazioni di contrasto comuni (ricordiamo che in realtà ciò accade dai tempi di Pizza Connection con Giovanni Falcome…). Ma da un punto di vista analitico si sa che la globalizzazione del crimine organizzato è effetto collaterale della mobilità del capitalismo: mobile è il capitale, mobile è l’individuo, mobile la comunicazione, mobile è anche l’azione di contrasto.

    È dunque da considerarsi normale – nel senso di atteso, previsto e prevedibile – sia che clan mafiosi facciano affari all’estero, sia che le autorità si adoperino per cooperare e stopparne le attività. È da considerarsi normale attività da mondo globalizzato che si utilizzino le asimmetrie giudiziarie e finanziarie tra Stati Uniti e Italia per spostare i soldi da una parte all’altra e ricavarci qualcosa anche illecitamente. Normale è che da New York si telefoni a Catanzaro sperando di riuscire a coordinare indagini e azioni di polizia.

    Controllo del territorio a New York

    Ma in questo caso a New York ci sono le estorsioni, che non sono “banali” attività criminali da mafia globalizzata. Non si tratta qui solo di iniziative di sfruttamento di contesti diversi e opportunità illecite e di arricchimento all’estero – che pure ci sono. Le estorsioni a imprenditori locali nella città statunitense (effettive o tentate) denotano un certo grado di controllo del territorio – fisico quanto virtuale o settoriale – e soprattutto un gruppo che sul territorio vuole rimanere e si dimostra intraprendente.

    Matozzo e i suoi sodali, per quanto nati in Calabria, questo controllo sembrano avercelo o mirano a consolidarlo perché sono americani sia nello spazio di azione che per la loro rete relazionale. Vengono definiti gruppo di ‘ndrangheta per origini e per collegamenti alla Calabria, ma di fatto sono molto di più. È il loro essere non solo calabresi, ma anche e soprattutto newyorkesi, a renderli capaci di sfruttare al meglio le varie sfaccettature dei possibili scenari illeciti.

    Più americani che calabresi

    Non è il loro essere ‘ndrangheta – qualunque cosa questo implichi – a renderli capaci di offrire servizi di racketeering; è grazie alla dimestichezza con l’economia legale della città americana e ai contatti con le famiglie criminali di Cosa nostra americana che questo gruppo di migranti riesce a cooptare calabresi sbarcati oltreoceano con visto turistico da impiegare in non meglio precisate attività, tra cui verosimilmente lavoro in nero e/o manovalanza criminale in varie aree della Grande Mela. Ad esempio, parrebbe che il gruppo avesse ideato la possibilità di estorcere imprenditori grazie anche all’attività (legale) della moglie di Matozzo, riconosciuta dalle Camere di commercio newyorkesi.

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    Le cinque famiglie di Cosa nostra amaericana (foto Marianne Barcellona, Irpimedia)

    C’è poi un altro dato da considerare in questa vicenda. L’elemento interessante per l’analisi dei fenomeni criminali in questo caso riguarda soprattutto l’assetto criminale della città americana. A New York – come già detto – non può entrare la ‘ndrangheta dalla Calabria a gamba tesa, o chiunque altro, se non per offrire servizi necessari per il crimine organizzato, ma di “derivazione” o su “commissione” di gruppi locali già radicati – protezione, estorsione, distribuzione di sostanze stupefacenti. Esiste un brand più forte, quello di LCN (La Cosa Nostra – americana) con le cinque famiglie, Gambino, Genovese, Colombo, Bonanno, Lucchese che sopravvivono (a fatica, comunque) grazie a un’identità acquisita e consolidata da decenni, a cui gli altri, italiani e calabresi arrivati oggi come 40 anni fa, si legano.

    In trasferta è un’altra cosa

    I cinque cognomi – intorno a cui FBI e NYPD (New York Police Department) organizzano il loro lavoro da oltre quarant’anni – sono ormai cognomi tipici dei casati reali, non più indicativi della loro leadership (non c’è un Genovese a capo o nelle fila della famiglia Genovese per dire) ma chiaramente riconoscibili da esterni e interni. Che un gruppo di calabro-americani possa offrire servizi di protezione ed estorsione ad affiliati di una o più delle cinque famiglie, conferma che i clan calabresi – quelli in Calabria – sanno giocare la partita, sanno adattarsi ai campi da gioco, vogliono giocare fuori casa, ma non sempre sono i campioni in carica nelle trasferte.

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    E ci fa riflettere sul fatto che anche quando si tratta di attività che riguardano il territorio – tipo le estorsioni – la presenza e la partecipazione della ‘ndrangheta all’estero è dipendente dagli assetti criminali locali: sono effetto della globalizzazione la mobilità e la fama della mafia calabrese, ma non il successo oltremare.

  • MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    Gli arresti di ‘ndrangheta a Rocca di Neto del 19 dicembre hanno fatto parlare anche per la collaborazione tra le forze di polizia italiane e quelle statunitensi. L’FBI avrebbe infatti fornito delle informazioni cruciali per l’operazione crotonese su legami tra presunti ‘ndranghetisti e controparti newyorkesi.
    Di questa operazione, una volta chiariti i dettagli, si potrà parlare più specificatamente. Perché sì, la ricerca accademica – condotta sia sul campo che su fonti aperte – può fornire analisi del caso e degli scenari a esso connessi che non sempre le notizie di cronaca possono mettere in luce. Eppure, questo bacino di conoscenza che la ricerca scientifica offre, non è, in Italia, considerato sistematicamente nella produzione di conoscenza istituzionale.

    La Commissione Antimafia si congeda

    Che a molte autorità e istituzioni italiane non piaccia la ricerca è forse un dato che non fa notizia. Ma quando questa ignoranza volontaria diventa ragione per missioni istituzionali, che oltre ad avere un costo elevato, producono risultati banali e superficiali, bisognerebbe forse chiedersi cosa ci sia alla radice di questo difficile rapporto con la ricerca. È questo il caso degli ultimi rapporti della Commissione Parlamentare Antimafia uscente, che, a differenza di alcune Commissioni passate e nonostante il potenziale valore compilativo, deludono ricercatori e addetti ai lavori.

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    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E mentre aspettiamo le nomine per una nuova Commissione, usiamo questi ultimi momenti del 2022 per fare un bilancio di quella appena morta e che per gli ultimi 4 anni ha portato avanti – o avrebbe dovuto portare avanti – il lavoro di ricerca, analisi e disseminazione sul fenomeno delle mafie e dei fenomeni a esse collegate in Italia.
    Sicuramente il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia, istituita nel 1963, ha un ruolo di rilievo; una voce istituzionale – a volte più sommessa, a volte urlante – che negli anni ha contribuito a sistematizzare la conoscenza sulla criminalità organizzata nel nostro paese e punto di riferimento dall’estero per qualunque forza politica e autorità voglia un confronto sul tema.

    Passato e presente

    Gli archivi della Commissione sono poi tesoro inestimabile per ricercatori e addetti ai lavori. È la continuità della memoria storica che la Commissione rappresenta a darle, oltre ai singoli lavori e rapporti, il suo valore istituzionale, legislatura dopo legislatura. È ruolo della Commissione, infatti, oltre a preservare la memoria istituzionale, anche dare nuovi indirizzi per analisi innovative.
    La Commissione può arrivare laddove molte ricerche non possono arrivare, o non possono arrivare in breve tempo. Questo vantaggio fa sì che in passato alcuni lavori della Commissione – ad esempio quella presieduta da Rosy Bindi, che ha prodotto rapporti innovativi e fruibili come quello su Mafia e Massoneria – siano diventati punti di riferimento e di partenza, nonché spunti di ricerche, per gli anni a venire.

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    Una seduta della Commissione Antimafia ai tempi in cui a guidarla era Rosy Bindi

    Ecco perché, quando una Commissione Parlamentare Antimafia uscente pubblica la sua relazione di chiusura – approvata, in questo caso, quest’estate ma resa pubblica solo in autunno nei suoi contenuti – il ricercatore va a leggerla con aspettative e attenzione.
    Ma che succede se il ricercatore o la ricercatrice in questione si dimentica di avere comunque a che fare con forze politiche, fatta di politici – quelli degli ultimi anni poi – e non di esperti? E se poi si dimentica di alcune vicissitudini personali di alcuni membri della Commissione in questi anni, che hanno ‘distratto’ dal lavoro? Ecco, il ricercatore o la ricercatrice potranno effettivamente rimanere delusi.

    Niente di nuovo sul fronte criminale (o quasi)

    Nei rapporti che compongono la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia uscente al dicembre 2022, c’è davvero poco di nuovo. Anzi, non c’è praticamente nulla di nuovo. Fatta eccezione per il valore della sistematizzazione di alcuni fatti da un lato – ad esempio la relazione sulla visita nei distretti di Catanzaro e Vibo Valentia, in seguito alla risonanza mediatica del processo Rinascita-Scott – e l’attenzione posta su alcuni temi – si veda il rapporto su criminalità organizzata e porti, a seguito dei sequestri di cocaina o a processi che guardano (ancora!) al rapporto tra mafia e massoneria – il contenuto analitico di questi rapporti rimane superficiale.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Eppure, si tratta di rapporti spesso molto densi: quello sui porti è lungo 65 pagine ed è il risultato di una serie di interviste con forze dell’ordine e presidi di sicurezza portuale. Nessuna menzione della ricerca accademica, che, per quanto non nutritissima sul tema di criminalità in ambito portuale, si è focalizzata proprio sui due porti di cui la Commissione si è occupata, Genova e Gioia Tauro con dati spesso più ‘freschi’ di quelli analizzati dalla Commissione.

