Autore: Anna Sergi

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    Per noi “spettatori” diventa tedioso e abbastanza confusionario ascoltare un’ora e quaranta minuti di lettura del dispositivo che in primo grado condanna o assolve i 338 imputati di Rinascita-Scott. Immaginiamoci cosa deve essere per quegli stessi imputati che attendono il loro nome – chi con la A, chi con la Z – con rassegnazione o speranza, intrecciando gli sguardi con gli avvocati perché non sempre si capisce cosa effettivamente dica il dispositivo in questione.

    I numeri di Rinascita-Scott

    Questa più o meno la situazione dentro e fuori dall’Aula Bunker di Lamezia Terme, con gli occhi della stampa estera ma anche di quella italiana che vuole fare i conti e li vuole fare facilmente. Quanti sono i condannati? Quanti gli assolti? Cosa significa oltre 2000 anni di carcere o 4000? Poi, come spesso accade (soprattutto nei maxi-processi), si comprende che non tutti i condannati sono uguali e non tutti gli assolti sono uguali. D’altra parte, è uno dei motivi di confusione di Rinascita-Scott, soprattutto all’estero: quanto è significativo il processo dipende da chi – non dal quanto – si porta a giudizio.
    Ed in processi così grandi la differenziazione è complessa.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme che ha ospitato il processo Rinascita-Scott

    Nei grandi numeri di Rinascita-Scott ci sono certamente delle condanne importanti e le condanne sono la maggioranza. La cosa non sorprende, se si considera l’apparato accusatorio che mira a guardare l’insieme. Riportano i notiziari che 207 sono le condanne emesse nei confronti di capi e gregari delle ‘ndrine vibonesi. Tra questi sicuramente spiccano le condanne a trent’anni di carcere – sostanzialmente l’ergastolo – emesse nei confronti di Francesco Barbieri, Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Li si considera i capi-mafia, membri apicali della provincia ‘ndranghetista del vibonese, tra quelli rimasti a processo in questa sede. Ma sono comunque non pochi, 134, i capi di imputazione che vengono meno fra assoluzioni e prescrizioni.

    Nomi vecchi e nomi nuovi

    Regge dunque l’impianto accusatorio per, diciamo, due terzi. Si mirava, ricordiamolo, a inquadrare come vecchi e nuovi clan di ‘ndrangheta della provincia di Vibo fossero arrivati a riconoscersi e riconoscere una provincia vibonese, sostanzialmente autonoma dal “Crimine” di Polsi. Al centro il paese di Limbadi dove risiede quella parte della famiglia Mancuso, capitanata per lungo corso da Luigi Mancuso, che spadroneggia sul territorio e fa da “mamma”, come si dice in gergo ‘ndranghetista. Significa dunque che a subire le condanne sono stati – con tutti i caveat di quelle in primo grado e importanti diminuzioni delle pene richieste dalla procura – coloro che ci si aspettava le subissero. Individui, cioè, che in misura più o meno incisiva risultano affiliati ai vari clan della città e della provincia di Vibo.

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    Luigi Mancuso

    Se c’è una cosa che questo processo, sebbene non sia il solo ovviamente, ci sta insegnando è proprio il rapporto tra reputazione mafiosa di lungo corso e riconoscimento di nuovi gruppi criminali-mafiosi all’interno del gruppo di riferimento, cioè la ‘ndrangheta. Ecco perché ci sono, in Rinascita-Scott, nomi “vecchi” da Mancuso a Bonavota e Razionale. Ed ecco il perché di nomi “nuovi” – ossia meno conosciuti ai non addetti ai lavori o a chi vive lontano da quei territori – come Barba o Lo Bianco.

    Rinascita-Scott e i colletti bianchi

    Se ci si aspettava più o meno il successo dell’impianto accusatorio per quel che riguarda la mafia vibonese in senso stretto – d’altronde c’era già stata la pronuncia del processo abbreviato, che in appello ha confermato condanne per oltre 60 individui – quello che poteva incuriosire era il “trattamento” processuale dei cosiddetti imputati eccellenti, i colletti bianchi, protagonisti del processo forse più di tanti altri presunti mafiosi. Ed ecco che proprio qui arrivano delle sorprese.

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    Gianluca Callipo

    Sicuramente alcune sorprese positive per imputati come l’ex sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo e l’ex assessore regionale Luigi Incarnato, entrambi assolti. Così come per l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, condannato ad 1 anno e sei mesi a fronte di una richiesta di condanna a 20 anni di reclusione per reato associativo mirato al voto di scambio.
    Non avendo ancora le motivazioni per questo verdetto odierno è difficile immaginare cosa la Corte abbia escluso come indizio di colpevolezza in questi casi. Nel caso di Giamborino la Corte di Cassazione già nel 2020 aveva chiesto al tribunale di merito in ambito cautelare di colmare alcune lacune motivazionali riguardanti «la probabilità di colpevolezza, la sussistenza del vincolo sinallagmatico tra il Giamborino ed il sodalizio criminale nell’interesse del quale egli avrebbe agito, in cui si sostanzia il patto politico-mafioso, sorto con riferimento ad una specifica tornata elettorale».

    Il caso Giamborino

    Infatti i vari eventi riferiti non sembravano confermare la «serietà» e la «concretezza» dello scambio e anzi essere caratterizzati da «genericità». Questo, si badi bene, nonostante i gravi indizi di colpevolezza che facevano risultare «non peregrino ipotizzare che il Giamborino abbia goduto dell’appoggio del locale di Piscopio nella competizione elettorale del 2002». Si legge nel dispositivo che Giamborino è stato condannato per il reato all’art. 346 bis (traffico di influenze illecite) ma per altri reati contestatigli gli viene riconosciuta la formula assolutoria «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste». E ci si chiede se, dunque, quest’altra Corte di merito non abbia accolto quel consiglio della Corte di legittimità a essere più specifica del rapporto sinallagmatico e non ci sia infine riuscita in modo soddisfacente da provarlo oltre ogni ragionevole dubbio.

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    L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino

    Inoltre, sebbene sia pacifica la sua definizione giurisprudenziale, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – così come quello di voto di scambio –  rimane particolarmente ostico. E, pertanto, soggetto a grandi divergenze nella sua applicazione pratica. Risulta particolarmente complesso raccordare le varie condotte del colletto bianco, non affiliato, e ricondurle a un contributo volontario, specifico e consapevole al gruppo mafioso. E risulta ancora più complesso gestire in sede di merito quelle che sono doglianze di legittimità. Coordinarsi nel giudizio di merito come quello attuale con giudizi della Corte di Cassazione, che spesso intercettano questioni polivalenti nel tentativo di valutare situazioni a latere, per esempio legate alle custodie cautelari, è notoriamente materia complessa.

    Rinascita-Scott e gli undici anni per Pittelli

    Tra le notizie negative per gli imputati, sebbene con pene in parte ridotte rispetto alle richieste dei Pm, alcune dimostrano plasticamente la complessità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra queste spicca la condanna del colletto bianco per antonomasia di Rinascita-Scott, Giancarlo Pittelli. Ex senatore e politico, avvocato e uomo molto conosciuto nei suoi ambienti, Pittelli ha fatto parte in vari momenti anche delle logge massoniche locali, appartenenza che potrebbe aver amplificato la risonanza delle sue condotte.

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    Giancarlo Pittelli si è visto infliggere una condanna a 11 anni di reclusione

    L’avvocato-politico è stato condannato a 11 anni di carcere, a fronte dei 17 chiesti dalla procura. Ma questo sarà arrivato con non poca sorpresa a lui e ai suoi avvocati che da anni sono impegnati in ricorsi – ovviamente non solo loro – davanti alla Corte di Cassazione e al Tribunale del Riesame per chiarire la posizione dell’imputato, soprattutto per quanto riguarda la sua detenzione. Qui emerge la complessità di raccordare giudizi di merito con giudizi di legittimità che solitamente seguono.

    Millanteria o no?

    Già un anno fa, per esempio, la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dei legali di Pittelli contro una decisione del Tribunale del Riesame, aveva confermato la rilevanza ai fini cautelari di alcune condotte dell’avvocato-politico imputato ma non di altri indicatori di grave colpevolezza. Ribadiva, in sostanza, che per il concorso esterno in associazione mafiosa serve più della millantata o reale “messa a disposizione” del professionista.

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    La Corte di Cassazione

    Il Tribunale di Catanzaro, a cui la Cassazione aveva dunque rinviato il giudizio, nel gennaio del 2023 ha poi chiarito che la condotta dell’imputato di “messa a disposizione” fosse qualificabile come una millanteria del Pittelli. Ed ha altresì escluso che l’imputato abbia «usufruito o tentato di sfruttare particolari entrature, in ragione del suo ruolo, per agevolare la consorteria».
    Anche qui, in attesa delle motivazioni del verdetto, è difficile valutare cosa il Tribunale abbia considerato grave indizio di colpevolezza in questo caso da giustificare invece gli 11 anni di condanna. Rimarrà certamente argomento del contendere in appello.

    In carcere a lungo, poi l’assoluzione

    Da ultimo, giova ricordare che mentre si aspettano le motivazioni della sentenza passerà ulteriore tempo. Ci sono persone assolte in questo processo, per cui la procura aveva chiesto 18 anni di carcere per reati associativi – ad esempio il nipote acquisito che faceva da autista allo zio, boss, per capirci – che stanno in carcere dal dicembre 2019. Per quanto valgano scuse e monete di risarcimento, resteranno private di 4 anni di vita e probabilmente anche della propria reputazione. Questo processo, complesso, lungo, titanico per ragioni che sono certamente comprensibili da un punto di vista dell’impianto accusatorio, porta a una serie di storture di difficile gestione da un punto di vista del rispetto dei diritti umani e della necessità – internazionale, europea, italiana – di gestire i processi in tempi brevi e soprattutto non punitivi.

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    Il procuratore Falvo

    Si rimanda qui alle parole del procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che nota come, nonostante la scelta dei maxi-processi possa sembrare discutibile, a volte viene giustificata dalle dimensioni del collegio giudicante. Ovviamente riconoscendo quanto ciò porti ad ulteriori problematiche su altri processi e pronunce future.

    Realtà giudiziaria e storica

    Ed ecco dunque che mentre aspettiamo le motivazioni – e mentre qualcuno forse mosso dalla voglia inesorabile di più “punitività”, si lamenterà di quelle oltre 100 posizioni di assoluzione e prescrizione – invito a ricordare che delle condanne dei processi c’è da gioire solo fino a un certo punto. E che secondo il principio costituzionale di non colpevolezza fino a prova contraria, ciò che tutti noi possiamo fare fino al passaggio in giudicato di questioni così complesse come la mafia, è analizzare criticamente la realtà, giudiziaria quanto storica, di ciò che i processi e poi le sentenze effettivamente dicono.

  • MAFIOSFERA| Hydra a Milano: il futuro della collaborazione criminale è già qui?

    MAFIOSFERA| Hydra a Milano: il futuro della collaborazione criminale è già qui?

    Il 25 ottobre 2023, a Milano, sono state arrestate 11 persone. A quanto pare le richieste d’arresto riguardavano 153 indagati. Una problematica lettura da parte del GIP sulla situazione mafiosa (anche quella giudizialmente accertata) in Lombardia, che ha subito portato la procura a un ricorso al tribunale del riesame.

    I soggetti sotto indagine sono presunti affiliati a doppio laccio con organizzazioni di stampo mafioso calabresi, siciliane, romane e campane. Tutte “unificate” in un sistema di tipo confederativo tipico della città di Milano.
    Si tratta di un’indagine di quasi tre anni. La Dda di Milano, che l’ha istruita, le ha dato il nome di “Hydra”, evocando quello del mostro mitologico a più teste. Ad occuparsene è la pm Alessandra Cerreti, con il coordinamento della procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola.

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    Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano, durante un incontro pubblico

    Milano, Varese e le tante teste dell’Hydra

    L’indagine, come spesso accade, aveva preso le mosse dall’osservazione degli assetti criminali dopo una precedente azione investigativa. Si trattava di osservare il locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo (VA) in seguito al blitz del 2019 “Krimisa” e alla collaborazione intrapresa da alcuni affiliati del clan, siciliani.

    Dall’osservazione degli assetti di ‘ndrangheta a Lonate Pozzolo tra il clan Farao-Marincola di Cirò, la ‘ndrina Iamonte legata al locale di Desio e a Melito Porto Salvo, e il clan Romeo-Staccu, di San Luca, l’indagine ha poi fotografato una serie di interazioni, ripetute e sistemiche, molto oltre la ‘ndrangheta. Di fatto comprendevano gruppi a composizione diversa: alcuni legati a cosche siciliane, da Palermo a Castelvetrano, altre a gruppi campano-romani. Il tutto riunito in quello che appare un consorzio, un sistema federato lombardo.

