Autore: Alfonso Bombini

  • Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    «Ci vediamo tra due sigarette». Quelle che Paolo Virno avrebbe fumato nell’intervallo tra la prima e la seconda ora di lezione all’Università della Calabria. Il prof ci ha lasciati a 73 anni. Ricordo bene la forza del suo insegnamento e quei pomeriggi passati ad ascoltarlo e prendere appunti seduto tra i banchi del cubo 28C. Ho fatto parte pure io della cantera di FSCC (Filosofia e scienze delle comunicazione e delle conoscenza) un po’ di anni fa, il nostro cubo di riferimento era il 18 C.

    A distanza di tempo rileggo quegli appunti e trovo sempre quella circolarità e quella quadratura delle sue lezioni, simili a certe partiture geometriche di Bach. Ah, Bach, Virno lo chiama in causa quando parla dell’attività senza opera (autotelica) di Aristotele nelle mani del pianista “artista esecutore” Glenn Gould, quello delle Variazioni Goldberg. Il prof poi spiegava l’altra faccia di questa medaglia, la creatività che cambia le regole (Chomsky), l’azione trasformativa rintracciata nel Saggio sul motto di spirito di Freud.

    PAOLO VIRNO, IL VOCABOLARIO DELLA “MOLTITUDINE”

    Virno aveva una potenza intellettuale notevole. Tutto compresso in quel gigante magro con il viso scavato e gli occhi azzurri, lo sguardo malinconico di uno che ne ha viste tante; troppe. Compresa la militanza politica in Potere operaio, le accuse, il carcere e poi l’assoluzione. Ha condiviso la voglia di leggere nelle contraddizioni del capitalismo con autori, alcuni anche suoi amici, come Toni Negri. Lo ha fatto cogliendo i fiori di pensatori fuori dagli schemi come Baruk Spinoza e in quella sua “moltitudine”, parola con dentro un mondo che ha alimentato il vocabolario del Movimento. Da leggere, tra i suoi libri, proprio “Grammatica della moltitudine” (DeriveApprodi 2014).

    I PARADOSSI DI PAOLO VIRNO

    Inconfondibile quel suo accartocciare la mano, quasi volesse trattenere i concetti. Ha lasciato una traccia importante all’Università della Calabria per poi passare all’Università Roma Tre. Amante di paradossi (in greco parà-doxa cioè contro l’opinione comune) – spiegati da Zenone a Russell -, non fu da meno quando un giorno iniziò un suo corso con una delle sue frasi memorabili: «Parleremo di un Marx anti-marxista». Noi tutti spiazzati, ci guardavamo disorientati. Poi capimmo il perché. Eravamo abituati al materialismo dialettico, ma ci eravamo persi il gran finale dell’autore dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”.

    Scoprimmo con Virno che Marx aveva intuito perfettamente cosa sarebbe successo a ridosso dei nostri anni: il Capitale va oltre la tipica e violenta aggressione al lavoro, salario, risparmio. Il suo obiettivo più ambizioso e subdolo resta la natura umana, la creatività. E la natura umana è quella che i greci chiamavano logos, pensiero e linguaggio. Eccolo, il linguaggio azzannato dove Virno incollava il nuovo fordismo dei call center. Io le ricordo ancora quelle lezioni: dal Frammento sulle macchine (che già a evocarlo sembra esserci una sorta di mistica) alla dimensione transindividuale, al General intellect.
    Virno non si è mai sottratto a dare il suo contributo. Nei suoi libri, nelle conferenze, nelle pagine scritte per Il Manifesto dove di tanto in tanto rincontravo le sue parole. Oggi quelle parole mancheranno un po’ a tutti noi del cubo 18 C.

    Alfonso Bombini

  • Monte Cocuzzo: appunti da un Appennino minore

    Monte Cocuzzo: appunti da un Appennino minore

    Come il grande occhio di Sauron monte Cocuzzo mi osserva mentre butto giù due righe sul libro che gli ha cucito addosso Mauro Francesco Minervino. Non posso sfuggirgli mentre leggo o scrivo seduto nel solito posto a casa dei miei genitori. Lo vediamo dall’entroterra, noialtri. Ci godiamo quei tramonti o quelle nuvole dense sulla cima nei giorni di pioggia. Dietro spunta il mare e noi possiamo solo immaginarlo.

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    Lo scrittore e antropologo Mauro Francesco Minervino (foto Alfonso Bombini)

    Viaggio al monte analogo (Oligo editore 2023) è il libro di un antropologo diventato per 135 pagine cantore di un Appennino minore, costiero, a pochi metri dal Tirreno; a suo modo, senza troppe concessioni alle derive sentimentali ma molto attento alla geografia umana e personale di una arrampicata che sa di Nirvana. Cocuzzo per lui è una specie di ossessione come la Montagna Saint-Victoire per Cezanne.

    Domani – venerdì 1 marzo – ne parliamo con lo stesso Mauro, Tonino Chiappetta e Francesco Naccarato davanti agli appassionati lettori di Camminando Amantea. Appuntamento nella cittadina tirrenica alle ore 19:00 ospiti della Cantina Amarcord.

    Di Fellini, però, non c’è nulla nell’immaginario di questo Minervino. C’è tanto René Daumal, autore de Il Monte Analogo, romanzo incompiuto eppure così illuminante. Un gruppo di alpinisti raggiunge la vetta e scopre che il confine tra le cose in quota è solo qualcosa di superfluo, vuoto, inutile. Servono fiuto da segugio e passo da rabdomante per trovare quella sorgente in questo pezzo di Calabria. Mauro ci riesce, portandosi dietro quella specie di aura profetica. Come il Santo di Calabria, Lumen Calabriae, di casa tra queste alture. Un giornalista come Emiliano Morrone vede proprio in Mauro alcuni tratti laici di San Francesco di Paola, suo compaesano più illustre. A pensarci bene, non ha mica torto. Mancano i miracoli, però c’è ancora tempo.

