Del capolavoro di Garcia Marquez sembra condividere un’intuizione: le porte esistono perché qualcuno le chiuda. Per raccontare i suoi novantanove anni di vita non basterebbe un libro, figuriamoci un articolo: è la prima cosa che dice mentre ripone sul comodino il ritaglio di un giornale ingiallito e fa segno di accomodarsi. Da decenni insieme alla moglie abita in una casa di una sola stanza persa in un labirinto di strade strettissime. Il grande letto, il cucinino e la televisione che a volume alto spara le notizie del giorno.
Cordì stringe la foto di Alvaro (Foto Salvatore Intrieri)
Nato a Bovalino, ha passato metà della propria vita a rimediare a quella che l’ha preceduta. Degli anni di infanzia e giovinezza ricorda con orgoglio solo un’amicizia speciale, quella con Corrado Alvaro. Infatti, in una stanza disseminata di santini e immagini sacre, il posto d’onore spetta a una grande foto in bianco e nero dello scrittore di San Luca. Le sue mani la indicano stringendo convinte un accendino azzurro come i suoi occhi. La fine della sigaretta nel posacenere è il segno che possiamo iniziare.
L’incontro di Cordì con Alvaro e Pirandello
Alvaro e Pirandello ebbero in effetti un rapporto confidenziale, fatto di molti incontri. Lo scrittore calabrese ne riferisce in diversi episodi della sua intensa produzione letteraria. Fra queste, memorabili quelle nel libro Quasi una vita, il diario edito da Bompiani che gli valse il Premio Strega nel 1951. In quelle pagine Alvaro di Pirandello riporta anche queste parole: “Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.
Errori di gioventù
Il bambino che ha conosciuto questi due giganti ora è il vecchio che è disposto a fare i conti con le colpe della sua vita: «Da giovane non capivo tante cose, perciò ho fatto degli errori». Si scurisce nello sguardo e la voce diventa più roca quando parla di “uomini d’onore”. «Ho iniziato a fare la guardiania ai terreni, con i turni di notte, armati. Deve capire, era gente che pagava bene… e noi avevamo visto tanta miseria». Dice che la chiamavano in modi diversi a Locri e a Reggio, a Cosenza e a Crotone, al tempo in pochi sapevano, ma oggi è chiaro a tutti cosa sia la ’ndrangheta.
In pochi secondi si compie nello stanzino un efficace trattato sul salto di qualità di questa organizzazione criminale ormai globalizzata. L’uomo di quasi cent’anni di vita snocciola fatti con la precisione degli accademici, ma con il patema di chi quelle cose le ha vissute davvero: la morte banale del capobastone più temuto, la strage in piazza del mercato, le famiglie di pastori che formano imprese edili capaci di diventare in pochi anni vasti imperi. Tutto grazie ai sequestri di persona e agli appalti pubblici, presi con la forza, a volte con vere e proprie irruzioni negli uffici comunali.
Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934
Fuga d’amore
La stella di questo uomo segue il corso di questi eventi e sembra ormai segnata, ma cambia all’improvviso insieme a quello di una ragazza di 17 anni, nel cielo di una sera di maggio. «Deve immaginarla, era una figliola assai bella, di povera gente. Un farabutto se l’era presa con l’inganno, raccontando al padre che l’avrebbe portata al paese e fatta lavorare da un dottore». Invece viveva segregata in un piccolo appartamento, abbastanza vicino a casa sua. Racconta di come un giorno ha trovato lo slancio dell’onore vero: così al tramonto ne organizza la fuga e prima che faccia di nuovo giorno, risalendo le fiumare, riesce a riportarla dai suoi genitori.
Un duello ad armi impari
Pare che i fatti gli stiano passando davanti ancora una volta, come nella scura sala del vecchio cinema del paese. Dice che non sapeva bene cosa stesse accadendo in quei frangenti, ma cosa l’attendeva il giorno dopo ancora, lo ha sempre saputo. Così quando, di nuovo a sera, quel poco di buono bussa alla sua porta, i rintocchi sul legno hanno il suono della morte.
«Io non rispondevo e lui insisteva: “Ti debbo parlare”. Così mi sono messo la pistola sotto la giacca e sono andato con lui. Sotto lo stesso ponte che avevamo usato per scappare la notte prima, stavolta c’erano quattro uomini ad aspettarci. Codardi: cinque contro uno, ma ero pronto, sa? Se dovevo andare all’inferno me ne sarei portato almeno tre di loro con me…».
La guerra in Africa
A salvarlo invece fu un caso. O, meglio, un uomo. Tornando dalla pesca passò di lì al momento giusto e con un grido risolse lo stallo. La resa dei conti era solo rinviata.
Ma prima di lei arrivò la guerra, l’arruolamento a Cosenza, l’addestramento in Piemonte, i lunghi viaggi e la campagna d’Africa. Il racconto si fa sempre più dettagliato, fino alle bombe degli inglesi che lo mandano sotto un metro di detriti.
La battaglia di El Alamein
«Il capitano che mi ha aggiustato il braccio nell’ospedale di Tunisi, dove sono stato per tre mesi dopo El Alamein, bestemmiava e gridava: “Loro fanno la guerra e poi mandano questi figli di mamma a morire”. Era contrario alla guerra, e lo eravamo anche noi».
Dopo la guerra quegli occhi decidono che di morte ne hanno visto abbastanza. Tornato in Calabria, ritrova l’amore della donna che aveva conosciuto prima di partire e non la lascia più. Insieme se ne vanno lontano, sperando di lasciarsi tutto alle spalle. Dopo molti anni, però, nella piazza del paese, arriva un’auto scura.