    A che pro?

    Insomma, un occhio attento vede tre caratteristiche ricorrenti in questi rapporti:

    • la ‘rincorsa’ del tema del momento;
    • l’assenza di analisi indipendente;
    • l’assenza di coinvolgimento della ricerca.

    Tra l’altro, emerge chiaramente che c’è un problema con l’accademia: solo 2 le audizioni di docenti universitari dichiarate dalla Commissione (a fronte di 18 magistrati e 17 funzionari pubblici per esempio), sui temi dell’usura e sui risultati di una ricerca compilativa, sicuramente utile per la Commissione ma poco utilizzata nella pratica, L’Università nella lotta alle mafie.

    Emerge una questione cruciale: quale valore hanno missioni e rapporti di approfondimento su temi specialistici che ignorano lo stato dell’arte della ricerca, sia accademica sia di ricognizione sistemica delle fonti aperte, sui temi prescelti, quando i risultati che si ottengono da tali missioni e per questi rapporti si rivelano datati, carenti e soprattutto non dicono niente di nuovo?

    La Commissione Antimafia sbarca in America

    Prendiamo – nell’ambito dei lavori svolti dalla Commissione uscente – proprio la relazione sulla missione a New York e a Washington dal 13 al 18 gennaio 2020. La relazione è di 27 pagine. Si prefigge, come detto nella sua introduzione «un obiettivo conoscitivo» sui «profili generali concernenti il tema della presenza, negli Stati Uniti, di insediamenti della criminalità organizzata di origine italiana, nonché dei rapporti tra la criminalità organizzata locale e quella del nostro Paese». Altri obiettivi erano «analisi e valutazione dello stato di evoluzione della cooperazione giudiziaria e delle relazioni intercorrenti tra autorità italiane e statunitensi, con specifico riferimento alla materia della criminalità̀ organizzata».

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    La Commissione Parlamentare Antimafia all’ONU presso la missione italiana (Foto Twitter @ItalyUN_NY)

    C’erano poi obiettivi di discussione più specifica sulla legislazione di contrasto al terrorismo e sull’attuazione e aggiornamento della Convenzione ONU di Palermo del 2000, contro la criminalità̀ organizzata transnazionale. Cinque giorni intensi per la delegazione italiana della Commissione, in visita alla DEA (Drug Enforcement Administration), all’FBI (Federal Bureau of Investigation), al Department of Justice. Un tour proseguito incontrando procure specializzate tra Washington e New York, per finire con la Rappresentanza permanente italiana presso l’ONU.

    Nelle puntate precedenti

    Quali i risultati di questo viaggio alla scoperta dell’America? Innanzitutto, una descrizione di come funzionano le autorità statunitensi e soprattutto un’analisi della legislazione sia penale che patrimoniale contro il crimine organizzato. E fin qua, si potrebbe anche dire che sia un esercizio compilativo utile, sebbene si potesse, ovviamente, fare comodamente da casa, sui libri scritti sull’argomento e sui siti web appositi.
    Il resto è un riassunto delle puntate precedenti. La DEA che riassume i suoi rapporti annuali – a consultazione aperta sul web – comunicando le ultime novità in merito a chi traffica cosa e soprattutto chi ricicla denaro: informazioni ancora una volta ricavabili da fonti aperte da un qualunque ricercatore.

    Con altre autorità, soprattutto le procure, si parla di casi negli anni precedenti. L’arresto di Ferdinando “Freddy” Gallina, latitante palermitano vicino a Matteo Messina Denaro, a New York nel 2016, per esempio. Oppure le operazioni New Connection, New Bridge, tra il 2011 e il 2014 e Columbus nel 2015, che hanno riguardato indagini sulla famiglia Gambino in Sicilia e in USA e arresti di soggetti residenti a New York connessi alla ‘ndrangheta. O, ancora, operazioni locali contro le cinque famiglie newyorkesi (Bonanno, Lucchese, Colombi, Gambino e Genovese).

    Basso profilo is the new basso profilo

    L’FBI ha poi confermato «un vero e proprio ruolo di superiorità gerarchica che la mafia di New York esercita rispetto alle altre organizzazioni criminali diffuse sul resto del territorio nazionale», altro fatto decisamente noto alla ricerca. Alle organizzazioni criminali italiane si attribuisce un “nuovo” trend – che nuovo non è per niente, basta chiedere a chiunque si occupi del tema – che sarebbe quello di mantenere un basso profilo, senza violenza.
    Si ritiene rilevante – definito «impressionante» – «il numero di siciliani aventi legami con organizzazioni mafiose che ogni anno compiono viaggi nella città di New York», anche questo fatto noto. Soprattutto, già rilevato in connessione al porto di New York.

    ‘Ndrangheta, molto rumore per nulla

    E poi c’è la ‘ndrangheta, ovviamente, immancabilmente. Ancora una volta molto rumore per nulla, però.
    La Commissione ha sentito di come clan di ‘ndrangheta siano stati accertati a New York (Commisso, Aquino- Coluccio, Mazzaferro, Piromalli). Non sorprende, visto che il cosiddetto Siderno Group of Crime è attivo tra Stati Uniti e Canada da oltre mezzo secolo.
    Operazione Provvidenza, poi, aveva dato dettagli sulla presenza dei clan della Piana in un business di prodotti Made in Italy verso gli Stati Uniti nel 2017.
    Che la ‘ndrangheta abbia attivato collaborazioni con le cinque famiglie newyorkesi è anche roba vecchia. Tale collaborazione di fatto esiste da quando il Siderno Group è attivo, come ha fatto plurime volte notare negli anni la Waterfront Commission per il porto di New York e New Jersey.

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    Il porto di New York

    Questo porta poi a raccontare che tali clan di ‘ndrangheta mantengono rapporti con il Canada e con altri gruppi sul territorio, ad esempio in California. Laddove la ricerca sulla ‘ndrangheta in Canada è notoriamente avviata da decenni, la California sembrerebbe dato nuovo, Ma può leggersi nella più ampia considerazione che tra le 5 famiglie almeno una, i Gambino, sono notoriamente legati a Los Angeles e che i collegamenti tra clan sidernesi e i Gambino sono anche li, notoriamente avviati.

    Da ultimo, la Commissione in America ha fatto il punto sulla collaborazione internazionale e sullo stato dell’arte della normativa penale legata alla Convenzione di Palermo e alla possibilità di attivare non solo arresti, ma anche sentenze e pene transfrontaliere.
    Anche stavolta la ricerca a livello europeo è molto attiva a riguardo. E conforta forse vedere come la Commissione arrivi a risultati in fondo simili: le raccomandazioni sulle squadre investigative comuni, sullo scambio di informazioni, sulla formulazione di indirizzi di pena comuni e via discorrendo.

    Commissione Antimafia impreparata?

    Probabilmente molte più cose avranno ascoltato i membri della Commissione Antimafia in missione negli Stati Uniti, cose che non sono scritte in questo rapporto.
    Il problema non è solo di “risultati” scritti, ma di capacità analitica: se non c’è preparazione a monte, come si fa l’analisi dei dati a valle? Se non si assorbe la conoscenza già in circolazione, come si può davvero elaborare la nuova conoscenza?

    E dunque il dubbio ab origine: sono necessarie queste missioni, che di nuovo non solo non dicono nulla, ma mostrano – urlano – con chiarezza l’assenza di interazione con ricerca sul tema e con la conoscenza pregressa che dovrebbe essere la base per tutti gli interessi di approfondimento politico e istituzionale?
    Alla luce anche dell’operazione di Rocca di Neto, questo porta a un’ulteriore dolorosissima domanda: come possono le forze politiche del nostro paese commentare, intervenire, direzionare il discorso pubblico sull’argomento, se di questo argomento sanno solo notizie di seconda mano raccolte in missioni di 5 giorni?

    Errori da non ripetere

    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E speriamo che gli errori dei padri non ricadano sui figli. E che magari, oltre a fare le audizioni di qualche sparuto collega accademico, si scelga – che so – di creare una unità di ricerca più strutturata, capace di ricerca su fonti aperte, in lingue diverse, e già pubblicate (che già aiuterebbe) e anche collegata con chi sul campo – sui campi – della ricerca sulla criminalità organizzata ci sta da anni.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    Cento anni fa la nave Re d’Italia lasciava il porto di Genova e il 18 dicembre 1922 arrivava al porto di Fremantle, borgo marino vicino a Perth, la capitale dell’Australia Occidentale. Da Fremantle, la nave proseguì poi verso Adelaide, nell’Australia Meridionale, poi verso il Nuovo Galles del Sud, a Sydney, e infine a Melbourne, nello stato di Victoria nel nuovo anno (1923). In ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì).

    Front Page King of Italy, National Archives of Australia

    Australia: la ‘ndrangheta più longeva del mondo

    Cosa avevano in comune questi tre soggetti? E perché ne spulciamo ancora nomi e dati negli archivi nazionali a Canberra? Antonio Macri(ì) avrebbe fondato il locale di Perth; Domenico Antonio Strano rimarrà nel nuovo Galles del Sud, dove, si dice, morirà nel 1965 con funerali sontuosi. Infine, Antonio Barbara(o) conosciuto come The Toad (il Rospo), sceso ad Adelaide, si sposterà a Melbourne dove sarà una figura singolare nel mondo criminale cittadino. La relazione di una squadra d’indagine guidata da Colin Brown nel 1964 per l’Australian Security Intelligence Organisation e intitolato The Italian Criminal Society in Australia dirà che è proprio con la Re d’Italia che arrivò l’Onorata Società down under, in Australia. Tutti e tre i nostri uomini sono conosciuti – o meglio raccontati – come i fondatori della ‘ndrangheta in Australia. La ‘ndrangheta d’esportazione più longeva del mondo.