    Il tempo di quella cima ventosa cambia in fretta. Ti allontana e ti attrae. Sai che puoi trovarci uno stargate di Calabria. «La porta dell’invisibile deve essere visibile» ci ricorda Minervino citando proprio Daumal. Un gioco di rimpalli e capitomboli, di analogie.
    È un posto magnetico dove sono passati mistici, monaci orientali, banditi. Ha affascinato scrittori e intellettuali. Gente come Gissing, altro nume tutelare del pantheon letterario di Mauro, ha annotato la bellezza tempestosa di quella cima. Punto di passaggio tra l’antica Pandosia, capitale degli Enotri, e il porto di Temesa, la polis immortalata nell’Odissea. Dalla cima il sole scompare morendo in mare come se non dovesse più rinascere. Un ultimo spettacolo d’Occidente, terra del tramonto prima dell’apocalisse. Al mattino, invece, nella forza accecante della controra i demoni si danno appuntamento. Per poi tornare a notte fonda nelle voglie animali degli antichi pastori dediti alla farchinoria. Monte Cocuzzo è un po’ così, contiene eccessi indicibili e improvvise oasi di pace.

    Un luogo che genera storie. Mauro ricorda i suoi vecchi zii, analfabeti e grandi affabulatori, dediti al racconto di avventure terribili e affascinanti. Le gesta di Giufà. Il finto sciocco visionario e arguto che popola l’immaginario collettivo della cultura umana senza confini, ha accompagnato la sua infanzia. Si chiedeva da dove venisse questo strano Giufà. I vecchi rispondevano: dalla montagna. Indicando la cima di Cocuzzo.

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    Monte Cocuzzo è il Monte analogo di Mauro Francesco Minervino

    Una vetta da raggiungere da più fronti. Mauro arriva dal basso, da Mendicino e da Carolei. Raggiunge i sentieri battuti da piccole carovane in un passato remoto. Si inerpicano per poi scendere in picchiata, passando tra villaggi abbandonati come Pantanolungo. Qualcuno ne collega la presenza alla morte. E il fiume Acheronte in basso è più di un semplice indizio. È un casale di poche anime. Mauro tira fuori una storia dalla polvere di quelle case abbandonate.

    Dalla morte alla vita. Al pane come simbolo e materia che riannoda i pensieri: la pitta di Mendicino, il panificio di Fiumefreddo, quella vecchia signora con gli occhi di una zingara che impasta e inforna. Sono immagini potenti di un piccolo mondo antico e andato via per sempre. Ma in cima a quella montagna il mondo alla rovescia di Giufà può regalare ancora un altro colpo di spugna e giro di giostra.

  • Erano Perfect days e non ce ne siamo accorti

    Erano Perfect days e non ce ne siamo accorti

    Hirayama mon amour. No, quello di Alain Resnais era Hiroshima. Qui siamo nel recinto di Wim Wenders tornato a suo modo al vecchio amore per il maestro Ozu.
    Il protagonista di Perfect Days potrebbe essere un alienato di una città di alienati come Tokyo, oppure un monaco buddista (forse meglio shintoista) con la casacca “The Tokyo toilet”. Poi cosa cambierebbe? Nulla. Wenders costruisce un personaggio con un mondo dentro e un passato tenuto a distanza. Noi vediamo solo una vita minima, essenziale, senza troppi fronzoli.

    Un uomo che si sveglia al mattino, sbriga le sue pratiche igieniche, apre il portone di casa e guarda subito il cielo. Sorride. E noi con lui. Buongiorno Hirayama san. Inizia il giro dei bagni pubblici della capitale nipponica. Progettati da grandi architetti. E si vede. Chi non vorrebbe pisciare in quello trasparente che si oscura mentre sei in “servizio”?

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    Una vecchia Olympus a pellicola

    Hirayama è un homo analogicus in un mondo di zombie pronti ad essere plasmati dall’intelligenza artificiale. Ascolta musicacassette vintage di Lou Reed (Patti Smith e tanti altri). È un grande classico del cinema di Wenders tutta quella musica ignota ai millennial. Poi la nipote del protagonista gli chiede se troverà Van Morrison su Spotify. E allora capisci che non tutto è perduto. Chi può fermare la ruota del rock? Nessuno, dai.

    In questa corsa retrotopica Hirayama scatta foto con una vecchia Olympus compatta. Sviluppa le sue pellicole. Ne esce fuori sempre il cielo di quel parco, alberi e foglie. E luce. La storia della fotografia è piena di operazioni del genere. Se penso al cinema mi viene in mente Auggie, il tabaccaio di Paul Auster in Smoke di Wayne Wang.
    Wenders si è sempre interessato alla deriva delle immagini. Resta a futura memoria l’esplosione di telecamerine per filmare e firmare (che poi è peggio) tutto il filmabile in Lisbon Story. La story di questo ultimo film è negli occhi di Hirayama. Ci dice qualcosa da conservare con cura. Erano solo Perfect days e non ce ne siamo accorti.

  • Mancinismi: Giacomo e la legge dei sindaci

    Mancinismi: Giacomo e la legge dei sindaci

    Trent’anni dall’elezione diretta dei sindaci e di Giacomo Mancini vittorioso a Cosenza. Il leone socialista cambiò in meglio la sua città, vinse anche con i voti della destra, fu avversato e subìto apertamente o meno nel corso degli anni da una larga parte degli eredi locali del Pci in un rapporto di reciproca diffidenza. Al di là dei distinguo, dei però, dei forse, questo elemento è difficile da mettere in discussione. Argia Morcavallo, dirigente del Pds di allora – ha ricordato quel periodo con estrema lucidità: «Ho fatto la guerra a Giacomo». Poi arrivò la cosa 2 di Dalema sancendo l’alleanza delle sinistre. Le cose cambiarono, ma fino a che punto?
    La guerra all’ex ministro e segretario del Psi secondo Saverio Greco – giovane socialista nell’agone di Palazzo dei bruzi – non è mai finita. Con gli ex comunisti «sempre pronti a farlo fuori».

