Autore: Anna Sergi

  • MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    Entrare in aula bunker al carcere dell’Ucciardone a Palermo è un’esperienza che induce alla modestia e alla riflessione. La storia scritta in quest’aula, dagli eroi della prima antimafia giudiziaria in Italia, non è solo storia di Cosa nostra siciliana, o storia della mafia italiana. È storia d’Italia. È solenne, la memoria di quest’aula, le parole dette qui dai pubblici ministeri del pool antimafia siciliano durante il maxiprocesso degli anni Ottanta (e dopo), le parole dette dai mafiosi prima e dopo le condanne da dietro le sbarre delle 30 celle, e infine le ore della corte per leggere i verdetti.

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    L’aula bunker dell’Ucciardone (foto Anna Sergi)

    La memoria di quei mesi e quegli anni ha cambiato il paradigma di quello che la mafia siciliana, Cosa nostra, avrebbe rappresentato da quel momento in poi per l’Italia e i metodi dei suoi investigatori e martiri, per il mondo. Ecco perché, entrare in aula bunker è un’esperienza emotivamente carica. L’essere italiani è in parte definito dalla storia di questa aula. Per questo The Global Initiative Against Transnational Organised Crime, GI-TOC, ha voluto organizzare il 9 marzo proprio nell’aula bunker una giornata di riflessione e conferenza insieme al Tribunale di Palermo.

    L’occasione è stata la discussione dei risultati italiani del Global Organized Crime Index, un imponente lavoro di raccolta dati intorno agli attori e alle attività del crimine organizzato che GI-TOC ha effettuato nel 2021 e si appresta ad aggiornare nel 2023, per tutti i paesi del mondo, con un’infografica snella ed efficace che ben si presta ai canoni comunicativi di oggi.

    ‘Ndrangheta e stragi: un pezzo di memoria mancante

    Nel corso di questa giornata si è discusso dell’apparente paradosso italiano: un ‘punteggio’ molto alto assegnato dall’Index per quanto riguarda alcuni attori criminali (la presenza di gruppi mafiosi), alcune attività criminali (principalmente, il mercato della cocaina e la tratta di esseri umani) assieme a un punteggio molto alto assegnato per la ‘resilienza’ italiana a questi fenomeni. Della serie, l’Italia ha sì un problema di criminalità organizzata molto distinto e molto serio, ma ha anche gli strumenti, non solo giuridici ma anche di attivismo sociale, per rispondere a questo problema. La resilienza italiana al crimine organizzato certamente nasce e si consolida in aula bunker, e ‘scoppia’ in seguito al periodo delle stragi.

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    La strage di Via D’Amelio

    Il modo in cui il Global Organized Crime Index vede l’Italia ha certamente molto a che fare con la Calabria e sicuramente con la ‘ndrangheta, coi traffici di cocaina legati ai nostri clan, e con la presenza che le ‘ndrine hanno nel resto del paese. Ma c’è un’altra ragione – per ora non accertata in tutte le sue componenti – per cui la Calabria, e la storia della ‘ndrangheta, è importante per l’analisi dell’Index. E questa ragione riguarda proprio la memoria delle stragi e il ruolo della violenza e dell’arroganza mafiosa in Calabria e la reazione ad esse. Perché, lo sappiamo, seppur solenne e colossale, la memoria nata e mantenuta in quest’aula bunker non è ancora completa. E tra i pezzi mancanti del periodo delle stragi c’è sicuramente la memoria calabrese.

    Slitta la sentenza

    Questa memoria – o meglio la sua correzione – è il cuore del processo ‘Ndrangheta Stragista, che tra il 10 e l’11 marzo, attendeva a Reggio Calabria il verdetto del processo d’appello. Conferme o ribaltamenti delle sentenze di condanna del primo grado e la definizione (giuridica oltre che storica) dell’apporto che la ‘ndrangheta apicale avrebbe dato ai vertici di Cosa nostra nel periodo delle stragi arriveranno il 23 marzo. Tale apporto sarebbe dietro al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994.

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    Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

    Il verdetto d’appello va posticipato perché, nonostante si tratti di fatti ormai datati, di oltre 30 anni fa, arrivano ancora novità che integrano la mole dei dati a processo. Proprio mentre si attendeva il verdetto, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto che venissero acquisiti i contenuti di un’intercettazione rivelata all’interno dell’operazione Hybris, di qualche giorno fa, contro il clan Piromalli a Gioia Tauro. Nell’intercettazione, due affiliati, che non sapevano di essere intercettati, discutono del ruolo dei Piromalli nelle stragi e dell’incontro al club Sayonara a Nicotera Marina in cui nei primi anni ‘90 si sarebbe deciso se la ‘ndrangheta si dovesse o meno unire alla strategia siciliana.

    Un posto di serie B

    Ma cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il global index di GI-TOC e l’aula bunker di Palermo? C’entra perché la ‘ndrangheta come la conosciamo oggi – con alcuni clan che si sono resi leader del narcotraffico, altri clan che si sono distinti per le capacità imprenditoriali, in investimenti pubblici e privati e altri ancora che hanno fatto politica cittadina e regionale, non è stata – per la storia – la mafia delle stragi.

    La ‘ndrangheta non è la ragione per cui l’Italia avrebbe sviluppato anticorpi invidiati in tutto il mondo, giuridici e di associazionismo sociale e civile. La ‘ndrangheta violenta delle faide e dei sequestri non ha scritto la storia d’Italia, anzi, è stata relegata dalla storia d’Italia – proprio per la sua violenza primitiva – ad avere un posto di serie B, accanto alla ‘sorella’ siciliana che di quella violenza ne ha fatto politica e strategia di attacco allo stato. Ma, a prescindere dai risultati processuali, e dalle responsabilità personali ivi confermate o meno, sembra accertato che i collegamenti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ci fossero e ci fossero inter pares – tra persone a pari livello.

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    Giuseppe e Filippo Graviano

    Ecco perché durante la giornata organizzata in aula bunker a Palermo si è discusso della violenza della ‘ndrangheta e delle scelte durante le stragi: perché che si siano accordati o meno, i Graviano e i Piromalli (tra gli altri), per fare le stragi congiuntamente, alcune tra le dinastie storiche della ‘ndrangheta in quegli anni avevano comunque la facoltà di scegliere se farlo o meno, perché gli era riconosciuto e detenevano il potere per farlo. E questo nella storia ufficiale dell’antimafia ancora non c’è.

    Paese che vai, violenza che eserciti

    La scelta di essere stragisti – andata o meno a ‘buon fine’ – ci porta ad affermare che, non per la prima volta, i clan di ‘ndrangheta più stagionati e più importanti usano la violenza strategicamente. E lo fanno perché nonostante l’organizzazione frammentata dei clan del territorio – autonomi per signoria territoriale e attività criminale – i boss dei clan apicali sanno che i contraccolpi dallo Stato e dalla società civile coinvolgono tutti, quando c’è violenza manifesta ed ‘esterna’ all’organizzazione.

    La violenza, per la ‘ndrangheta, si espone in prima linea spesso solo localmente, dove lascia un’eco per anni ma dove storicamente non ha spesso ispirato atti di denuncia durativi da parte della popolazione. Ma quando la violenza di ‘ndrangheta si è fatta più visibile oltre il locale e l’interno – pensiamo alla strage di Duisburg in Germania o all’omicidio Fortugno – le conseguenze sono state pesanti per l’organizzazione tutta, anche se si trattava di una faida tra due gruppi soltanto.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Inoltre, ricordiamo che la spinta stragista della ‘ndrangheta, diversamente da Cosa nostra, non poteva essere comunque una decisione di ‘tutta’ l’organizzazione, quanto solo di alcuni capi, proprio per la diversa organizzazione delle due mafie. Questo ci conferma che allora come oggi la ‘ndrangheta funziona a compartimenti stagni, dove solo chi deve sapere sa e dove si fanno alleanze strategiche a stretto raggio, con chi serve e con chi è utile senza ‘sprecare’ connessioni. Questo è il modus operandi che si vede nei mercati illeciti, dove la ‘ndrangheta entra ‘piano’ e con alleati misti, dalla cocaina agli appalti, oggi senza il rumore della violenza.

    La storia d’Italia e le scelte della ‘ndrangheta

    Le scelte – o non scelte – di allora ci hanno consegnato la ‘ndrangheta contemporanea. ll Global Index vede l’Italia come estremamente influenzata da gruppi criminali mafiosi – forti in quanto capaci di entrare in vari mercati legali e illegali – ma allo stesso tempo, resiliente perché le stragi (e non solo) hanno reso il paese consapevole del proprio problema mafioso. Questa fotografia del paese è anche, a sorpresa, il risultato della storia della ‘ndrangheta, oltre che quella di Cosa nostra. Quello che i capi della ‘ndrangheta hanno fatto all’epoca delle stragi, o quello che non hanno fatto ma avrebbero potuto fare, la violenza manifesta e quella ‘trattenuta’, hanno definito la storia d’Italia anche senza far parte della ‘narrativa’ principale della nascita dell’antimafia. Proprio come si confà alla ‘ndrangheta nella sua caratteristica più primitiva, l’essere riservata e ‘dimessa’ come l’altro lato della luna.