    Tutti sullo stesso livello

    Si legge nelle carte d’accusa di come si sia in presenza di «una imponente e capillarmente strutturata associazione mafiosa, operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, costituita da appartenenti alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, avente struttura confederativa orizzontale, nell’ambito della quale, i vertici di ciascuna delle tre componenti mafiose operano sullo stesso livello, contribuendo alla realizzazione di un sistema mafioso lombardo».

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    Le ramificazioni delle società finite nell’indagine Hydra

    Gli inquirenti hanno monitorato riunioni cui partecipavano rappresentanti di ogni gruppo. Gli obiettivi erano di vario livello: estorsione, truffa, riciclaggio, detenzioni di armi, traffico e distribuzione di stupefacenti, ma anche gestione di società di capitali per l’importazione di acciaio e ferro, o gasolio, investimenti per lucrare sull’Ecobonus, sui contratti durante il Covid (per Dpi e sanificazioni), sull’Ortomercato, su parcheggi di ospedali e varie altre attività inclusa la prossimità politica con parlamentari, sindaci ed altri esponenti regionali dei vari partiti.

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    Una delle riunioni monitorate dagli inquirenti

    I soldi “lombardi” restano in Lombardia

    Il sistema è ben oliato, come dice Gioacchino Amico durante una “riunione” a Dairago nel gennaio 2021, sottoposta a intercettazione ambientale: «Noi abbiamo in cassa a maggio… cash… per questo dobbiamo spendere (…) acquisteremo tutte le cose che ci va a costare, asse non asse… costruiremo tutto… sempre dove con i proventi di Milano, Milano… con i proventi di Roma, Roma… con i proventi di Calabria, Calabria… con i proventi di Sicilia, Sicilia…certo così noi sul territorio non abbiamo discordanze…(…) Non hai discordanze… è giusto è corretto non è che tu puoi prendere i soldi da Milano e te ne vai in Sicilia… (…) questi qua li devono pagare a meabbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano…passando dalla Calabria da Napoli ovunque…»

    Milano dagli anni ’80 a Hydra

    Il “sistema Milano” di Hydra, pertanto, è presentato come autonomo per quanto partecipato. Questo non è certo motivo di sorpresa né di novità nel contesto lombardo, anzi.
    Da anni ormai non solo esiste “mafia” in Lombardia, ma questa mafia, che sia di matrice siciliana o calabrese, è altamente intimidatoria e soprattutto altamente specializzata. Lo dovremmo ricordare dai tempi di Antonio Papalia, capobastone aspromontano trapiantato a Nord, a capo della cosiddetta camera di controllo lombarda. Era un organismo decisionale che andava oltre la ‘ndrangheta a Milano e provincia, già a metà degli anni Ottanta, decenni prima di Hydra.

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    Il duomo di Milano, capitale degli affari della ‘ndrangheta

    Oltre alla geografia delle riunioni mafiose e alle attività dei singoli gruppi, la novità di Hydra sta nell’impianto giudiziario, che vede – forse per la prima volta – fotografata non solo la collaborazione tra i gruppi, ma la divisione di risorse e responsabilità tra cosche siciliani, calabresi, campane e romane a Milano e dintorni.
    Insomma, appare chiaro che il pubblico ministero voglia guardare al fenomeno dall’alto, con una cosiddetta helycopter view – una visione dall’elicottero – che vada oltre l’analisi della collaborazione, ma si concentri sulla sistematicità dei rapporti e sugli elementi di novità che questa sistematicità implica.

    Le implicazioni dell’indagine

    Ed eccoci quindi già a soppesare le implicazioni di questa indagine, nonostante sia ancora molto presto per definire i contorni delle responsabilità penali dei singoli individui. Implicazioni prettamente analitiche non seguono infatti lo stesso corso delle implicazioni giuridiche.

    1. Appare acclarato da indagini pregresse e da una storia (non solo giudiziaria) ormai di mezzo secolo che le organizzazioni criminali in Lombardia collaborino. E che lo facciano come organizzazioni prettamente mafiose, cioè per interessi sia di profitto che di potere.
      Esiste sostanzialmente un gruppo ibrido e misto. Però – ed è questa la novità paventata da Hydra – assume forme terze, autonome, sicuramente legate alle case madri ma di fatto con connotati diversi. Si costituisce quindi una morfologia mafiosa tutta locale.
      Questo non dovrebbe sorprendere in un paese in cui ogni mafia assomiglia al suo territorio, socialmente quanto culturalmente. Questo poi è esattamente quello che succede altrove, incluso l’estero: le organizzazioni criminali sono tenute insieme da affinità e contesto e non da patti aprioristici e di fatto non sempre convenienti.

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      Il tribunale di Milano
    2. Sembra avventato sostenere che il gruppo ibrido e misto – il sistema mafia lombardo – non possa disporre di un suo apporto intimidatorio proprio, come il GIP avrebbe sostenuto. Infatti, laddove sembra confermarsi l’esistenza dei singoli gruppi – raggruppati per “mafia” d’origine e come tali giudicati – e dunque la loro capacità intimidatoria, si potrebbe sostenere che queste capacità intimidatorie distinte si cumulino per un processo narrativo e costituiscano la forza intimidatoria del sistema mafioso in generale. E dunque, la riconoscibilità e la reputazione dei singoli affiliati come appartenenti a un sistema mafioso unico seguirebbe all’affermazione della loro capacità intimidatoria.
      In questo senso l’esistenza di una cassa comune di supporto ai carcerati, caratteristica tipica dell’associazione mafiosa, rappresenta altro tassello di tale riconoscimento esterno quanto interno.

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      Detenuti a Milano

      Dirà un presunto sodale che i pagamenti ai carcerati vengono prima dei pagamenti ai sodali, siano essi calabresi, siciliani o napoletani.
      «I soldi servono per i carcerati (…) Stoppiamo tutti i pagamenti! per tutti! – Mandiamo un pensiero per i carcerati! Quello che tu riesci a fare, dopo qui! è la cosa principale, i carcerati…! – i carcerati devono essere i primi a fare. Poi che siamo ad attaccarci i calabresi, o i napoletani o i siciliani, i carcerati vanno mantenuti prima di ogni altra cosa a questo mondo!».

    3. Il punto forse più interessante di questa storia è proprio il modo in cui si parla delle organizzazioni mafiose “siciliane”, “calabresi”, “campane” o “napoletane”.
      Qui il caso Milano e Hydra – come d’altronde è avvenuto anche in passato – sono forieri di preziosi spunti per gli studi sulla mobilità mafiosa.
      Ciò che vediamo della criminalità organizzata (mafiosa) a Milano finiamo poi, storicamente, per vederlo altrove in Italia e all’estero.

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      Una scritta contro i meridionali nel Nord Italia

      Il passaggio non è indifferente: dire i calabresi o i siciliani o i campani per indicare gli ‘ndranghetisti, i mafiosi o i camorristi è un modo di dire a cui siamo abituati ormai, soprattutto quando a parlare sono persone interne al sistema criminale. Però è un modo di parlare scorretto e pericoloso perché normalizza lo stigma “etnico” su certi popoli del sud, come se gli ‘ndranghetisti e i calabresi fossero di base la stessa cosa, o comunque ci fosse una componente “etnica” (l’essere calabrese) negli ‘ndranghetisti che li renda riconoscibili a priori. E siccome stiamo parlando di ‘ndranghetisti in trasferta, che calabresi a volte nemmeno lo sono più, questo è paradossale.

    Collaborazione mafiosa e pregiudizi etnici

    All’estero questa giustapposizione di termini sfocerà nel cosiddetto “pregiudizio etnico”, alimentato dal mondo criminale ma che trasmigra tra autorità e comunità. Prestiamoci attenzione, dunque, ché se l’etnicizzazione è parte del futuro della collaborazione mafiosa anche in Italia, come all’estero, abbiamo di che stare attenti.

  • MAFIOSFERA | Gioia Tauro, chiude il porto? Ci guadagnano i narcotrafficanti

    MAFIOSFERA | Gioia Tauro, chiude il porto? Ci guadagnano i narcotrafficanti

    Non c’è dubbio che la priorità dell’Europa e di tutti noi debba essere la salvaguardia dell’ambiente. Così come che questo possa comportare dei sacrifici da parte degli Stati e dei settori pubblici e privati oltre che degli individui.
    Fatta questa premessa, l’ultima misura all’interno dell’obiettivo dell’UE di raggiungere l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050, il pacchetto Fit for 55 – che si ripropone di ridurre le emissioni europee del 55% (rispetto al 1990) entro il 2030 – ha delle ripercussioni molto importanti su economia e società proprio qui da noi, in Calabria.
    A essere a rischio è il porto di Gioia Tauro, fiore all’occhiello (sebbene spesso vituperato) del commercio e dell’economia regionale. Il giornalista Michele Albanese ha definito questa faccenda uno «tsunami epocale» di cui pochi hanno capito la portata effettiva.

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    Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea

    Si tratta di una revisione del sistema europeo di ETS – Emission Trading System – cioè del sistema di scambio delle quote di emissione. È una revisione proposta in Commissione Europea il 14 luglio 2021 per estendere il campo di applicazione del sistema ETS e includere anche le emissioni provenienti dal settore marittimo. Tale sistema era già stato applicato al traffico aereo dal 2014.
    La Direttiva e il Regolamento sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 16 maggio 2023. Entrambi gli atti legislativi sono entrati in vigore il 5 giugno 2023. Tuttavia, sia la Direttiva che il Regolamento si applicheranno a partire dal 1° gennaio 2024. Ed ecco perché ne stiamo parlando ora.

    La legge non è uguale per tutti

    Il sistema ETS dell’UE avrà un impatto su diverse dimensioni e tipologie di navi nei prossimi anni. Ad esempio, dal 2024, su navi da carico e passeggeri di stazza lorda (GT) pari o superiore a 5.000, indipendentemente dalla loro bandiera. Dal 2027, su grandi navi di servizio offshore (oltre 5.000 GT).
    La direttiva prevede che la tassazione delle emissioni sia calcolata oltre che sulla tipologia di nave anche sulla distanza percorsa: si tasserà al 50% se lo scalo di partenza o destinazione è extra-UE e al 100% se partenza e destinazione se i porti sono in UE.
    Per capirci, da Singapore a Gioia Tauro la tassazione sarà al 50%, ma da Gioia Tauro a Livorno o Genova sarà al 100%. Questo perché i porti di trasbordo (transhipment) ad almeno 300 miglia nautiche da un porto europeo, non saranno considerati come scali, mentre i porti in UE lo saranno.

    La denuncia di Agostinelli

    Si tratta di un sistema per applicare il principio “chi inquina paga” e offrire incentivi alle parti interessate per ridurre la propria impronta inquinante. Purtroppo, però ci sono due effetti collaterali.
    Innanzitutto, sembra ovvio ritenere che le compagnie di navigazione nel settore dei container che effettuano il trasbordo da nave a nave nei porti dell’UE andranno a ridurre i loro pagamenti per l’ETS semplicemente cambiando il loro hub di trasbordo da un hub UE a uno non-UE.
    E secondo, come già fatto notare dal Porto di Gioia Tauro, affiancato da MSC, Filt Cgil e Uiltrasporti, la normativa è discriminante per alcuni porti europei più che per altri.
    Ha dichiarato Andrea Agostinelli, presidente dell’Autorità Portuale di Gioia Tauro: «Tutti gli armatori dovranno pagare una tassa per le emissioni di gas serra nel bacino del Mediterraneo. L’Europa ha deciso di tassare gli armatori perché vuole spingerli a modificare il sistema di navigazione e di trasporto, ma ha adottato un provvedimento che discrimina i porti mediterranei rispetto a quelli extraeuropei».

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    L’ammiraglio Andrea Agostinelli

    Gioia Tauro? Meglio l’Africa

    Lo svantaggio competitivo degli scali di transhipment sud-europei è tanto superiore quanto più alta è la percentuale del porto nell’attività di trasbordo. E Gioia Tauro ha percentuali di transhipment sul totale dei container movimentati pari al 95%.
    Secondo uno studio commissionato dall’Autorità Portuale dello scalo calabrese ad Alessandro Guerri, Gioia Tauro è proprio «la tipologia di porto che gli armatori saranno più incentivati a sostituire/evitare», palesando quindi una reale chiusura o abbandono del porto.
    È dunque molto probabile – anzi, dice già la ricerca scientifica, economicamente molto conveniente – che gli armatori scelgano di dirottare i container da transhipment in porti non EU per portare a zero i costi da ETS, ma de facto mantenendo le emissioni nel Mediterraneo.