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    Giacomo Mancini

    Il ruolo di Martorelli

    L’iniziativa del Club Telesio ha riannodato i fili di quella stagione politica e umana. A dirigere le danze il giornalista Antolivio Perfetti che di quella candidatura manciniana fu uno dei più attivi promotori e sostenitori. Perfetti ha svelato il ruolo di una figura storica del Pci come Martorelli nel countdown che portò alla presentazione della candidatura di Giacomo.
    Mancini ebbe il fiuto di cavalcare la nuova legge che sanciva l’elezione diretta dei sindaci. Enzo Paolini – allora giovane protagonista di quella avventura amministrativa e politica – ha messo in guardia da facili entusiasmi sulla semplificazione come unico strumento per arginare la poca governabilità: «L’elezione di Mancini fu straordinaria, ma quella legge non ha mai funzionato».

    E oggi con l’accelerazione della maggioranza parlamentare sul premierato si insinua nuovamente il fantasma della semplificazione a tutti i costi e del decisionismo senza contrappesi. Paolini lo ha evidenziato cogliendo lo spirito e i rischi di certa ingegneria istituzionale all’italiana. Di parere contrario è stato Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria: «L’elezione diretta del sindaco è stata una scelta importante e giusta, rompendo l’instabilità politica di prassi prima del 1993». Su Mancini ha aggiunto un aneddoto personale. Il primo giorno da parlamentare telefonò all’ex segretario del Psi, dicendo: «Quanto si sente la tua assenza qui alla Camera». Ha aggiunto: «Mancini si commosse».

    Mancini e l’importanza del contesto

    Serviva uno storico rappresentante della Democrazia Cristiana come Pierino Rende per uscire un po’ fuori dal coro della laudatio totalizzante, in questo caso manciniana, di certe ricorrenze: «Non amo queste celebrazioni, si scade sempre nella retorica». Come dargli torto. L’ex parlamentare riporta il discorso sull’attualità della città unica, sull’eredità manciniane che ne hanno aperto la discussione. Ha ricordato «Il contributo del piano Vittorini con la trasformazione di via Popilia» e gli sforzi per abbattere il muro centro-periferia. Un muro che è esistito davvero. Di mattoni e cemento.

    La conquista di Palazzo dei Bruzi da parte di Mancini è preceduta da un «contesto caotico», sullo sfondo di un’Italia travolta dal ciclone Tangentopoli. La questione giudiziaria, di altra natura rispetto ai garofani al Nord, lambì anche Giacomo che fu poi assolto. Paride Leporace, giornalista che in quel 1993 capeggiava la lista Ciroma, l’ha citata e poi ha spiegato in poche battute il meltin’g pot elettorale messo in piedi dal leone socialista: «Un civismo spinto al massimo, dentro c’erano preti, periferie e la destra estrema». Ne avrebbe parlato Arnaldo Golletti di quella destra, ma ieri non era al tavolo dei relatori seppur presente tra i nomi del manifesto.

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    Nipote e nonno: Giacomo Mancini fa un selfie con la statua dello statista socialista (foto A. Bombini)

    «La destra non fu determinante»

    Giacomo Mancini (il nipote del leone socialista), ex parlamentare e assessore regionale, ha contestato questa versione dei fatti: «Uno degli animatori di quella lista era Pino Tursi Prato e poi c’era qualcuno collocato a destra». Non furono così determinanti come in tanti nella sua città continuano a ripetere, appunto, da 30 anni? A suo parere no. Nel suo intervento non poteva mancare un accenno alla vicenda giudiziaria che investì suo nonno in una serata in cui sul contesto politico e sociale di quegli anni si sono spese tante parole. Mancavano all’appello le parole di un altro socialista che ha recitato un ruolo importante nello scacchiere politico: Sandro Principe. Peccato. Il suo punto di vista avrebbe ampliato il racconto dei vari mancinismi evocati a piazza Parrasio.

  • Spaesati, dimora per vite mobili

    Spaesati, dimora per vite mobili

    Alcune foto valgono più di mille parole. Più di mille battute si dice(va) nelle redazioni giornalistiche dell’era cartacea. Una in particolare resta nell’immaginario di una regione e di un Sud dove l’esodo prosegue la sua corsa con numeri drammatici: la stazione dei pullman di Cosenza presa d’assalto da chi accompagnava giovani e meno giovani in cerca di un futuro, di studio o lavoro, altrove. Il rito della spartenza, termine ormai entrato nel vocabolario quotidiano, rappresenta sia la sofferenza di chi lascia un pezzo di vita qui, sia la lacerazione di chi rimane. Spartenza è una delle parole che abitano Spaesati (Il Mulino, 2023), libro scritto da due scienziati sociali come Massimo Cerulo e Paolo Jedlowski. Ma non se ne fa un uso pietistico e meridionalistico. Tutt’altro.