  • Crimmigration: se essere altri passa per delitto

    Crimmigration: se essere altri passa per delitto

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    Le urla di dolore si sentono ormai in tutta Italia mentre il numero dei cadaveri ritrovati dopo il naufragio di Cutro cresce e si avvicina alle tre cifre. In quella che passerà alla storia anche come la strage di Crotone c’è sicuramente un mai-visto-prima. E non solo per l’orrore degli eventi in sé, ma anche per ciò che si è appreso dopo gli eventi: le notifiche di soccorso mancate, il rimpallo tra Frontex e Guardia Costiera, gli interventi (alcuni a sproposito) della magistratura, la confusione tra interventi di polizia e interventi di sicurezza in mare. Senza dimenticare i commenti dei politici. Posticci, artefatti, qualcuno forse sincero, qualcuno addirittura criminale, laddove il crimine commesso si può ipotizzare come vilipendio della vita umana e della capacità, anzi del diritto umano, di auto-determinazione.

    Ignoranza e razzismo

    È quasi criminale in questo senso il commento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha affermato davanti alla tragedia: «Io non partirei se fossi disperato, sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso».
    In questa affermazione il ministro sembra confondere il diritto all’auto-determinazione e alla partenza in caso di “disperazione” (dal conflitto, dai disastri naturali, dalla povertà) con la prospettiva – spesso vuota – di una certa parte di neoliberisti ossessionati dalla retorica dell’individualismo e fortemente concentrati sull’idea che individualismo escluda ogni forma di debolezza o dipendenza.

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    Matteo Piantedosi

    Ma in questo commento, e in altri simili tra cui quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha ricordato come il governo stia cercando di aiutare questi migranti a non partire e cadere vittima di trafficanti e criminali organizzati vari con decreto flussi e corridoi umanitari del caso – c’è solo tanta ignoranza su come funzionano effettivamente i traffici criminali verso le coste del Sud, inclusa la tratta di umani. E c’è una buona dose di razzismo.

    La crimmigration? Paura dell’altro

    Il razzismo di cui si parla qui non riguarda i colori della pelle – non sempre e non solo, almeno – ma passa da una parola apparentemente neutra – quella di ‘migrante’.
    Il termine migrante, quando non seguito da specificazioni, attiva istantaneamente una serie di pregiudizi, culturali, razziali, sociali, che spesso fanno dimenticare o passare in secondo piano l’umanità dietro questa etichetta.

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    Carola Rackete, capitano della nave Seawatch impegnata nel salvataggio di migranti

    Si è parlato di fondamentalismo culturale, oppure di razzismo istituzionalizzato, all’interno di un fenomeno più ampio dove il potere costituito usa i cardini e gli strumenti del sistema penale per affrontare un problema di controllo dei confini e della migrazione.
    È la cosiddetta crimmigration – “crimmigrazione” – ed ha risultati simili ovunque nel mondo: si deumanizzano le vittime e si giustifica il loro trattamento – chiamato “di sicurezza” ma effettivamente “punitivo” – come risposta legittima, meritata e appropriata alla “violazione della legge” legata alla violazione dei confini.

    Brandire una bandiera di legalità astratta, dunque, aiuta a criminalizzare le ONG in mare, ad arrestare la Carola Rackete di turno e chi come lei si appella al diritto naturale alla vita e non al rispetto dei confini imposti da uno stato cieco, si ribella a chi chiude i porti, e rifiuta di far finta che il diritto universale e internazionale non imponga il salvataggio delle vite umane a prescindere dalla volontà dei vari governi della fortezza-Europa.
    Il nebuloso concetto di sicurezza nazionale, come europea, sta al centro della crimmigration. Ma di base la crimmigration – al suo cuore – è solo la paura dell’altro.

    L’ossessione della sicurezza

    Crimmigration è un termine coniato in criminologia nel 2006 che descrive la progressiva criminalizzazione di rifugiati, migranti richiedenti asilo, e in genere migranti che arrivano per mezzi considerati illegali, grazie a due processi interconnessi.

    1. L’aumento di politiche di controllo della migrazione alle frontiere (per esempio bloccando le navi delle ONG all’arrivo nei porti). Queste politiche sarebbero volte a ridurre i flussi migratori, quasi per magia. Ma è provato che non portano a una diminuzione della migrazione in sé, quanto in realtà aumentano soltanto le possibilità di immigrazione clandestina (ergo criminalizzata).

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      Militanti di Casa Pound contro l’immigrazione clandestina
    2. La retorica della migrazione come cancerogena per le società riceventi è diventata cavallo di battaglia di partiti populisti che ricorrono all’istigazione all’odio quando i numeri e i dati non sono facilmente interpretabili a loro favore: ricordate il muro tra Messico e Stati Uniti paventato dall’ex-presidente USA, Donald Trump?
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    Trump ad Alamo, in visita a un sito di muro al confine tra Texas e Messico

    E così stereotipi che troppo spesso non hanno fondamento scientifico diventano verità incontrovertibili; diffuse paure dell’altro diventano ossessioni per la sicurezza e repulsione dell’altro; erronee comprensioni di come funziona il crimine, soprattutto quello organizzato, assegnano etichette di criminali un po’ a caso.

    Gli altri (non) siamo noi: il complotto dello straniero

    La paura primaria dei migranti – così etichettati, ricordiamo, nel tentativo di essere “politicamente corretti” e mostrarsi neutri – va a toccare corde profonde quanto irrazionali: lo straniero diverso (non come noi); i migranti poveri che commettono crimini, stupri, furti (non come noi); i migranti che rubano il lavoro agli Italiani (non come noi). C’è chiaramente un’errata percezione dei migranti come ‘altri’ e ‘diversi’ che passa da un’errata percezione di noi, e del riconoscimento del noi negli altri.

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    Il ministro Salvini durante un’iniziativa della lega di qualche anno fa

    Questa distorsione è costituente e costitutiva del modo di presumere che il “migrante” che arriva per vie illegali e/o disperato a chiedere asilo e soccorso, sia “povero”, “ineducato” e soprattutto inferiore. Questa distorsione risponde a una logica che in criminologia si chiama “complotto dello straniero” oppure alien conspiracy theory, che immagina l’ordine sociale dipendente dalla omogeneità e dalla staticità del concetto di sicurezza. Dico immagina perché l’ordine sociale può solo utopisticamente considerarsi mai tale. Bisogna rovesciare il paradigma con i dati alla mano: non è l’arrivo di migranti che crea ‘disordine’ e ‘insicurezza’, ma la cattiva gestione del sistema accoglienza, la criminalizzazione ingiustificata di chi attraversa i confini per motivi umanitari – che sia migrante o capitano di nave a bandiera ONG, e soprattutto l’aizzare le folle all’odio dell’altro anziché promuovere l’empatia e la compassione umana universale.

    La crimmigration ferma la solidarietà

    Oltre a consolidare queste basi concettuali, la crimmigration ha poi ulteriori effetti nefasti: per esempio, la solidarietà interrotta. Quella delle ONG criminalizzate, quella dei morti in mare per soccorsi che non arrivano in tempo, quella della burocrazia dei visti più becera che si affida ad algoritmi e non a principi di umanità nel fare scelte che cambiano la vita delle persone.

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    L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano

    La solidarietà interrotta di stelle cadenti come Mimmo Lucano, in attesa di processo di appello dopo essere stato condannato in primo grado per illeciti amministrativi visti con le lenti di una forma di associazione a delinquere mirata all’accoglienza e al fare dell’accoglienza un modo per salvarsi anche a casa propria, passando forse dalla disobbedienza civile. La solidarietà interrotta causata dalla crimmigration passa da uno step fondamentale: chi aiuta i diversi non riconosce e non salvaguardia il noi e questo, di nuovo, fa paura, sebbene sia proprio dal riconoscimento dell’altro che, dicono i filosofi, appare lo specchio di chi siamo noi.

    L’insostenibile pesantezza della compassione

    Ma tutto questo – solidarietà criminalizzata, paura del migrante ‘diverso’ e politiche di crimmigration che interrompono la solidarietà – dovrebbe correggersi, o auto-correggersi, di fronte a tragedie come quella di Cutro. Dove altro si vede l’umanità e l’uguaglianza degli uomini – migranti – se non in queste morti? E invece no. Invece guardiamo le bare che si accumulano, e la compassione collettiva (quella individuale è intima) rimane superficiale.

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    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone

    Diceva Milan Kundera: «Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il proprio dolore pesa tanto quanto il dolore che si prova con qualcuno, per qualcuno, un dolore intensificato dall’immaginazione e prolungato da cento echi».
    E nell’insostenibile pesantezza della compassione per l’altro, ecco che emerge chiaramente l’insostenibile leggerezza scelta da alcuni uomini e alcune donne del nostro governo, umani solo a metà.

  • MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

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    Nessuno, nemmeno i capibastone della ’ndrangheta come Giuseppe Nirta o Pasquale Condello o Paolo De Stefano, è solo un “cattivo”.
    Certo, sono tante le storie di ferocia nella mafia calabrese che toccano i lati disumani di certi soggetti, soprattutto uomini legati una certa generazione di ‘ndrangheta.
    Ma guardare solo alla loro malvagità, e alla loro disumanità non racconta tutta la loro storia. Perché la loro è anche una storia di famiglia.