Una nuova vita
Erano tempi in cui i telegiornali litaniano ogni giorno cognomi uguali al suo: è stata la madre delle guerre di ’ndrangheta, che in 40 anni solo a Locri e dintorni ha lasciato a terra quaranta corpi dilaniati dall’odio più cieco. «Io leggevo, ma non volevo saperne più. I miei parenti hanno capito e mi hanno lasciato in pace, altrimenti avrebbero eliminato anche me. Corrado Alvaro lo diceva che non si sconfigge questa dannata malattia, ma forse non pensava che saremmo arrivati a questo. Che devo dirvi, si vede che doveva andare così».
Corrado Alvaro
L’appuntamento
Indica la tv, chiede di avere una copia della foto con in mano il ritratto di Corrado Alvaro e saluta. Il prossimo appuntamento è per il suo centesimo compleanno, vuole un pacchetto di Ms dure da venti per regalo, ma al tabacchino c’è una piccola foto in bianco e nero di un giovane adornato di baffi, giacca e dolcevita: è proprio lui. Dietro c’è scritto: “Quale ricordo a tutti coloro che in vita gli vollero bene e che in morte lo ricordano”. Fatto salvo della moglie e di pochissimi, Enzo è morto in solitudine in quello stesso letto, poche settimane dopo l’intervista. Così, mentre i funerali dei boss vengono celebrati da folle e fanno il giro del mondo, dell’uomo che ha avuto il coraggio di ribellarsi restano una foto sbiadita e venti sigarette dure.
In Argentina, a metà degli anni ’70, c’è un uomo alto alto che passa le giornate a trovare il modo di salvare vite. Fabbrica uno a uno i documenti che servono per spedire donne uomini e bambini lontano dalla violenza del regime argentino. Riesce a salvarne centinaia ma, ciononostante, dorme con il dispiacere di non aver potuto fare nulla per tantissimi altri di quelli che hanno bussato alla sua porta. Passa e ripassa a mente i loro volti, cerca di capire cosa può fare per capire che fine hanno fatto, se in qualche modo possono ancora essere salvati. Va avanti così per molti anni E per un ragazzo in particolare: suo nipote Eduardo.
Il sindaco emigrante
È una storia, quella di Filippo Di Benedetto, che inizia sulle pendici del Pollino, a Saracena. Quinto di sette figli, assorbe la passione per gli ideali comunisti da suo padre, Leone di Benedetto, il primo abbonato al quotidiano comunista L’Unità. Lavorava in una piccola falegnameria e affiancandosi all’opera del pedacese Fausto Gullo, durante gli ultimi anni del regime fascista, all’età di 21 anni, contribuì a organizzate le prime proteste antifasciste del comprensorio. Per questo fu arrestato, torturato e rinchiuso nel carcere di Castrovillari nel 1943. Poi cadde la dittatura e alle prime elezioni democratiche del 1947 divenne sindaco di Saracena.
Di Benedetto, secondo da sinistra, con Sandro Pertini
Organizzò una manifestazione in paese contro chi si opponeva a portare il servizio idrico nelle case di campagne: un corteo che quando arrivò nei campi trovò la strada sbarrata da un cordone di uomini in divisa con i fucili pronti a sparare. «Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori». Un episodio rimasto negli occhi dei molti presenti a lungo, che tuttavia non lo aiutò a far crescere le condizioni economiche della sua comunità, alle prese con un dopoguerra ricco solo di miserie e soprusi.
«Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori»
Con il Comune in grave dissesto, la sua decisione nel 1952 fu quella di provare a raggiungere suo fratello Orlando in Argentina. Avrebbe cercato di rimettersi in forze e di tornare a Saracena, ma gli eventi della vita ebbero il sopravvento e dall’Argentina tornò in Calabria diverse volte, ma come faceva un emigrante.
Ebanismo e sindacato
A Buenos Aires diventò Felipe per gli affetti, e sposò una calabrese emigrata che si chiamava Rosa Garofalo, originaria di Cosenza. Ebbero due figli maschi, Mario e Claudio. Di Benedetto imparò il mestiere di ebanista e provò a integrarsi nella nuova realtà, piena di emigrati come lui. La passione politica lo aiutò parecchio: si iscrisse al Partito comunista e nel 1975 fu nominato responsabile del patronato Inca Cgil di Buenos Aires. A centinaia si rivolgevano a lui per questioni sindacali e ancora di più quando iniziò a frequentare l’Associazione calabrese di Buenos Aires, della quale fu eletto presidente nel 1976.
Di Benedetto durante un comizio del Pci in Argentina
Non era un periodo facile, l’Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo democratico del Cono Sud dell’America latina stava per capitolare sotto i colpi di un conflitto latente. Il 24 marzo del 1976 arrivò il colpo di Stato, e in poche settimane la repressione si fece durissima, fino ad arrivare al crimine contro l’umanità noto come “Sparizione forzata”. A migliaia furono presi clandestinamente, incarcerati, torturati, uccisi e fatti sparire.
Un acclamato intervento di Di Benedetto a una cena di emigrati in Argentina
Sulle orme di papà
Oggi Claudio Di Benedetto, proprio come faceva il papà a Buenos Aires, restaura mobili antichi alle pendici del Pollino, a Castrovillari. Negli anni ’80 ha vinto una borsa di studio in restauro del mobile e ha svolto un corso di perfezionamento in Brianza. Poi ha deciso di vivere in Calabria.