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    Massimo Cerulo è professore ordinario di Sociologia generale all’Università “Federico II” di Napoli

    Se partire è un po’ morire, non farlo rischia di essere peggio. Certo, il concetto di restanza dell’antropologo Vito Teti ha trovato un seguito numeroso nei tanti teorici (spesso accomodati bene) della Calabria felix. Massimo Cerulo – professore ordinario di Sociologia all’Università “Federico II” di Napoli che insegna pure all’Université Sorbonne Paris Cité – smonta questa retorica nata attorno alla restanza: «Una visione troppo romantica» con la tendenza a giustificare l’ingiustificabile di un Sud che «ci ha ostracizzati, cacciati via, asfissiati».
    «Forse la spartenza è stata una fortuna» – scrive di se stesso. E cosa ne facciamo della terra dei padri come recita uno slogan prêt-à-porter in voga quaggiù? Al Sud «ci si può tornare. Poi è necessario ripartire, abbandonarlo. Senza voltarsi indietro». Può sembrare impietoso. In parte è così. Qualcuno doveva pur rimodulare l’illusione prodotta dal Pensiero meridiano di Franco Cassano. Non siamo in presenza di un antimeridionalista militante come Giorgio Bocca. Cerulo, al contrario, confessa il suo amore senza limiti in un passaggio del libro, quando «il treno arriva a Paola… In un tardo pomeriggio di maggio, sul mare… Il Sud ti esplode in petto». Non serve aggiungere altro.

    Meravigliosi ossimori

    Eccoli i meravigliosi ossimori del meridione, i paradossi a cui si aggrappano le eccezioni che confermano la regola. Si pensi al milanese Paolo Jedlowski, coautore del libro, professore ordinario di Sociologia generale all’Università della Calabria fino a poco tempo fa. Sua moglie, la sociologa Renate Siebert, vive a Roma. Il resto della sua famiglia sparsa tra l’Italia e la Francia. La sua vita da prof sempre in movimento. Inevitabile chiedersi dove è casa? Una domanda tipica delle vite mobili analizzate nel libro. Che non sono quelle dei viaggiatori, dei migranti, dei turisti. Ma di chi abita spazi e tempi diversi, fuori dalla stretta esigenza del piacere o della necessità. Orizzonti disintegrati al sapore della spaltung (scissione) freudiana.

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    L’ultima lezione (sul suo amato Walter Benjamin) del prof Paolo Jedlowski all’Università della Calabria

    Un po’ come per i nomadi casa è «l’insieme di memorie condivise», il «racconto». Il Racconto come dimora, guarda un po’, è proprio un libro dello stesso Jedlowski dedicato alla monumentale Heimat del regista tedesco Edgar Reitz. E Nostalgia di terre lontane è il titolo di un episodio di quella saga in celluloide. Ci ricorda che casa non è per forza un concetto stanziale, vicino, prossimo. Almeno per chi vuole vivere molte vita in una sola, come fa notare Cerulo, editorialista dell’Huffingtonpost.it. Gli inglesi dicono larger than life.

    Vivere “tra”, spaesati in un perenne stato d’eccezione non è per niente facile. A volte si cerca rifugio, ci si sente a casa in una biblioteca, nel solito bar in aeroporto, in una caffetteria della stazione. Luoghi terzi – ampiamente studiati dal prof della “Federico II” – in cui ritrovare le coordinate, sopravvivere alle apocalissi culturali, alle microfratture del senso. In uno degli ultimi capitoli Massimo Cerulo ricalibra lo spaesamento di Ernesto de Martino, adattandolo alle vite mobili. Crisi della presenza e ricomposizione si alternano anche qui, dove la grammatica dell’andirivieni riconfigura certe esistenze inquiete per natura e per scelta.

    “Spaesati”, un libro di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo (Il Mulino, 2023)
  • Vestiti alla Oppenheimer, parola di colonnello Mortimer

    Vestiti alla Oppenheimer, parola di colonnello Mortimer

    Non troverebbe spazio sui Cahiers du cinema, ma poco importa. Mancava il punto di vista sartoriale per entrare nella galassia Oppenheimer, il film di Christopher Nolan sul padre dell’atomica americana. C’ha pensato Fabio Bernieri, divulgatore social di eleganza classica e buon gusto con il nome d’arte Douglas Mortimer, a uscire fuori dal coro quasi unanime sul biopic del momento. Analizza la pellicola sul suo canale YouTube con un piccolo viaggio fra tessuti pregiati, giacche mono e doppiopetto, camice con collo all’italiana, panciotti d’ogni forma e guisa, nodi e cravatte, scarpe raffinate. Del resto con uno pseudonimo così il cinema non può mancare a casa Bernieri. Il colonnello Mortimer è il bounty killer Lee Van Cleef nella trilogia del dollaro di Sergio Leone.

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    Douglas Mortimer (nel riquadro in alto) analizza sul suo canale YouTube l’eleganza dei personaggi del film “Oppenheimer”

    Ma non siamo in una pellicola del maestro italiano, se non fosse per certi primi piani, quasi primissimi. Nolan gioca sempre la carta del tempo sospeso, sfuggente, moltiplicato, dilatato. Dalle cavalcate nel New Mexico fino ai claustrofobici e inquisitori interrogatori. Paura dei comunisti? Sì, ancora oggi sopravvive, figuriamoci in quegli anni. Nemmeno uno scienziato come Robert Oppenheimer può farla franca. Quasi scontato quando hai un’amante, una moglie e un fratello con la tessera dal partito più inviso al potere e tu finanzi i repubblicani nella Guerra di Spagna. Per non parlare del sindacato. Peccati capitali per comuni mortali. Con una mente come la sua in pieno conflitto mondiale e con i razzi V2 pronti ad ospitare testate nucleri naziste, tutto viene perdonato (almeno fino alla resa inevitabile del Giappone). La Ragion di Stato lo porta dritto alla guida del Progetto Manhattan.