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    Latitanza finita per “il Supremo”: l’arresto di Pasquale Condello

    La parabola di un boss

    Giuseppe Nirta è morto il 23 febbraio 2023 in carcere a Parma, dove si trovava dal 2016.
    La cronaca racconta che Nirta si sia complimentato con le forze dell’ordine al momento del suo arresto, avvenuto nel 2008 nel suo bunker a San Luca.
    Il boss doveva rispondere della strage di Duisburg, in cui morirono sei appartenenti alla cosca Pelle-Vottari, con cui i Nirta-Strangio erano in faida.
    Inoltre, su Giuseppe Nirta pesava anche l’omicidio di Bruno Pizzata, sempre dovuto alla stessa faida.

    Matrimoni e sangue di ‘ndrangheta

    La faida in questione, si ricorderà, era vecchia di decenni, ma era ripresa in seguito a due omicidi. Quello di Antonio Giorgi ammazzato nel 2005 e quello di Maria Strangio – nuora di Giuseppe Nirta perché moglie di suo figlio Giovanni Luca (il vero obiettivo dell’attacco) – uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato proprio davanti casa del boss Giuseppe. Giuseppe Nirta era un vecchio capobastone della ‘ndrangheta, un mammasantissima, a cui è legata più di una pagina nera della cronaca calabrese, dai sequestri di persona, alla faida.

    La parola ai Nirta

    Ma nessuno, nemmeno Giuseppe Nirta, ripetiamo, è solo malvagio. Al contrario, una certa complessità accomuna il boss a tutti gli altri uomini della sua famiglia, e di altre famiglie del territorio, con passato e presente di ‘ndrangheta.
    Suo figlio Giovanni Luca, parlando a Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera all’indomani della strage di Duisburg dirà:
    «Io sarei ’u boss? La mia casa è blindata? Lo vedete voi, sono qui, niente reti, niente cancelli, io sono solo un bracciante agricolo, coltivo l’orto e sto coi bambini. Da gennaio non esco più di casa perché sono in lutto. (…) A San Luca c’è la faida? Non lo so, mettete un punto interrogativo alla risposta. La faida c’è in tutti i paesi. (…) Ora si dice che la prossima data a rischio qui a San Luca sia il 2 settembre, la festa della Madonna di Polsi. Io ho paura di morire, certo, però mi auguro che non succeda più niente».

    Cesare Casella

    A proposito del sequestro Casella

    I bambini, il lutto, la festa della Madonna della Montagna, a Polsi.
    Riecheggiano in queste frasi le parole di un altro uomo della ‘ndrina Nirta, Antonio, alias ’Ntoni, sorpreso al summit di Montalto del 1969 e all’epoca ritenuto capo-crimine a San Luca (morirà nel 2015, a 96 anni).
    «Ma quale padrino e quale mafioso, io ero e resto un uomo che ha il senso dell’onore, un uomo che ha sempre lavorato per la propria famiglia», dirà a Pantaleone Sergi, come si legge ne La Santa ‘Ndrangheta.
    Erano i mesi del sequestro di Cesare Casella, e della battaglia di sua madre Angela scesa in Aspromonte per smuovere le coscienze e accelerare la liberazione del figlio e che per farlo, menziona proprio i Nirta, che si dice a San Luca, possano tutto.

    La testimonianza di ’Ntoni

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    Le alleanze e le parentele della ‘ndrangheta che conta [da Catino, M., Rocchi, S., & Marzetti, G. V. (2022)]
    Dice ancora ’Ntoni Nirta a Sergi:
    «Mi dispiace, mi creda, per quel ragazzo e per i suoi genitori, mi dispiace pure per la gente di San Luca che viene ingiustamente criminalizzata. Se potessi far qualcosa, come cittadino e come padre, glielo ripeto, lo farei subito. Ma cosa posso fare? Non faccio parte di un mondo “extra”, non sono in grado di intervenire. Come genitore dico: liberatelo, restituitelo alla famiglia. Solo un genitore snaturato agirebbe diversamente. lo sono contrario ai sequestri, alla droga, alla violenza».

    Legami d’acciaio coi matrimoni di ‘ndrangheta

    La famiglia, la paternità, la genitorialità, la gente di San Luca, la Montagna.
    Non è un mistero per nessuno, ormai, il ruolo della famiglia Nirta (e della loro alleanza con gli Strangio) nella ’ndrangheta aspromontana.
    Sono più che noti i vari rami della famiglia (la ’ndrina Maggiore e quella Minore). I suoi uomini si sono distinti per il coinvolgimento ripetuto in una serie di reati: dalla cocaina all’estorsione, dall’associazione mafiosa all’omicidio.
    Ma quello che si tende a dimenticare, non solo in questa storica ’ndrina di San Luca, ma un po’ in tutta la ‘ndrangheta, è proprio la famiglia, l’aspetto famigliare.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Rrobba di famiglia

    La paternità, la maternità, i figli, il quotidiano, il lutto, i compleanni, i matrimoni, le feste del paese. Nemmeno Giuseppe o ‘Ntoni Nirta sono sempre e solo malvagi o sempre e solo ’ndranghetisti; sono anche padri, nonni, zii. Coesistono, in queste persone, molti aspetti, negativi e “normali”.
    Non è una provocazione, tanto meno una giustificazione tipica di quelle tecniche di neutralizzazione di cui molti mafiosi si sono serviti negli anni: ricordare che dietro alla ’ndrangheta ci sono le dinamiche familiari è non solo una necessità storica-sociologica, ma anche giudiziaria.

    Il familismo dei capibastone

    Infatti, non è banale ricordare che dietro alla ‘ndrangheta, in particolare quella reggina e aspromontana, ci sono i legami di sangue. Al contrario, questi legami hanno implicazioni molto concrete.
    La “familiness”, l’aspetto familiare che entra negli affari di famiglia, è assolutamente centrale nella ’ndrangheta: chi si sposa, chi ama, chi non ama, chi è gay e non lo dice, chi vorrebbe studiare e non può, chi deve seguire le orme del padre, chi vuole proteggere la madre, chi vuole proteggere i figli, chi muore prima del tempo, e via discorrendo.

    Parenti e affari

    Gli aspetti familiari sono anche business: i valori della famiglia si confondono o influenzano gli affari di famiglia e gli eventi della famiglia, le caratteristiche delle relazioni familiari, assumono diverse forme che diventeranno eventualmente forme di ’ndrangheta.
    Non ci sono famiglie uguali, nemmeno nella l’ndrangheta. Ogni famiglia ha una sua propria “cultura” , che si riflette nell’attività ’ndranghetistica.
    Ciascuna famiglia ha dei meccanismi propri per gestire gli incidenti di percorso. Ha membri che sono più portati al comando in momenti di crisi, o sono più fragili nelle difficoltà.
    Ogni famiglia, anche quella di ‘ndrangheta, dovrà gestire la successione. E non c’è determinismo, soltanto fattori socio-economico-culturali che in Calabria come in Piemonte o in Canada creano mix diversi da individui diversi, nonostante regole comuni e piani di collaborazione criminale.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Matrimoni strategici

    Una dimostrazione di questa “sinergia” tra aspetti organizzativi e aspetti prettamente familistici sono ad esempio i matrimoni strategici, che storicamente e soprattutto in Aspromonte hanno costituito una delle caratteristiche più conosciute della ’ndrangheta.
    Ma i matrimoni “strategici” non sono un’esclusiva della mafia ma sono tipici di alcune élite (ricordiamo che esistono matrimoni strategici in tutte le famiglie reali e nobili, nonché in dinastie imprenditrici).
    Ricorrere alle alleanze matrimoniali avrebbe avuto, secondo la ricerca, una funzione di amplificazione e di protezione sia degli affari sia della coesione interna del gruppo ’ndranghetista, in alcuni posti più che altri.

    A giuste nozze…

    È famoso, per esempio, il matrimonio del “giorno 19” – tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe Pelle detto Gambazza, e Giuseppe Barbaro, figlio di Pasquale Barbaro ’u Castanu, avvenuto il 19 agosto del 2009 – fondamentale per le indagini durante l’operazione Crimine degli stessi anni. I matrimoni sono una costante nelle stesse dinastie, in Calabria come altrove.
    I Sergi e i Barbaro ad esempio, mantengono storicamente una stretta parentela con altre famiglie aspromontane – come i Romeo e i Perre – anche in Australia.

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    Lo schema di potere dei Barbaro (a cura di Anna Sergi)

    Strumenti di potere

    I legami familiari, i cognomi, sono spesso legami ascrittivi, cioè oggettivi: i parenti non si scelgono, in altre parole.
    Ma questi legami familiari possono essere manipolati e alcune dinastie di ’ndrangheta storiche e tradizionali ne fanno strumento di potere. Nessuno è sempre e solo malvagio, nemmeno un mammasantissima. Anche gli ’ndranghetisti hanno molte facce che coesistono. Quella familiare, in cui si manifestano il carattere personale e i valori (reali o meno che siano) del casato, rivela scelte più ampie e capacità di business.

  • MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

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    Nel novembre del 2022, in Germania, il Tribunale di Costanza ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di Salvatore Giorgi (33 anni) di origini calabresi, cameriere in un ristorante di Überlingen, sul Lago di Costanza. Il tribunale, la cui sentenza è divenuta definitiva questa settimana, ha giudicato Giorgi colpevole di traffico di droga e riciclaggio di denaro e lo ha condannato a un totale di tre anni e sei mesi di carcere (poi ridotta in appello a due anni e cinque mesi).