«Mio padre veniva due o tre volte all’anno in Italia. Portava in Argentina i prodotti locali della Calabria e parlava in dialetto calabrese. Perciò, qui era tutto familiare e mi colpì della Calabria la natura: 10 minuti il mare, 10 minuti la montagna… tutto vicino, mentre in Argentina abbiamo delle lunghe distanze difficili da coprire, e un brutto clima. Soprattutto a Buenos Aires».
Riprese di Gianluca Palma, montaggio di Marco Mastrandrea.
L’intervista fa parte dell’Archivio Desaparecido, un progetto di memoria attiva promosso dal Centro di Giornalismo Permanente di Roma
Claudio è molto fiero della storia del padre, anche se è cosciente che per l’indole schiva del carattere che ha ereditato se n’è parlato poco e niente. «Successe che un giorno nel suo ufficio incominciarono ad arrivare alcuni genitori di origine italiana. Raccontavano che alcuni dei loro figli erano stati rapiti e non avevano avuto più notizie di loro. Così mio padre, immediatamente, va a chiedere spiegazioni sia all’ambasciata che al consolato italiano di Buenos Aires, dove era conosciuto. Da parte delle autorità italiane bocche cucite però: nessuna informazione. E questo fa capire la complicità del governo italiano con quella giunta militare».
L’unico ad aiutarlo
A Buenos Aires, a quei tempi un’autorità italiana che ha deciso di non rimanere cieca davanti a tutto quello in realtà c’è. Si chiama Enrico Calamai e fa il viceconsole. La storia lo riconosce come un gigante, sono innumerevoli le opere che raccontano il suo impegno, nel 2004 è stato decorato dall’Argentina con l’Orden del Libertado General San Martín e il suo nome figura fra quelli del Giardino dei Giusti a Milano. Nella sua biografia ricorda il contributo di Di Benedetto, è fra i pochissimi ad averlo fatto: «Aveva una tosse infernale, una giacca logora, ma sapeva da quale impiegato delle Poste andare per spedire un telegramma senza essere denunciato».
Il diplomatico italiano Enrico Calamai
Ai tempi a Di Benedetto diede anche un consiglio importante, lo ricorda il figlio Claudio: «Decisero insieme di aiutare vite umane, salvando centinaia e centinaia di persone da morte sicura; aiutandoli a espatriare anche con passaporti falsi, nascondendo molti di loro in luoghi sicuri e denunciando alle autorità italiane quello che stava succedendo. Io mi ricordo che Calamai molte volte diceva: ‘Filippo, non ti esporre in questo modo… io sono un console, ho l’immunità, ho la scorta, ma tu non hai nessuno che ti protegge. Così metti a repentaglio la tua vita e quella della tua famiglia’. Ma mio padre continuò a salvare vite».
Eduardo è sparito
Ha continuato fino a quando è stato possibile, cercando di non raccontare a nessuno cosa faceva. In famiglia non ne parlava mai, teneva separati gli ambiti, anche perché era molto pericoloso. Difatti, dopo poco tempo, l’orrore che stava piombando nel cuore della notte di migliaia di case argentine bussò anche alla porta di casa Di Benedetto. Domenica Maria Alba Di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, insieme al marito Antonio Eduardo Czainik, vennero presi dagli squadroni della morte mentre erano intenti ad accompagnare a scuola i due figli. Vennero portati in un centro clandestino di detenzione, dove furono brutalmente torturati. Perché?
Eduardo era nato nella capitale federale il 27 aprile del 1947 e faceva il meccanico in un’officina a Posta de Pardo, Ituzaingó, Buenos Aires. Era un militante del gruppo rivoluzionario Forze Armate di Liberazione 22 agosto (FAL 22), ecco perché era su una lista. Ufficialmente risulta sequestrato il 25 agosto 1977 in via Nazca 920, dove abitava. Al quotidiano argentino Pagina/12 Christian Czainik, uno dei figli di Eduardo, ha raccontato che la famiglia riuscì a ottenere qualche informazione attraverso canali non ufficiali, ma che queste informazioni non sono servite a nulla perché hanno respinto il ricorso di habeas corpus e la denuncia al Ministero dell’Interno presentate dalla madre.
Il cruccio più grande
I tentativi furono i più disparati, Domenica in quegli anni ha girato in lungo e in largo le caserme alla ricerca del marito, riuscendo a incontrare anche il celebre agente dei servizi Raul Guglielminetti, ritenuto l’uomo che avrebbe portato gli archivi segreti della dittatura in Svizzera, più avanti processato in Argentina per aver sequestrato imprenditori a scopo estorsivo. Nulla è servito a sapere qualcosa di Eduardo, desaparecido all’età di 30 anni.
Una richiesta di informazioni su Antonio Czainik apparsa su Pagina 12
Di Benedetto prendeva informazioni e segnalava più casi di giovani perseguitati possibile, si spingeva fino al limite, ricevendoli nel suo ufficio e accompagnandoli in consolato. Li nascondeva fino al rimpatrio permesso dall’opera diplomatica di Calamai. Rischiava grosso, ma riuscì a contribuire al salvataggio di più di 300 persone, secondo le stime ufficiali. Moltissimi riuscirono a farsi passare per turisti, arrivarono in Italia e scamparono a una fine orribile anche grazie all’impegno di Filippo Di Benedetto, ma fra loro non c’era il nipote Eduardo. Per lui non ci fu niente da fare, era troppo tardi, e questo fu un cruccio che si portò appresso per tutta la vita.