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    Tanger Med trarrebbe vantaggio dalla crisi di Gioia Tauro

    Il traffico marittimo non si ferma e il mare – in questo caso il Mediterraneo – ci collega comunque tutti a prescindere dai nostri confini imposti. Ecco che, a prendere il posto di Gioia Tauro potrebbero essere i porti di Tanger Med o di Port Said, entrambi porti a vocazione di trasbordo, il primo – il più grande porto in Africa – in Marocco – di relativa nuova fattura (inaugurato nel 2007); il secondo, in Egitto, a nord del canale di Suez.
    Chi vuole arrivare in Europa, userà l’Africa per il transhipment pagando molto meno all’ingresso in Europa. E chi non vuole fermarsi in Europa (e che faceva transhipment a Gioia Tauro fino ad oggi), tenderà a evitare i porti europei del tutto, a favore di quelli africani.

    Gioia Tauro e il narcotraffico

    Ma c’è un altro aspetto di tutto ciò che è stato per ora ignorato – forse giustamente, vista l’urgenza e i timori diffusi – ma che pure rappresenta un fattore di rischio – controintuitivo – in questa débâcle sul depotenziamento di Gioia Tauro o addirittura sul suo progressivo abbandono.
    Tra tutti i primati che ha il porto di Gioia Tauro c’è infatti anche quello del traffico di stupefacenti; secondo le ultime stime, lo scalo calabrese riceve circa l’80% della cocaina che arriva in Italia.

    I sequestri di droga regione per regione nell’ultimo report del Viminale

    La cocaina – ma anche la cannabis che ancora arriva in porto – viaggia su container da porti dell’America latina – Santos in Brasile o Guayaquil in Ecuador – diretta allo scalo calabrese o ad altri scali europei come Anversa o Rotterdam.
    Non si tratta di scelte arbitrarie dei trafficanti – tra cui vari gruppi ‘ndranghetisti – quanto di scelte economiche, obbligate quasi, perché legate al mercato marittimo. Se si chiude una rotta legale, si chiuderà anche quella illegale e viceversa. Per ogni rotta che si apre, si apre la possibilità di un suo sfruttamento a fini illeciti.
    Quando il porto di Gioia Tauro attraversava gli anni della bancarotta meno di un decennio fa, le rotte preferirono altri porti Italiani e non. La mano invisibile del mercato a economia capitalista muove le pedine anche, soprattutto, sul mare.

    Coca e ‘ndrangheta

    La previsione criminologica – sicuramente per ora ipotetica – è molto semplice. Se il porto di Gioia Tauro perde clientela e traffico fino all’abbandono a favore di porti nordafricani, anche la cocaina dovrà spostarsi. I porti nord-europei, per quanto intaccati dalla direttiva europea anch’essi, non hanno molti sostituti ergo il traffico (lecito e illecito) verso i porti olandesi e belgi rimarrà costante.
    Il traffico che dai porti sudeuropei si dirotterà sul Nordafrica invece porterà con sé anche il narcotraffico che da Gioia Tauro o dal Pireo (altro porto ad alto tasso di confische di narcotici) si sposterà in Africa. E qui la geopolitica del crimine organizzato ha sicuramente un peso.

    Più problemi per la polizia che per i narcos

    Come confermato in una recente ricerca di Global Initiative Against Transnational Organized Crime, esistono legami molto solidi tra trafficanti di cocaina, finanziatori e distributori tra America latina – principalmente dal Brasile – e Africa, soprattutto occidentale. Non solo arriva la cocaina in Africa occidentale, ma in parte arriva già anche grazie alla ‘ndrangheta. Se la presenza di gruppi di trafficanti appartenenti a diverse organizzazioni criminali in alcuni paesi dell’Africa è cosa nota, lo è anche l’utilizzo di corridoi tra Mauritania, Mali, Algeria e Marocco per il trasporto della cocaina via terra. Da lì, l’Europa è vicina con navi che non devono essere sempre transatlantici muovi-container.

    La cocaina continuerebbe ad arrivare, ma il mercato sarebbe ancora più frammentato, rendendo molta complessa l’azione di contrasto. Uno spostamento delle rotte sull’Africa – e, dunque, delle rotte illegali sull’Africa del Nord – non turberebbe molto i gruppi criminali, ammesso che riescano a organizzarsi con emissari e broker locali e in Sudamerica (e molti ‘ndranghetisti riuscirebbero). Ma tale spostamento turberebbe moltissimo le forze dell’ordine, italiane ed europee che perderebbero quel poco vantaggio acquisito negli anni nel conoscere e contrastare il modus operandi dei gruppi criminali che si muovono nei nostri porti.

    Gioia Tauro: il porto della cocaina (e dei sequestri)

    Il porto di Gioia Tauro non è solo il porto della cocaina; è anche il porto in cui si confisca più cocaina che altrove. Le ultime stime danno quasi il 40% della cocaina “ipotizzata” in rotta per Gioia Tauro, confiscata dalla Guardia di Finanza. Il rischio di trafficare cocaina a Gioia Tauro ora è condiviso, dai trafficanti e dalle autorità. Se Gioia Tauro non fosse più la destinazione, la cocaina vivrebbe un periodo di rotte imprevedibili e largamente intoccabili da un punto di vista della confisca e della sicurezza portuale.

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    Cocaina nascosta tra le banane rinvenuta a Gioia Tauro: il carico era di circa 3 tonnellate

    C’è di più: i passi avanti, notevoli, in termini di lotta al narcotraffico, in Europa, subirebbero un’enorme frenata se aumentassero i traffici portuali extra-europei, richiedendo alle autorità europee di rafforzare i rapporti con i porti e i paesi africani, già complessi in materia di narcotraffico. Ad aumentare, come detto, potrebbero essere anche i traffici nordeuropei, andando a insistere su situazioni già molto complesse in porti come Rotterdam, dove la violenza del narcotraffico è già cosa nota.

    Grande è la confusione sotto il cielo…

    Il mercato del narcotraffico è di certo tendenzialmente molto disordinato. Ma ad aggiungere disordine – ad esempio con shock geopolitici di questa portata (da ultimo uno shock simile in Europa lo ha portato Brexit) – si rischia solo di aumentare la violenza che a tale mercato si lega (si pensi agli ultimi anni di Rotterdam) e ad aumentare il peso specifico di alcuni gruppi criminali rispetto ad altri (si pensi ai gruppi irlandesi post Brexit).
    Chiunque porterà un po’ di “ordine” nel caos, chiunque saprà gestire al meglio l’emergenza, ne uscirà più ricco e meglio posizionato sul mercato. E quanto a posizione stabile sul mercato la ‘ndrangheta, nonostante i suoi alti e bassi, rimane reputazionalmente ancora molto forte.

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    Il porto di Rotterdam

    Ma forti sono anche altri gruppi, più attenti ai traffici nel Nord Europa o, appunto, in Africa. Paradossalmente, dunque, si abbandona il porto della cocaina, ma la ‘ndrangheta – che quel porto oggi certo lo usa assai – non abbandonerebbe il mercato della cocaina, che però sarebbe più confuso e frammentato da capire per le autorità. A perderci, insomma, non sarebbero le organizzazioni criminali.

    Gioia Tauro, politica e guerra ai narcotici

    Ma mentre si ipotizzano tali scenari, si assiste a flashmob dei lavoratori e al solito balletto della politica, tra colpevoli e più colpevoli. Perché ovviamente questa storia lascerebbe ancora più disoccupazione in una terra già difficile per i lavoratori. Laura Ferrara, eurodeputata col M5S, calabrese, ha risposto agli attacchi che le si sono avanzati su questa vicenda anche con un’interrogazione al Parlamento Europeo che si spera abbia preso risposta. Sicuramente la vicenda non può finire qui.

    Mentre si aspettano risposte dalla Regione e dal governo oltre che dall’Europa, dal porto di Gioia Tauro la proposta arriva chiarissima: il regime applicato a Port Said e Tanger Med si estenda anche a Gioia Tauro e ad altri porti europei simili (Malta, Sines, Pireo), altrimenti lo scalo calabrese andrà perso.
    E se si perde Gioia Tauro, si perde anche quel poco di controllo che si ha sulla cocaina a Gioia Tauro, in Italia e dunque in Europa, a vantaggio solo di chi la traffica.

    Se davvero si arrivasse a quel punto sarebbe auspicabile come minimo un serio discorso sulla decriminalizzazione di alcune sostanze stupefacenti, dal momento che la war on drugs, la guerra contro i narcotici, subirebbe ancora un’ennesima, mortale batosta.

  • MAFIOSFERA | Arge…’ndrina: ora la Santa è di casa a Baires?

    MAFIOSFERA | Arge…’ndrina: ora la Santa è di casa a Baires?

    Tira davvero aria buona a Buenos Aires: il 19 settembre scorso presso il Dipartimento Centrale della Polizia Federale argentina si è svolta una cerimonia solenne di presentazione ed inaugurazione del Departamento Investigaciones Antimafia, nato sul modello italiano della Direzione Investigativa Antimafia, la DIA.
    Nonostante il nome e il chiarissimo legame con l’Italia, il focus della DIA Argentina non sarà soltanto sulle consorterie mafiose, tra cui ovviamente la ‘ndrangheta calabrese, protagonista del narcotraffico globale e dunque presente in America latina, inclusa l’Argentina.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Il nuovo dipartimento antimafia, infatti, esiste già da oltre un anno ed è stata la risposta più o meno concertata dei paesi latinoamericani a una serie di emergenze, incluso l’omicidio di Marcelo Pecci, pubblico ministero paraguayano ucciso nel maggio 2022 e che, tra le altre cose, aveva indagato anche sui rapporti di ‘ndranghetisti con trafficanti locali. Per l’omicidio di Pecci, a indagini ancora in corso, si è arrivati persino a sollevare l’immunità parlamentare di Erico Galeano, in Paraguay, per i presunti legami tra questi e il gruppo che avrebbe ucciso il pubblico ministero. Insomma, si tratta di criminalità organizzata particolarmente sofisticata e protetta dall’alto.

    ‘Ndrangheta in Argentina: la Santa a Buenos Aires

    Ma la decisione di creare questo organo investigativo a Buenos Aires aveva anche due altre ragioni. Primo, in Argentina risiede il maggior numero di italiani all’estero, al pari o poco sopra gli Stati Uniti d’America (contando anche le seconde generazioni per esempio). Secondo, riporta il quotidiano La Nación, la decisione sarebbe arrivata dopo che uno dei capi dell’Arma dei Carabinieri italiana avrebbe rivelato che proprio in Argentina si sarebbe svolta la prima riunione della “Santa” fuori dall’Italia.

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    Italo-argentini sfilano per le strade di Buenos Aires

    Non è dato sapere cosa si intenda precisamente per “riunione della Santa”. In Calabria, infatti, per “Santa” si indica la parte riservata, elitaria, della ‘ndrangheta e non in generale l’onorata società. Se confermata pubblicamente, questa notizia cambierebbe di molto l’assetto della ‘ndrangheta internazionale, che ha avuto storicamente in altri posti – come il Canada e l’Australia per esempio – delle sue propaggini estere apparentemente molto più solide e radicate che quelle argentine.

    Una riunione in Argentina implicherebbe forse un ruolo di “tramite”, di “frontiera” riconosciuto agli ‘ndranghetisti in America latina che va un po’ oltre quello che si sa della presenza mafiosa italiana in queste terre. Oppure si potrebbe trattare soltanto di un ruolo di convenienza, proprio per l’assenza di densità mafiosa locale (meno concorrenza, meno disturbo) e per la mancata attenzione delle forze dell’ordine ai fenomeni criminali di questo tipo.

    Non solo ‘ndrangheta: la Dia argentina

    Fatto sta che la DIA argentina è la prima unità antimafia a nascere in America latina. Con oltre 60 agenti, fa capo alla Sovrintendenza alle Investigazioni della Polizia Federale e mira a perseguire non solo la ‘ndrangheta, ma anche altre organizzazioni para-mafiose (si menzionano le triadi della mafia cinese) che operano nel paese.
    Ci sono già delle prime operazioni in cui l’unità ha riscosso successo.
    Nel luglio dell’anno scorso dieci persone sono state arrestate con l’accusa di aver commesso una truffa milionaria ai danni dell’azienda Tarjeta Naranja, mediante falsi acquisti.
    Ad agosto di quest’anno agenti della DIA hanno fatto irruzione in diversi uffici e abitazioni legati alla società Crypto Coinx World sia a Buenos Aires e provincia che a Santa Fe. L’azienda è stata denunciata per aver messo in atto schemi fraudolenti di tipo “piramidale”.