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    Il tribunale di Costanza

    Come hanno ricostruito i giornalisti di MDR, la cosa notevole di questa sentenza è che Giorgi ha subito la condanna anche per aver sostenuto un’organizzazione criminale straniera. Quale? La ‘ndrangheta.

    La prima condanna “ufficiale” per ‘ndrangheta

    Secondo la ricostruzione di MDR, questa è la prima volta che la Germania giudica la ‘ndrangheta in modo ufficiale in un tribunale. Il paragrafo 129 del Codice Penale tedesco – reato di formazione di un’associazione a delinquere – è stato riformato nel 2017 per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine. Ma, come riportato sempre da MDR, le condanne sono ancora molto poche.

    Il paragrafo 129 recita, tra le altre cose:

    «Chiunque costituisca un’organizzazione o partecipi in qualità di membro a un’organizzazione i cui obiettivi o attività siano finalizzati alla commissione di reati punibili con una pena detentiva massima di almeno due anni incorre in una pena detentiva non superiore a cinque anni o in una multa. Chiunque sostenga tale organizzazione o recluti membri o sostenitori per tale organizzazione incorre in una pena detentiva per un periodo non superiore a tre anni o in una multa».

    La norma successiva, 129b, precisa che il paragrafo 129 si applica anche a organizzazioni criminali transnazionali e/o straniere.

    Il primato di Giorgi

    Ecco dunque che Salvatore Giorgi, condannato per reati di stupefacenti, risulta anche condannato – sebbene poco cambi per la sentenza in sé – per favoreggiamento della ‘ndrangheta, per aver sostenuto e supportato la mafia calabrese. La ‘ndrangheta è tutt’altro che sconosciuta in Germania anche a livello giudiziario: ricordiamo che nell’ottobre del 2020, in seguito agli arresti incrociati a livello europeo nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, conosciuta anche come Pollino, è iniziato a Düsseldorf in Germania, un processo contro 14 imputati principalmente per traffico di droga in cui si contestano, tra le altre cose, la partecipazione diretta all’associazione calabrese e suo favoreggiamento. Ma questa condanna a Giorgi è arrivata prima, per un procedimento separato, del 2021, in seguito all’operazione Platinum-Dia, sempre tra Italia e Germania, col supporto di Europol e Eurojust.

    Ristoranti, cocaina e omertà

    La sentenza tedesca ricostruisce l’organigramma dell’organizzazione criminale di San Luca a cui appartiene Salvatore Giorgi, e in particolare il clan Boviciani, noto per il particolare interesse nel traffico di cocaina, oltre che per il radicamento in Germania. Ricostruisce MDR come Salvatore Giorgi lavorasse come cameriere a Überlingen in un ristorante situato direttamente sul lungolago turistico. Gli investigatori considerano questo ristorante e altri due a Baden-Baden e a Radolfzell come appartenenti al gruppo.

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    Agenti tedeschi perquisiscono un ristorante

    Giorgi era anche stato il direttore della società che gestiva il ristorante sul lago di Costanza. Il tribunale, dunque, ritiene che Giorgi abbia sostenuto il gruppo criminale di San Luca nella sua attività relativa ai narcotici. L’associazione ‘ndranghetistica di San Luca viene descritta nei ruoli dei suoi membri. Scrivono i giornalisti Margherita Bettoni, Axel Hemmerling e Ludwig Kendzia, per MDR: «Si parla di una cassa comune di circa cinque milioni di euro; si parla del voto di silenzio tipico della mafia, l’omertà». La ‘ndrangheta, e il clan Giorgi che ne fa parte, diventano per il tribunale l’organizzazione criminale straniera sottostante a una serie di altri reati.

    Canada e ‘ndrangheta

    Se questa è la prima volta che la Germania riconosce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale straniera ai fini di una condanna penale, non è la prima volta che ciò accade all’estero. E febbraio è il mese fortunato.
    Il 28 febbraio 2019, la Corte Suprema dell’Ontario condannava Giuseppe Ursino (11 anni e mezzo) e Cosmin Dracea (10 anni) per reati di criminalità organizzata, incluso il traffico di stupefacenti. Tra le altre cose, si imputava ai due di aver trafficato cocaina «a beneficio di, sotto la direzione di, o in associazione con, un’organizzazione criminale, vale a dire la ‘Ndrangheta, commettendo così un reato contrario alla sezione 467.12 del Codice penale».

    In questo caso la norma riguarda un “reato commesso per conto di un’organizzazione criminale” e recita, al comma 1:
    «Chiunque commetta un reato perseguibile d’ufficio ai sensi della presente o di qualsiasi altra Legge del Parlamento a beneficio di un’organizzazione criminale, sotto la sua direzione o in associazione con essa, è colpevole di un reato perseguibile d’ufficio e passibile di reclusione per un periodo non superiore a quattordici anni».

    Boss in pensione

    Soprattutto, «In un’azione penale per un reato ai sensi del comma 1, non è necessario che l’accusa dimostri che l’imputato conosceva l’identità delle persone che costituiscono l’organizzazione criminale». Questa sentenza descrive la struttura e le attività della ‘ndrangheta grazie ad informazioni fornite da un ufficiale dei Carabinieri dall’Italia. Si descrivono le operazioni di questa mafia nella sua versione canadese, e soprattutto la Corona ha sostenuto che Giuseppe Ursino non solo era un membro della ‘ndrangheta, ma era un “boss” locale. Ciò si basava in modo significativo su conversazioni registrate con l’agente di polizia. Giuseppe Ursino ha negato in sede di testimonianza di essere un membro della ‘Ndrangheta e tanto meno un “boss”. Nella sua testimonianza ha ammesso di essersi riferito a se stesso come tale, ma ha detto che si stava vantando solo per provocare l’agente di polizia.

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    Giuseppe Ursino

    Ursino, originario di Gioiosa Ionica, emigrò in Canada a 18 anni nel 1971. I familiari lo descrivono davanti alla corte come «un marito, un padre e un nonno di buon cuore, premuroso e gentile». Questo, però, non gli impedirà di essere considerato un membro apicale della ‘ndrangheta. Non aveva precedenti penali ed era stato titolare di un’attività di distribuzione di prodotti alimentari a ristoranti e sale per eventi, ma al 2019 era in pensione da due anni. Invece i giudici non hanno considerato l’altro imputato, Dracea, un membro dell’organizzazione mafiosa nonostante della sua attività avesse comunque beneficiato la ‘ndrangheta anche perché sapeva chi era Ursino e che ruolo aveva.

    ‘Ndrangheta all’estero: sempre e solo calabrese?

    Due paesi, due sentenze, due normative simili ma non uguali, e sicuramente diverse dalla normativa italiana. Rimane chiaro che laddove sembri ormai fattibile riconoscere la ‘ndrangheta all’estero come “organizzazione criminale straniera” – in Germania, come in Canada – l’appartenenza alla ‘ndrangheta come organizzazione radicata altrove non è ancora realtà. La criminalizzazione della ‘ndrangheta come organizzazione criminale tedesca o canadese, per capirci, non è ancora realtà. La ‘ndrangheta a processo all’estero rimane calabrese e all’estero per ora si punisce solo chi commette reati in supporto agli ‘ndranghetisti calabresi.

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    Beni confiscati al clan calabro-canadese Figliomeni di Toronto

    Se questo è un enorme passo avanti – soprattutto in paesi che hanno uno storico problema di mafia italiana sul loro territorio – denota ancora un’alienazione- alterità del problema – vale a dire, un riconoscimento del problema mafioso come ‘altro’, ‘straniero’ rispetto alla realtà locale. La ‘ndrangheta in Canada e in Germania – per quanto concerne queste sentenze soprattutto – rimane una questione di importazione criminale e non – come invece dimostra la ricerca – un fenomeno altamente legato ai contesti locali. Certo, la ‘ndrangheta è calabrese – ma in Canada è anche canadese, con dei connotati locali, e lo stesso in Germania -e non sempre si manifesta solo come criminalità di supporto.

    L’Italia nelle indagini sulla ‘ndrangheta all’estero

    L’alienazione-alterità giuridica del fenomeno porta a delle difficoltà procedurali, soprattutto quando c’è di mezzo la cooperazione internazionale. Per esempio, in Canada, un’indagine su un presunto ‘ndranghetista – Jimmy DeMaria rischia di andare a rotoli. Il governo canadese vuole espellere DeMaria sulla base di registrazioni ottenute da intercettazioni telefoniche condotte dalla polizia italiana, sostenendo che le registrazioni provano la sua associazione alla ‘ndrangheta. Ma l’avvocato di DeMaria sostiene che queste sono state ottenute illegalmente – perché effettuate su territorio canadese dalle autorità italiane.