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    “The gadget”, nome in codice del primo ordigno nucleare fatto esplodere a Los Alamos nel New Mexico

    Il Gadget di Zio Sam

    La corsa contro il tempo impiega soldi e menti brillanti. Alla fine The Gadget, questo il nome del primo ordigno nucleare fatto esplodere nel deserto, svolge egregiamente il suo compito. Un fungo di luce e miscela mortale entra a far parte del nostro immaginario collettivo. L’orologio dell’Apocalisse sempre più vicino alla mezzanotte ci avverte dell’attualità – a tratti persino ripetitiva e retorica – di un film del genere. Una guerra nel cuore dell’Europa con un potenza nucleare e muscolare non ci fa dormire sonni tranquilli. L’uscita nelle sale ha tenuto conto del contesto? Forse è una preoccupazione moltiplicata di più nel vecchio continente. Forse no.

    Oppenheimer distruttore di mondi

    I mondi di Oppenheimer invece sono dentro i suoi flussi di coscienza: atomi si muovono e scontrano prefigurando un futuro prossimo. Lo scienziato è un prometeo americano, come il titolo del libro, vincitore del Pulitzer, da cui è tratto il film. Scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin. La sceneggiatura appartiene allo stesso regista Christopher Nolan. Dialoghi impeccabili e ritmati. Oppenheimer, Oppie lo chiamano gli amici, è, invece, l’eterno dilemma tra scienza ed etica. Mettiamoci pure la politica. Una questione della tecnica riproposta ancora una volta sul grande schermo. Un brillante Cillian Murphy – chi lo ricorda nel Vento che accarezza l’erba di Ken Loach? – smette i panni di Tom Shelby dei Peaky Blinders e indossa quelli del «distruttore di mondi». Così recita quel testo sanscrito amato da Oppenheimer. The father of atomic Bomb, si legge sulla copertina del Time di quegli anni. Quando abbiamo capito di non poter più tornare indietro. Perché in qualche modo ci aspetta l’Armageddon dietro l’angolo o poco più avanti. A ricordarci che non possiamo sbagliare.

  • «La follia greca si muove tra i miei libri»

    «La follia greca si muove tra i miei libri»

    Ho conosciuto Giuseppe Aloe qualche anno fa a Rossano. A cena con amici comuni si parlava ancora di libri e di Celine. Lo scrittore di origini cosentine ha lasciato il bicchiere di birra e recitato a memoria la prima pagina o poco più di Morte a credito. Tornare ai classici, ecco. Un buon modo per ribadire il concetto in una Calabria che scrive tanto e legge poco. Aloe non è proprio d’accordo con queste classifiche. Ne parlo con lui. Mi racconta del suo ultimo libro, Le cose di prima (edito da Rubbettino), e non solo, in una villa vecchia che cerca in tutti i modi di attutire l’estate infernale di questi ultimi giorni a Cosenza. Tra i suoi romanzi compaiono titoli come La logica del desiderio (finalista al Premio Strega), Ieri sera ha chiamato Claire Morin, Lettere alla moglie di Hagenbach.

    Giuseppe Aloe a Cosenza per la presentazione del suo libro “Le cose di prima”
    Le cose di prima? Perché questo titolo?

    «È un’espressione dell’Apocalisse di Giovanni. Le cose di prima sono finite perché nella sua visione è arrivato Dio. Io l’ho reso in un senso quasi interrogativo. Ma le cose di prima sono davvero finite? È un libro che si pone questa domanda. È possibile che siano finiti i momenti più drammatici dell’adolescenza? Siamo sicuri che non abbiano lasciato nulla nella nostra vita?».

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    La copertina dell’ultimo libro di Giuseppe Aloe
    Come nasce questo suo ultimo libro?

    «Era da tempo che ragionavo sul concetto di adolescenza. Un giorno a Milano sono andato al funerale di un compagno di scuola di mio figlio, un ragazzo che si è suicidato a 19 anni in carcere. E il prete ha letto questo passo dell’Apocalisse di Giovanni. “Le pene, l’infelicità, sono passate”. Questa frase mi ha instantaneamente procurato una visione. In quel momento ho avuto chiara l’intera trama del romanzo. Tranne il finale. È arrivato dopo. Il materiale c’era già nella testa. Mancava lo spunto».

    Cosa c’è dietro il processo creativo che dà vita a un romanzo?

    «Nella mia testa ci sono delle idee di romanzo. Che non vanno a compimento. Quando c’è un clic e riesco a trovare il bandolo della matassa in venti giorni lo finisco. Dal primo all’ultimo capitolo. Una discesa libera. È il mio metodo di lavoro».

    Una traccia che lega la Logica del Desiderio a questa sua ultima fatica letteraria?

    «Tutti i miei libri hanno una costante. Nella vita di ciascuno di noi quando la ragione perde il suo status, lascia spazio alla follia. E cosa accade? I miei sette romanzi sono sulla follia. Chiaramente intesa in senso greco, la manìa che ci governa. Che era degli indovini, dei poeti e degli innamorati. La follia del dolore, dell’amore come nella Logica del desiderio, la follia dell’infanzia, della vecchiaia, dell’ingiustizia. Nelle Cose di prima la follia dell’adolescenza».

    Cinque libri o autori da portare sull’Arca con lei?

    «Il vocabolario della lingua italiana. Poi Kafka, L’altro processo di Canetti, Molloy di Samuel Becket, alcuni racconti di Carver, Musica per Camaleonti di Truman Capote. E italiani? Lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi. Summa che anticipa Nietzsche. Un libro fondamentale ma poco studiato e tradotto».

    Ma questa storia della Calabria fanalino di coda nelle classifiche di lettura ha un po’ rotto le scatole?