    Una pagina del report firmato da Brown

    Three is a magic number

    Chi conosce anche solo le basi della mafia calabrese avrà già forse sorriso. Tre sono i cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero fondato la mafia in Italia partendo proprio dalla Calabria. Sempre tre sono gli individui della ‘copiata’ nei locali di ‘ndrangheta: il contabile, il capo-locale e il capo-crimine che insieme gestiscono le doti sul territorio. Così come tre sono i mandamenti della ‘ndrangheta reggina che confluiscono nella Provincia. E tre sono anche i personaggi su cui giura(va)no i Santisti: Garibaldi, Mazzini, La Marmora. Insomma, nella numerologia della ‘ndrangheta, (e non solo) il numero tre è trinità e fa storia quanto leggenda.

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    Osso, Mastrosso e Carcagnosso

    Tra storia e leggenda

    Come in tutte le leggende, anche in quella della fondazione della ‘ndrangheta in Australia c’è un fondo di verità storica, oltre all’arrivo comprovato della nave Re d’Italia nel 1922. Le storie su Antonio Barbara(o), per esempio, ci raccontano di come appariva la ‘ndrangheta dei primordi a Melbourne. Barbara(o) fu arrestato varie volte a Melbourne: nel 1926 per stato di ubriachezza; nel 1929, per aggressione; nel 1936, per la vendita di alcolici senza licenza. Per tutti questi reati fu condannato a pagare pene pecuniarie o scontare qualche settimana di carcere, ma nel 1937 fu condannato a 5 anni per omicidio colposo di una donna vicino al Queen Victoria Market, noto mercato di frutta e verdura della città.

    È arrivato un bastimento carico di… calabresi

    Non è inusuale, soprattutto in quegli anni, che l’Onorata Società si faccia vedere con reati contro l’ordine pubblico, e l’escalation fino all’omicidio sarebbe in linea con il profilo di uno ‘ndranghetista in crescita. Barbara(o), infatti, si dedica anche ad altre attività più “organizzate”. Ad esempio, gli archivi ci raccontano che ‘il Rospo’, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva ideato un sistema fraudolento per far arrivare alcuni suoi conterranei dalla Calabria, Platì e zona aspromontana per la precisione, verso l’Australia. Lavorando in un ufficio per l’immigrazione, utilizzava nomi di Italiani già sul territorio per contraffare richieste di sponsorizzazione, senza che questi lo sapessero.

    Il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia

    Ma Barbara(o) il Rospo è coinvolto anche in quello che, molto probabilmente, è il primo omicidio legato alla ‘ndrangheta in Australia; si tratta dell’omicidio di Fat Joe (Joe il Grasso) Versace, i cui documenti giudiziari sono stati desecretati solo nel 2020, 75 anni dopo. Siamo in una sera d’ottobre del 1945 nel quartiere Fitzroy di Melbourne. Quattro uomini stanno giocando a carte e bevendo birra a casa di Antonio Cardamona: Michele Scriva, Giuseppe Versace, Domenico De Marte e Domenico Pezzimenti. Tutti immigrati calabresi, tutti impiegati in attività del mercato di frutta e verdura. In seguito a una lite, Pezzimenti avrebbe attaccato Versace con un coltello. Novantuno ferite, alcune post mortem; una ferocia bestiale, l’avrebbe definita il coroner.

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    La morte di Fat Joe Versace sulle pagine di The Truth del 4 novembre 1945

    Una questione di donne?

    Sembra essere una questione di donne. Honneth Edwards era la compagna di Joe Versace, e sua sorella Dorothy Dunn era uscita un paio di volte con Pezzimenti, il quale però l’aveva insultata dicendole che «puzzava più di sua sorella». Dorothy e Honneth si sarebbero dunque lamentate con Joe e tanto sarebbe bastato per far iniziare una lite tra i due uomini. Dopo l’omicidio, Cardamone prima, Pezzimenti e De Marte poi, decisero di andare a raccontare quanto avvenuto alla polizia – accusando principalmente Pezzimenti di aver colpito Versace, ma allo stesso tempo confermando che era stata auto-difesa.

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    Antonio Barbaro riconosce il cadavere di Fat Joe Versace. Il documento riporta anche i suoi precedenti penali in Australia

    Scriva venne intercettato poco dopo a casa sua, intento a lavar via il sangue dai vestiti. Versace, dissero i tre calabresi, era notoriamente un poco di buono, un uomo violento e spesso in possesso di armi, era uno che portava guai. Tra le sue frequentazioni c’era Antonio Barbara(o). Sarà proprio lui, il Rospo, uscito dal carcere da poco in seguito alla sentenza per omicidio, a identificare Versace all’obitorio. Aveva lavorato con Versace e i due erano amici.

    Confessioni che non tornano

    Ci sono però varie cose che non tornano in questo caso. Innanzitutto, colpisce lo zelo delle confessioni: in quel periodo i calabresi, e gli italiani più generalmente, non erano molto in confidenza con le forze dell’ordine australiane; spesso vittime di discriminazione e ancora più spesso di pregiudizio, la comunità migrante era notoriamente reticente in quegli anni a collaborare con la giustizia, figuriamoci a farlo volontariamente. Inoltre, le confessioni sembrano in qualche modo artefatte, soprattutto perché non spiegano come sia stato possibile che, da una semplice lite tra due uomini, si fosse arrivati al corpo della vittima sfigurato, «con lo stomaco di fuori, e con larghe ferite sulla faccia e sulla testa», per citare le annotazioni dei detective. Queste ferite sanno di punizione precisa. E poi, il sangue trovato sugli abiti di Scriva e degli altri suggeriscono che probabilmente tutti i presenti erano intervenuti nella lotta.

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    Una foto scattata sulla scena del delitto

    Il Rospo, il Papa e la ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, che fosse un’escalation di violenza dovuta a una rissa per donne, o che ci fossero altre motivazioni alla base di tale lite, fatto sta che la presenza di Barbara(o) a sancire la morte di Versace non sembra casuale. Antonio Barbara(o) da lì a poco diventerà uno degli uomini più (ri)conosciuti dell’Onorata Società a Melbourne. Partner del capo Domenico Italiano, detto il Papa, e fino alla morte di entrambi nel 1962, questo gruppo mafioso cittadino sarà responsabile di una serie di eventi violenti, estorsivi, fraudolenti e legati a questioni di “onore” all’interno di una ristretta comunità di calabresi che lavorava nel mercato ortofrutticolo.

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    1962, I funerali di Domenico “The Pope” Italiano

    Alla morte di Italiano e di Barbara(o) e nel vuoto di potere che essi lasciarono, scatterà una guerra di mafia, meglio conosciuta come The Queen Victoria Market Murders – gli omicidi del mercato Queen Victoria. La ‘ndrangheta delle origini, dalla Re d’Italia, era ormai cresciuta. Ma questa, e per i decenni a venire, è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

    MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

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    Nella prima settimana di dicembre, due eventi ci raccontano le ‘ndranghete d’Europa. Al plurale, le ‘ndranghete, perché se non si guardano tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale (e sociale) e ci si accontenta della conclamata ‘ndrangheta unitaria – versione da processo necessaria quanto incompleta in realtà – non se ne capisce l’evoluzione. In Europa, in questi primi giorni di dicembre, c’è una storia sulla ‘ndrangheta austriaca impegnata (parrebbe) nel riciclaggio di denaro e una storia sulla ‘ndrangheta imprenditrice della cocaina coinvolta con una rete di importazione tra le più influenti degli ultimi anni. Che differenza e che rapporto c’è tra queste ‘ndranghete? E soprattutto, che ruolo hanno queste ‘ndranghete nei più ampi mercati (criminali) europei?

    I clan e il made in Italy: l’ultimo caso in Austria

    Andiamo con ordine. Entrambi gli eventi appaiono sui giornali il 6 dicembre. Quel martedì, di mattina, i giornali austriaci riportano un imponente raid antimafia nei dintorni di Linz, Leonding e Gallneukirchen, nell’Alta Austria. Centoventi agenti tra la polizia federale (BKA) e la polizia locale, hanno perquisito 14 locali, tra cui appartamenti, pizzerie, uffici, concessionarie d’auto. Non ci sono arresti, ma al centro dell’indagine è un ristoratore italiano, calabrese di Tropea, già noto alle forze dell’ordine, e di interesse della procura antimafia di Catanzaro che ha richiesto assistenza giudiziaria per questo caso.

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    Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che si avanza l’ipotesi d’indagine che dietro al Made in Italy ci sia un interesse dei clan di riciclare soldi all’estero. Anzi, si potrebbe dire che sembra proprio uno dei marchi di fabbrica della ‘ndrangheta – e di altre mafie – quella di utilizzare ristoranti, pizzerie, gelaterie italiane all’estero a fini di riciclaggio. Tali attività commerciali sono di poco impatto sociale e culturale – ci si aspetta che ci siano all’estero ristoranti italiani – e sono anche di poco impatto economico, con ricavi spesso nella media e/o nella norma che non destano dubbi nelle autorità locali.