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    Una filiale dell’azienda truffata

    Dunque, il focus della DIA in Argentina al momento appare molto ampio. E la ‘ndrangheta? Nel novembre del 2022, gli agenti dell’unità antimafia hanno portato a compimento l’arresto di Carmine Alfonso Maiorano in una località vicino a Buenos Aires. Originario di Cosenza, secondo I-CAN, il programma di scambio e cooperazione internazionale contro la ‘ndrangheta creato dall’Italia a mezzo di Interpol, Maiorano era associato o comunque facilitatore di clan calabresi ed era ricercato dal 2015 in seguito all’operazione Gentlemen della DDA di Catanzaro contro i clan della Sibaritide. In questo caso quindi, la DIA argentina ha agito da tramite dell’Italia via Interpol.

    Cocaina e facilitatori

    Bisognerà ovviamente aspettare per valutare l’operato di questa unità speciale antimafia. Nel frattempo sarebbe opportuno che si facesse chiarezza sull’effettiva presenza della ‘ndrangheta in Argentina, per evitare di partire col piede sbagliato. Sicuramente non si parte bene se una persona come Maiorano viene definito “capo-maximo” della ‘ndrangheta dai giornali a seguito del suo arresto.

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    Per i giornali in Argentina, Maiorano è un “capo-maximo” della ‘ndrangheta

    Che esistano cellule di ‘ndrangheta in Argentina non è cosa nuova. Lo ha confermato anche di recente l’operazione Magma (2020) coordinata dalla DDA di Reggio Calabria. Sono emersi gli interessi sudamericani dei clan sia per quanto riguarda la cocaina sia per quanto riguarda la presenza di facilitatori – avvocati, imprenditori – che possono aiutare i latitanti (si pensi a Rocco Morabito, arrestato in Brasile e facilitato, tra gli altri, da un avvocato italo-argentino, Fabio Pompetti, proprio a Buenos Aires) e consigliare su investimenti locali.

    A Buenos Aires per gli accordi

    La cocaina è ovviamente ciò che più attrae i clan in Sudamerica e anche in Argentina. Ce lo ha raccontato, tra le altre, Operazione Santa Fe, della DDA di Reggio Calabria nel 2015. Riguardava un traffico di cocaina dalla Colombia alla Spagna organizzato e partecipato dai Bellocco, dagli Alvaro e altri clan di ‘ndrangheta.
    Nella sentenza di Santa Fe del 2017 si legge che in data 06.09.2014, Vincenzo Alvaro, che commissionava la partita di cocaina, si sarebbe imbarcato da Lamezia, via Roma, alla volta di Buenos Aires per incontrarsi con un intermediario montenegrino, secondo accordi presi laggiù da Angelo Romeo.
    Buenos Aires era, appunto, il luogo dove si facevano gli accordi per il resto della regione.

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    Parte della cocaina – circa 150 kg – sequestrata in Operazione Santa Fe

    Come dichiarato da Giuseppe Tirintino durante un’interrogatorio: «Poi noi parlavamo con le diverse famiglie, chi voleva investire e stabilivamo il quantitativo del lavoro che si doveva fare. … Il 90% delle volte qualcuno di noi andava là sul posto, in Argentina, Uruguay, o Brasile, da dove doveva partire il lavoro per vedere con i propri occhi che le persone erano fattibili per fare il lavoro, magari controllare la merce; una volta che la persona era andata là in Sudamerica e aveva visto che era tutto a posto, dava l’ok qua in Italia per consegnare i soldi».
    Lo schema non riguarda solo l’Argentina, dunque, ma in Argentina trova terreno fertile anche per via di quelle che comunemente vengono chiamate le rotte “controintuitive” del narcotraffico, cioè rotte meno bazzicate, meno rischiose.

    La ‘ndrangheta di Siderno in Argentina

    Oltre alla cocaina, come già detto, in Argentina vivono alcuni facilitatori per i calabresi ‘ndranghetisti, come ci ha raccontato Operazione Magma.
    Ma per quanto riguarda la “struttura” della ‘ndrangheta in Argentina, si può ipotizzare che molto sia ancora rimasto sommerso. Infatti, già nel 2012, in Operazione “Falsa Politica”, coordinata dalla DDA di Reggio Calabria, si vede come proprio l’Argentina fosse già crocevia di incontri e interessi dei clan, e non di clan qualsiasi, ma di quelli della Locride, di Siderno, e dunque delle loro propaggini internazionali.

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    Giuseppe “U Mastru” Commisso

    Diceva Antonio Macrì durante un interrogatorio: «Premetto che vado spesso in Argentina; in occasione dell’ultimo mio viaggio Commisso Giuseppe ha insistito per venire con me perché voleva trovare i suoi avi argentini; il periodo era aprile 2010; in tutto siamo stati insieme sei giorni; con me c’erano tanti miei amici di New York, tutti oriundi calabresi, poi si è aggiunto anche un “canadese” tale Commisso Francesco che vive da tanti anni in Canada, mi pare che abbia un fratello detenuto, poi un mio amico di Vibo tale Ioppolo Nicola, imprenditore; abbiamo alloggiato tutti nell’Hotel Santa Rosa nella pampa argentina».
    Francesco Commisso, alias “Ciccio di Grazia”, già conosciuto alle cronache, è cugino di Giuseppe Commisso, capo della ‘ndrangheta sidernese, conosciuto come U Mastru.

    Doppia anima

    Ancora Calabria-Europa-America, il brand dei Sidernesi. Laddove spesso diventa noto lo ‘ndranghetista che dalla Calabria fa viaggi verso l’estero, meno noto è spesso cosa effettivamente faccia una volta all’estero. È ipotizzabile che se ‘ndranghetisti di rango elevato come Giuseppe Commisso vanno in Argentina, incontreranno persone di Siderno e dintorni che sono emigrate in Argentina e che si mostrano, consapevolmente o meno, vicine ad ambienti mafiosi. Sapere come si compongono e nutrono le reti di appoggio all’estero rimane la priorità e dovrebbe essere il primo interesse delle autorità straniere, proprio come la DIA argentina, poiché sono queste reti a supportare e attrarre la resistenza del fenomeno.

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    Buenos Aires

    La dichiarazione di Antonio Macrì, infatti, conferma anche un’altra profondissima verità nella ‘ndrangheta odierna: l’esistenza non tanto di una ‘ndrangheta globale, ma di una ‘ndrangheta che si sposta all’interno di paesi migranti, come molti in Calabria, a doppia anima: a casa e all’estero.
    Sono le reti dei paesi quelle che più facilmente nascondono – spesso involontariamente – i movimenti mafiosi (non sono le uniche). E in Argentina, queste reti sono parte integrante del tessuto sociale nazionale e dunque creano ancora più possibilità di ingresso e movimento dei capitali mafiosi.
    Ha tirato finora davvero aria buona a Buenos Aires, anche per la ‘ndrangheta.

  • MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    A Polsi le carovane, cioè i gruppi di pellegrini, entrano nel santuario a suon di tarantella. La tarantella è una danza anarchica eppure precisa. Precisa nella ripetitività delle note e nel cerchio che si forma tra i danzatori; anarchica nei suoi passi, nel come si “sente” l’energia della musica. L’energia della tarantella e della sua danza è parte dell’arrivo a Polsi, è tutta Polsi.
    Il Santuario della Madonna della Montagna è a oltre 800 metri sopra la superficie del mare, ma non si “erge”; piuttosto, si inabissa nelle gole dell’Aspromonte, tra i 2.000 metri di Montalto e le colline da cui partono i pellegrini dai paesi tutti attorno. È nel territorio di San Luca, ma dista dal paese oltre due ore di macchina oggi, perché le strade sono quelle che sono.

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    San Luca: in basso a destra, il santuario di Polsi seminascosto tra le gole dell’Aspromonte (foto Anna Sergi)

    Un santuario “difficile”

    È un santuario “difficile” Polsi. Le strade sono mulattiere che nessuno davvero si premura di rendere adatte alla percorrenza. Buche, voragini, cemento ormai distrutto da anni, asfalto inestistente da decenni. Doppio senso di marcia che blocca in una direzione come nell’altra e senso di sconforto che dà l’assenza di segnale telefonico per chilometri. E, dunque, la consapevolezza del disagio e del pericolo se succedesse qualcosa.
    Per il più importante culto religioso della Calabria ci si aspetterebbe un interesse maggiore delle autorità locali e regionali, politiche quanto religiose.

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    Cartelli sulla strada per il santuario di Polsi (foto Anna Sergi)

    Ma nonostante questo Polsi è un luogo dove si può emozionare fino alle lacrime anche chi non crede. Il silenzio ovattato della montagna; l’equilibrio precario tra natura e umanità; l’integrazione tra fede, cultura e storia; la tarantella che sgorga da dentro; la danza che livella e connette tutti.
    Polsi è un luogo che non ha eguali, non solo per chi è devoto, ma anche, forse soprattutto, per chi lo vive nella sua essenza spirituale e culturale.
    A Polsi la Calabria è solo e soltanto terra di energia positiva e forte di una primitiva autenticità.

    Polsi e la ‘ndrangheta

    Forse è proprio per le sue difficoltà orografiche e infrastrutturali – e per le sue atmosfere ritmate tra musica e silenzio – che Polsi si presta a essere strumentalizzato.
    Da un lato come luogo di interessi occulti, criminali, da parte di clan di ‘ndrangheta di paesi limitrofi. Ma dall’altro come centro di attenzione morbosa da parte di giornalisti a caccia di scatti che contengano la graffiante bellezza del luogo, mista al suo lato percepito come sinistro, e la solita immagine della Calabria da malaffare, meglio ancora se condita con l’imbrattamento della fede cattolica.

    https://www.youtube.com/watch?v=A79oXiOt5WI

    Il filmato dei carabinieri a Polsi, finito tra i documenti della famosa operazione Crimine, è ancora su YouTube. Dopo quasi 15 anni possiamo ancora vedere come attuali quelle conversazioni di uomini riunitisi in cerchio, venuti da Rosarno, da Platì, da San Luca stessa, da Sinopoli. Si parlava di Crimine, Capocrimine, Contabile e doti varie. E si “sistemavano” faccende di ‘ndrangheta che a Polsi non avrebbero dovuto mettere piede.

    Profanato da interessi mafiosi: parola della Cei

    Nel giorno della festa della Madonna di Polsi, il 2 settembre scorso, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha inviato un messaggio letto da monsignor Francesco Oliva, vescovo di Locri e abate del Santuario.
    «Il Santuario della Madonna di Polsi – scrive Zuppi – è stato profanato nel recente passato. La casa della Madre di Dio è diventata luogo per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. Papa Francesco a Cassano all’Ionio il 21 giugno 2014 ha avuto parole inequivocabili di condanna verso i mafiosi e la ‘ndrangheta in particolare, dichiarandone la scomunica. Chi fa della casa di Dio luogo di interessi di alcuni offende Maria, la Chiesa tutta, la comunità umana e, in realtà, anche la loro stessa dignità umana».

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    Il cardinale Zuppi e Papa Francesco

    Il luogo di culto per eccellenza

    Non è la prima volta, dunque, che la Chiesa disconosce la strumentalizzazione di Polsi per interessi mafiosi. Ciononostante, si parla ancora spesso di summit di ‘ndrangheta a Polsi, amplificando, come spesso accade, ciò che di male può accadere in quei luoghi.
    Summit, però, implica un’organizzazione specifica. Implica dei fini precisi. Implica anche un’appropriazione consapevole del territorio. E così non è.
    Non è la strategia mafiosa che porta la ‘ndrangheta a Polsi. E non è nemmeno solo la volontà di avere un luogo appartato dove potersi riunire.
    Ciò che può portare esponenti della ‘ndrangheta a Polsi – e li spinge poi a discutere più o meno apertamente di strutture e attività criminali – non è la lucida consapevolezza o volontà di manipolare la religione o profanare il Santuario. È proprio il fatto che la Madonna della Montagna è il luogo di culto per eccellenza di quei territori.

    Polsi nel DNA della ‘ndrangheta

    Gli ‘ndranghetisti sono calabresi e, che ci piaccia o no, sono uomini (a volte anche supportati da donne). Come tali hanno identità plurali.
    Il lato religioso si mischia qui a quello culturale. La pratica secolare dei pellegrinaggi e della novena si mescola alle consuetudini della mangiata della domenica di agosto al Santuario, della presenza alla festa del 2 settembre o alla festa della Croce del 14 settembre. L’abitudine della birra ad un euro mentre si balla la tarantella nella piazza antistante la chiesa fino a tarda ora è inestricabile dalla recita del rosario e dall’intonazione delle canzoni in dialetto dei devoti.