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    L’arresto di Vincenzo “Jimmy” DeMaria

    Infatti, fornire le prove dell’associazione alla ‘ndrangheta rimane spesso una faccenda ‘delegata’ all’Italia e non sempre riconosciuta all’estero. In alcuni casi questo porta all’incomunicabilità tra i sistemi giuridici: si pensi al caso della Svizzera che, in seguito ad operazione Helvetia portò a processo alcuni individui che si ‘dichiaravano’ ‘ndranghetisti, parlavano di rituali e anche di estorsione. Li hanno assolti perché non basta raccontarsi mafiosi, se non lo si fa in pratica. Costoro in Svizzera non commettevano reati identificabili come ‘crimine organizzato in supporto della ‘ndrangheta’ dunque il loro essere o dichiararsi ‘ndrangheta non serviva a molto, giuridicamente.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questo per concludere: ottimo il passo avanti della Germania e in bocca al lupo al Canada nelle loro lotte contro la ‘ndrangheta -o, meglio, le ‘ndranghete – all’estero. Ma il fenomeno mafioso all’estero non è sempre e solo ‘straniero’; la ‘ndrangheta non è solo quello che in Italia chiamiamo ‘ndrangheta. Bisogna che i sistemi giuridici internazionali introiettino la propria ‘ndrangheta, o mafia che sia, senza soltanto ‘trasferire’ conoscenza e aspettative dall’Italia.

    germania-ndrangheta-estero

    Serve che in altri paesi si capiscano – oltre alle ramificazioni transnazionali – le evoluzioni locali delle mafie, di varia origine. E, soprattutto, i comportamenti mafiosi “migranti” – che saranno parzialmente diversi, e storicamente differenti, in Germania come in Canada. La ricerca già lo fa. In questo senso, ha successo il modello statunitense che ‘legge’ il fenomeno mafioso – siciliano, calabrese, americano, svedese (se esistesse) non importa – come comportamento di “corrupt enterprise” (impresa corrotta) lesivo dell’economia e della politica locale, in seguito a comportamenti penalmente rilevanti per il sistema nazionale. Ma questa è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

    MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

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    Si dice spesso che la ‘ndrangheta non abbia confini. Ma di fondo, qualche confine chiaramente ce l’ha, o meglio ancora, le viene imposto. Si tratta molto spesso di confini anche abbastanza prevedibili, in realtà, se i diretti interessati – gli affiliati in questo caso – fossero tutti persone dotate di senso pratico, arguzia, acume e soprattutto mancassero di deliri di onnipotenza. Un viaggio, una vacanza dall’Australia all’Indonesia quando si è nell’elenco dei latitanti ricercati in mezzo mondo, infatti, non rientra tra le attività che uno ‘ndranghetista dovrebbe intraprendere.

    ‘Ndrangheta e I-Can: 3 anni, 42 latitanti in arresto

    Le autorità locali – con il supporto dell’Unità I-Can – Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta e dell’esperto per la sicurezza italiana a Canberra hanno arrestato Antonio Strangio, 32 anni, all’aeroporto di Bali, in Indonesia, mentre sbarcava da un volo proveniente dall’Australia. è stato arrestato. La notizia è dell’8 febbraio.  «Con Strangio», rende noto la direzione centrale della Polizia Criminale, «sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio del progetto I-Can, che sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta».

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    Antonio Strangio dopo l’arresto a Bali

    Antonio Strangio è affiliato del clan omonimo – alias Janchi (i bianchi) – di San Luca, feudo aspromontano in provincia di Reggio Calabria che non ha tristemente bisogno di introduzioni quando si parla di mafia. La famiglia mafiosa in questione è balzata agli onori della cronaca, tra le altre cose, per una faida durata decenni e culminata con la strage di Duisburg, in Germania, nel 2007. Strangio era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso in seguito all’operazione Eclissi 2 nel 2015, tra San Luca e San Ferdinando, contro esponenti del clan Bellocco della Piana.

    Latitante ma non troppo

    In fuga dal 2016, Strangio in realtà latitava poco. Era infatti in Australia, pare principalmente ad Adelaide, in quanto cittadino australiano naturalizzato. La Red Notice di Interpol – l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo – non lo toccava in Australia, in quanto il paese non agisce per una segnalazione di Interpol e quindi non procede all’arresto di un proprio cittadino ai fini dell’estradizione. Ma le autorità lo seguivano, lo guardavano, lo tracciavano.

    La domanda vera, dopo l’arresto, non può che essere: cosa ha fatto in questi anni Strangio ad Adelaide o, in generale, in Australia? E richiede il solito abbozzo di risposta difficilissima da contestualizzare e molto facile da manipolare per giustizialisti dallo sguardo miope: aveva famiglia in Australia, legami di sangue e legami di territorio. Ma il caso di questo Strangio non è né il primo né l’ultimo del suo genere.

    Antonio Strangio: un nome, due latitanti

    Un altro Antonio Strangio, alias U Meccanico o TT, praticamente della stessa famiglia, finì in manette nel 2017 a Moers, vicino a Duisburg, in Germania. All’epoca aveva 38 anni, lo arrestarono esattamente nel quinto anniversario dall’inizio della sua latitanza. In questo caso, a raggiungere questo Strangio fu un mandato di arresto europeo. Cosa ci faceva TT nell’area di Duisburg? Risultava chiaramente alle autorità italiane che altri esponenti della stessa famiglia fossero residenti lì e la strage di Ferragosto del 2007 ne era ovviamente prova indiretta. Quindi, aveva famiglia anche lui.

    In più, c’era l’operazione Extra Fines 2 – Cleandro del 2019, a Caltanissetta, incentrata tra le altre cose sulle attività del clan Rinzivillo di Cosa nostra. In Germania, emergeva – mi ricordano fonti tedesche – che il presunto referente del clan Rinzivillo a Colonia, Ivano Martorana, fosse dedito a reperire e trafficare stupefacente e che a tale scopo era in contatto con altri soggetti, tra i quali proprio Antonio Strangio, TT. Dunque, sembrerebbe che lo Strangio di Germania facesse ancora quello per cui era ricercato e fu arrestato: traffico e importazione di stupefacenti.

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    Antonio “U meccanico” Strangio

    Infatti, U Meccanico fu coinvolto anche nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, altrimenti conosciuta come Operazione Pollino, nel 2018. C’era anche lui tra i 90 individui in arresto per un traffico internazionale di stupefacenti tra Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia, Colombia e Brasile. L’operazione coinvolse affiliati clan di San Luca e di Locri, come i Pelle-Vottari, i Romeo alias Stacchi, i Cua-Ietto, gli Ursino e appunto i Nirta-Strangio (nonché esponenti della criminalità turca). Oltre a diverse tonnellate di cocaina e alla scoperta di azioni di riciclaggio, l’operazione rivelò anche l’uso di attività di ristorazione – segno di presenza stabile sul territorio – in supporto alla logistica del narcotraffico.

    ‘Ndrangheta, latitanti e famiglia

    Oltre al nome, questi Strangio hanno in comune la latitanza all’estero e la protezione che deriva dal nascondersi “in famiglia”. Perché se c’è una cosa che è cambiata, con i processi di globalizzazione e con l’amplificazione dell’interconnettività che questi processi hanno attivato per le esistenti comunità di immigrati in giro per il mondo, è proprio la famiglia.
    Se un tempo poteva apparire dispersa, dislocata in vari luoghi di migrazione, è oggi famiglia integrata, interconnessa. Ci si telefona o video-telefona, ci si visita, ci si collega coi parenti all’estero per motivi di studio, lavoro, esperienza, vacanza. Vale per moltissimi emigrati (o immigrati) e vale anche per le dinastie criminali di ‘ndrangheta. Forse anche di più per alcune dinastie criminali di ‘ndrangheta come gli Strangio, che della famiglia hanno fatto un business, rendendola la chiave del loro successo criminale, quanto della loro reputazione. Nel bene (per loro) e nel male (per noi).

    Succede dunque che al 2023 – ma anche prima a dir la verità, ché la globalizzazione e i suoi processi non sono certo roba così recente – la famiglia amplificata e interconnessa sia la normalità. Idem per una serie di altre ‘prassi’: la doppia lingua, la doppia cittadinanza, due passaporti, ad esempio. Quindi non sorprende che in paesi di migrazione stabile dalla Calabria, come la Germania e l’Australia (ma anche ovviamente gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera, il Belgio…) sia proprio all’interno di alcune famiglie (dinastie criminali, appunto) che si innestano servizi e attività in supporto al crimine organizzato, laddove questo sia organizzato proprio a dimensione familiare.

    ‘Ndrangheta e latitanti: i casi Vottari, Crisafi e Greco

    Simili a quello di Antonio Strangio, l’ultimo della dinastia sanlucota arrestato a Bali qualche giorno fa, furono altri arresti di suoi ‘vicini di casa’. Anzi, di case al plurale: Calabria e Australia). Le manette scattarono a Fiumicino per Antonio Vottari nel 2016, anch’egli di San Luca, latitante e nascosto in Australia dalla “famiglia” ad Adelaide. Stessa sorte e stesso aeroporto per Bruno Crisafi, anche lui sanlucota, in arrivo dall’Australia nel 2017. Clan Pelle-Nirta-Giorgi, alias Cicero, risiedeva da anni – e faceva il pizzaiolo – a Perth. Entrambi, Vottari e Crisafi, legati al narcotraffico con altri pezzi di famiglia tra Germania (e Olanda, Belgio e Nord Europa) e Calabria, tra l’altro.

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    Edgardo Greco

    Può sembrare, quello di Crisafi, un primo «ciak, si gira!» del film appena andato in scena con l’arresto di Edgardo Greco in Francia. Altro latitante calabrese del Cosentino (la sua appartenenza alla ‘ndrangheta andrebbe problematizzata, proprio per il suo ruolo – killer – e i gruppi a cui si legava, più gangsteristici che ‘ndranghetisti, tra l’altro), Greco faceva lo chef. C’è differenza, però, tra chi scappa e si nasconde all’estero per mimetizzarsi e nascondersi – «Il modo migliore per nascondere qualcosa è di metterlo in piena vista», in fondo già scriveva Edgar Allan Poe – e chi scappa all’estero come estensione della propria protezione familiare, facendo in fondo ciò che farebbe anche a casa propria.

