Autore: Alessandro Pagliaro

  • Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    L’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola ha un grande torto storico.
    Infatti, resta quasi sconosciuta l’opera dei suoi tre più eminenti rappresentanti nella Francia del ’600. Ci si riferisce ai padri Emanuel Maignan, Jean Françoise Niceron e Marin Mersenne. Purtroppo questa “dimenticanza” occulta ancor oggi il grande apporto fornito da questi uomini allo sviluppo dell’arte, della matematica e della scienza nel corso di tutti questi secoli.
    I loro lavori, studiati nelle università di tutto il mondo, sono citati in testi e ricerche facilmente consultabili.

    L’Ordine dei minimi: una fabbrica di scienziati 

    Tuttavia, praticamente nessuno, soprattutto in Calabria, sa dire chi siano stati gli esponenti più autorevoli dell’Ordine dei Minimi. Ai tre religiosi nessuno ha dedicato una piazzetta o un vicolo, nemmeno a Paola.
    È il sintomo di una sottovalutazione del ruolo avuto dai Minimi in Francia.
    Eppure San Francesco desiderava che nel suo Ordine vi fossero «huomini letterati e di studi» perché così «sommessamente piace a Dio». I padri Maignan, Niceron e Mersenne hanno un comun denominatore: Descartes. E sulla sua scia crearono una vera e propria “poetica del dubbio”.

    San Francesco di Paola e Luigi IX di Francia

    L’abisso delle scienze: Marin Mersenne

    C’è un soprannome che dà la misura dell’importanza di Marin Mersenne: “Abisso di tutte le scienze”. E questo “abisso” contiene un primato: la scoperta dei numeri primi perfetti.
    Mersenne nacque a La Soultière nel 1588 e morì a Parigi nel 1648.
    Dopo aver studiato Teologia alla Sorbona entrò nei Minimi (1611) per insegnare filosofia. In seguito si stabili nel convento parigino dell’Annunziata, dove restò fino alla morte.
    Fu insegnante a Nevers ed ebbe rapporti stabili con i principali esponenti culturali del tempo: Cartesio, Hobbes, Fermat, Huygens, Torricelli, Gassendi. Fondò l’Accademia delle Scienze che si proponeva di rinnovare il mondo della ricerca nel campo universitario.

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    Marin Mersenne

    Un cervello universale dell’Ordine dei Minimi

    I contributi scientifici di Mersenne sono enormi: vanno dall’esegesi biblica alla filosofia, dalla meccanica alla teorica musicale e all’acustica, dalla geometria all’ottica, dalla pneumatica alla linguistica.
    Da segretario della repubblica delle lettere dell’epoca, partecipò in maniera determinante al dibattito sui problemi del vuoto, soprattutto durante il suo soggiorno in Italia (1644) dove assistette ad alcuni esperimenti barometrici e li discusse con i principali esponenti di questo filone scientifico.
    Nel 1624 pubblicò L’empietà dei deisti ed ebbe un rapporto scientifico forte con Galileo Galilei, che difese nei momenti più difficili e di cui fu traduttore e divulgatore. Inoltre fu precursore della teoria musicale con la pubblicazione de L’armonia universale (1636), in cui affrontò i problemi acustici degli strumenti musicali dal punto di vista fisico e matematico.

    Con Cartesio contro Hobbes

    Infine, Mersenne polemizzo con le sue Meditazioni metafisiche (1636) contro le formulazioni di Hobbes e Gassendi sulle dottrine cartesiane.
    Fede, vissuta con grande indipendenza dai sistemi metafici (compreso quello aristotelico) e scienza, praticata con grande lucidità. Un binomio perfetto con cui il religioso cercò Dio tutta la vita.

    L’arte si fa scienza: Jean Françoise Niceron

    Jean Françoise Niceron nacque a Parigi nel 1613. A 19 anni entrò nel convento dell’Ordine dei Minimi di Trinità dei Monti a Roma.
    Lì insegnò matematica e studiò filosofia e teologia. I suoi interessi principali furono l’ottica, la catrottica e la diottrica. Passò la maggior parte della vita nella città dei papi, tranne alcuni periodi in cui visitò le province francesi del suo Ordine su incarico del padre generale Lorenzo da Spezzano.
    Padre Niceron si impegnò nella divulgazione delle opere dei principali uomini di scienza della Francia e sperimentò gli assunti galileani. Miscelò le problematiche della filosofia con quelle dell’ottica in La perspective curieuse au Magie artificielle des effets l’optique, dea la catoptrique, et de la dioptrique, un trattato di grande diffusione. Fece scoperte determinanti per la spiegazione dell’illusione prospettica e della “magia” raffigurativa degli oggetti.ordine-dei-minimi-tre-padri-scienziati-san-francesco-di-paola

    L’anamorfosi e altri trucchi

    Inoltre, fornì gli elementi essenziali per l’anamorfosi e inaugurò un vero e proprio movimento di ricerca che fece scalpore nelle arti figurative, soprattutto la pittura, i cui effetti hanno contribuito allo sviluppo dell’arte, in particolare di quella moderna.
    La morte prematura, avvenuta a soli 33 anni, gli impedì di terminare il suo secondo lavoro, Thaumaturgus Opticus. Lo completò padre Mersenne.
    Niceron non fu solo un teorico: realizzò le sue intuizioni dipingendo due affreschi anamorfici: San Giovanni Evangelista a Pathmos (1642), a Trinità dei Monti e la sua replica a Parigi (1644) nella Casa dei Minimi in Place Royale, che fu ultimata però da padre Emanuel Maignan.