Di Benedetto muore in Argentina nel 2001 sostanzialmente in povertà, senza nemmeno gli onori della cronaca. Solo 18 anni dopo, il 7 settembre del 2019, a Saracena decidono di intitolargli una strada. L’evento non ha l’eco che meriterebbe, ma in prima fila c’è un uomo che ha fatto tanta strada per esserci. Prende il microfono e di Filippo Di Benedetto dice: «Eravamo in contatto continuo e lo ricordo come una persona di un grande calore umano, generosa, molto umile e pure pieno di una grande saggezza ed intelligenza, di una grande cultura vera di civiltà». Parola di Enrico Calamai.
Nel pacchiano lusso di una sala da cerimonie di Little Italy, budelli di chitarra si abbandonano a una melodia antica. «Junior, come on», l’anziano capofamiglia rompe gli indugi, chiude gli occhi e inizia a cantare. Così, come nel mantice della fisarmonica, due mondi si allontanano per finir riavvicinati: la seconda generazione di paisà accompagna commossa l’esibizione della prima, mentre la terza ridacchia a dissacrarla.
Corvina e ribelle, la più giovane degli eredi tracanna Martini alla goccia mentre lancia molliche di pane ai vecchi che le hanno rubato le attenzioni del padre, ché quella delle platinate star americane è musica, non questa fottuta lagna italiana. Poi esce di scena, vanamente rincorsa dal padre nelle leggendarie nuvole di vapore del traffico di New York.
Al rientro in sala della scena, la canzone fa piangere pure i baffi dei camerieri: niente riuscirebbe a rompere la solennità del momento. Il boss se ne accorge compiaciuto, sistema il nodo della cravatta e si aggrappa a ciò che resta della sua famiglia. Seduti più dietro, con un bisbiglio, una donna americana accosta la chioma laccata a quella di chi dal vecchio l’ha messa al mondo nel nuovo: «What does it mean “Core ngrato”?» (Che vuol dire Core ‘ngrato, ndr), chiede. «Ungrateful heart» (Cuore ingrato, nda)è la risposta.
È il finale della terza stagione di “The Sopranos”, la serie televisiva di culto che, secondo lo speciale del New York Times, rappresenta «la più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo». L’uomo che ha scritto i versi della ballata scelta per raccontare il tormento dei paisà è nato in una piccola casa al centro di un abitato ai piedi della Sila cosentina, ma la sua incredibile e dimenticata storia è ancora nascosta settemila chilometri più distante.
Dalla Presila a New York
È la storia di un uomo che si chiama Alessandro Sisca, nato il 27 ottobre 1875 a San Pietro in Guarano, piccolo avamposto presilano dove il padre Francesco faceva l’impiegato comunale. A soli 11 anni i genitori decidono di mandarlo in seminario però, così lascia il borgo natio per entrare nei francescani di San Raffaele a Materdei a Napoli, città di sua madre, Emilia Cristarelli.
Ben presto, però, tutti si accorgeranno che è letteraria la sua vocazione. Comincia così a scrivere con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro, dovuto ovviamente all’amore per l’Ivanohe, e inizia a raccogliere successi. Nel 1892 tutto cambia di nuovo, perché la chiamata alle armi incombe. Il giovane poeta non ha tempo da perdere, parte per l’America e la motivazione la lascia in un biglietto di poche righe in cui scrive: «Io non ho padroni, non servo nessuno, non riconosco l’autorità di nessun capo».
Si stabilisce prima a Pittsburgh – dove è tuttora presente una folta comunità di sampietresi – da uno zio, poi a New York. Lì, insieme a suo padre e a suo fratello Marziale, nel gennaio 1893 fonda una rivista satirica dal titolo La Follia di New York, in onore dell’omonima rivista che si edita a Napoli. Si distingue ai massimi livelli come giornalista, poeta e drammaturgo. Tanto che Emelise Aleandri in The Italian American Experience: An Encyclopedia sostiene che «Alessandro Sisca è il più prolifico e importante scrittore italoamericano del cambio di secolo». Poi nel 1911, arriva l’intuizione. In mezzo a tanti altri, scrive il testo della canzone che lo destina all’immortalità.
La porcheriola
Composta insieme al maestro Salvatore Cardillo, inizialmente nessuno dei due aveva il sentore che la canzone sarebbe stato un grande successo. Anzi, lo stesso Cardillo spesso l’apostrofava con la parola «porcheriola». Sbarcata a Napoli invece, Core ‘ngrato ha da subito una grande presa sul pubblico e cambia il verso della storia. Diventa la prima canzone napoletana di successo proveniente dagli Stati Uniti e non il contrario, come era stato fino ad allora.
Sui palchi di tutto il mondo l’hanno interpretata tutti i più grandi. Giusto per citare qualcuno: Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, José Carreras, Claudio Villa, Roberto Murolo. In tempi più recenti ne hanno fatto vanto anche Mina, Vinicio Capossela, Il Volo e Andrea Bocelli, ma il testo scritto da Sisca ha saputo varcare i confini dell’arte canora, andandosi a incastrare in diverse intersezioni culturali e finendo per rimanere presente nell’immaginario collettivo contemporaneo.