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    Il santuario (foto Anna Sergi)

    L’identificazione culturale con Polsi non è appannaggio solo della maggioranza sana di chi frequenta il Santuario, con le sue paure, le sue fatiche e le richieste perché la Madonna faccia una grazia. È parte anche del DNA dello ‘ndranghetista, che come sempre accade, soprattutto per la ‘ndrangheta, prende il comportamento, i valori e le tradizioni del suo popolo e le rende, consapevolmente o inconsapevolmente, parte di un disegno criminale.

    Ribaltare la domanda

    Bisogna ribaltare, quindi, la potenziale domanda: non è “com’è stato possibile che la ‘ndrangheta si sia appropriata anche di Polsi?”, ma “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi?”.
    Perché c’è di più. Lo ‘ndranghetista che a Polsi porta sé, la sua famiglia e parte della sua attività criminale, oltre a profanare il territorio sacro, fa del male – come sempre – a una parte dei suoi compaesani e corregionali, ma non tutti se ne preoccupano allo stesso modo.
    Lo fa anche avallando la mancanza di rispetto che quel luogo sacro imporrebbe.

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    Polsi: zona sacra, ma non troppo (foto Anna Sergi)

    Manifestazioni di dispregio che non sono solo di matrice ‘ndranghetista e che portano alcuni – sempre una sparuta minoranza, si badi bene – a partecipare alle svariate celebrazioni religiose e sociali perché così fan tutti, o perché ci si vuol far vedere arrivando con la moto rombante fino al piazzale del Santuario. Diverse, certo, dal banale disinteresse di altri che magari vedono il tutto come una bella gita da fare con gli amici. Nulla di illecito in tutto questo, ovvio. Ma non lasciarsi avvolgere da questi luoghi cosicché venga naturale rispettarli nella loro intramontabile, primordiale, bellezza, è già una ferita.

    Cosa può attrarre la ‘ndrangheta a Polsi

    Di questo la ‘ndrangheta si appropria, come tutto ciò che è borderline qui da noi tra inciviltà e criminalità. Ed è anche per questo che alla domanda “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi” si potrebbe rispondere che non solo gli ‘ndranghetisti sono individui a identità plurale e anche loro calabresi, ma anche che la mafia in generale – e la ‘ndrangheta nello specifico – si nutre di quei comportamenti arroganti e irrispettosi che stanno anche fuori di essa.
    Un po’ come i comportamenti di alcuni giornalisti stranieri che mi chiesero come fare per andare a filmare a Polsi e, addirittura, suggerimenti su come riconoscere gli ‘ndranghetisti tra la gente.

    Tutte le mancanze di rispetto per la cultura, la storia e la passione umana, religiosa e non, che diventano arroganza e presunzione possono contribuire ad attrarre la ‘ndrangheta anche a Polsi.
    E come nel canto per eccellenza che si intona a Polsi, la Bonasira, «E la Madonna si vota e ndi dici: vaiiti, bona sira, e santa paci!».

  • MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
    Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
    Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.

    La Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
    Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
    Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri.

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    Una capatina alla caserma dei carabinieri di San Luca

    A onor del vero bisogna menzionare un raro momento di illuminazione nel dare spazio a un commento del comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca, Michele Fiorentino. Il militare ricorda come non solo ci siano persone oneste a San Luca ma anche come il ruolo dello stato sia di proteggere loro, gli onesti, e non solo arrestare gli ‘ndranghetisti.
    Altro momento interessante è la risposta finale di Gratteri alla domanda sulla possibilità di sconfiggere la ‘ndrangheta. Il procuratore dichiara che l’unica cosa che si può fare è tentare di indebolirla, sapendo che probabilmente, in questa vita non la sconfiggerà.

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    Un momento dell’intervista a Nicola Gratteri

    Romanzo criminale

    Nicola Gratteri, da uomo intelligente e magistrato competente, conosce il potere della comunicazione e per questo investe in un’attività di divulgazione continua sul fenomeno che il suo ufficio contrasta. La sua figura, proprio perché capace di comunicare facilmente contenuti complessi, viene però spesso strumentalizzata da prodotti televisivi, mediatici, radiofonici che vogliono spettacolarizzare la mafia, amplificarne l’abnormalità, esacerbarne la difformità da una presunta normalità di altri. Questi altri sono però mutevoli: poco di frequente gli altri calabresi, a volte gli italiani, molto più spesso l’audience di riferimento dell’emittente estera, che siano gli inglesi, i tedeschi, i canadesi.

    Ed ecco poi che invece di intavolare un discorso serio, che so, sullo stato della giustizia in Italia, sugli effetti nefasti che alcuni provvedimenti antimafia, anche quelli approvati coi migliori intenti, producono sul territorio, si finisce per raccontare di come il procuratore di Catanzaro non possa più nemmeno coltivare il suo giardino e accudire i suoi polli senza le telecamere (poveri polli senza privacy, verrebbe da dire).
    Una spettacolarizzazione ad personam della lotta alla mafia operata soprattutto dai media esteri – ma, a dire il vero, qualche volta anche da quelli italiani – che sminuisce il lavoro delle (altre) procure, appiattisce l’impegno serio e di lungo corso del procuratore Gratteri a una narrazione da thriller. E ha onestamente stancato chi di noi vorrebbe contenuti con un minimo di spessore analitico.

    1897-2023: cosa è cambiato?

    Comunque, se anche lo spessore analitico non si potesse avere per ragioni stilistiche e di target/audience, che ci sia almeno una correttezza di narrazione nel prodotto di “intrattenimento”.
    L’assenza di voci di contrasto – che siano i cittadini, i sindaci e le istituzioni amministrativo-politiche e le associazioni – rende documentari come questo parziali e non molto utili nel descrivere “come combattere la mafia”. Ma qui il mio lavoro da analista finisce, si entra in altri settori – la produzione televisiva e il giornalismo – che non mi competono. Quel che però un documentario come quello di SkyNews dovrebbe suscitare è un dibattito su come la Calabria viene raccontata anche quando si parla di ‘ndrangheta.

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    Robbins a spasso per Platì

    Siamo rimasti alla questione meridionale, dove l’arretratezza del Sud, la sua mafia, il malcostume e il malaffare, sono diventate caratteristiche non solo dilaganti, ma praticamente “razziali”, identitarie di un omologato meridione “diverso” che provoca stupore e quasi un’attrazione morbosa da circo in chi lo guarda da fuori.
    Poco è cambiato da quando Lombroso, che il meridionalismo lo aveva riconosciuto ed anticipato di qualche anno, scriveva nel suo libro L’Uomo Delinquente, edizione del 1897: «Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri».
    Ineluttabile fato affligge il calabrese a ripetere i suoi errori, tanto da non chiedersi più nemmeno perché accade. Ma anche estrema verità che Lombroso aveva colto: ci si adatta anche alla mafia nelle “condizioni del paese”.

    Un problema complesso

    Quando si arriva in Calabria e si sceglie di raccontare come SkyNews la ‘ndrangheta come onnipresente, ultra-fagocitante bestia che attanaglia una regione ineluttabilmente piegata al suo volere, si racconta infatti solo una parte del problema mafia. Si appiattisce il problema e lo riduce a un unico nemico. Raccontarne invece la complessità richiederebbe parlare dei calabresi che in convivenza con la ‘ndrangheta – in quei territori “controllati” aspromontani, per esempio – fanno invece altro, molto altro.
    Come andare in pellegrinaggio di una giornata al Santuario della Madonna di Polsi, ignorandone le sue strumentalizzazioni mafiose, invocando le grazie della Madonna della Montagna. Magari suonando una tarantella che a provare a ballarla ti manca il fiato, tanto è dinamica, tanto è vitale.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    No: non si tratta di proporre la solita narrazione della Calabria-folklore, che ignora la presenza della mafia e guarda solo al bello che qui da noi c’è. Si tratta di raccontare insieme la mafia che esiste e opprime e la gente comune che si adatta e ci convive. Conviverci non significa necessariamente piegarsi o approvare il comportamento mafioso, ma accettare che tutti i luoghi sono plurali e che esistono insieme tante dinamiche personali e sociali che esulano dalla nostra sfera di controllo personale.

    Come bestie al circo

    Si potrebbe dunque raccontare la tensione, in alcune parti della Calabria, nel vivere la presenza mafiosa al pari dell’immobilità sociale: ineluttabilmente. Scriveva ancor Lombroso nel suo saggio scritto dopo tre mesi in Calabria, nel 1863, «ogni lamento sarebbe lieve a deplorare lo stato in cui giace in Calabria l’educazione della mente e del cuore del popolo». Interverrebbero a mutare questi assetti sicuramente la fiducia verso lo Stato e la sua azione propulsiva, lo sviluppo economico, la coesione sociale promossa come strumento di questo sviluppo economico. Le colpe, in Calabria, si sa, non sono solo della ‘ndrangheta, che di questa terra è madre e figlia al tempo stesso.

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    Due uomini osservano la troupe di Sky dal loro balcone

    Tornando al documentario di SkyNews sulla ‘ndrangheta a Mafia Land (e alle sue approssimazioni), si constata invece come il processo di “alterizzazione” – e cioè di additamento dell’altro come diverso, strano, pericoloso (in inglese si chiama othering) – sia ancora la normalità per molti media esteri. Ci guardano, a noi in Calabria, come “animali in gabbia” da strumentalizzare per il proprio intrattenimento.
    Non si comprendono le radici profondamente sociali di certi fenomeni, inclusa la mafia, e soprattutto gli effetti dannosi di una narrazione centrata sull’alterità, l’abnormalità e il martirio di chi la combatte.
    Così non si informa bene sulla mafia e non si aiuta l’antimafia. Anzi, la si confonde e la si mina dal basso, alienando proprio quella gente che a San Luca e Platì guarda fuori dalle finestre quando passano le telecamere. E si chiede, forse, quando andranno via gli spettatori del circo.

  • MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    Come per tutti i fenomeni sociali di lunga durata, nella storia della ‘ndrangheta troviamo degli eventi spartiacque che più di tutti hanno segnato un prima e un dopo. C’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta. E, soprattutto, c’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta aspromontana originaria del paese di San Luca.
    Non è più una notizia per nessuno che a Duisburg, in Germania, a Ferragosto del 2007, 6 uomini caddero vittime dell’ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta che consumava due clan di San Luca, Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, dal 1991. Ci sono stati processi, condanne dalla Corte d’Assise di Locri, indagini in Italia e in Germania.
    Chi doveva pagare, più o meno, ha pagato o sta pagando.

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    La strage di Duisburg, ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta partita da San Luca

    Prima di Duisburg non c’era ancora stata operazione Crimine, che solo un paio di anni dopo avrebbe scoperchiato e finalmente portato a processo le strutture, anche quelle apicali, della ‘ndrangheta reggina e ne avrebbe evidenziato dinamiche interne e proiezioni estere. Prima di Duisburg molte delle faide in Calabria erano terminate per lasciare spazio a un nuovo assetto delle ‘ndrine che – grazie a una pur precaria pace sui propri territori – potevano concentrarsi su affari e denaro. E, sempre prima di Duisburg, San Luca, il paese di nascita di Corrado Alvaro, già ovviamente conosceva la crudeltà della ‘ndrangheta, tra i sequestri di persona e altre vicende di sangue legate anche alla faida.

    San Luca: un “modello” di ‘ndrangheta già prima di Duisburg

    Il 14 settembre 2000 era arrivato lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa in quanto «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola tanto la maggior parte degli amministratori, quanto numerosi dipendenti comunali a soggetti organicamente inseriti nelle locali famiglie della ‘ndrangheta, costituisce il principale strumento attraverso cui la criminalità organizzata si è ingerita nell’ente condizionando l’attività dell’apparato gestionale e compromettendo la libera determinazione degli organi elettivi».

    Quella stretta e intricata rete che ovviamente non scompare negli anni ha fatto girare la testa a investigatori italiani ed europei. Quel modello di ‘ndrangheta è diventata la ‘ndrangheta conosciuta altrove, nonostante le enormi differenze tra i vari clan qui da noi. Negli anni persone con lo stesso nome e cognome di quelli coinvolti in Duisburg e con parentele intrecciate allo stesso modo sono diventate soggetti di indagine anche in Germania, e altrove in Europa, esponendo la capacità di alcuni clan della ‘ndrangheta di adattarsi plasticamente al narcotraffico transfrontaliero.

    Guerra e pace

    Dopo Duisburg, però, arriva la pace tra le due famiglie. Un vero e proprio accordo di pacificazione maturò in seguito all’esecuzione dei fermi dell’operazione Fehida, che coinvolse esponenti di entrambe le famiglie, il 31 agosto 2007.
    Si legge nella sentenza di Fehida che nella tarda serata del 4 settembre 2007 (due giorni dopo la festa della Madonna della Montagna al Santuario di Polsi), un soggetto di San Luca coinvolto con i Nirta-Strangio avrebbe inviato in rapida successione due SMS di contenuto analogo con i quali comunicava che «le cose si sono aggiustate». Lo spedirà qualche giorno dopo anche in Germania ad Antonio Rechichi a Oberhausen: «Ora qua le cose le hanno aggiustate».