    Irpimedia, per esempio, aveva raccontato nel 2021 di come, in Lussemburgo, imprenditori della ristorazione originari di Siderno, nel Reggino, si fossero stanziati in una comunità locale ad alto tasso di migrazione dalla Calabria, soprattutto della zona di Mammola, sfruttando e inquinando la migrazione sana dei nostri conterranei. Anzi, ben conosciuti sono gli esempi di estorsione proprio ai danni della comunità italiana all’estero: ricordiamo il caso di operazione Stige, in cui ristoratori italiani in Germania si vedevano imporre vini dalla Calabria per “rispettare” patti estorsivi col clan giù a casa e mantenere rapporti non belligeranti.

    Alla luce del sole

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta principalmente “raccontata” come capace di agire ‘in segreto’ e passare inosservata, a metà tra organizzazione di tipo spionistico e organizzazione eversiva. In realtà, contrariamente alla narrazione, i soggetti che vengono legati alla ‘ndrangheta – spesso solo emissari – come il ristoratore austriaco, se ciò verrà confermato – sembrano essere particolarmente a proprio agio nell’agire alla luce del sole, abbandonando il segreto, all’interno di quelle che sono le opportunità, spesso legali, dei luoghi di destinazione per aprire locali, attività commerciali e anche sfruttare gli stereotipi che spesso accompagnano gli italiani all’estero e le comunità ospitanti: l’italiano si fida meno dell’italiano che del tedesco, il tedesco si fida di più dell’italiano che del greco, l’austriaco valorizza l’intraprendenza dell’italiano ma non si fida di nessuno (questi solo a livello esemplificativo).

    È una ‘ndrangheta che manda via il denaro dall’Italia, come farebbe qualunque soggetto, mafioso o meno, che non vuole perdere i propri soldi, per raccontarsi sempre la stessa storia: me li sono guadagnati (anche se illegalmente), e ne voglio prima o poi poter disporre. Per utilizzare questi capitali, spesso, si vuole immaginarne un loro riutilizzo semi-legale, come se tale riutilizzo semi-legale potesse giustificare l’origine illegale anche moralmente. E qui poi si vede la volontà di investire in ciò che più ci è ‘familiare’, quasi stereotipato: il cibo, l’Italianità all’estero, le Porsche o le case.

    Raffaele Imperiale, il narcotrafficante pentito

    Ma torniamo al 6 dicembre 2022. Sempre quello stesso martedì, in serata, La Repubblica dà la notizia che Raffaele Imperiale si è pentito a Napoli. Imperiale, per anni ricercato dalle polizie di mezzo mondo e finalmente arrestato a Dubai nell’agosto del 2021, è stato un narcotrafficante di riferimento per network criminali italiani, irlandesi, olandesi e ovviamente latinoamericani. La storia di Imperiale è rocambolesca, al punto da includere il rinvenimento di due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam nel 2002 nella sua casa di Castellammare di Stabia nel 2016.

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    I due Van Gogh trovati in casa di Imperiale

    Riduttivamente, si racconta di Imperiale come un camorrista che ha fatto strada a livello internazionale nel mercato della cocaina. Sono noti i suoi rapporti col clan napoletano Amato-Pagano, consolidatisi in occasione della guerra di mafia degli Scissionisti di Secondigliano dal clan di Lauro a Scampia. In quella faida Imperiale si sarebbe non solo schierato con gli Amato-Pagano, ma a detta dei pentiti ne sarebbe diventato un affiliato a tutti gli effetti. Ma la storia di Imperiale non è una storia (solo) di camorra.

    Il super cartello della cocaina

    È una storia di un network internazionale che secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense avrebbe per anni rifornito di cocaina mezza Europa grazie a varie ‘teste’ tra cui, oltre a Imperiale, figurano Ridouan Taghi – membro di spicco della criminalità di origine marocchina in Olanda (la cosiddetta Moccro-Mafia, anche se di mafia non ha proprio nulla…) arrestato nel 2019, e Daniel Kinahan, irlandese e capo del clan che reca il suo nome, su cui il Dipartimento di Stato degli USA ha stanziato una ricompensa per informazioni che portino alla sua cattura di addirittura 5 milioni di dollari.

    Il “super cartello” della cocaina, come lo chiama(va) la DEA e in seguito Europol, non era però uno e trino. Nonostante i tre nomi di spicco, moltissimi gli attori – clienti e partner – che alimentavano sia la reputazione sia la capacità di questi network intrecciati di intensificare i traffici dello stupefacente più lucrativo al mondo. Tra questi, anche uomini di ‘ndrangheta.

    I rapporti con la ‘ndrangheta

    Grazie a un intenso coordinamento di polizia da parte di Europol sulla decriptazione di chat sulle piattaforme Encrochat e SkyECC, si sono potuti tracciare i collegamenti tra i vari ‘nodi’ dei network criminali in questione. Imperiale aveva rapporti intensi con i Morabito-Palamara-Bruzzaniti, ‘ndrina egemone nel locale di Africo (RC) e con il clan Mammoliti, di San Luca. Giuseppe Mammoliti acquistava cocaina da Imperiale e il suo gruppo la trasportava e distribuiva nel sud e centro Italia, spesso con carichi in arrivo in Belgio o Olanda o a Milano attraverso altri corrieri di Imperiale anche connessi con il clan nella sua propaggine lombarda.

    Bartolo Bruzzaniti, detto Sonny, nato a Locri ma iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in Costa d’Avorio e domiciliato a Invorio (Novara), si metteva a disposizione di Imperiale per il recupero della cocaina importata via mare dal Sud America e in arrivo in vari porti europei tra cui Gioia Tauro, grazie all’aiuto di Jolly, un funzionario doganale, e di una squadra ben rodata nel porto della Piana.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta opportunista, disinvolta, che utilizza il proprio nome (cognome) quando serve, se serve, ma con poca attenzione all’onore, o al potere di sovranità mafiosa più largamente intesa.
    È interessante uno scambio in chat tra Bruzzaniti e un suo interlocutore a Gioia Tauro, in cui Sonny spiega di dover mantenere un basso profilo in Calabria «Se sapevano i miei quantitativi mi impazzivano compà… Sanno che lavoro ma non sanno niente… Compare se i miei parenti sapeva che numeri faccio al mese mi dovevo dare latitante ahahahaha compà».

    I compari non devono sapere

    È chiaro che entrare in contatto con Imperiale e il suo network è stata una svolta per Bruzzaniti: il contatto con Imperiale ha reso possibile – a lui e non necessariamente a tutto il suo gruppo di ‘ndrangheta – importare e rivendere ulteriori quantità di stupefacente, più di altri conterranei. C’è invidia da parte di altre organizzazioni criminali mafiose sul territorio, conferma l’interlocutore di Sonny: «Si compare qua da noi nn posso parlare con nessuno se sentono questi numeri a 24 ore siamo bruciati…Che qua se la contano per invidia… Altro che Sud America… Sanno che invece di 3 scaricatori ne ho mandato 6 per trasportare le borse… Chi ai (sic)dovere lo sa quanto e il lavoro… abbiamo fatto una bella selezione».

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    Questa ‘ndrangheta ha evidentemente il know-how per partecipare ai grandi traffici, che però sono gestiti da Imperiale e dai suoi contatti in Europa. È Imperiale che comunica coi fornitori e comunica l’arrivo dello stupefacente. È Imperiale ad avere il controllo e la supervisione; Bruzzaniti coordina e rivende. L’uno non potrebbe funzionare senza l’altro, ma il livello a cui opera Imperiale è di gran lunga più ad ampio raggio di quello di Bruzzaniti.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questa ‘ndrangheta che si occupa di traffici di cocaina in giro per l’Europa è una ‘ndrangheta che guarda in faccia solo se stessa, vive in un eterno presente, cerca di evitare i conflitti sul territorio, perché col territorio non vuole necessariamente condividere tutto di sé. Vuole sedere al tavolo, meglio se internazionale, con chi, come Raffaele Imperiale, può attivare circuiti, aprire porte e garantire guadagni grazie a una fitta rete di contatti transfrontalieri. Il traffico di cocaina in Europa è concorrenziale e caratterizzato da una concentrazione di mercato: pochi attori emergono come nodi del network, e tutti gli altri cercano di legarsi a tali nodi. Bisogna essere capaci di stare al gioco, escludere i concorrenti (anche di famiglia) e soprattutto essere pronti ai cambiamenti repentini.

    Questa ‘ndrangheta della cocaina con Imperiale, e quella dei ristoranti in Austria per noi, Italiani, con cultura (giuridica) antimafiosa, è sempre la stessa ‘ndrangheta, calabrese, e collegata – quando serve – per ragioni di gestione di potere ‘reale’ sul territorio, e di potere politico, per la resilienza dell’organizzazione e del brand. Ma a livello criminale e in Europa si tratta di ‘ndrangheta diverse, che sebbene intenzionate a più livelli a fare e mantenere profitti illeciti, danno vita a fenomeni criminali diversi, spesso scollegati e soprattutto dipendenti più dal luogo di ‘destinazione’ e dagli attori con cui ci si interfaccia, che dalla reputazione criminale di casa propria.

  • MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

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    La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.

    Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.

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    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

    Migranti in casa della ‘ndrangheta

    Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.

    Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale

    In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.

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    Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi

    Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.

    Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.

    Via dalla Calabria

    Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.

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    Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.

    Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta

    Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.

    Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).

    Affari paralleli

    Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.

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    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando

    Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.

    Il mercato dell’asilo politico

    Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.

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    Richiedenti asilo politico manifestano in strada

    Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.

    Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza

    Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.

    Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta

    Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.

  • MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

    MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

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    Silvio Berlusconi disse una volta che a parlare troppo di mafia si danneggia la reputazione del Paese. Venne allora verbalmente redarguito dalle vittime di mafia e dalla società civile, eppure esprimeva un pensiero diffuso, nella politica così come nella società. Gianfranco Micciché, all’epoca candidato alla presidenza della Regione Sicilia, lo espresse con altrettanta decisione nel criticare la titolazione dell’aeroporto di Palermo: «Continuo ad essere convinto che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia. L’aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure che suscitano pensieri positivi».