    «Queste classifiche non controllano quanti libri vengono letti ma quanti ne sono venduti. Cosa bene diversa. Questo genere di classifiche sono apparenti, non hanno alcuna sostanza.
    Quando vieni in Calabria dovresti parlare con le persone e ti rendi conto del livello culturale di questa regione. Vado in giro e trovo sempre gente molto colta e preparata. Come è possibile se in Calabria non legge nessuno? Non è vero. Io vivo a Milano. La stragrande maggioranza dei milanesi è incolta. Però Milano è la capitale culturale d’Italia. Dovremmo fare degli studi non sulle vendite ma sulla capacità di apprendimento».

    Il futuro sarà Chat Gpt oppure c’è speranza?

    «Il problema non è chatGpt ma gli editor, i corsi di scrittura creativa. In alcuni ambiti editoriali i romanzi sono molto simili. Libri standardizzati. Esci da una scuola di scrittura e applichi quello che hai imparato. Lo stesso faranno gli altri studenti. La letteratura deve superare se stessa, non deve indovinare i giorni di dolore. Quando tuo nonno ti picchiava, tuo padre ti trattava male. Basta! Così non si va avanti».

    In Calabria scrivono in tanti, però?

    «Sì, ci sono tante persone che corrono. Ma non sono Marcell Jacobs. È la stessa cosa. Tutti possono scrivere, ma per arrivare alle Olimpiadi serve qualcosa dietro. Una vita passata sui libri. Studiare, leggere e avere il senso della scrittura. Altrimenti si possono fare esercizi lirici o meno. Che non sono scrittura ma allenamenti della tua vita».

    La sede dell’Accademia Cosentina

    Cosenza Atene delle Calabrie? Lei che ne pensa?
    «C’è un impoverimento culturale della città e non solo. Abito a Cosenza vecchia. Si vede che è instabile, eppure è un patrimonio culturale non solo della nostra città. Nessuna amministrazione è stata in grado di risollevarla. Ma quando vengo a Cosenza, non posso negarlo, trovo sempre un buon livello culturale».

    Cosa rappresenta per lei il richiamo di Africo, l’appuntamento annuale sotto il grande albero pensato da Gioacchino Criaco?

    «Gioacchino è un mio amico come Mimmo Gangemi e Domenico Dara. L’appuntamento di Africo rappresenta il ripensare a chi sei, quale è il tuo posto nel mondo. Abito a Milano ma mi sento profondamente calabrese. Radicato alla mia terra. I tedeschi hanno la parola Heimat. Cosenza e la Calabria sono la mia. E Africo è una madre che ti richiama e ti rimprovera perché non stai pensando troppo alla tua Heimat».

    Ma Lettere alla moglie di Hagenbach è un libro mitteleuropeo, di calabrese nemmeno l’ombra.

    «Il respiro è Mitteleuropeo, Da Praga a Vienna, a Berlino, Lubecca. Ma il dolore che c’è nelle mie storie è quello che ho vissuto al Sud. Quella striscia di dolore che tutti abbiamo conosciuto e che non ti abbandona mai».

  • Eravamo… io, Cito, Scianna e Berengo Gardin

    Eravamo… io, Cito, Scianna e Berengo Gardin

    Il Festival Corigliano Calabro fotografia nasce con la presenza di Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Mimmo Jodice. Cronaca di un successo (pre)annunciato, raggiungendo i suoi primi 20 anni. Resta tra i più importanti d’Italia. Ed è una meravigliosa vetrina per la Calabria. Senza “zuccherini” e retorica buonista.

    Ferdinando Scianna

    Gianzi, anima di Corigliano Calabro fotografia

    Ho conosciuto Gaetano Gianzi dieci anni fa quando ero di stanza col mio vecchio giornale nella Sibaritide, nella redazione di Rossano. Gaetano è un calabrese atipico. Biondo, occhi azzurri con una certa somiglianza con l’attore Rutger Hauer. Il suo nome è legato indissolubilmente al Festival. Direttore artistico e amministrativo. Medico in pensione, lavora tutto l’anno per questo evento insieme ai volontari dell’associazione Corigliano Calabro per la fotografia. E ci tiene a puntualizzare: «Li ringrazio tutti, sono indispensabili. Senza di loro non saremmo arrivati sino a qui».

    Oggi porta a tracolla una bellissima Leica, oggetto di culto per chi ama scattare, ma ha iniziato tanti anni fa con ben altri dispositivi e tecnologie. L’idea di creare un evento del genere in terra ausonica gli viene dopo aver partecipato tra gli anni ottanta e novanta alla Settimana della Fotografia a Terrasini, in Sicilia. Perché non provarci sulle sponde del nostro Jonio? Si chiede. Ci riesce. Come tutti i cocciuti, gli ostinati.

    Il “Viaggio” di Gianni Berengo Gardin

    Da assessore alla cultura della sua città dà un impulso decisivo per la partenza della prima edizione. Sin da subito si decide di affidare il racconto del territorio a un grande fotografo. Apre le danze Gianni Berengo Gardin. Che poi diventerà cittadino onorario di Corigliano.
    «Gianni non scatta se non passa nessuno. Ricordo un’ora di attesa. Eravamo sulla provinciale vicino al Quadrato Compagna». Gaetano ricorda il modus operandi del maestro. Ne uscirà fuori Viaggio a Corigliano. Non può esserci titolo più evocativo per un lavoro del genere, diventerà una consuetudine del festival. Ma quel primo numero segnerà una cesura netta tra il prima e il dopo.

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    Attilio Lauria e Michele Smargiassi

    «È una caratteristica peculiare di questo festival» – spiega Attilio Lauria, critico, giornalista e redattore di Fotoit, membro e docente della Fiaf. Perché la particolarità di questo evento è il rapporto con la città, la lunga arteria chiamata 106 Jonica, il suo mare. Che rimbalzano nelle immagini in mostra nelle capitali europee e non solo. Una pubblicità intelligente, raffinata, etica. Un buon modo per raccontare la Calabria di confine al di là dei soliti stereotipi.