Il battesimo di Franco e Ciccio
Esempi significativi arrivano dal mondo dell’avanspettacolo, del cinema e del calcio. Nel teatro “Costa” di Castelvetrano nel 1954 Core ‘ngrato è il titolo del debutto di un duo comico palermitano che si fa chiamare “Franco e Ciccio”. Il loro esordio fu del tutto casuale. La compagnia teatrale di Pasquale Pinto si era spostata da Napoli a Palermo senza un attore, Nino Formicola, che si era ammalato. Il capocomico Giuseppe Pellegrino, per sostituirlo, si rivolse a Ciccio Ingrassia. Che però era tornato a lavorare come calzolaio e inizialmente rifiutò, proponendo di contattare Franco Franchi, che aveva conosciuto poco prima e apprezzava.
Pellegrino non era convinto della scelta, in quanto avrebbe dovuto ingaggiare uno sconosciuto che non era neanche un vero attore, e contropropose a Ciccio di ingaggiarli insieme. A questo punto entrambi furono assunti dalla compagnia e iniziò un successo clamoroso. Franco non aveva né padronanza dell’italiano né delle tecniche teatrali, così prima di entrare in scena propose a Ciccio: «Senta, perché lei non entra in scena e si mette a cantare poi entro io e la disturbo?».
In un’intervista degli anni Ottanta è lo stesso Franco a ricostruire l’episodio: «Il pubblico appena vide sulla scena uno spilungone magro e uno basso e tarchiato scoppiò in una risata incontenibile. Mentre Ciccio cantava questa canzone drammatica, arrivavo io ad infastidirlo scatenandomi in una serie di gag sconnesse: la scimmia, il coccodrillo, il burattino, la bilancia, la danza del ventre, il pianto funebre siciliano. Tutto repertorio folcloristico oggi assurto a patrimonio culturale nazionale mentre allora non si concepiva che in teatro si recitasse in dialetto». Il numero durò inizialmente appena cinque minuti, ma in seguito fu allungato di quattro minuti per le richieste del pubblico, girò tutta l’Italia, arrivò in tv e segnò l’inizio di una carriera sfolgorante per i due.
Così parlò Core ‘ngrato
Quanto al cinema, già detto dei “Soprano”, Core ‘ngrato si associa a un caratterista straordinario interpretato dal compianto Antonio Allocca in Così parlò Bellavista, capolavoro di Luciano De Crescenzo, tratto dall’omonimo libro. Core ‘ngrato era un buffo esattore della Camorra che suggeriva ai poveri Giorgio e Patrizia, neo-commercianti di statuette sacre, di pagare il pizzo «prima che inizi l’escalation»; trovandosi il negozietto all’angolo di due strade contese da due clan rivali, la coppia si trova a provare a risolvere l’inghippo in scene memorabili, prima di arrendersi, chiudere bottega e trasferirsi a Milano.
Un caso che dalla pura invenzione si è realizzato nel 2016, con un chiosco di bibite ubicato nella Maddalena, sede di un noto mercato popolare a ridosso della Ferrovia in zona piazza Garibaldi, al quale veniva imposto di pagare due volte il pizzo come nel film. La contesa fra il cartello Brunetti-Giuliano-Amirante, egemone nel centro storico tra Forcella e la zona del Borgo di Sant’Antonio Abate, quello della cosiddetta ‘paranza dei bambini‘, e gli affiliati dello storico clan dei Mazzarella si risolse con la coraggiosa denuncia e l’arresto dei malavitosi.
Il goal dell’ex
Quanto al calcio, Core ‘ngrato è il soprannome affibbiato ai calciatori che dal Napoli si sono trasferiti alla Juventus. Il primo fu Josè Altafini, centravanti brasiliano naturalizzato italiano amatissimo all’ombra del Vesuvio, protagonista di una passione napoletana superata soltanto dall’arrivo di Maradona un decennio dopo. La sua cessione alla Juve ebbe un’eco vastissima e un’estate di intense polemiche. Ma fu solo dopo un suo gol al San Paolo che diede la vittoria decisiva per lo scudetto ai bianconeri che su un cancello dello stadio partenopeo comparve la scritta «Altafini Core ‘Ngrato». Il soprannome restò ad Altafini per decenni, prima di passare sulle spalle di un altro centravanti sudamericano, Gonzalo Higuain, alfiere del Sarrismo che si trasferì alla Juventus dopo l’imbattuto record di gol in campionato con la maglia del Napoli.
The Sisca papers
Forse tutto ciò basterebbe per capire come la figura di Sisca alias Cordiferro meriti di essere ripescata e studiata dagli ambiti accademici. Ma non è abbastanza per comprendere perché l’Università del Minnesota conservi in tre enormi scaffali d’archivio una imponente mole di materiale sull’emigrato calabrese che scriveva in lingua napoletana. Uno spazio importante, che meriterebbe di essere scoperto e tramandato.
Grazie agli sforzi del professor Rudolph J. Vecoli, direttore del Center for Immigration Studies dell’Università del Minnesota, la Collezione Sisca è stata depositata nell’archivio degli immigrati nell’ottobre 1968 da Michael Sisca, editore della Follia di New York. Prevalentemente in italiano, questa collezione è composta da 9,5 piedi lineari di documenti e corrispondenza. Il materiale è stato elaborato nel periodo 1973-1974 dalla studiosa Lynn Ann Schweitzer.
Perché uno spazio così importante per quello che si ricorda solo come l’autore dei versi di una canzone di successo? Perché Alessandro Sisca era molto di più. La Follia, infatti, riscosse successo tra i letterati delle colonie italiane di New York City (sei milioni di copie vendute), e si impose anche grazie alla varietà dei temi trattati, riuscendo a conquistare sempre maggiori consensi nella più ampia comunità italoamericana.