    La Calabria a Londra

    Sulla metropolitana di Londra una sera di novembre mi trovo a chiacchierare con un signore italo-britannico. Abbiamo appena assistito alla proiezione di un film – Una Femmina – di Francesco Costabile, seguito da un dibattito con il regista collegato su Zoom dalla Calabria (sì, Francesco Costabile è di Cosenza).
    Il film, potente, nero e, direbbero in inglese, chilling, raggelante, è una storia di mafia che prende spunto dalla storia di Maria Concetta (Cetta) Cacciola e di altre donne ribelli raccontate dal giornalista Lirio Abbate nel suo libro Fimmine Ribelli. Racconta la storia di Rosa, una bambina che vive in Aspromonte e assiste, senza capire, all’omicidio di sua madre Cetta a opera della nonna e dello zio, e che una volta cresciuta, vuole vendetta nella sua famiglia di ‘ndrangheta.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Non è raro che a Londra si proiettino film di questo genere – indipendenti, emergenti. Complici un cinema che ama le gemme, il Garden Cinema, un festival, il Raindance, che da trent’anni si occupa di portare sul grande schermo promettenti lavori di artisti nascenti, e una comunità italiana locale appassionata e partecipe, la proiezione di Una Femmina ha seguito infatti A Chiara di Jonas Carpignano, che a luglio scorso aveva debuttato in UK nello stesso cinema. Anche A Chiara racconta una dimensione familiare e intima della ‘ndrangheta.

    ‘Ndrangheta e reputazione, il niet dell’Istituto di cultura

    Il signore italo-britannico sulla metro aveva assistito anche alla proiezione di A Chiara e in quell’occasione c’eravamo conosciuti. Ha letto il mio ultimo libro Chasing the Mafia (che racconta della mia ricerca sulla ‘ndrangheta nel mondo) e mi ha chiesto di autografarlo. E poi mi dice, senza forse rendersi conto del peso delle sue parole, che aveva parlato con un responsabile durante un evento all’Istituto Italiano di Cultura di Londra e aveva suggerito che si facesse un evento sulla ‘ndrangheta o sulla mafia, suggerendo che io potessi essere coinvolta nell’evento, magari aiutando a organizzarlo. Si era sentito rispondere, un po’ ridendo ma nemmeno troppo, che certo era interessante ma che forse l’Istituto Italiano di Cultura preferisce eventi che danno un’immagine positiva dell’Italia.

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    La sede londinese dell’Istituto di Cultura

    Certo, si possono fare eventi sulla commemorazione delle stragi – la memoria è positiva. Si possono fare eventi su questioni spinose della storia d’Italia – la storia è anch’essa positiva, quando affrontata come insegnamento. Ma parlare di mafia, di ‘ndrangheta, oggi, quello non interessa. Argomenti cupi, che restituiscono una pessima immagine dell’Italia e della Calabria, che rovinano la reputazione della regione e dunque del paese. Ovviamente non è questa un’accusa rivolta all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, anche perché non so con chi, intraneo o estraneo, è avvenuta la conversazione. Ma non è la prima volta che mi sento dire che parlare di ‘ndrangheta non è parte del concetto di ‘cultura’ italiana, non promuove la cultura calabrese. Mi venne detto anni fa dalla direzione di un altro Istituto Italiano di Cultura in Australia: «Interessante quello che fai, ma la ‘ndrangheta non è ciò che vogliamo chiamare cultura italiana».

    La Calabria che stupisce

    Falso. Il film Una Femmina è girato in Calabria, in un paese che dovrebbe essere in Aspromonte, ma è invece nel Pollino. Ci sono montagne immense, verde scuro, case diroccate e rovine, costruzioni aggrappate alla montagna e una natura dalla forza dirompente. Tra gli spettatori – italiani e non – ci si chiede dove siano quei posti, dove sia tutta quella bellezza. Si cantano canzoni popolari nel film, si balla la tarantella, si intonano litanie liturgiche. Gli spettatori sono ammaliati dalla musica, invasi dalla gioia delle danze, commossi dalle liturgie. Si chiedono, persone che di ‘ndrangheta e di Calabria nulla o poco sanno, com’è possibile che in una terra così bella succedano certe cose. Ci si indigna.

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    Un fotogramma di “A Chiara”

    Per il film A Chiara, una storia simile: c’è tutta la forza delle immagini del porto, del lungomare di Gioia Tauro, c’è la cittadina della Piana con le sue feste di paese, le celebrazioni familiari tra vino e musica. In quel caso, a chi assiste alla rappresentazione cinematografica viene da chiedersi come sia possibile che una cittadina con un porto che è il vanto del Mediterrano e una voglia di vivere prorompente nella musica e nell’intrattenimento, abbia una sorte così macabra.

    Dal letame nascono i fior

    E questo non succede solo per i film ben fatti. Succede per le serie tv e per i documentari, succede per i libri, quando hanno la capacità di raccontare la ‘ndrangheta, i suoi inferni privati e le sue bassezze umane all’interno di un contesto più ampio che si integra – non si separa – dalla Calabria, dalla sua bellezza ferita, dal suo potenziale inaspettato, dalla sua cultura centenaria e stratificata tra colonizzazioni, resistenza, autonomia e autoaffermazione. L’ho sperimentato io stessa, da calabrese, che non ha senso tentare di spiegare o studiare la ‘ndrangheta senza prima raccontare le incongruenze del fenomeno rispetto alla sua regione d’origine. La bruttezza vicino alla bellezza.

    Corrado Alvaro

    Grazie alla reputazione della ‘ndrangheta – quella stessa che, si badi bene, fomenta stereotipi negativi sui calabresi all’estero – l’arte produce cultura e il mondo conosce la Calabria e i suoi patrimoni. Si resta ammaliati dalla bellezza sugli schermi, si leggono la storia e le storie sui libri, si apprezza la civiltà e l’umanità del popolo calabrese, si ascolta il dialetto, si sfoglia la letteratura da Corrado Alvaro a Gioacchino Criaco, si ammira l’intraprendenza contadina.

    ‘Ndrangheta, Calabria e cultura

    Il problema non è che la ‘ndrangheta non sia cultura, e peggio ancora che distrugga la cultura e la bellezza della Calabria, o che rovini la reputazione dell’Italia. E il problema non è nemmeno che a furia di parlare di ‘ndrangheta, dell’organizzazione mafiosa più importante d’Italia e tra le più importanti al mondo, si oscura il patrimonio – positivo – della Calabria. Il problema è forse proprio il contrario. Che si insiste nel pensare alla ‘ndrangheta come corpo estraneo alla regione, un virus, una forza malvagia e aliena, dai confini chiari e precisi – diversa da noi – alimentata di uomini (e occasionalmente donne) il cui unico scopo è abusare del patrimonio e della ricchezza di una regione altrimenti bellissima e dal potenziale enorme.

    Friedrich Wilhelm Nietzsche

    Una rimozione che deriva forse dalla paura di identificarsi con il fenomeno stesso: se la ‘ndrangheta è figlia della sua terra e della sua cultura (in modo distorto e abusivo certo), cosa dice tutto ciò di noi Calabresi? Lo diceva bene Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’alternativa non può essere quella di evitare di guardare nell’abisso o di negare i mostri. Perché è nell’alternanza di ombra e luce, nelle guerre contro i mostri, nei racconti delle emozioni e nelle sublimazioni delle paure, è in questi spiragli che si fa cultura.

    Cicatrici di cui andare fieri

    Continuava Micciché su Punta Raisi: «Ritengo, comunque, che sia una scelta di marketing sbagliata… Non ci si presenta ai tanti turisti con il sangue di una delle più profonde e, ancora non sanate, ferite della nostra terra». Eppure, come ci ricorda la pratica nipponica del Kintsugi, la cultura aiuta a trasforma una ferita in bellezza: mostrare con orgoglio le cicatrici è solo un racconto sulla forza della resistenza e sulla voglia di riparazione.

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    Un esempio di Kintsugi
  • MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

    MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

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    L’11 luglio scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “European ’ndrangheta connection – Pollino” al tribunale di Locri. Nel febbraio 2022 il primo grado si era infatti concluso con 12 condanne per complessivi 172 anni di reclusione e 5 assoluzioni. Le motivazioni confermano in sostanza gran parte della ricostruzione dell’accusa, notando il ruolo di spicco del clan Pelle-Vottari di San Luca nel narcotraffico europeo.

    Il controllo del mercato

    L’operazione si era distinta per gli arresti incrociati, avvenuti in un unico Action day, il 5 dicembre del 2019, tra Italia, Germania, Paesi Bassi e Belgio, coordinati da Europol e Eurojust. Pollino ha fatto luce su una vasta e complessa rete di importazione di narcotici, principalmente cocaina, in Europa e in Sud America: famiglie di ‘ndrangheta storiche, dalla Locride al resto del mondo, avevano dimostrato di avere un ruolo di coordinamento e di gestione del mercato.

    Qualche settimana fa, il 28 giugno, l’operazione antidroga ‘Hermano’ condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia reggina ha portato all’arresto di 19 persone. Hermano riguarda i clan della piana di Gioia Tauro, precisamente sul territorio di Taurianova, ma con proiezioni, e arresti, anche a Milano, Parma, Verona e Vicenza. L’obiettivo ancora una volta il narcotraffico, gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina dal Sud America fino all’Italia.