    Dinastie criminali stabili

    L’arresto di Antonio Strangio a Bali – e la sua permanenza in Australia – come quelle di Vottari e di Crisafi prima di lui o dell’omonimo TT in Germania – ci confermano anche stavolta una cosa: la forza della ‘ndrangheta – quella “doc” – è legata anche alla presenza stabile di dinastie criminali internazionalizzate che possono offrire servizi in giro per il mondo. Ad altri ‘ndranghetisti o anche ad amici o ai colleghi degli ‘ndranghetisti, si veda Edgardo Greco.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    I clan di San Luca (e non sono i soli), nello specifico, “hanno famiglia” sia ad Adelaide che a Perth, in Australia, tanto quanto ne hanno a Duisburg o a Erfurt, in Germania. Questo permette loro non solo di avere protezione – nel senso di ‘nascondiglio’ durante la latitanza – ma anche e soprattutto di stabilirsi in Australia qualora decidano di farlo, come fossero a casa. Alcuni lavorando, come Crisafi il pizzaiolo. Altri studiando, come Vottari, che aveva un visto da studente per iniziare un corso a un’università di Melbourne. Spesso, ancora, dedicandosi al narcotraffico comunque, come lo Strangio di Germania.

    Cognomi che pesano

    Sempre attività di famiglia. Questo non significa assolutamente che tutte le famiglie con tali cognomi o con legami a tali cognomi all’estero siano ‘omertose’ o famiglie di ‘ndrangheta. Esattamente come questo non sarebbe il caso nemmeno a San Luca. Le stesse variabili, di intento quanto di contesto, operano anche all’estero nelle famiglie migranti. Ma all’estero sono molto più difficili da districare e comprendere.San-Luca-latitanti-ndrangheta

    Al di là del panico mediatico che si scatena ogni qual volta la ‘ndrangheta si scopre all’estero, in realtà c’è davvero poco da sorprendersi. Quando della ‘ndrangheta si comprendono i tratti caratterizzanti, tra cui il funzionamento delle dinastie internazionali all’interno di processi più complessi e spesso ‘banali’ nel senso di ‘ricorrenti’ della migrazione che la ‘ndrangheta sfrutta e macchia (come fa in Calabria con interi paesi e dinastie), appare chiaro che questa risorsa diventi preziosa.
    Se come diceva George Bernard Shaw «una famiglia felice non è che un anticipo del paradiso», probabilmente una famiglia di ‘ndrangheta “felice”, o quanto meno assestata, non è che un anticipo dell’inferno o del purgatorio. Soprattutto per chi, ricordiamolo, con certi soggetti condivide legami di famiglia e magari non vorrebbe.

  • MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

    MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

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    Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
    Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
    Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.

    Calabria e Colombia: ridurre la violenza

    Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crime e Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
    Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?

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    Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze

    Due giorni su Calabria e Colombia

    Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
    A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
    Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.

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    Un momento del convegno di Bogotà

    Faide, sequestri e stragi

    La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
    Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
    Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
    La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
    Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
    E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
    La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.

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    L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg

    Tre lezioni dall’Italia

    Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:

    • Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
    • Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
    • L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).

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      Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà

    Tre lezioni calabresi

    Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.

    • Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
    • Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
    • Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.

    Paz Total: il sogno di Gustavo Petro

    Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
    Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
    Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.

    Gustavo Petro, il presidente della Colombia

    Tregua delle armi e legalizzazione

    Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
    Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
    Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
    La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.

    Guerriglieri di Eln

    La ’ndrangheta senza Colombia

    E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
    Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
    Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?

    Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia

    Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
    Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico.
    La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia

    È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
    Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.

    Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca

    Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.

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    I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà

    La lezione colombiana

    Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
    A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
    Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
    Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
    Ma questa è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

    MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

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    «Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.

    I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta

    La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici.
    La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato.
    A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.

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    La sede dell’Interpol in Colombia

    La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa

    È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa.
    La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).

    Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi.
    La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.

    Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico

    Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
    L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
    L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.

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    Salvatore Mancuso Gómez, ex leader delle Auc e re della droga

    Il re della droga

    Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro.
    L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
    Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati  anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.

    Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso

    Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
    Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
    Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.

    Il ritratto di Pablo Escobar in un mercatino di Bogotà

    Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso

    Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
    Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.

    Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia

    Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.

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    Roberto Pannunzi

    Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
    Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
    Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.

    Il mercato maledetto

    È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
    I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.

    Poliziotti colombiani in azione

    Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
    «Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
    Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.

    Strani traffici a Livorno

    C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
    Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.

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    Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel

    Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.

    Una mafia senza nomi

    La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
    La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.

    ‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti

    Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
    Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.

    (CONTINUA…)

  • MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

    MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

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    Riassunto delle puntate precedenti: Matteo Messina Denaro viene arrestato il 16 gennaio 2023 dopo latitanza trentennale. Nel frastuono mediatico, si è rinvigorito lo spettro massonico, ossia l’evocazione di un potere occulto, nutrito di mentalità mafiosa, che avrebbe coperto il boss impedendone la cattura. Tesi accattivante, non fosse per la vaghezza di queste affermazioni.
    Troppo spesso una presenza massonica viene richiamata senza curarsi delle evidenze storiche e sociologiche (per non parlare della rilevanza penale) di quel fenomeno – esistente, seppur dai confini labili – che è la borghesia mafiosa. Tale si definisce quella classe sociale connotata da pratiche illecite sistematiche, alimentate dal contatto ravvicinato tra mafie e “potere” (istituzionale o politico). Nonostante le ambiguità, rimane valida la domanda: che tipo di protezioni ha avuto Matteo Messina Denaro, e soprattutto, quanto c’entra la massoneria?

    Massondrangheta e apericene

    I termini massomafia e massondrangheta dovrebbero cadere in disuso. Parole assimilabili a ristopizzerie, gastropub, o apericene: espressioni lessicali che fondono due cose diverse, preservandone l’identità doppia. Per pigrizia linguistica, non si trovano espressioni più appropriate e articolate. Si uniscono due concetti singolarizzati all’estremo – tutti fenomeni plurali, compositi, stratificati – come massoneria e mafia o ‘ndrangheta (fino a che non esca una massocamorra, o peggio una massosacracoronaunita…). Poi li si semplifica fino all’osso sublimandone la natura in un concetto sdoppiato, indefinito, inutilizzabile a livello di analisi.

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    La massoneria è un fenomeno storico, sociale e organizzativo, contraddistinto da fumose aspirazioni di elevazione personale e sociale. La mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni criminali, da contestualizzare storicamente e sociologicamente. Di fatto, le condotte di mafiosi e massoni vanno attribuite a specifiche persone e sottogruppi, con un impatto differenziato a seconda della funzione esercitata.

    Massoni deviati e mafiosi

    Il ruolo sociale con cui si arriva alla massoneria spesso detta la motivazione per entrarvi: opportunità di affari, per molti; volontà di seguire un percorso d’illuminazione spirituale, per alcuni; opportunità di incontrare persone di analoga estrazione sociale e accrescere il proprio prestigio, per altri. Il comportamento qui conta più che lo status. Del resto, lo status di “massone” – a differenza, in certi casi, di quello del “mafioso” – non è affatto indipendente. Nessuno è “professionalmente” soltanto massone (a parte forse i vertici delle principali obbedienze). Esistono il medico-massone, l’avvocato-massone, il politico-massone, e via discorrendo.

    Si possono individuare quattro formule di interazione in cui la figura di un massone deviato, cioè un massone che non segue la vera ‘chiamata’ della massoneria – all’interno di logge irregolari, spurie, coperte, segrete, o interamente devianti – interferisce nel rapporto tra mafie e potere. Le abbiamo individuate e analizzate in una ricerca sviluppata assieme al professor Alberto Vannucci.

    P2 e Iside 2: comandano i venerabili

    Prima formula: il massone (formalmente in regola o meno con gli statuti della sua obbedienza, ma comunque deviato) è promotore di condotte illecite in un network in cui egli stesso fa da garante agli scambi tra attori di varia estrazione, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari. Questo è il caso della P2 di Licio Gelli – ragno in mezzo alla sua ragnatela, o meglio burattinaio, come lui stesso si autodefinì – nella vicenda che ha irreversibilmente modificato la narrazione sulla natura della massoneria contemporanea in Italia, ridotta nell’immaginario collettivo a sede occulta di affari illeciti e maneggi loschi affidati alle potenti mani di insospettabili.

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    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    È anche il caso, sempre negli anni ’80, della loggia Iside 2 di Trapani (che faceva capo al Centro studi Scontrino) – unico processo penale in cui si è applicata con successo la legge Anselmi (approvata dopo lo scandalo P2) contro l’interferenza nella vita pubblica delle società segrete. Il maestro venerabile della loggia Iside 2, il docente Giovanni Grimaudo, imitando Licio Gelli, pilotava le attività illecite di un reticolo di affiliati composto da “colletti bianchi”, ma anche da alcuni esponenti di Cosa nostra: tutti portavano in dote opportunità, entrature, risorse.