Questo successo spiegò le vele alla vera ispirazione di Sisca, l’impegno politico/sindacale in difesa dei propri connazionali emigrati, totalmente dimenticato al netto di meritevoli eccezioni (cfr. Amelia Paparazzo, Calabresi sovversivi nel mondo, Rubbettino Editore).
Un’inclinazione scomoda per gli Stati Uniti del tempo, che lo condusse a cambiare molto spesso pseudonimo, a rifugiarsi in incarichi riservati e che gli aprì le porte delle carceri americane più di una volta.
Celebre per il suo lavoro di giornalista di inchiesta (non solo con La Follia ma anche per i suoi contributi a La Sedia Elettrica, La Notizia e L’Aarlemite), a Cordiferro chiesero di parlare con diverse organizzazioni italiane di lavoratori nelle quali serpeggiava il malcontento per l’intenso sfruttamento. È stato un agitatore culturale anarchico di grande successo, con un seguito di migliaia di persone, che lo elessero infine portavoce ufficiale del comitato Utica, NY pro Sacco e Vanzetti.
Sacco e Vanzetti
La vicenda è stranota: il 23 agosto 1927, poco dopo la mezzanotte, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti venivano uccisi sulla sedia elettrica nel penitenziario di Charlestown, ingiustamente condannati per un reato che non avevano commesso. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la Guardia nazionale lo attendeva dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.
I due italiani subirono un processo totalmente condizionato dal razzismo e dal pregiudizio nei confronti delle idee anarchiche che i due professavano, tanto che il giudice Webster Thayer non esitò a definirli «bastardi anarchici». Dopo la cremazione a portare i loro corpi in Italia fu Luigina Vanzetti. Oggi riposano rispettivamente nel cimitero di Torremaggiore e in quello di Villafalletto.
L’indimenticabile monologo di Gian Maria Volontè nel film ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti
Moltissimi negli USA e in Europa si batterono per salvare la loro vita. In tutto il mondo molti intellettuali del tempo come George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells, Arturo Giovannitti sostennero a favore di Nick e Bart una campagna per giungere a un nuovo processo sostenuta persino dal premio Nobel francese Anatole France, che invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico Nation.
Una traccia sepolta dalla polvere
Fra questi non abbiamo ereditato alcuna traccia dell’impegno dell’intellettuale calabrese Alessandro Sisca, che pur svolgeva il delicatissimo e importantissimo incarico di portavoce del movimento che da New York chiedeva la liberazione dei due. Perché? Nella imponente mole di carte custodite in Minnesota (fra cui alcune lettere di due presidenti repubblicani al fratello Marziale) potrebbe esserci la risposta al quesito. Del resto, è un fatto che i raduni per la difesa degli anarchici italiani lo trovarono spesso come il principale oratore e le sue commedie, ispirate in gran parte dalla condizione degli italiani negli States, erano frequentatissime dagli operai del tempo.
Una fotografia di Alessandro Sisca
Tutto questo rappresenta una traccia incancellabile ma, come la sua casa natia ai piedi della Sila, con il tempo rischia di andare in polvere, realizzando la teoria che alcuni studiosi di canzone napoletana hanno sviluppato sul nome femminile Caterina, invocato all’inizio della sua canzone. Pare infatti che fosse il nome scelto all’epoca per rivolgersi in codice alla comunità degli italiani, quindi il vero cuore ingrato, che ha dimenticato una vita di amore e di impegno del poeta.
I dolori di Sisca furono infatti sempre più intensi: dapprima in pochi mesi perse la moglie Annina e i figli, Emilia e Franchino. Poi nemmeno un secondo matrimonio lo salvò da una forte depressione, e nel 1940 tutto questo lo condusse alla morte come fine di un sempre più acuto periodo di sofferenze. Era il 24 agosto, il giorno dopo l’anniversario dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti.
Durante la prima ondata di Covid-19 che ha colpito l’Occidente, Torano Castello è stata l’ultima zona rossa sanitaria italiana. L’isolamento per i suoi 4mila abitanti è iniziato il 14 aprile 2020, la revoca risale al 10 maggio successivo. Alle ore 17 del 15 maggio però, la quarantena non è finita per tutti.
Dalla Rsa all’hotel
Maria, la chiameremo così per tutelare la sua privacy, a quell’ora sente il clacson dal cortile e si prepara a uscire. Sta per incontrare i medici dell’Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) di Cosenza, per quello che spera sia il suo ultimo tampone molecolare. La scena avviene in un piccolo hotel nascosto dalle montagne del paese. Da un mese, insieme a otto colleghi, questa infermiera è qui che vive. Isolata dal mondo, in un rudere abbandonato praticamente senza elettricità né riscaldamento.
Come c’è finita? Tutto è iniziato a Pasquetta: il video con gli attempati pazienti che ballano e cantano a poche ore del primo caso di contagio a Villa Torano, la Rsa dove lavora Maria, diventa virale in poche ore. E con l’apertura di un fascicolo d’indagine della procura di Cosenza arrivano le maggiori trasmissioni nazionali. Le ipotesi di accusa per i vertici della struttura sono pesanti: epidemia colposa, omicidio colposo e lesioni in ambito sanitario.
Il clima di polemiche è pesantissimo, ma non c’è tempo nemmeno per pensarci, ora bisogna cercare di frenare la valanga in ogni modo. In poco tempo e con metodi spiccioli si organizzano tamponi a tappeto fra pazienti e operatori. Il risultato, in un periodo nel quale trovare reagenti è molto difficile, quando la pandemia sostanzialmente non ha ancora raggiunto la Calabria, fa gelare le vene: sono quasi tutti positivi.