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Nel pomeriggio del giorno successivo una madre comunica al figlio, appartenente ai Pelle-Vottari che «è tornato il sereno». E ancora, la sera del 6 settembre 2007 Antonia Nirta parla con il fratello Giuseppe e gli dice che «sembra che siano migliorate le condizioni» e che è stata fatta la pace: «Qua sembra che è migliorata la condizione di … il fatto della pace… hanno fatto la pace meglio così». Da ultimo, nel corso della stessa serata, una donna informa Elisa Pelle, a Milano: «Hai visto che bel regalo che mi ha fatto la Madonna a me della montagna?». E la Pelle risponde: «Mi hai fatto la donna più felice del mondo».

    La ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg

    A pace fatta a Polsi, dunque, gli schieramenti iniziali – Nirta-Strangio e Pelle-Vottari – non scompaiono ma diventano i due schieramenti egemoni del paese. Un duopolio in precario equilibrio, ma comunque in equilibrio. Sempre più a vocazione internazionale – Duisburg in fondo è successo perché in Germania i clan si sentivano abbastanza “a casa”, abbastanza protetti – la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg ha sconquassato il paese ed è comunque riuscita ad arricchirsi.

    Il 17 maggio 2013 il comune di San Luca viene sciolto di nuovo; si scioglie una giunta che si era insediata nell’aprile del 2008. In questo caso, si legge nel decreto di scioglimento, che persistono parentele e affinità, e che la pervicacia dell’organizzazione criminale è palpabile nell’amministrazione del paese: «Elementi concreti che denotano il condizionamento della criminalità sull’attività dell’ente locale sono altresì attestati dalla circostanza che circa il 60% dei lavori sono stati affidati dall’amministrazione a soggetti o società contigue alla criminalità organizzata».

    Ma come spesso accade, soprattutto in Calabria, lo scioglimento dei comuni porta solo più abbandono. Nonostante il decreto di scioglimento prevedesse solo 18 mesi di commissariamento, per le elezioni San Luca ha atteso il maggio del 2019.
    Nel 2015 la lista che si era presentata non raggiunse il quorum, negli anni successivi non si presentò nessuno.

    Tre novità

    E la ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta di San Luca, dopo Duisburg – seppur mostrandosi al mondo – non si è invece inabissata come il paese. Alcune tendenze più generali della ‘ndrangheta del territorio, soprattutto della Jonica, si sono manifestate tra le famiglie sanluchesi. Ad esempio, l’inflazione delle cariche e l’apparizione di nuove cariche. E poi, l’abbandono o il camuffamento dei riti di affiliazione, sia per evitare occhi “curiosi” delle forze dell’ordine sia perché l’appartenenza alla ‘ndrangheta da queste parti è diventata fatto consolidato su altre basi, meno esoteriche.massondrangheta

    Da ultimo – proprio mentre tanti nuovi clan, di più giovane origine – cercano di “salire alla Montagna”, di essere riconosciuti dai clan della “mamma”, a Polsi, i clan sanluchesi hanno effettivamente sdoppiato la propria anima.
    Da una parte la “casa” rimane in Calabria, con un controllo del territorio spesso solo per presenza e reputazione, senza nemmeno bisogno di estorcere o “arraffare” proprietà come un tempo. Dall’altra, gli affari – soprattutto il narcotraffico e il grosso degli investimenti – sono stati spostati fuori dalla Calabria, anche in Europa e fuori dall’Europa, con ogni clan che tende a sviluppare un suo canale preferenziale verso uno o più luoghi prescelti. Quelli dove si può manipolare la diaspora calabrese dei compaesani e da dove investire sia legalmente che illegalmente sia più semplice e redditizio.

    Pollino ed Eureka

    Non sorprende, quindi, se dopo Duisburg (nonostante Duisburg) abbiamo due mega operazioni che esaltano le capacità di indagine comune tra Italia e Europa, come ad esempio operazione Pollino nel 2018 e operazione Eureka nel 2023. In entrambe a far da protagonisti sono le ‘ndrine di San Luca – dai Pelle, ai Vottari, dagli Strangio ai Giorgi – tutte ovviamente in cartello tra loro e con altri sodali per muovere tonnellate di cocaina.

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    Uno scorcio di San Luca

    In queste operazioni si inizia a vedere un perverso effetto di Duisburg: la notorietà della ‘ndrangheta e la sua narrazione come organizzazione criminale più potente in Italia, e – per il traffico di stupefacenti – tra le più potenti al mondo, che hanno amplificato la fortuna dei Sanluchesi all’estero.
    Sempre più slegati da San Luca per gli affari, ormai centrati nei porti del nord Europa, ma mai fuori da San Luca perché è al paese che si cristallizza il potere acquisito e mantenuto da decenni. Ecco cos’è la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg.

    Davide e Golia

    Drammaticamente, mentre in tanti, ormai anche in Europa, rincorrono i clan e i loro milioni per mezzo mondo, ci si dimentica che giù al paese le cose vanno forse un po’ meglio, ma non troppo. Tutt’oggi San Luca è il paese con la più bassa percentuale di votanti d’Italia. Nel settembre 2022, alle elezioni politiche, solo il 21,49% dei cittadini di San Luca aventi diritto al voto ha votato.

    Lo Stato c’è, ma è chiaramente traballante. San Luca è un comune di 3.500 abitanti che nel pubblicare, nel 2021, il piano triennale per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, in ottemperanza delle aspettative di legge, si trova a dover fare un copia-incolla dai documenti ufficiali di polizia sulla ‘ndrangheta più evoluta e transnazionale, per delineare il contesto esterno del comune.
    Se è una situazione da Davide contro Golia, stiamo certo facendo il tifo contro Golia. Ma siamo sicuri che stiamo aiutando Davide a vincere?

  • MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    L’Operazione Malea, della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, il 25 luglio ha portato all’arresto di 12 persone. Si ritiene abbiano tutte legami con la ‘ndrangheta nel locale di Mammola, sulla Jonica reggina. Tra le attività spiccano classici intramontabili: traffico di stupefacenti, acquisto e detenzione abusiva di armi, estorsione nel settore boschivo e nell’edilizia. Ma ci sono anche alcune attività più creative del solito.
    Un esempio? Il reato di estorsione per aver imposto ai titolari delle giostre installate a Mammola, in occasione della festa patronale di San Nicodemo, di emettere un numero elevato di titoli (gettoni e/o biglietti) per poter usufruire gratuitamente delle attrazioni ludiche.
    Alle giostre ancora non ci eravamo arrivati. E non è segno da poco: simboleggia l’esistenza di una struttura di ‘ndrangheta arrogante, radicata e presente in paese.

    La ‘ndrangheta in Lussemburgo e i rapporti con Mammola

    Destinatario della misura cautelare in carcere è stato, tra gli altri, Nicodemo Fiorenzi. Per le autorità sarebbe stato il referente del gruppo di Mammola in Lussemburgo. Avrebbe dovuto riferire e concordare con i vertici del locale di Mammola le varie scelte e decisioni sul territorio estero. L’articolazione territoriale in Lussemburgo ha interessi e attività proprie, ma a livello di vertice, ancora ci si parla col paese.
    Queste le dichiarazioni di Antonio Ciccia ai magistrati: «Come ho già scritto vi sono molti miei paesani affiliati che si trovano o sono andati in passato in Lussemburgo. Non so la ragione di tale scelta e cioè non so dire se lì sia stato costituito e autorizzato un locale di ‘ndrangheta. Ma ciò che posso dire è che nel tempo in Lussemburgo sono andati Fiorenzi Nicodemo, Deciso Nicodemo, che fanno la spola tra il Lussemburgo e Mammola».

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    Un fotogramma dalle riprese della Polizia nell’Operazione Malea

    Non a caso, è proprio a Nicodemo Fiorenzi che un giovane della famiglia Cordì, Attilio, di Locri si sarebbe dovuto rivolgere per trasferirsi in Lussemburgo e trovare lavoro, destando sospetti a Mammola sull’opportunità (non avallata) di supportare l’ingresso dei Cordì in Lussemburgo.
    Dirà infatti un presunto capo locale di Mammola che in Lussemburgo Fiorenzi è autonomo, ma non del tutto: «Con tutto il rispetto vostro, …dopodiché, se voi mandate un ragazzo di San Luca, così, va bene… Nico [Fiorenzi], non mi deve dare spiegazioni». E su Attilio Cordì: «Questo poi si tira gli altri, e vedi che poi non avrete voce in capitolo».

    Il buco nero dell’Europa

    In Lussemburgo, infatti, risiedono anche alcuni “giovani”, trentenni o poco meno, di Mammola. E da qui inizia un déjà vu. Perché questa storia dei mammolesi, alcuni anche giovani, in Lussemburgo noi già la sapevamo.
    Facciamo un passo indietro. Qualche anno fa, nel febbraio del 2021, grazie a dei dati ricavati da OpenLux IrpiMedia ci aveva raccontato della ‘ndrangheta in Lussemburgo. OpenLux era un’inchiesta collaborativa che partiva da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese.conto-lussemburgo-mammola-ndrangheta

    L’inchiesta ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.
    In quell’occasione il Lussemburgo era apparso in tutta la sua “debolezza”: un paese con forte protezione del capitale privato, dove fare affari sporchi, o semi-puliti, non costa tanto, grazie anche a una diaspora italiana ormai ben radicata sul territorio. Complici la segretezza bancaria e fiscale e una difficile transizione alla trasparenza tra banche e organi preposti al controllo su attività commerciali e di capitali, il Lussemburgo è spesso considerato un buco nero (per le indagini finanziarie) nel cuore dell’Europa.

    Mammola, Lussemburgo e ‘ndrangheta: un déjà vu

    Ed ecco che si arriva al déjà vu. Infatti, OpenLux aveva identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minett, ex distretto minerario del Lussemburgo che aveva attratto molti migranti proprio grazie all’industria mineraria – grazie all’analisi del registro dei beneficiari effettivi. Ristoranti vicini, residenze vicine, e amicizie intrecciate sui social. Un paese a doppia anima, Mammola, come ce ne sono tanti qui in Calabria: una locale e una migrante.
    IrpiMedia aveva chiarito come tanti di questi ristoranti avessero avuto in realtà vita breve, ma fossero stati aperti con investimenti significativi portati da “casa”. Se, come confermano le indagini, è dagli anni Novanta che soggetti legati a famiglie di Mammola registrano imprese in Lussemburgo, nella geografia di ‘ndrangheta questo significa di solito due cose: il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nel Granducato, e la presenza di strutture mobili di coordinamento tra le frontiere che nascono spontaneamente quanto più da “casa” si utilizzano certi canali.

    Il marchio di fabbrica

    Per quanto riguarda il narcotraffico, è noto da anni che sull’alta Jonica reggina a far da padroni sono i Sidernesi (oltre ovviamente ai gruppi di San Luca e aspromontani). Infatti, tra Mammola e Siderno si è sempre mantenuto un collegamento stretto. In particolare per mano degli Scali, famiglia reggente a Mammola.
    Non a caso, tra le varie operazioni che avevano coinvolto il Granducato e a cui le indagini di OpenLux si erano intrecciate si distingue l’arresto di Santo Rumbo nel 2019, a Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, dove gestiva un ristorante.

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    Riccardo Rumbo

    Rumbo, figlio di uno ‘ndranghetista sidernese, Riccardo, già condannato al 41-bis, è considerato una “promessa” della ‘ndrangheta della Jonica. In particolare, secondo l’Operazione Canadian Connection 2, del Siderno Group of Crime, quella propaggine ‘ndranghetista attiva nell’Ontario. Un asse America-Europa-Calabria che è il marchio di fabbrica dei Sidernesi, soprattutto dei Rumbo-Figliomeni (e dunque legati alla più potente super-‘ndrina Commisso).

    Da Mammola al Lussemburgo, non tutti per ‘ndrangheta

    Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè la nascita di strutture di coordinamento, bisogna partire anche qui dall’analisi sociale. In un paese a vocazione migratoria è normale legarsi alle catene di migranti, cioè andare dove altri dal paese sono già andati. Nel caso di Mammola, pertanto, di giovani partiti per raggiungere “i parenti” in Lussemburgo ce ne sono sicuramente stati e ancora ce ne sono. Alcuni con intenti criminali, ma molti sicuramente con intenti commerciali e la voglia di “fare fortuna” all’estero.