    Grimaudo, come Gelli, offriva servizi di “protezione”, risolvendo i problemi che affliggevano i fratelli nei loro rapporti con l’apparato pubblico. Sia nella P2 che in Iside 2 ai massoni era reso pressoché impossibile incontrarsi e accordarsi tra di loro: tutto doveva passare per l’intermediazione dei maestri venerabili, realizzando così una piena personalizzazione in capo a un solo soggetto dell’attività massonica deviata.

    Rinascita-Scott, la quasi massondrangheta

    Seconda formula: il massone (deviato) è parte di un network di vari soggetti, coinvolti in attività e scambi informali, illeciti, o criminali, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari, senza che nessuno abbia un ruolo dominante. Qui il massone deviato opera all’interno di una cerchia in cui gli scambi di favori, gli illeciti e gli abusi coinvolgono congiuntamente una pluralità di attori. Sono le frequentazioni tra avvocati, medici, politici e imprenditori, oltre che con mafiosi o ‘ndranghetisti, più che lo status di massone, a facilitare la loro proficua interazione. Lo status di massone può amplificare la devianza, all’interno di una camera di compensazione tra contropartite.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    È questo il caso presentato nel maxiprocesso Rinascita-Scott – non concluso– quando si fa riferimento ad avvocati presunti massoni coinvolti in pratiche di corruzione e presunti reati di concorso esterno in associazione mafiosa.
    È anche il caso dell’operazione Geenna, in Valle D’Aosta: un massone (presunto/irregolare) avrebbe tentato di coordinarsi con ‘ndranghetisti locali per convincerli a entrare in una nuova loggia utile a canalizzare consenso elettorale; alcuni degli ‘invitati’ si sentono tra loro per valutare questa opportunità e rinunciano, ma stringono altri accordi sottobanco.

    La paramassoneria e la mafia defilata

    Terza formula: il massone (deviato) è figura marginale in un network dominato da ‘potenti’ (in ruoli politici e istituzionali) che regolano autonomamente attività illecite, con la sporadica inclusione dei mafiosi. Nell’Operazione Artemisia (2019) a Trapani, o meglio a Castelvetrano (paese di Matteo Messina Denaro) un ex assessore regionale siciliano avrebbe dato vita a un’entità para-massonica, in parte sovrapposta ad una loggia ufficiale, della quale il vero maestro venerabile ignorava l’esistenza. Il gruppo operava a prescindere dalle direttive della loggia regolare, permettendo ai suoi membri ‘coperti’ di aiutarsi a vicenda, a spese dei massoni regolari, in caso di necessità. A queste intese nell’ombra partecipavano altri soggetti, spesso neppure massoni, che influenzavano assunzioni e carriere negli enti pubblici.

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    Matteo Messina Denaro nella sua foto più celebre

    In un simile contesto la capacità di accordarsi ‘privatamente’ può tenere ai margini la mafia, giacché i mafiosi “portano problemi”. Un massone siciliano coinvolto in Artemisia racconta che il maestro venerabile della loggia aveva preferito cambiare obbedienza, dalla Gran Loggia d’Italia al Grande Oriente, per ragioni di opportunità, ossia “il tentativo dei massoni della Gran Loggia d’Italia di Agrigento di far entrare nella loggia di Castelvetrano personaggi vicini a Cosa nostra”.
    I mafiosi, dunque, e solo alcuni – persino qualcuno come Matteo Messina Denaro – possono restare defilati, clienti o amici di un gruppo di potenti “colletti bianchi” in grado di “governare” autonomamente i propri patti segreti senza ricorrere ai mafiosi. L’ex consigliere regionale dichiarerà di conoscere Messina Denaro fin dall’adolescenza, e di avere avuto il suo appoggio in ambito politico-elettorale, non massonico.

    Massondrangheta: la Santa e Porta Pia

    Quarta formula: il massone (deviato) è mafioso egli stesso o pienamente coinvolto in una struttura mafiosa che ha tratti (para/pseudo) massonici, essendosi appropriato del capitale simbolico (e relazionale) della massoneria. È quanto emerge a Reggio Calabria dagli ultimi processi Gotha, ‘Ndrangheta Stragista, Meta e altri più datati come Olimpia, trent’anni fa. In questo contesto alcuni massoni (deviati) vengono “plasmati” nella loro nuovo identità dalla ‘ndrangheta, facendo emergere col tempo un sistema di potere integrato, in cui solo i clan hanno mantenuto la loro identità criminale, mentre si è diluito fino a perdersi del tutto il senso di fratellanza a una “obbedienza massonica”. Non ci sono più politici che supportano i clan, o viceversa, bensì politici legati a doppio filo all’associazione tra vari clan dominanti in quel territorio.

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    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Quest’associazione – a un dato momento chiamata Santa o Società di Santa – agiva/agisce come una setta segreta, una sezione riservata (invisibile, per gli inquirenti) che si eleva al di sopra della ‘ndrangheta dedita allo sgarro (la criminalità comune). Il santista era allo stesso tempo massone e ‘ndranghetista: perché ciò potesse accadere, si operò negli anni ‘60-‘70, un cambiamento radicale all’interno dell’élite dell’Onorata Società, ammettendo anche “esterni”, non ndranghetisti. Non più intermediazione massonica tra “mondi” (criminali e dei colletti bianchi) autonomi e separati, ma integrazione tra ruoli, all’interno di un’infrastruttura organizzativa, con un capitale simbolico e relazionale comune, che è terza – né massoneria, né mafia, ma con attributi di entrambe – cesellata da rituali massonici prestati alla ‘ndrangheta.

    Dirà il collaboratore Cosimo Virgiglio: «Dopo il 1995, abbiamo descritto il rapporto con questa criminalità, con la ‘ndrangheta, come un “varco” e nel nostro linguaggio, nel nostro gruppo riservato, si parlava di “Porta Pia”, in riferimento alla “breccia di Porta Pia”… Diverso il discorso per gli ‘ndranghetisti, per i quali questa apertura era chiamata Santa». È il caso più eclatante di rapporto integrato tra massoneria deviata e ‘ndrangheta, in cui entrambe le organizzazioni sembrano cambiare pelle nel perseguire le finalità degli affiliati, al punto da dar vita a una nuova entità che conserva alcuni attributi delle sue matrici, ma non gli scopi originari.

    La vera anomalia italiana

    Che in Italia vi siano state molteplici occasioni di incontro tra mafiosi, politici, imprenditori e professionisti – che erano/sono anche massoni per scelta o per occasione – non implica che dalle loro relazioni nascoste sia germogliato il seme di un’integrazione, o che si siano alterate identità e finalità. La compresenza di fenomeni diversi non significa che siano correlati, né che tra essi esista un nesso causa-effetto.
    Se cercassimo quanto più si approssima all’ambiguo concetto di massomafia, solo la quarta formula potrebbe esservi – con cautela – assimilata. Le altre realtà, in misura maggiore o minore, raccontano di sovrapposizioni e intrecci strumentali, talvolta solo occasionali, legati a personaggi e contesti specifici.massondrangheta

    Ma da queste formule si ricava uno spunto importante: mafiosi e massoni deviati si trovano spesso in posizioni subalterne o paritarie rispetto a politici, funzionari e figure istituzionali o professionali coinvolti in scambi illeciti o favoritismi a sfondo criminale. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza formula: la vera anomalia italiana è l’ampiezza delle sfere di informalità, illegalità e corruzione che coinvolgono i “potenti”. E la loro attività criminale si nutre di segretezza, simboli, riconoscimenti, frequentazioni, ostentazioni di onnipotenza, aspettative di impunità.
    Mafia e massoneria (deviata) sono interlocutori e sedi ideali per propiziare i crimini dei potenti, la cui complessità richiede però nuovi concetti e strumenti di analisi per essere compresa.

    (in collaborazione con Alberto Vannucci, professore di Scienze politiche, Università di Pisa)

  • MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

    MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

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    Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.

    Messina Denaro, eroi ed antieroi

    Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.

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    Paolo Guido, il magistrato cosentino tra i protagonisti dell’arresto di Messina Denaro

    La storia si ripete

    Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.

    Messina Denaro e le zone grigie

    Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.

     

    Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.

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    Il medico Alfonso Tumbarello, espulso dalla massoneria dopo l’arresto del boss

    Ma che cos’è questa massomafia?

    Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.

    Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?

    La confusione aumenta

    Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.massoni

    Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.

    E poi c’è la massondrangheta

    Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
    Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.

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    Un’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista

    La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.

    Messina Denaro e «un’unica famiglia»

    Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.

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    Matteo Messina Denaro tra gli uomini del Ros dopo l’arresto

    Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.

    Più sostanza, meno suggestioni

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    Pasquale Gallone

    Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).

    Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.

  • MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

    MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

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    “Batterie per auto da smaltire, così la ’ndrangheta di Cosenza vuole trasformare il piombo in oro” – così titola LaCNews, a firma di Marco Cribari, il giorno dell’Epifania. Seguono altre testate, come CosenzaChannel “‘Ndrangheta Cosenza, ecco come i clan vogliono smaltire le batterie per auto”, Calabria7 che riprende AffariItaliani, “Batterie esauste, il nuovo business della ‘ndrangheta che avvelena l’Italia”.