E ora? Il commissario dell’Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, dice che bisogna ricominciare da zero. All’ora di pranzo del 15 aprile va in diretta al tg e dichiara: «Non mi fido, troppo anomalo che ci siano tutti questi asintomatici. O bisogna segnalarlo come caso mondiale e portarlo all’attenzione dei massimi istituti di ricerca scientifica del pianeta, oppure bisogna rifare tutto, perché forse i tamponi non sono stati fatti come si doveva».
Asintomatici à gogo e sindaci in rivolta
Tocca ripetere i tamponi, che però confermano il dato epidemiologico iniziale: 93 contagi al virus SARS-CoV-2 divisi fra pazienti, operatori della struttura e loro familiari, tre bambini compresi. Solo cinque i sintomatici, tutti ultraottuagenari. Dunque, delle due, era giusta quella data per assurdo: ben prima della pubblicazione della ricerca suVo’ Euganeo che farà scoprire al mondo l’alta percentuale di asintomatici nel contagio da Covid-19, a Torano Castello si ha evidenza di un dato analogo. Una scoperta scientifica che può servire al mondo intero.
Tamponi a Villa Torano dopo la scoperta del focolaio nella Rsa
Il prossimo passo è mettere in piedi al più presto una quarantena monitorata per i contagiati, e qui torniamo alla nostra infermiera Maria. Il 16 di aprile il dipartimento Tutela della salute della Regione stila un piano in cui prevede il trasferimento dei contagiati in altre strutture del circondario. Dire che i sindaci dei paesi coinvolti abbiano reagito con le barricate è più di un’espressione eufemistica. Romeo Basile, il primo cittadino del vicino comune di Mottafollone, arriva addirittura a schierare le ruspe a difesa della verginità epidemiologica del suo paese. Altri, in modo meno mediatico, rispondono comunque che non se ne parla.
Romeo Basile, sindaco di Mottafollone, blocca l’accesso al suo paese con una ruspa
Il piano della Regione dunque rimane lettera morta. La grana dei contagiati ora è sostanzialmente tutta sulle spalle del sindaco di Torano Lucio Franco Raimondo. Che, di concerto con l’Asp, in pochi giorni decide di chiudere in compartimenti stagni la clinica, emanando parallelamente un’apposita ordinanza di confinamento per Maria e i suoi colleghi nell’ex San Felice, un vecchio hotel abbandonato vicino alla Rsa Villa Torano.
Turismo e Sanità
Andando a vedere le carte si scopre che entrambe le strutture, di proprietà pubblica e affidate in convenzione alla società “Medical center”, nascono come hotel negli anni ’70. Le due strutture sono vicine, ma i loro destini biforcano sul finire del secolo. Mentre nel 1999 la Medical Center diventava assegnataria della struttura comunale, infatti, dando vita alla prima Rsa della Calabria, il nuovo Motel San Felice vedeva la luce con un rinnovato slancio turistico. Una luce destinata a brillare poco, però. A differenza della sanità privata, in questo campo a decollare non sono stati gli affari ma i registri, poco tempo dopo atterrati in tribunale.
Sono entrambe vetuste e vanno chiuse. A metterlo nero su bianco è una relazione dettagliata del Comune di Torano Castello, che già nel 2017 denotava tutte le carenze strutturali e le usure delle strutture convenzionate, illustrando nel dettaglio il progetto di spostare in 24 mesi di lavori tutto 600 metri più a nord. Una nuova megastruttura d’eccellenza per il Sud, con un ampliamento di posti per un investimento complessivo di 11.272.512,00 euro. I terreni privati erano stati individuati ed era stato persino stipulato un preliminare di compravendita con un costo del terreno fissato a 15 euro al metro quadrato. Ma i lavori non sono mai partiti.
Perciò tre anni dopo, lo stesso ente che certificava l’inadeguatezza di una struttura vi disponeva il confinamento coatto di uomini e donne con l’infezione più sconosciuta e pericolosa mai vista ancora in atto. Una decisione figlia sicuramente dall’emergenza in atto, ma controversa, tanto che sei lavoratori con infezione asintomatica in corso rifiutano di attuarla, dando mandato di opposizione all’avvocata Angela Cirino del foro di Cosenza. La legale presenta così un ricorso in cui va ben oltre le criticità già presenti nei documenti municipali. «Ho anche scoperto che l’hotel», ha ricostruito, «è affidato a una curatela fallimentare rimasta all’oscuro di tutti i passaggi fatti dall’amministrazione di Torano Castello in accordo con l’Asp di Cosenza».
Un trasloco non autorizzato
Un bel pasticcio, perché, spiega la legale, «prima di autorizzare lo spostamento si sarebbe dovuta rilasciare l’autorizzazione igienico sanitaria prodotta dal proprietario di struttura». Finito? No, perché l’avvocata ha anche scoperto che una parte della struttura è sottoposta a sequestro penale per un’inchiesta della magistratura su un incidente che causò la morte di un minore qualche anno prima.
L’esperimento del quarantena hotel, in definitiva, presenta diversi profili di illegalità e non può proseguire. L’Asp a questo punto non può che recepire le eccezioni e quindi emanare un’ordinanza di sgombero. Gli operatori sanitari rimasti però, fedeli alla propria missione professionale, decidono di mettere la salute degli altri davanti alla propria, scegliendo di portare a termine l’esperimento. Maria, finalmente negativizzata, è l’ultima infermiera a lasciare l’hotel, il 18 maggio 2020.