    «In tutto il Sud non c’è un festival di questa caratura. Ma anche attività di formazione, autori che fanno seminari. Un formula rodata ovunque: mostre e formazione». Sono parole di Attilio Lauria. Pochi giorni fa era proprio al Festival in compagnia del giornalista di Repubblica Michele Smargiassi. Entrambi impegnati in un seminario sul futuro della fotografia ai tempi dell’assalto inesorabile dell’Intelligenza artificiale.

    Vent’anni di fotografia

    Venti anni sono pure densi di appunti annotati sul taccuino della memoria di Gaetano Gianzi. «Di Gabriele Basilico», che ha saputo restituirci insieme ad altri come Luigi Ghirri le mutazioni del paesaggio italiano, «non dimentico i modi da persona elegante e squisita». Uno fuori dal tempo con «quel panno nero sulla testa, accovacciato sul suo banco ottico». Il fotoreporter partenopeo Francesco Cito, autore di reportage nell’Afghanistan dell’invasione sovietica oppure di perle come i “matrimoni napoletani”, capisce subito che il porto regalerà qualcosa di buono. «Ne verrà fuori uno scatto indimenticabile con i ragazzi che si tuffano dal faro». Sarà anche la copertina de Il Fotografo di qualche anno fa.
    Monika Bulaj spazia dalla religiosità fino al mercato dei pesci in quel 2017. Ha fotografato guerre in posti complicati, come del resto lo sono tutti i conflitti. Era una temeraria. «I pescatori di Schiavonea mi dicono ancora: ma quella signora non viene più».

    Uno scatto di Monica Bulaj a Corigliano

    Da Letizia Battaglia fino a Franco Fontana. Oltre 300 autori sono passati da qui. Si fa fatica a elencarli tutti.
    Il festival, da sedici anni una delle sedi di Portfolio Italia, è entrato di diritto nell’immaginario di una comunità. Uno dei tanti spazi meridiani che si prestano al racconto, dove l’occhio dei grandi fotografi incontra la storia minima, la complessità, i volti unici e i contrasti di una città che gente come Gianzi prova e riesce a trasformare in avamposto culturale del Sud. Anche solo per qualche giorno.

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    Franco Fontana nel centro storico di Corigliano Calabro
  • Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    ‘A Sila va capita. Sentirete questo ritornello a Cosenza ogni qual volta si chiama in causa il Gran Bosco d’Italia. È un modo per dire che l’altopiano calabrese non è un posto per tutti, non è il solito divertimento effimero stile “costa tirrenica”, dove – a parte la bellezza universale del mare quando si ha la fortuna di trovarlo pulito – si replicano abitudini e si frequentano le stesse persone incontrate la mattina precedente in città. Insomma, non è la solita minestra. Sulla verità di questa affermazione c’è chi ha qualcosa da obiettare. Io non ho nessun dubbio, invece. Difendo la bellezza di un posto unico, con l’aria più pulita del mondo. Lo dice una ricerca giapponese. I nipponici, come sapete, sono precisi e affidabili. Gli credo sulla fiducia.

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    Franco “Bifo” Berardi

    Bifo e gli altri

    Tutte queste parole per dire che oggi 24 e domani 25 giugno è in programma la terza edizione di Aghia Sophia Fest. Un programma di tutto rispetto: da Franco Berardi, in arte Bifo – agit prop e intellettuale eretico -al talk con la coppia Rezza-Mastrella che dialogherà con l’attore e drammaturgo Ernesto Orrico. Poi musica (tanta), laboratori di fumetti, escursioni, attività per grandi e piccoli. Il programma completo è sulla pagina Facebook del festival.

    Da Corazzo a quasi Lorica

    Lo scorso anno era a Corazzo, tra i ruderi gioachimiti, oggi Aghia Sophia Fest sbarca nel Parco nazionale della Sila, a pochi chilometri da Lorica. E la possibilità di incrociare quegli splendidi esemplari di cuazzi nivuri, teste nere avvistate in determinati periodi tra quei boschi. Non parlo di giganti della montagna né lupi, ma di prelibati porcini che i cercatori di funghi trovano tra i pini del luogo. Chi va per Aghia Sophia può imbattersi anche in loro se è fortunato. Ma non si avventuri troppo lontano, in quota il rischio di perdersi con facilità è sempre dietro l’angolo. Buona regola applicabile a tutte le latitudini.

    Il capitolo “origini” ci porta all’Unical. Giuseppe Bornino, direttore artistico di Aghia Sophia Fest ex aequo con Silvia Cosentino, spiega come tutto ebbe inizio: «In principio fu Il filo di Sophia, collettivo di studenti e studentesse che nel 2008 ha iniziato a fare attività autogestite e poi si è trasformato in associazione culturale partita all’ateneo di Arcavacata e poi transitata al teatro dell’Acquario».

    Il lago Arvo

    Heidegger in Sila

    «Siamo in un territorio particolare, – argomenta Bornino – la Sila Grande. Terra di santi, filosofi e vaccari. Si riesce in maniera serena e tranquilla a isolarsi da impegno, bulimia, performance. La Sila risponde molto di più al principio del piacere che a quello di prestazione per citare Freud e Marcuse. Si fanno delle cose per il pure piacere di farle». Si vede che Bornino è un prof di filosofia. Al liceo di Amantea, sottolinea.
    Continua la lezione: «La Sila è un territorio mistico dove il rapporto con il divino, che non è solo di natura religiosa, si sente e si vive. È un posto disseminato di sentieri interrotti come direbbe Martin Heidegger. Ti imbatti in una radura che si apre improvvisamente». Heidegger non poteva sapere che la sua radura si traduce con liberino nel dialetto degli autoctoni come me. Non di rado tra i liberini spuntano proprio i già citati e amati funghi per chi ha occhi e fiuto per scovarli.