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    Un panorama di Mammola, il cui locale di ‘ndrangheta per gli inquirenti avrebbe ramificazioni fino in Lussemburgo

    Ecco che tra chi crea un business di import-export dall’Italia al Lussemburgo (portando generi alimentari e a volte riportando armi verso sud…), chi si apre un negozio di servizi per la stampa, e chi invece investe “denaro di famiglia”, qualche migliaio di euro, per licenze di ristorazione e rilevamento di attività, passa molto poco.
    Dichiara per esempio Damiano Abbate a Rodolfo Scali (entrambi raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare e considerati elementi di vertice del locale di Mammola): «E se facciamo qualche cosa [in Lussemburgo]? Io e mio cognato vogliamo investire 50mila euro, 100mila euro, là che stai tu, che stanno i figli tuoi, a gestirseli loro, devo vedere che ce li devono prendere che, che quelli vengono là».

    Piccoli don e percezioni da ribaltare

    Nel momento in cui ventenni o trentenni dalla Locride e dalla Jonica, “figli di”, si stabiliscono poi all’estero, in Lussemburgo, diventa poi molto facile, e necessario, coordinare attività, legali ma soprattutto illegali. E, dunque, creare “posizioni” di coordinamento in capo a individui capaci di fare la spola, di parlare le lingue. Insomma, di cavarsela nella doppia anima del paese.
    Bisogna ribaltare la percezione della mobilità europea della ‘ndrangheta. La questione in un paese come il Lussemburgo, e non solo il Lussemburgo, non è “com’è possibile che la ‘ndrangheta arrivi fin là?”. È, piuttosto, il contrario: «Com’è possibile che non ci arrivi?» e «perché mai non dovrebbe arrivarci?». La banalità della mobilità mafiosa, soprattutto europea, si palesa qui chiaramente.

    Vittoria fuori, punti in casa

    Ma c’è un lato spesso dimenticato in questa banalità del male: è la ragione per cui in un paese come Mammola l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta, sebbene spesso percepito o “tentato”, apparirebbe soltanto in questa inchiesta Malea e non prima.
    È sempre più ovvio, infatti, che l’estero “amplifica” la Calabria. Abbiamo infatti tanti esempi di come far fortuna all’estero, vantarla, o comunque coltivarla – al di là dell’occasionale traffico di stupefacenti – con attività stazionarie o presenza costante in un luogo, aumenti il prestigio mafioso “a casa”. E, dunque, anche le opportunità di investimento mafioso “da casa”.
    Essere “attivi” come ‘ndranghetisti all’estero, insomma, ti rende più organizzato e amplifica il successo, a casa. Questo aspetto è un altro effetto della banalità della migrazione mafiosa: nel mondo globalizzato, anche quello della mafia, tutto ciò che si muove lontano da noi torna indietro in altra forma.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    Il 13 luglio, in Paraguay, hanno arrestato due uomini, entrambi Giuseppe Giorgi, di 26 e 22 anni. Gli inquirenti li ritengono affiliati di ‘ndrangheta in trasferta per faccende di droga. Il sette luglio scorso la medesima sorte è toccata a Bartolo Bruzzaniti in Libano. Era latitante dall’ottobre 2022, lo inseguivano ben quattro procure a causa del suo ruolo di spicco nel traffico di stupefacenti transfrontaliero.
    Cos’hanno in comune questi arresti ravvicinati ma in due poli opposti del mondo?

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    Foto da ABC TV

    Bruzzaniti è protagonista di varie indagini degli ultimi anni, grazie anche alla capacità delle forze dell’ordine europee di decriptare la messaggistica su una app di comunicazione chiamata SkyECC in uso a molti trafficanti e frequentatori del sottobosco criminale di mezzo mondo. Bruzzaniti, su SkyECC, parlava con broker della droga del carico di Raffaele Imperiale. Il suo cognome e la sua affiliazione mafiosa, però, lo legavano a doppio laccio con i Palamara-Bruzzaniti-Morabito di Africo. In particolare al re della cocaina Rocco Morabito, almeno fino al suo (secondo) arresto in Brasile nel 2021.

    Un trafficante, due matrici

    Bruzzaniti investiva sull’importazione di cocaina, dunque. Sia a matrice ‘ndranghetista, tramite Morabito e i suoi legami con i brasiliani del Primero Comando da Capital (PCC), sia a matrice “europea”, tramite il cartello di Imperiale con base a Dubai, in collaborazione con i gruppi del nord, nei Paesi Bassi, in Irlanda.
    Ma oltre agli investimenti in denaro, cosa offriva Bruzzaniti? Ce lo dice lui stesso nei documenti confluiti in Operazione Eureka, nel maggio del 2023, tra Milano e Reggio Calabria.

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    Bartolo Bruzzaniti

    In una chat del 2020 Bruzzaniti dichiara: «Io sono forte in Africa e li posso dirvi che se fate come vi dico e senza via vai non vi prendono…ma io in Africa so quali tasti toccare». E ripeterà nel 2021, come rivela l’Operazione Zio nel 2022 della DDA di Napoli con protagonista il neo-collaboratore Raffaele Imperiale: «Compà, io sti giorni vado a Africa pure così vediamo di aprire fronte serio pure lì. Compà lì le mie attività valgono soldi e le ho fatte io pezzo per pezzo. Abbiamo catena ristoranti compà, e pizzerie».

    Bartolo Bruzzaniti, infatti, offre la rotta africana per il narcotraffico anche perché risulta essere residente in Costa d’Avorio, iscritto all’AIRE ad Abidjan, la capitale, dall’agosto 2017. Ma non era certo l’unico a offrire o bazzicare questa rotta. Ad esempio, già dall’Operazione Apegreen Drug nel 2015 erano emersi interessi dei Commisso in Costa d’Avorio, in quel caso legati al traffico di stupefacenti, grazie alla presenza in loco di membri della famiglia.

    Le ‘ndrine e il ponte tra Sud America ed Africa

    Ed ecco quindi che torniamo ai due Giorgi. Dal 2018 sono noti gli interessi delle ‘ndrine di San Luca per l’Africa e Abidjan, attraverso il gruppo Romeo-Staccu e in particolare Giuseppe Romeo, alias Maluferru. Nell’Operazione Spaghetti Connection, secondo le indagini di Irpimedia si rivelava la rotta della cocaina di Maluferru. Partiva da San Paolo in Brasile, poi passava da Abidjan come tappa intermedia prima di arrivare ad Anversa, in Belgio.
    Maluferru si adopererà moltissimo per creare alle ‘ndrine un ponte tra l’America Latina e l’Africa. Utilizzerà i servizi di un imprenditore che in Costa D’Avorio ha affari e anche una compagna ivoriana, Angelo Ardolino. Romeo, in Africa, si porta l’ultimo dei Nirta rimasto libero, Antonio, e anche due cugini omonimi, i due Giuseppe Giorgi. Insieme a loro e con l’aiuto di alcuni napoletani parte l’affare cocaina dal Brasile.

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    Abidjan, capitale della Costa d’Avorio

    L’Africa occidentale per le ‘ndrine, dunque, è da anni una delle rotte emergenti, alternative e sicure, sia per il traffico che per riciclarne i proventi. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia nel suo ultimo rapporto per il 2022 che «si va consolidando la preminenza della ‘Rotta Africana’ in cui lo stupefacente è trasportato via mare verso i Paesi dell’Africa occidentale e del Golfo di Guinea (ad esempio il Senegal, il Mali e la Costa d’Avorio) attraverso il “corridoio del Sahel” caratterizzato da grande instabilità, per essere poi immesso in Europa transitando dal Nord Africa e ovviamente dalla Spagna».

    Da Limbadi a Capo Verde

    La presenza di affiliati, denaro e attività della ‘ndrine in Africa non è pertanto una novità. Quando sono le famiglie apicali che investono nella rotta e nel continente africano, tendono a spostarsi a lungo termine e a ‘restare’, non solo per fare traffici. Di solito inviano qualcuno vicino al clan per stabilire contatti in loco utilizzando aziende e legittimi imprenditori italiani già presenti. I giornali hanno riportato sempre in questi giorni degli affari tra il clan Mancuso, del territorio di Limbadi e Nicotera, e un imprenditore ritenuto vicino al clan, Assunto Megna, in quella che la DDA di Catanzaro ha chiamato Operazione Imperium.

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    Roberto Pannunzi

    Il figlio di Assunto Megna, Pasquale Alessandro, ha parlato alle autorità delle attività di suo padre nella Repubblica di Capo Verde, in particolare un capannone legato alla lavorazione del tonno e imbarcazioni per la pesca. I riscontri delle autorità hanno permesso di localizzare le attività in questione ed identificare un soggetto al cui business, sempre relativo alla pesca, i Megna intestavano bonifici a Capo Verde. Vito Cappello, siciliano, era già stato coinvolto tra il 2012 e il 2013 in tentativi di importazione di cocaina dall’America Latina grazie a una partnership con altri soggetti, tra cui Roberto Pannunzi, noto broker di ‘ndrangheta in Colombia.

    I diamanti per riciclare

    Ma non tutte le famiglie di ‘ndrangheta sono uguali in termini di portata e di interessi. Ad esempio, tra le carte dell’Operazione Gentlemen 2 che a giugno scorso ha coinvolti alcuni clan della Sibaritide si legge del gruppo Forastefano-Abbruzzese e della potenziale relazione tra Claudio Cardamone (broker in Germania/Calabria per il clan) e Malam Bacai Sahna Jr, figlio dell’ex presidente della Guinea-Bissau.

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    Malam Bacai Sanha, ex presidente della Guinea Bissau

    Bacai Sahna sembrerebbe essere già stato coinvolto in traffici di stupefacenti in passato ma gli viene chiesto se può “aprire” anche una via per il traffico di diamanti. Dice Cardamone al telefono con Bacai Sahna: «Sai Bac cosa mi piacerebbe fare? Adesso che sei qui… se inizieremo [a lavorare] mi dovrai dare una mano con… vorrei comprare diamanti».
    Bacai gli chiede se per investimento personale o per affari. Ricevendo risposta affermativa sull’investimento personale («tu sai che sono migliori dei soldi»), Bacai replica «nel mio paese no… per delle pietre buone bisogna vedere in Ghana o Sierra Leone… Botswana, Tanzania… in Tanzania sono i migliori». E aggiunge «Sì per lavare il denaro [riciclaggio] il diamante è buono». E Claudio Cardamone, soddisfatto, risponde: «Che buono averti conosciuto Bac!».
    La relazione tra i due è agli inizi, ma promettente. Importante notare che però in questo caso il legame in Africa è gestito da remoto, non in loco, perché si tratta probabilmente soltanto di una partnership legata agli stupefacenti che necessita di intermediari ma non di “presenza” sul territorio.

    La rotta della cocaina e il problema con i dati

    Fatto sta che quando si tratta di Africa le ‘ndrine – quelle globali e avvezze al traffico internazionale, ma anche altri clan calabresi emergenti nel mondo degli stupefacenti – riescono a trovare investimenti in persone o beni, terreni, case e attività commerciali grazie alla promettente e parzialmente ancora sicura (come investimento) rotta africana della cocaina, che dal Brasile e dalla Colombia passa per l’Africa occidentale fino ad arrivare in Europa via Spagna o Belgio.

    Il continente africano è spesso “dimenticato” quando si tratta di attività antidroga o in generale politiche contro la criminalità organizzata in Europa, complice una distanza culturale tra Nord e Sud del mondo mista ad alcune difficoltà di interazione. Non aiuta il fatto che c’è spesso un problema con la specificità dei dati nelle fonti ufficiali italiane. Spesso i vari soggetti sotto sorveglianza menzionano solo l’Africa in modo generico, senza luogo, senza specificità: «Ho affari in Africa». Questo rende abbastanza complesso trovare riscontri investigativi, che spesso rimangono vaghi come le informazioni che li hanno iniziati: «Tizio si reca in Africa nel mese XY».media_post_7t4q79r_africa-cruise-safari-ndrine

    L’Africa non è uno stato, ma un continente. L’ignoranza geografica e l’assenza di dati direttamente dal territorio sono probabilmente tra i fattori che hanno contribuito alla mancata sistematizzazione dei dati sulla presenza della ‘ndrangheta nei vari territori.
    La presenza delle ‘ndrine in Africa (non solo occidentale) per ora appare largamente aneddotica e disgiunta. Ma alcuni segnali che così non è già ci sono da anni.