    Il 7 giugno scorso, infine, il tribunale di Trieste ha eseguito 38 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di due milioni di euro contro narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. L’operazione Geppo2021 aveva portato al sequestro di 4.3 tonnellate di cocaina al porto triestino, il terzo sequestro più grande d’Europa.

    Dal Sud America all’Est Europa

    Rivelano le indagini, anche quelle giornalistiche, che si trattava dei giri di prova di un’alleanza tra il Clan del Golfo e importatori europei. Il Clan del Golfo, anche chiamato Urabeños, è uno dei gruppi di narcotrafficanti più importanti della Colombia, che conta fino a 2000 affiliati. Gli importatori in Europa invece sono un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta ma attivo anche a Roma e a Milano e una rete di individui provenienti dall’Est Europa.

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    Colombia: la cattura di Otoniel, considerato il capo del Clan del Golfo

    Queste tre operazioni non sono le uniche, ma le più rilevanti nel recente periodo. Cosa hanno in comune? Una notevole densità di rapporti con soggetti e organizzazioni criminali estere. Nel processo Pollino si erano visti i rapporti con trafficanti di Guyana e Suriname e con distributori turchi. Nell’operazione Hermano ci sono rapporti con fornitori peruviani. E nella maxi-operazione Geppo2021 compaiono colombiani, albanesi e bulgari.

    L’internazionale della cocaina

    Ovviamente, che la ‘ndrangheta sia un’organizzazione internazionale dedita all’importazione di stupefacenti già si sapeva. Sono noti, ad esempio, i rapporti con dei gruppi criminali brasiliani, come il Primeiro Comando da Capital (PCC) attivati e mantenuti per l’approvvigionamento della cocaina dai porti del Sud America all’Europa. Altrettanto noti sono gli avamposti dell’onorata società in Africa e nel resto dell’Europa. Lo aveva già confermato l’operazione Platinum nel maggio 2021, grazie anche ad approfondite indagini giornalistiche.

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    Una grafica sulla rete internazionale del narcotraffico (fonte Limes)

    I traffici illeciti che spaziano dall’Europa all’America passando per l’Africa, vedono i clan calabresi cooperare e forgiare vere e proprie partnership con Albanesi, Rumeni, Colombiani, Messicani, Brasiliani, Bulgari, Serbi e via discorrendo. È oggi normale, nelle ordinanze di custodia cautelare, dalla Calabria alla Lombardia, vedere tra gli arrestati sia italiani che stranieri. Questa ibridizzazione delle reti del narcotraffico porta a una serie di riflessioni che hanno a che fare sia con la natura dei traffici illeciti sia con l’identità della ‘ndrangheta in questi traffici.

    Le regole del narcotraffico

    Innanzitutto, il narcotraffico si muove con regole che non sono della ‘ndrangheta, nonostante il ruolo di spicco che la criminalità calabrese ha assunto e consolidato negli anni. Prendiamo la cocaina. Il mercato globale della cocaina si muove sui canali dei traffici legali, tra porti, marine, aeroporti, strade, utilizzando – sfruttando – la logistica interconnessa della nostra epoca. La produzione della cocaina è ai massimi storici negli ultimi anni, complici politiche sociali malriuscite del Sud, in paesi come Perù, Bolivia e Colombia, e drammatici flop della “guerra alla droga” (war on drugs) da parte del ricco Nord, come Stati Uniti, Canada, ed Europa.

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    Il consumo di cocaina è incostante aumento

    A questo aumento della produzione e della disponibilità del narcotico, si affianca l’atomizzazione dei gruppi criminali: in breve, c’è più gente che produce e vende la coca, c’è più gente che l’acquista. La retorica che la ‘ndrangheta controlli il mercato della cocaina europea è soltanto questo, retorica. Non solo si tratta di un mercato incontrollabile – in cui qualunque gruppo criminale alle giuste condizioni può effettivamente entrare – ma anzi, il dominio del mercato della cocaina è assolutamente concorrenziale.

    Uniti per gli affari

    Se si considera l’ascesa dei clan balcanici – che in alcuni casi hanno imparato il mestiere dai nostri corregionali ‘ndranghetisti, iniziando dalla manovalanza ai porti di Brindisi, Bari, Genova, Livorno ad esempio – si vede chiaramente come il settore in questione permetta a chi abbia denaro da investire, disponga di una gestione efficace della logistica e abbia la capacità di trovare sodali disponibili di entrare e acquistare velocemente una fetta del mercato.

    Questo implica che da una parte i clan di ‘ndrangheta hanno perso parte del loro tanto sbandierato controllo e dominio del mercato della cocaina e hanno imparato che senza collaborazione con altri nodi della rete non si sopravvive. Allo stesso tempo questa perdita di posizione non necessariamente si traduce in un guadagno minore, essendo appunto il mercato molto florido: c’è più cocaina per tutti i gruppi criminali che sanno collaborare, e le partnership cambiano quando serve agli affari.

    Ci sono un italiano, un peruviano e un albanese…

    In operazione Hermano, per esempio, leggiamo di come un gruppo calabrese utilizza come canale di approvvigionamento principalmente per cannabis e hashish dei partner albanesi, ma in seguito a un debito contratto con loro, cercano e trovano un gruppo di peruviani, stanziato a Milano e con broker anche italiani, per l’approvvigionamento di cocaina che permette un guadagno più alto e dunque permetterebbe loro di saldare il debito più velocemente.

    Un uomo della Dia intercetta una telefonata

    «Decisamente, se non ci sono i soldi, si può risolvere con macchine [ndr, cocaina, per saldare il debito con gli albanesi]».
    «Abbiamo litigato pure io con tutti…con gli albanesi, pure Flamur s’è incazzato con me (…)».
    «Ma lo sai che io ho perso diecimila euro qua con questi figli di puttana [il gruppo peruviano], ti ricordi quella sera che ti dicevo io che avevo anticipato io i soldi per le tre Pande [riferimento ad automobili, per intendere partite di cocaina]?».
    «E come fai a perdere diecimila euro… (…) vieni che ci andiamo insieme e le recuperiamo».
    «E certo che le devo recuperare, sto aspettando che viene zio qua a Baggio».
    «Perché per questo figlio di puttana qua, perché avevo preso impegni con Flamur»
    «Gli dici, Flamur, qua è successo questo, questi qua ci hanno preso per il culo e non rispondono più, hanno preso ancora giorni e a me non mi va di fare più figure di merda con le persone, basta!».

    Il potere della reputazione

    A questo si deve aggiungere una seconda riflessione. Certamente l’identità della ‘ndrangheta si fonda su un potere reale, concreto, che interferisce con la vita della gente di Calabria e non solo, dall’estorsione all’intimidazione, dalla violenza all’infiltrazione nella politica paesana o cittadina. La ‘ndrangheta ha ancora oggi un potere intimo, familiare, locale.

    Ma diverso dall’aspetto identitario locale e familiare, è il potere economico prettamente criminale dei clan, che una volta sui mercati globali non hanno bisogno di identificarsi come ‘ndrangheta o mafia, ma utilizzano la solidità della loro reputazione di acquirenti e fornitori che saldano i conti e sanno aggirare le forze dell’ordine. Proprio come si legge anche dall’intercettazione precedente e in quella successiva che proprio di questa solvibilità parla.
    «Sistemiamo così che è la migliore cosa perché non voglio fare casini perché dopo perdo l’amicizia capito? (…) Perdo la stima che avevo io su di lui e lui proprio mi dice ma che persona sei, capito?».

    Nessuno è infallibile

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    Finanzieri in azione nel porto di Gioia Tauro

    Se le due anime dell’organizzazione criminale stanno insieme da un punto di vista analitico, da quello meramente fattuale questa unità non aiuta a comprendere il successo – o il fallimento – nei mercati illegali. Infatti, ricordiamoci anche che le operazioni contro narcotraffico sono iniziative fallite, intercettate dalle forze dell’ordine quindi andate male. Ci mostrano clan che a volte faticano a far tornare i conti, altre volte sbagliano a fidarsi di qualcuno, altre volte ancora incappano in problemi dalla fornitura alla distribuzione, fino al pagamento. E non capita poi così di rado. Di questo, in fondo, ci si può rallegrare: sicuramente neanche la ‘ndrangheta è infallibile, quanto meno nel frammentato e concorrenziale mercato degli stupefacenti.

  • MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    Il 30 giugno 2022, ad Adelaide, capitale dell’Australia Meridionale, un uomo è stato condannato per l’omicidio di un detective, Geoffrey Bowen, e il tentato omicidio di un avvocato, Peter Wallis, dopo 28 anni. Quest’uomo è Domenic(o) Perre, originario di Platì, in Aspromonte.

    Emigrato da Platì in Australia

    Emigrato con la sua famiglia in Australia nel 1962, come tanti altri dalle sue parti in cerca di fortuna, Perre è protagonista di uno degli eventi più chiacchierati della cronaca australiana: il cosiddetto NCA bombing. L’NCA era la National Crime Authority (istituzione non più esistente oggi, ma assimilabile all’attuale Australian Criminal Intelligence Commission) i cui uffici nel centro di Adelaide saltarono in aria il 2 marzo del 1994, a causa di un pacco bomba che era indirizzato a Geoffrey Bowen.