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    Giuseppe Bornino, co-direttore artistico di Aghia Sophia Fest

    Aghia Sophia Fest: baldoria e riflessione

    Al fondo Aghia Sophia Fest non è solo quei due giorni di baldoria e riflessione. Bornino sottolinea in una specie di sindacalese condito di ironia: «Vogliamo creare una piattaforma culturale a vocazione silana che rimanga». Sembrano parole di un politico. Non si candiderà, però. Poi spunta fuori la componente antagonista: «La nostra è un’azione di stampo anticapitalistico, non abbiamo come mira il guadagno. Obiettivo è l’emancipazione culturale del territorio. Per noi è essenziale il rapporto gli autoctoni: il commerciante, l’ente, l’istituzione, ma anche il cittadino comune».

    E cosa resterà? «Qualcosa di importante» – dice: «Stiamo lavorando al primo ecomuseo dedicato ai diritti sociali». Artisti provenienti da diverse parti del mondo verranno in residenza nella zona di Lorica, dialogheranno con gli abitanti e il paesaggio, realizzeranno opere site specific. Ci crediamo molto. E intanto ci godiamo questi due giorni.

  • Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Un palermitano a San Fili, il paese delle magare dove vive Brunori, può fare molte cose. Sposarsi, mettere radici, pensare e realizzare un progetto fotografico che nel 2023 è diventato un libro dal titolo Lullaby and last goodbye, edito da 89Books. Vincendo un prestigioso premio in Giappone: il Tifa, Tokyo International Foto Awards, primo posto nella categoria “People”.

    Nel 2013 Pierluigi “Pigi” Ciambra inizia questo racconto per immagini. Rivolge verso le sue figlie l’obiettivo della sua macchina fotografica e ne esce fuori molto di più di un diario familiare. Ha subito la forza di essere riconoscibile come prodotto culturale in grado di superare il contesto domestico. E ne è testimonianza l’attenzione riservatagli in giro per l’Italia e non solo.

    Pierluigi Ciambra

    Era mio padre

    Non c’è solo l’amore di un padre e la voglia di documentare la crescita delle sue figlie. Dietro vive il canto dell’infanzia di Ciambra. I profumi e la luce di Palermo, gli abbracci di un papà che gli trasmette la passione per la fotografia. Pierluigi lo perde troppo presto. Da allora si è portato dietro questa mancanza. Un lutto di un genitore così giovane quando sei così piccolo lascia un segno indelebile dentro. Gli anni passano ma senti di dovere fare qualcosa, riprendere in qualche modo quel percorso drasticamente interrotto. Senti la necessità di elaborare il lutto a modo tuo. E non ti aiuterà un libro di Freud per uscire fuori da quel buco nero. Una delle alternative al lettino dello psicanalista può essere riannodare i fili col tuo linguaggio.

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    Uno degli scatti del progetto fotografico di Pierluigi Ciambra

    Pierluigi Ciambra: il mio diario familiare

    «Quando sono nate le mie figlie – commenta Pierluigi Ciambra – mi sono rivisto in lui. Ho capito il suo desiderio, anzi la sua esigenza, di conservare la memoria di quegli attimi. Così ho iniziato a fotografarle quotidianamente. Le bambine crescono e scoprono un mondo ai loro occhi incontaminato, e lo fanno con la libertà di chi svela enormi misteri senza schemi e congetture, con l’ingegno istintivo della curiosità infantile, coinvolgendoti nella loro realtà fiabesca. Raccontare il loro sguardo sul mondo e, al tempo stesso, mettere a nudo la mia ricerca interiore e il processo di riconciliazione con il mio passato sono le motivazioni alla base di questo mio progetto fotografico».

    La formazione di Pierluigi dà il senso del suo percorso: diploma al corso di fotografia all’Istituto europeo di Design di Roma e poi laurea in Antropologia alla Sapienza. Lullaby and last goodbye nasce anche in questo contesto di studio e buone letture, dove il punto di partenza è l’inevitabile confronto con chi ha già fatto del diario familiare una storia universale.

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    L’immaginario onirico di Lullaby and last goodbye

    Da Alec Soth a Tarkovskij

    Nell’intervista rilasciata sul portale web del Tokyo international foto awards si definisce un un «photobook Nerd che ama leggere saggi di fotografia e monografie, non solo dei grandi fotografi, ma anche dei di quelli meno conosciuti.
    Lullaby and last goodbye si porta dentro almeno una canzone dei Cure e un pezzo di tanti progetti fotografici amati da Pierliuigi: Picture from Home di Larry Sultan , Sleeping by the Mississippi di Alec Soth, e poi Immediate Family di Sally Mann, The adventures of Guille and Belinda and the enigmatic meaning of their dreams di Alessandra Sanguinetti.
    Ma c’è anche tanto cinema nei suoi scatti. Da Stanley Kubrick, citato in una delle immagini più potenti, fino al suo regista preferito: il russo Andrej Tarkovskij e il suo tempo sospeso.

    C’è vita oltre Instagram

    Sono le 17:45 di un pomeriggio qualsiasi a Cosenza, la città che ci tiene ad essere chiamata Atene delle Calabrie. Alle 18 la Ubik ospita la presentazione di Lullaby and last goodbye. Lentamente la gente arriva. I fotografi Andrea Bianco e Claudio Valerio di lì a poco dialogheranno con Pierluigi. Il solito rito del firmacopie, qualche chiacchiera con gli amici, i curiosi. «Un libro di fotografia?» Domanda un passante. Sì, c’è vita oltre Instagram per buone foto e storie che meritano di essere raccontate.

    Da sinistra Andrea Bianco, Pierluigi Ciambra e Claudio Valerio