La Scienza e la Legge
«Il caso di Villa Torano creò molto scalpore mediatico, per tanti motivi. Ma noi eravamo concentrati sui pazienti e non ci rendevamo conto di cosa accadeva fuori. Noi ci occupiamo solo di curare i malati», ricostruisce il dottor Sisto Milito, a capo della squadra di medici che si è occupata di spegnere questo focolaio. Dal punto di vista dei medici, «quello sperimentato a Torano è un metodo che ha funzionato, che di lì a poco tutti avrebbero adottato», ribadisce.
Mentre in quel periodo la strategia della chiusura della struttura è stata la scelta per gran parte delle Rsa dove è dilagata l’emergenza, infatti, così non è stato per i pazienti di Villa Torano. «Non chiudere la Rsa – aggiunge Milito, che ha operato nel cluster insieme a Vincenzo Gaudio, Filippo Luciani, Giovanni Malomo, Vincenzo Pignatari e Nunzio Conforti – ci ha permesso di tutelare la vita di malati senza famiglia, che sarebbero finiti in mezzo alla strada privi di qualsiasi cura o in qualche altra struttura a diffondere l’epidemia».
La stazione mobile con i medici dell’Asp all’ingresso di Villa Torano
Per quanto riguarda invece i confinati nell’hotel fantasma, i rimpianti sono tanti. «Sì, lì si sarebbe potuta produrre letteratura scientifica di valore con tutta la mole di dati arrivata dai supporti della telemedicina, che ha garantito il monitoraggio dei parametri vitali degli infetti, 24 ore su 24 per oltre un mese». In un periodo in cui non solo la Calabria, ma il mondo intero aveva fame di farlo, si poteva capire di più sulla carica virologica e sulla effettiva durata della quarantena o del periodo di incubazione, considerando anche i casi di negatività al primo tampone e positività al secondo. «La struttura era compromessa da beghe giudiziarie, ma noi avevamo fatto un pensierino a requisirla, per l’autunno soprattutto. Era attesa una nuova ondata influenzale e poteva essere di nuovo necessario isolare persone che non possono fare una quarantena completa a casa», conclude Milito.
Insomma, si poteva imparare da questo esperimento e adeguare alle evidenze scientifiche raccolte l’organizzazione sanitaria per l’annunciata seconda ondata autunnale. Invece è andata diversamente. Tanto la comunità scientifica, quanto l’opinione pubblica non hanno saputo nulla di questa buona pratica medica avvenuta fra le montagne calabresi.
Mentre con l’arrivo dell’estate i focolai pian piano si sono spenti in tutta Italia, in Calabria la struttura commissariale chiamata a predisporre il piano pandemico, attraverso le parole del commissario Saverio Cotticelli in diretta tv, ha addirittura ammesso di aver dimenticato di doverlo scrivere un piano pandemico. Il risultato è quello che tutti sappiamo: una lunga stagione di scandali, dimissioni e rinunce, ma soprattutto un tributo altissimo in termini di vittime.
Covid hotel
Eppure, un tentativo di attuare la politica dei covid hotel anche in Calabria alla fine è arrivato. La stipula dei primi contratti risale a fine 2020. E nel giro di due mesi l’accordo era scritto fra la Regione e otto strutture alberghiere diffuse sul territorio regionale, per un totale di 371 posti letto disponibili. Era già troppo tardi probabilmente. La Calabria aveva ancora negli occhi mesi con le autoambulanze in fila fuori dai pronto soccorso; centinaia di posti letto per pazienti con pochi o nessun sintomo in quella fase avrebbe potuto rappresentare una boccata d’ossigeno per le sottodimensionate strutture calabresi. Ma qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare.
Si contano infatti con le dita le strutture convenzionate che hanno ospitato contagiati covid in Calabria finora, per un rimborso 65 euro al giorno cadauno. Tutte le altre stanze sono rimaste vuote, con un costo per la comunità comunque significativo: 15 euro al giorno per ogni posto letto dedicato a contagiati covid rimasto vacante.
Individuata la categoria di persone da sottoporre a quarantena controllata e trovati i posti dove farlo, pare fosse difficile l’organizzazione perché le due cose si incontrassero. E con l’arrivo della nuova estate praticamente tutte le strutture convenzionate hanno preferito ritornare a dedicarsi ai turisti in arrivo. Così la Calabria, destinata ad accogliere migliaia di turisti da ogni dove, è tornata praticamente e al netto di un’eccezione al punto di partenza: a cercare hotel per la quarantena.
La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos.
Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.
Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.
DOV’È HUMBERTO?
Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.
Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso.
Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti.
Il Palazzo del Congresso a Buenos Aires
Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.
A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”.
Il 19 aprile1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanzaargentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina.Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.
Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.
Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare.
EL ATLETICO
Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.
Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È statooperativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti.
«Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.
La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».
Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.
L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.
UNA STORIA DI CALABRIA
Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madree del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio.
Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.
Andrés e Maria Bellizzi insieme a loro figlio Humberto
Humberto Bellizzi con sua madre Maria e la sorella Silvia
Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.
Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età.
Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.
Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.
Il cantante Jorge Drexler posa a sostegno della battaglia per Humberto Bellizzi
Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese.
«Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno. «È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade».
Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare.
«Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».
E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».
RIVOLUZIONARI DI CALABRIA
La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.
Dante Gullo: sua madre Angela Maria Aieta fu un’altra delle vittime di origini calabresi uccisa in uno dei voli della morte
Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.
Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.
Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto.
Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.
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