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    L’ufficio dell’Nca dopo l’esplosione del 1994 che costò la vita al detective Bowen

    La bomba uccise il detective e ferì severamente l’avvocato Peter Wallis, con lui in quel momento, che perse un occhio nell’esplosione. La morte di Geoffrey Bowen è stata per 28 anni uno dei principali cold cases – casi irrisolti – in Australia, nonostante le indagini, sin da subito, si fossero concentrate su quest’uomo, Domenic Perre, che non solo aveva un chiaro motivo per uccidere Bowen, ma, a quanto pare, anche i mezzi per farlo.
    Il 2 marzo 1994, poco dopo le 7 del mattino, un dipendente dell’NCA si apprestava a distribuire la posta del giorno.

    “Potrebbe essere una bomba”

    Un cartellino rosso nella cassetta della posta indicava che c’era un pacco in attesa di essere ritirato dallo sportello. Era un pacco Express rosso, bianco e giallo, indirizzato a ” Geoffrey Bowen, NCA”. Il mittente sembrava essere “IBM Promotions”.

    Geoffrey Bowen arrivò nel suo ufficio al 12° piano alle 9 del mattino, chiamò l’ufficio postale e chiese se fosse arrivato qualcosa per lui. Stava aspettando alcuni reperti che gli sarebbero tornati utili per un processo a cui doveva presenziare il giorno dopo, contro un uomo di nome Perre.

    Gli fu detto che era arrivato un pacco, qualcosa a che fare coi computer. E Bowen, confermando che non aspettava niente da IBM, scherzò, tragicamente: “Potrebbe essere una bomba!” Poiché si trattava di posta non attesa, il pacco fu scansionato, ma la scansione non mostrò alcuna anomalia. Alle 9.15 Bowen aprì il pacco.

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    Geoffrey Bowen, il detective ucciso dal pacco bomba

    «Si sentì un forte crack, come un colpo di fucile o qualcosa di simile, e ricordo che Geoff emise un grido strozzato, un urlo, e cadde di lato. E poi – deve essere stato quasi istantaneo – c’è stato un enorme soffio di vento e un suono acuto che posso solo descrivere come elettricità statica molto forte. Ecco com’era. Sono stato immediatamente accecato. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto».
    Queste furono le parole di Peter Wallis, l’avvocato che lavorava con Bowen, e che appunto rimase gravemente ferito nell’esplosione. Wallis è morto qualche anno fa. Geoffrey Bowen rimase ucciso quasi sul colpo, all’età di 36 anni.

    I soccorsi all’avvocato Peter Wallis dopo l’esplosione del pacco bomba

    L’arresto di Domenic Perre

    Nove giorni dopo l’esplosione, Domenic Perre fu arrestato e accusato dell’attentato.
    Perre era già noto alle autorità australiane perché era stato coinvolto fin dagli anni 80 nel traffico di cannabis. In particolare, nel settembre 1993, la polizia del Territorio del Nord aveva scoperto una piantagione di cannabis, composta da 10.000 piantine, in una località remota della Hidden Valley, che aveva un valore complessivo di oltre 40 milioni di dollari australiani. Francesco Perre, fratello di Domenico, fu arrestato insieme ad altre 12 persone, tra cui altri calabresi per lo più della zona Aspromontana.

    Francesco Perre

    Tra loro c’era Antonio Perre, zio di Domenic e Francesco, che all’epoca si trovava in Australia con un visto turistico. Antonio Perre era entrato in Australia dopo aver dichiarato falsamente di non avere precedenti penali: in realtà, era stato condannato per omicidio in Calabria e aveva trascorso 12 anni in carcere. Per l’operazione dell’Hidden Valley, Antonio Perre fu condannato a 18 mesi di reclusione ed estradato in Italia nel 1994. In seguito alla retata, si capì subito che le persone arrestate erano solo una parte dell’organizzazione criminale. Le indagini confermarono che Domenic Perre e altri erano i reali finanziatori dell’operazione.

    La ‘ndrangheta? In Australia la chiamano Onorata Società

    Comparve quasi subito l’ombra dell’Onorata Società, la ‘ndrangheta come viene ancora chiamata in Australia. Emersero collegamenti, incluse parentele molto scomode, tra la famiglia Perre ad Adelaide e le famiglie di ‘ndrangheta a Griffith, nel nuovo Galles del Sud, tra cui i Barbaro e i Sergi, che nei primi anni ’90 erano già notoriamente conosciuti come la Griffith Mafia, e abbondantemente collegati al commercio di cannabis e ad altre attività tipicamente mafiose, dall’estorsione all’omicidio alla corruzione politica nonché a un altro omicidio eccellente, quello dell’attivista-politico Donald Mackay nel 1977, tutt’ora caso irrisolto nonostante una commissione d’inchiesta abbia indicato le famiglie dell’Onorata Società di origine platiota quali responsabili dell’omicidio.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Geoffrey Bowen aveva guidato le indagini dell’Hidden Valley, e avrebbe dovuto testimoniare a processo contro i Perre e gli altri coinvolti, uno o due giorni dopo la sua morte. Le sanzioni per questo caso arrivarono nel 1997/1998 e segnarono l’inizio di una serie di condanne, per droga ma non solo, in capo a membri della famiglia Perre. Ma l’attentato all’NCA del 1994 rimase sullo sfondo, perché le indagini procedettero in modo schizofrenico.

    All’inizio del settembre 1994, il direttore della pubblica accusa emise un nolle prosequi in relazione a entrambi i capi d’accusa contro Perre: non c’erano prove sufficienti. Ma l’ufficio del coroner, medico legale, dello stato dell’Australia Meridionale aprì una nuova inchiesta nel 1999. Gran parte dell’inchiesta ruotava intorno al comportamento di Domenic Perre prima e dopo l’attentato; si documentò la sua avversione nei confronti di Bowen che era diventata quasi un’ossessione. Si scoprirono molte delle menzogne che all’epoca furono raccontate alla polizia per confondere le indagini.

    Victoria Square, Adelaide

    Passarono quasi vent’anni da quell’inchiesta del coroner, ma quando la polizia dell’Australia Meridionale decise di riprendere in mano il caso, nel 2018, grazie a nuove prove finalmente disponibili, sostanzialmente decise di ripartire da li. Proprio dal comportamento di Perre e della sua famiglia, dal suo movente e dalla sua capacità di costruire un pacco bomba e porre in atto l’attentato. Il tutto ovviamente supportato da nuove prove forensi sull’esplosivo e sul DNA.

    In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è necessario però riprendere quella scomoda domanda sui collegamenti alla ‘ndrangheta che erano apparsi già nel 1994, e mai sono stati effettivamente né chiariti né negati.
    Nel 2018 l’accusa mi chiese di redigere una relazione – e poi presentarla alla corte – in qualità di esperta di cultura e mafia calabrese, da portare tra le prove a processo contro Perre. Le domande che mi vennero fatte erano su questi toni: «Esiste un modo per collegare la cultura calabrese e la (sotto)cultura mafiosa? Cosa hanno in comune, come si differenziano? Si può sostenere che il comportamento di qualcuno è in realtà legato a entrambe queste culture?».

    L’equazione sbagliata tra Calabria e ‘ndrangheta

    La tesi dell’accusa si basava sul presupposto che a prescindere dal fatto che l’imputato si identifichi o meno come membro della ‘ndrangheta, lui e la sua famiglia erano cresciuti e hanno vissuto in quella (sotto) cultura sia a Platì, sia in Australia. Si legge nell’atto di accusa: «Alcuni atteggiamenti culturali hanno un’influenza sulla valutazione di una serie di aspetti delle prove di questo caso, tra cui: l’importanza e la sacralità della famiglia; il ruolo delle donne; la sfiducia nell’autorità, in particolare nelle forze dell’ordine; la cultura del silenzio».

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    Australia: armi, droga e denaro sotto sequestro a seguito dell’operazione Ironside del 2021

    Bisogna chiarire: il processo contro Perre dopo 28 anni dall’NCA bombing non è un processo alla ‘ndrangheta in Australia. Eppure, denota un chiarissimo cambiamento di approccio alla criminalità mafiosa da parte delle autorità australiane. Se da una parte è molto promettente, dall’altra rischia di creare ulteriori fraintendimenti sulla presenza dell’Onorata Società nel paese.

    È promettente che si ammetta che esiste in Australia un sistema di potere criminale che si alimenta di una condivisa e cristallizzata cultura mafiosa, risultato di una manipolazione di comportamenti, valori e tradizioni calabresi che la comunità migrante ha portato con sé. Riconoscere come avviene la manipolazione della cultura migrante, cosa differenzia un mafioso calabrese, uno ‘ndranghetista, da un calabrese onesto è un passo fondamentale proprio per preservare quella stessa cultura migrante e non fare di tutta l’erba dei calabresi d’Australia un fascio.

    La “trappola etnica”

    Ma, allo stesso tempo, un focus culturale sulla mafia porta sempre con sé il seme della potenziale discriminazione. Si tratta della ‘trappola etnica’ che porta alcune autorità estere a presumere che certi atteggiamenti e certe forme di criminalità (quella mafiosa in primis) siano legati a una specifica comunità migrante, e che, di conseguenza, ci sia qualcosa di sbagliato nella cultura di uno specifico luogo, in questo caso la Calabria, che rende più probabile per coloro che da lì migrano essere coinvolti in certi tipi di criminalità. Questo è problematico in quanto non vero; i comportamenti mafiosi possono appartenere potenzialmente a tutte le culture, e sopravvivono fintanto che ci sono meccanismi economici e sociali che nulla hanno a che fare né con la cultura d’origine né con la migrazione (si pensi al supporto alla ‘ndrangheta dei colletti bianchi o dei politici o degli industriali, del nord e centro Italia come dell’Australia).

    Un panorama di Platì

    No, il processo contro Perre non è un processo alla ‘ndrangheta, ma è il primo processo australiano che davvero parla di ‘ndrangheta come sistema di potere a connotazione culturale, oltre il traffico di stupefacenti.