  • MAFIOSFERA| La Mano Nera:  nel Queensland paura fa rima con Calabria

    MAFIOSFERA| La Mano Nera: nel Queensland paura fa rima con Calabria

    In Australia andare ai tropici significa andare in mezzo a distese enormi di piantagioni di canna da zucchero. Quando tira vento, tra le piantagioni si sentono suoni antichi e primitivi, che riportano alla mente il complicato passato di queste terre. Siamo nel Nord del Queensland, a due passi dalla Barriera Corallina, accanto al Territorio del Nord e a due passi (si fa per dire) da dove è stato girato la serie di film Crocodile Dundee, per capirci. Proprio quelle zone al Nord-Est del Queensland – Ingham, Innisfail, Ayr, Cairns, Townsville – oggi attraggono turisti da tutto il mondo, mentre i residenti ancora faticano a conciliare le varie eredità indigene con quelle anglosassoni. Qui hanno girato un documentario in tre episodi chiamato The Black Hand, la Mano Nera, in onda in queste settimane in Australia e che, nei prossimi mesi, arriverà anche in Europa.

    Si tratta di una produzione che ci ha messo circa 20 anni dall’ideazione alla finalizzazione. È il frutto della volontà del produttore Adam Grossetti di ripercorrere certi luoghi nello Stato del Sole – il Sunshine State del Queensland – e raccontare certe storie – ormai lontane, degli anni Trenta – che spesso finiscono per essere fraintese. Come posso attestare personalmente per il mio breve coinvolgimento nel progetto, l’entusiasmo, la curiosità e l’ingegno di Grossetti si è travasato direttamente nella morbidità della narrazione e nell’accuratezza delle fonti utilizzate.

    La Mano nera, (quasi) cent’anni dopo

    Per la realizzazione ci si è avvalsi di un italo-australiano, di origini calabresi, d’eccellenza per l’Australia. Si tratta dell’attore Anthony LaPaglia, conosciuto a Hollywood per i ruoli in film come Nemesi, Autumn in New York, Rogue Agent, o serie TV come Senza Traccia. LaPaglia è molto orgoglioso delle sue origini e mostra molta curiosità per i fenomeni mafiosi e para-mafiosi che – già da bambino – ad Adelaide, nell’Australia meridionale, poteva vedere, anche senza capirli, nella comunità d’immigrati calabresi, attorno alla sua famiglia. LaPaglia, nel documentario, viaggia tra Palmi e Bovalino, il luogo di origine di suo padre. A volte commosso, a volte sorridente, spesso con toni drammaticamente inquisitori, aiuta a raccontare una storia di quasi 100 anni fa, ma non per questo poco attuale.

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    Armi sequestrate dalla polizia americana in un’operazione contro la Mano Nera

    Il documentario racconta degli eventi degli anni Trenta, circa 1928-1939, che sono ricordati come Black Hand Terror, il terrore della Mano Nera. Si trattava di un’organizzazione, di un gruppo di uomini, italiani, quasi tutti calabresi, che per un decennio ha commesso omicidi, rapimenti, intimidito la popolazione di migranti e non solo, estorto denaro ai commerciati. Tutto in nome dell’avidità che contraddistingue la criminalità organizzata, ma con mezzi, quelli del controllo del territorio e del potere che deriva dalla paura, tipici della mafia. Ma quel termine, Mano Nera, Black Hand, assume un significato importante in Australia, perché sancisce l’inizio del fenomeno dell’Onorata Società – della ‘ndrangheta – australiana.

    La Mano Nera negli USA

    Ma andiamo con ordine. La Mano Nera è uno di quei fenomeni che rasenta la mitologia, ma che ovviamente ha un fondo di verità storica e anche particolarmente documentata.
    Alla Mano Nera molti associano diversi racket delle estorsioni gestiti da gangster italiani, spesso siciliani o comunque del sud, immigrati a New York, Chicago, New Orleans, Kansas City e altre città degli Stati Uniti dal 1890 al 1920 circa.
    La Black Hand inviava biglietti minacciosi ai commercianti locali e ad altre persone benestanti – quasi sempre solo altri italiani. A firma della richiesta estorsiva c’erano una stampa di mani nere, pugnali o altri simboli, e la minaccia che il mancato pagamento avrebbe avuto conseguenze nefaste, come la distruzione della casa, o la morte di qualche caro.

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    Joe Petrosino

    Con l’avvento del proibizionismo in America e la proliferazione di altri giri di criminalità organizzata votati al contrabbando e alla gestione di altre attività locali in forme para-mafiose, il fenomeno venne neutralizzato. Ci furono risposte severe, negli Stati Uniti, contro la Mano Nera. Il più noto oppositore fu il tenente Joseph Petrosino (1860-1909) del Dipartimento di Polizia di New York, che fu responsabile per le indagini contro molti membri del gruppo, prima di essere ucciso a Palermo, in Sicilia, durante una visita nel 1909.

    Black Hand, Calabria e Queensland

    Ma il fenomeno della Black Hand è un fenomeno affascinante proprio perché, nello stesso periodo o quasi, si presenta con forme simili anche in Canada e anche in Australia, rendendolo una prima formula di mobilità del fenomeno mafioso a matrice italiana, a scopo protettivo-estorsivo. Attenzione però, perché la Mano Nera non era affatto un fenomeno “primitivo” o acerbo, anzi. Si trattava, come ci ricorda lo storico Salvatore Lupo, di una «fenomenologia criminale impersonale» e come tale a vocazione imprenditoriale. In questo, dunque, molto avanzata e sicuramente antesignana della mafia, se non essa stessa già mafia.

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    Femio, ultimo a destra, con la mano sulla spalla del suo capo D’Agostino in una rara foto d’epoca

    Ma torniamo all’Australia, nel Queensland, dove la Mano Nera ha assunto dei volti e dei nomi molto precisi. Si tratta sicuramente di due boss come Nicola Mam(m)one e Vincenzo D’Agostino, avidi e spietati. Al loro fianco, Francesco Femio (Femia), Giovanni Iacona e Mario Strano ma anche molti altri. Tutti calabresi. D’Agostino era arrivato da Genova nel 1924 a Brisbane, la capitale del Queensland. Si era poi spostato a Nord, come in tanti facevano a quei tempi, per lavorare nei campi e poi aprire un forno.

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    Giovanni Iacona

    Vittime e carnefici calabresi

    Le richieste estorsive a firma della Mano Nera arrivavano via lettera che richiedeva “supporto per la Società” con somme variabili, tra i 50 e i 1.000 dollari. La lettera minacciava anche conseguenze molto gravi qualora non si ottemperasse alla richiesta. Non era inusuale bruciare le piantagioni di canna da zucchero, della vittima oppure sparare colpi di fucile verso la sua abitazione, per invogliarlo a pagare. Anche le vittime sono italiane e calabresi, come Alfio Patane (Patané) e Venerando Di Salvo. I familiari di Di Salvo ancora vivi raccontano nel documentario di come si è provato a resistere alla richiesta estorsiva, e di quanto difficile fosse “fare la cosa giusta” in quel periodo.
    La morte di Vincenzo D’Agostino, provocata dalle ferite in seguito a un’esplosione proprio nel suo forno nel 1938, chiuderà la faccenda della Black Hand. L’omicidio di D’Agostino rimarrà però insoluto.

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    Il forno di D’Agostino prima dell’esplosione fatale

    Dalla Mano Nera all’Onorata Società

    La Black Hand del Queensland già aveva tante somiglianze con quella che poi sarà l’Onorata Società o ‘ndrangheta australiana. Ma come ogni fenomeno criminale migratorio che si rispetti, c’erano anche delle differenze: il coinvolgimento nello sfruttamento della prostituzione ad esempio.
    In Queensland come altrove la Black Hand rappresenta quel momento paradigmatico in cui gruppi di mafiosi in erba utilizzano il loro controllo sul territorio – grazie a intimidazione e paura – per lucrare e guadagnare indebitamente. Ma c’è di più. A livello analitico, gli anni della Black Hand rappresentano la nascita del mito mafioso: una società segreta, chiaramente riconoscibile (grazie al simbolo dell’evocativa mano nera) eppure elusiva. E soprattutto una società criminale italiana, o meglio ancora, calabrese.

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    Mario Strano

    Quando Italia si traduce mafia

    Nasce con la Black Hand in Australia – ma anche negli Stati Uniti, con debite differenze – quel corto circuito mentale che porterà ad equiparare il fenomeno criminale con l’etnia dei suoi attori: la mafia italiana. Non si sarebbe più tornati indietro su questo punto.
    Sebbene la Mano Nera in Queensland sia effettivamente sparita dalla fine degli anni Trenta, il fenomeno viaggiò nel resto dell’Australia e diventò sinonimo prima di criminalità organizzata etnica italiana, poi di mafia, genericamente intesa, e infine di ‘ndrangheta o Onorata Società. C’era, certamente, anche un sentimento anti-italiano, anti-migrante, nel modo di raccontare e tracciare la Mano Nera, ma il fenomeno dell’epoca ha aiutato a costruire “l’etichetta” della mafia di oggi.

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    Nicola Mam(m)one

    Negli anni Cinquanta, sono vari i rapporti di polizia tra l’Australia meridionale, il Queensland, il Nuovo Galles del Sud. L’Australia Occidentale e lo stato di Victoria tracciano attività della Black Hand o mafia. Si tratta quasi sempre di notizie date da informatori spaventati che raccontano di racket dell’immigrazione, cioè di immigrazioni pilotate dall’Italia all’Australia gestite da questa organizzazione criminale, ma anche di intimidazioni, violenze, omicidi e, in breve, paura.

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    Un documento sulla Mano Nera in Australia del 1953

    “Solidarietà” tra emigrati

    Nel 1958, nello Stato di Victoria, a Melbourne, un report molto importante delle forze dell’ordine locali cercherà per la prima volta di tracciare la continuità dell’organizzazione criminale dal Queensland oltre venti anni prima a Victoria in quegli ultimi mesi. Il report dirà che l’organizzazione della Mano Nera sul territorio era diretta discendenza della Mafia siciliana, che avrebbe poi esteso il suo potere in Calabria, e in seguito sarebbe diventata The Black Hand all’estero.
    Nello stato di Victoria gli affiliati sono tutti calabresi. Si scrive in questo report che «le informazioni aggiuntive che possiamo offrire allarmerebbero il cittadino ordinario di questa comunità [italiana]». Fondamentale notare che fino a quegli anni, anche a Melbourne, la caratteristica primaria della Mano Nera era chiedere somme di denaro, richieste estorsive, per servizi di protezione in nome di una inappellabile solidarietà etnica.

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    In questo report del 1958 si attesta l’elevato numero di calabresi tra i membri della Mano Nera australiana

    Una festa senza il festeggiato

    C’è un riferimento interessante, in questo rapporto, a un meeting del 21 Settembre 1957 nel quartiere di Brunswick, oggi quartiere molto hipster di Melbourne, a nord della Little Italy nel quartiere di Carlton, e storicamente quartiere di residenza di molti migranti italiani. Il meeting era a casa di un tal Domenico Versace e vi avevano partecipato almeno 30 uomini. Tutti calabresi. Ventotto di loro vennero arrestati per possesso di armi da taglio, e negarono di conoscere o far parte della Mano Nera.
    Versace dichiarò che si trattava soltanto di una riunione tra amici per brindare al battesimo di suo figlio, avvenuto quel giorno, contestualmente al primo compleanno del bambino. Né il bambino né sua madre, però, si trovavano in casa. Un informatore della polizia, però, dirà che si trattava di un “processo” contro un certo Rocco Tripodi che aveva violato le regole della Società, e dunque bisognava concordare la sua punizione e la risoluzione di un problema che Tripodi aveva creato.

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    Melbourne, una via di Brunswick ai giorni nostri

    Questo documento e questa riunione rappresenterà uno degli ultimi momenti storici disponibili in cui il termine Black Hand veniva usato per definire fenomeni criminali legati alla comunità calabrese. Dagli anni Sessanta in poi, per varie ragioni, emergerà il nome dell’Onorata Società, anche perché le attività legate a questi uomini iniziarono ad andare oltre al racket estorsivo, tipicamente identificato nella Mano Nera. È fuor di dubbio, dunque, che esista continuità tra i due fenomeni, se non spesso sovrapposizione.

    L’eredità della Mano Nera

    Quel che appare certo, a un’analisi criminologica dei dati storici, è che la Black Hand ha dato il via alle due posizioni che, anche oggi, caratterizzano l’approccio alla ‘ndrangheta in Australia: da una parte il sensazionalismo legato alla presenza della “mafia” nel paese, che porta a una sorta di panico istituzionale; dall’altra, la difficoltà di separare il fenomeno ‘ndrangheta e più generalmente il concetto di mafia dai migranti italiani e calabresi. Quell’etnicizzazione del fenomeno che si osserva già negli anni della Black Hand nel Queensland, che portò all’epoca a parlare di “mafia italiana” senza identificare le specificità locali del fenomeno – come raccontato magistralmente dal documentario dell’ABC – è costituente e costitutiva del modo di vedere, capire e spesso anche fraintendere la ‘ndrangheta australiana fino ad oggi.