    La notizia suggerisce chiaramente un business dei clan cosentini nei rifiuti speciali. Si fa riferimento ad un’informativa del 2020 allegata alle ultime indagini che la DDA di Catanzaro ha effettuato nel cosentino sugli interessi dei clan mafiosi cittadini. Tale informativa confermerebbe che carichi di batterie per auto esauste, ergo da smaltire, partono dal Cosentino per venire poi interrati in modo illecito in provincia di Caserta, a Marcianise per la precisione. Si tratta di rifiuti speciali e dunque, dicono le notizie riportando i risultati della DDA, di ingenti guadagni per le cosche, sempre fameliche di soldi facili e illeciti.

    ‘Ndrangheta, Cosenza e rifiuti speciali

    Come ogni volta che sui giornali c’è una notizia che riguarda faccende di mafia – che ha nel titolo la ‘ndrangheta e qualche suo business come in questo caso – è spesso necessario “pelare” la notizia, come si fa con le cipolle per capirci. Strato dopo strato, bisogna levare via le superfici per cercare di arrivare al cuore della faccenda, possibilmente senza lacrimare troppo.
    Appare chiaramente dalle notizie, una volta lette fino in fondo e una volta approfonditi i dati riportati, che prima di reati di mafia qui si tratta innanzitutto di reati ambientali.
    Cosa è successo, dunque, in questo caso?

    ‘Ndrangheta, Cosenza e il traffico di rifiuti

    Nella geografia dei clan mafiosi della città di Cosenza (spesso per semplicità chiamati clan di ‘ndrangheta, nonostante per alcuni non sembra essere confermata l’affiliazione alla casa madre) si trovano i cosiddetti clan ‘italiani’ a confronto con i clan degli “zingari” o “nomadi”. Quest’ultimo gruppo, secondo le cronache, avrebbe detenuto un monopolio sul traffico di rifiuti speciali fino a qualche anno fa.
    Ma ecco che un imprenditore cosentino – e qui la questione diventa interessante – è intenzionato ad ampliare il mercato e a coinvolgere anche gli altri clan “italiani” della città. Può farlo, tale imprenditore, perché in possesso della licenza che gli consente di smaltire batterie esauste in modo lecito e regolare.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma avrebbe commesso una leggerezza: a fronte di un investimento iniziale di duecentomila euro, ne ha dovuto sborsare oltre la metà di tasca propria in quanto solo un’altra persona ha risposto all’appello per investire nel business. L’obiettivo, dunque, è recuperare gli investimenti e per farlo serve coinvolgere altre società del cosentino e del crotonese, di fatto interessate a frodare lo Stato – quindi a non smaltire regolarmente le batterie esauste – e così facendo, a condonare quell’avvelenamento che lo smaltimento illegale necessariamente provocherà, a Marcianise nel casertano.

    I clan al servizio delle imprese

    Nella gerarchia della serietà della condotta criminosa in questo caso, il traffico di rifiuti speciali e pericolosi sovrasta – per danno sociale – il coinvolgimento mafioso. In pratica questo vuol dire che i reati relativi ai mafiosi sono dipendenti dal reato madre, che è il reato ambientale a opera di colletti bianchi. Detto ancora più chiaramente: la condicio sine qua non di questa vicenda – cioè l’elemento che, qualora mancasse, cambierebbe l’evento stesso – non è la disponibilità della mafia cosentina, italiani o zingari che siano, a essere coinvolta nel traffico di rifiuti, bensì l’esistenza di imprenditori che tentano di aggirare le regole sullo smaltimento dei rifiuti. E che, per farlo, chiedono aiuto a chi, come certi gruppi mafiosi, non si fa problema a entrare nel business illecito.

    La mafia che presta servizi in mercati illeciti lucrativi è variabile dipendente rispetto all’intenzione dell’imprenditore di turno, che dà il via alla partita. Europol, nel suo report sui rischi legati ai crimini ambientali del 2022, ricorda appunto come, a differenza di altri settori in cui sono gruppi di criminalità organizzata si attivano autonomamente, nel settore del traffico di rifiuti, pericolosi e non, il motore criminale parte dalle imprese che cercano di tagliare e evitare i costi dello smaltimento. I gruppi criminali, dunque, non solo in Italia, agiscono sempre più a servizio delle imprese, o “da dentro” di esse.

    Privacy a imputati alterni

    Ma c’è in questa notizia ancora altro che stona. Sui mafiosi o presunti tali coinvolti ci sono dettagli, nomi, cognomi e analisi di intenzioni e possibilità. Così non è né per l’imprenditore cosentino che avrebbe avviato il tutto, né per le società che si sarebbero prestate, o dimostrate interessate, alla frode insieme a lui. Non solo non sappiamo chi sono (e questo potrebbe essere giustificato in termini di privacy), ma non sappiamo nemmeno se e quando qualche provvedimento verrà preso nei loro confronti o se quanto meno ci sia un modo – ideato o potenziale – di protezione di questo mercato.

    Sicuramente siamo tutti pronti a indignarci e gridare allo scandalo della mafia onnipotente perché i mafiosi cosentini fanno i mafiosi, o ci provano: vogliono fare soldi facilmente anche con attività di servizio altrui e questo è riprovevole, come sempre. Ma come mai non ci indigniamo allo stesso modo per i colletti bianchi che quel servizio lo creano? E come mai non ci indigniamo ancora di più quando oltre al mercato illecito che porta guadagni indebiti si commette anche un’atrocità ambientale?

    Nonostante l’inserimento degli eco-reati nel Codice penale dal 2015, la complessità delle normative in materia di rifiuti, spesso associata a scarse risorse per il monitoraggio, l’ispezione e l’applicazione delle norme, comporta ancora rischi ridotti per coloro che infrangono la legge a monte – colletti bianchi, imprenditori e più o meno grandi società e imprese – mentre i profitti illeciti che possono trarre da questo settore sono elevati. Nel caso delle batterie si parla di 1.500-1.800 euro a tonnellata.

    Chi sta sul carro

    Ma il problema non è solo l’arricchimento indebito e illecito – reale o potenziale – di qualche clan mafioso; il problema vero qui è che ci sono pratiche, quasi interamente condonate, di avvelenamento del territorio con i liquidi contenuti all’interno delle batterie esauste, mistura di acqua e acido solforico. Il traffico di rifiuti speciali o la mala gestione dei rifiuti pericolosi non ha solo ha gravi implicazioni per l’ambiente e la salute. Ha un impatto economico anche sulla concorrenza, ponendo le imprese che rispettano i regolamenti per lo smaltimento in una posizione di svantaggio economico.

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    Qual è l’incentivo a seguire i regolamenti se chi non li segue, o cerca di aggirarli, di solito non viene punito? Infatti, si puniscono facilmente i mafiosi coinvolti in questo traffico proprio perché sono “già” mafiosi, ergo già sotto osservazione delle forze dell’ordine; ma in questo mercato i clan sono solo una delle ruote del carro: sul carro stanno imprenditori, colletti bianchi, a volte grandi imprese e i loro arsenali di avvocati.

    Non solo ‘ndrangheta

    Mi permetto un’ulteriore riflessione. A guardare le notizie di cronaca in Calabria sembra spesso che a fare da protagonista assoluta, in faccende criminali di una certa serietà e complessità, sia sempre e solo la ‘ndrangheta: estorsioni, droga, traffici illeciti, appalti truccati, corruzione politica. Sicuramente, nella nostra regione, esistono monopoli criminali; c’è una densità tale dell’operatività dei clan mafiosi che spesso erroneamente si presume che ogni nefandezza che succede qui da noi debba passare dalla ‘ndrangheta, sia collegata alla ‘ndrangheta, oppure sia ideata dalla ‘ndrangheta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Non paiono esistere, nella pubblica percezione calabrese, reati complessi e attività lucrative che non coinvolgano la ‘ndrangheta: reati ambientali, reati societari, reati dei colletti bianchi, reati finanziari e via discorrendo. Fa eccezione, per ora, solo il traffico di migranti, che esula dagli interessi mafiosi perché di base non riguarda il territorio. Quando tali reati complessi si manifestano– e questo caso del traffico di batterie ne è esempio lampante – non paiono esistere in formula del tutto autonoma dall’interesse dei clan, da essi, o dalla loro narrazione, vengono fagocitati Questo non sorprende nessuno, vista appunto la capacità dei gruppi mafiosi locali di penetrare l’economia legale (come illegale) in modo totalizzante e vista la capacità legata alle indagini di mafia di ‘scoprire’ anche altri reati che ruotano intorno ai soggetti attenzionati per mafia.

    I colpevoli dimenticati

    Ma così facendo si rischia, come in questo caso cosentino, di mancare il focus, attribuendo tutto il male di vivere della nostra amara terra a una ‘ndrangheta onnivora mai sazia di denaro facile e moralmente sempre corrotta, senza vedere le sfumature, le differenze tra i clan. E, soprattutto, senza realizzare che le fattispecie criminali locali sono molto più complesse della volontà, dei successi e dei fallimenti della ‘ndrangheta. È un po’ come chi guarda il dito e non la luna: a furia di concentrarsi solo sul ruolo della ‘ndrangheta come protagonista in tutto ciò che non va in Calabria, si rischia di banalizzare fattispecie e attori criminali a volte molto più dannosi e a volte più scaltri di tanti gruppi mafiosi. Quando si riesce a identificare e accusare il mafioso, altri spesso finiscono nel dimenticatoio: per condannare la ‘ndrangheta, si finisce per assolvere de facto altri potenziali colpevoli.