    Salvo il diritto d’appello e altri step procedurali, Perre – attualmente in carcere per altra condanna legata a un’importazione di stupefacenti – sconterà forse una lunga pena carceraria. Rimane però da chiedersi, conoscendo la ‘ndrangheta sia calabrese che quella australiana, quanto di concertato ci possa essere stato dietro all’NCA bombing. Se davvero ci sono dei legami della famiglia Perre con il resto della ‘ndrangheta Australiana, viene appunto da chiedersi se qualcun altro sapeva, e approvava, quest’omicidio, o se qualcuno ha aiutato dietro le quinte, anche per far si che per 28 anni non si arrivasse a una condanna.

  • MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

    MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

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    Ucraina e ‘ndrine: quanto è grande il pericolo? Tra i protagonisti semi-invisibili della guerra, che va avanti dal 24 febbraio 2022, ci sono le armi e i mezzi di offensiva bellica.
    Certo, di armi si parla sempre: sia per disquisire dell’attacco russo sia per comprendere la difesa ucraina. Anche perché dall’Occidente (gli Usa ma anche l’Italia) continuano ad arrivare armi in supporto all’Ucraina.
    Tuttavia, queste armi rimangono largamente “immaginate”, astratte, semi-invisibili, “ingoiate” da un conflitto che non si sa quanto ancora durerà.

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    Soldati ucraini con nuove armi occidentali

    Si spera, però, che prima o poi le ostilità finiranno. Solo allora molte cose che appaiono ingarbugliate emergeranno, anche e soprattutto fuori dall’Ucraina.

    Armi dall’Ucraina alle ‘ndrine: l’allarme di Gratteri

    A proposito di armi e della loro invisibilità, la comunità internazionale, in prima linea l’Interpol, ha lanciato l’allarme: dopo il conflitto ci potrebbe essere un’iniezione di armi da guerra sul mercato nero, a disposizione di gruppi criminali che le acquisteranno o faranno affari col loro traffico.

    In Italia, ha ribadito il monito, tra gli altri, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
    Gratteri, durante un’intervista a Piazza Pulita del 27 maggio, ha avvertito che la guerra in Ucraina potrebbe avvantaggiare la ’ndrangheta proprio per l’accesso al mercato illegale delle armi da guerra.

    Il magistrato aveva già fatto riferimento al Crimine, una struttura all’interno di ogni locale di ‘ndrangheta, che agirebbe come Ministero della guerra.
    Il suo compito, commenta il procuratore, è anche procurarsi armi per “l’esercito”: «Già era successo dopo la guerra in Jugoslavia, dove la ‘ndrangheta acquistava esplosivo, armi, bazooka. Lo stesso accadrà in Ucraina, con armi ancora più sofisticate: si potranno comprare a prezzo di outlet, perché la gente avrà fame, e non si sa in che mani vanno a finire».

    Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri

    Povertà in Ucraina e armi low cost alle ‘ndrine

    Queste espressioni fanno riflettere sulla disponibilità di armi a basso costo, dovuta alla povertà della popolazione ucraina. Inoltre, mettono l’accento sulla praticabilità e permeabilità di questo mercato illecito da parte della ‘ndrangheta.
    Da un punto di vista analitico, però, non tutto è poi così chiaro o determinato o giustificato. D’altronde non spetta certo al procuratore Gratteri offrire analisi di criminologia, visto che lui fa un altro lavoro.

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    Un catalogo d’armi nel dark web

    Eppure, diversi commentatori hanno rilanciato l’allarme, incluso il riferimento alla ex Jugoslavia. Essi hanno fatto capire che la ‘ndrangheta, ma non solo, potrebbe intervenire in diversi settori della guerra Russa-Ucraina oltre che in quello delle armi (ma non si sa bene quali siano questi settori) e che il traffico di armamenti include percorsi virtuali (il dark web).
    Come spesso succede negli shock geopolitici (disastri naturali, crisi sanitarie e umanitarie, guerre e via discorrendo) si rischia di reagire con un’iperbolica percezione – e narrazione – del rischio. E questa, a sua volta, genera un fenomeno noto in criminologia: il panico morale.

    Il panico morale

    Per panico morale si intende il processo per cui un evento (o un gruppo) ordinario e già esistente viene percepito e raccontato dai media come straordinario.
    In questo caso, l’evento ordinario e presente è il traffico di armi. A esso viene associata una minaccia straordinaria legata alla guerra in Ucraina.
    Proprio com’è stato per la pandemia, si rischia di esemplificare uno scenario complesso e poliedrico – il traffico di armi (da guerra e non) – attribuendo alle mafie la deterministica volontà, basata su una capacità scontata, di cogliere una ghiotta occasione di arricchimento.

    La mafia onnipotente? Non esageriamo

    Non vorrei essere fraintesa: è indubbio che alcuni gruppi mafiosi vogliono cogliere tutte le opportunità di arricchimento. E sono innegabili le condanne subite negli anni dai membri di alcuni clan per la detenzione di armi, comuni e da guerra (si veda per esempio la sentenza d’appello per il processo Mandamento Ionico di qualche giorno fa), e per il loro traffico (preponderante nel processo Imponimento ancora a dibattimento).

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    La lettura della sentenza del processo “Mandamento Ionico”

    Eppure, la capacità della ‘ndrangheta – o meglio di alcuni suoi clan – di entrare e avere successo in un settore (nuovo o improvvisamente rivitalizzato) non è mai predeterminata.
    Affermare il contrario – e quindi rendere assolute evidenze occasionali e sporadiche – o parlare al futuro anziché al condizionale, crea solo una forma di panico morale, secondo cui, ancora una volta, la mafia è onnipotente e incontrastabile.

    Armi e ‘ndrine: il mercato nero in Ucraina

    Nelle crisi e nelle opportunità che esse offrono il successo di nuove o rincarate imprese mafiose dipende da tre fattori: la natura del mercato; la natura degli attori nel mercato e i meccanismi di controllo e contrasto.
    Per quel che riguarda la natura del mercato e i suoi attori dal punto di vista dell’offerta, è interessante l’analisi del Global Organised Crime Index. Secondo questo studio, l’Ucraina vanta da anni uno dei più estesi mercati di armi in Europa. Non è dunque una novità di questa guerra, ma un primato consolidato dal conflitto nell’Ucraina orientale di quasi dieci anni fa.

    L’identikit dei trafficanti

    In Ucraina, la maggior parte delle armi era già trafficata all’interno del Paese (e ora anche inviata in supporto alla guerra). Tuttavia i network impegnati nel traffico illegale di armi nel paese non sono individuali o spuri. Né sono collegati necessariamente a condizioni transitorie di povertà.
    Inoltre, sono collegati a network criminali in Russia, Bielorussia, Moldavia, Georgia e Turchia, oltre che a broker e acquirenti in Paesi dell’UE e dell’ex Jugoslavia.

    Armi dal mercato nero balcanico

    Dal punto di vista della domanda, in Europa occidentale – quindi anche in Italia – il commercio maggiore riguarda le armi leggere. In questo mercato dominano le forniture provenienti dall’ex Jugoslavia e dai network balcanici che dominano le rotte. Laddove è relativamente facile, per i gruppi criminali europei – ’ndrangheta inclusa – procurarsi una pistola o un fucile d’assalto, molto più difficile risulta reperire un Rpg (lanciarazzi) o una mitragliatrice e i loro ricambi. Per farlo occorrono denaro e i giusti collegamenti nell’area.

    Armi ucraine: il vero mercato non è l’Europa

    È probabile che la maggior parte delle armi provenienti dall’Ucraina – che in Europa sembrano quasi un esubero – sarà destinata ad altre zone di conflitto. Cioè l’Iraq, la Siria e la Libia.
    In questi luoghi, molto più che da noi, c’è una domanda di armi pesanti tale da renderne redditizio il traffico.
    Ciò non vuol dire che qualcuno dei “nostri” gruppi criminali non acquisterà ulteriori armi da guerra. Né che, in alcune circostanze, persone vicine ai clan calabresi non si occuperanno di traffico di armi dalle zone ora in guerra.

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    Miliziano in azione nel teatro libico

    Il business è lucrativo e soprattutto già abbondantemente avviato. Le motivazioni dei clan mafiosi nell’acquisto di tali armi poi, sono ancora tutte da comprendere. Ad ogni modo, nel grande schema del mercato in questione, degli incentivi per l’acquisto e dei suoi attori, le armi ucraine andranno massicciamente altrove.

    Non sottovalutiamo l’allarme

    Occorre comunque prendere sul serio l’allarme di Interpol e di Gratteri, sebbene lo si debba sfrondare dai toni deterministici e assoluti: anche poche armi in più possono fare la differenza nel danno sociale.
    A livello internazionale si discute da tanto del mercato delle armi per prevenirne il traffico.

    Rimedi necessari ma insufficienti

    Al riguardo, si parla di potenziare il tracciamento di ogni singola arma, e dell’aumento delle risorse di polizia internazionale per comprendere i network e le rotte criminali. Ma, come in molti altri traffici illeciti, il problema è la produzione del bene illecito, e non tanto il suo sfruttamento.
    Detto altrimenti: il nodo vero nel contrasto al traffico di armi è l’esistenza stessa delle guerre, senza le quali non si produrrebbero tante armi.
    Perciò, rendere il traffico di armi meno lucrativo per i gruppi criminali e potenziare i controlli, non può purtroppo essere strategia sufficiente, se dopo questa guerra ce ne sarà un’altra.