    La prospettiva curiosa

    Queste due opere, e La Maddalena in contemplazione, realizzata con la stessa tecnica, non sono più visibili per l’incuria della conservazione. Altre opere di Niceron sono conservate nella Pinacoteca di Palazzo Barberini a Roma.
    Il trattato La perspective curieuse, si rivolge in prevalenza agli artisti per fornire un indirizzo allo studio delle geometrie raffigurative. È un’opera poderosa, divisa in quattro libri con una prefazione in cui si elogiano la matematica e la fisica. Al di sopra di tutto resta però l’ottica, che tocca l’astronomia, la filosofia, l’architettura e la Pittura.

    L’anamorfosi di San Francesco di Paola nel convento di Trinità dei Monti

    Emmanuel Maignan: un fisico dell’Ordine dei Minimi

    Emmanuel Maignan nacque a Tolosa che nel 1601 ed entrò a diciotto anni nell’Ordine dei Minimi in Francia. Appassionato di matematica, approfondì da autodidatta le sue conoscenze sulla materia.
    Insegnante di filosofia e teologia a Roma presso il convento del Pincio, Maignan frequentò eminenti figure del mondo delle scienze come Gaspare Berti, Raffaele Magiotti e Athanasius Kircher.
    Con loro cominciò alcuni esperimenti per determinare l’esistenza del vuoto, che influenzarono anche Torricelli.

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    Capitole Toulouse – Grand escalier – Buste d’Emmanuel Maignan

    Ancora sull’anamorfismo

    Maignan si interessò anche di pneumatica e ottica. Ma si dedicò principalmente alla fisica, come attesta il trattato Cirsusphilosophica destinato alle scuole del proprio Ordine.
    Nella seconda edizione di questa opera si ritrovano gli scritti relativi alle dissertazioni con Cartesio. Più longevo dei suoi confratelli, Maignan morì a Tolosa all’età di 75 anni. Nel libro Perspective horaria, il religioso studia le deformazioni delle figure, e contribuisce allo sviluppo dell’anamorfismo.
    Questa tecnica consisteva nell’«esporre un meraviglioso e preciso artifizio per deformare, in maniera molto semplice e rapidissima su qualunque superficie murale o voltata, un’immagine rappresentata su una tavoletta, in modo che, vista da un punto si ricomponga otticamente e appaia nitida, chiara e simile al prototipo; vista invece da vicino, o frontalmente sparisca, lasciando apparire qualcos’altro di ben diverso e tuttavia ben rappresentatoۚ».
    Queste alterazioni visive si riscontrano nell’affresco dello stesso Maignan a Trinità dei Monti, che immortala San Francesco di Paola nel miracolo dell’attraversamento dello Stretto di Messina.

  • Col pugno chiuso in cielo: l’ultimo saluto di Franco Malanga

    Col pugno chiuso in cielo: l’ultimo saluto di Franco Malanga

    Franco Malanga ha salutato a pugno chiuso e se ne è andato
    Ha concluso una vita intensa, costellata di tante vicende pirotecniche. Sovversivo e comunista.
    Malanga ha fondato sul finire degli anni ’70, quando militava nella sinistra “extraparlamentare”, la prima Casa del Popolo nel cuore dell’antico quartiere del Cancello di Paola.
    Lì allora si tenevano le riunioni dei compagni, che provenivano da piccole formazioni come Potere operaio o il Pcd’I (marxista-leninista).

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    Un primo piano di Franco Malanga

    Malanga: da Radio Bronx alle candidature

    All’interno del locale c’era una piccola biblioteca di testi “alternativi”. Ci si ritrovava lì per organizzare dibatti e mostre con dazebao all’aperto. Franco, inoltre, contribuì a fondare, sempre a Paola, Radio Bronx e partecipò a manifestazioni “contro il sistema”.
    Ironico e sarcastico, lo si ricorda anche a un corteo no global vestito con l’uniforme dell’Armata Rossa per irridere con goliardia l’“autorità costituita”.
    Nel 2012 e nel 2017 Franco si è candidato al Consiglio comunale di Paola da indipendente per Rifondazione comunista, raccogliendo l’appello di chi lo voleva in lista come compagno di battaglia.

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    Malanga sovietico

    Malanga e le sfilate in abiti imperiali

    Franco Malanga, nella sua seconda vita, ha vestito anche i panni di Roberto il Guiscardo, di Carlo V e di Federico II.
    Ha sostenuto l’impero, la monarchia e il Regno delle due Sicilie. Lui, con le sue sfilate in costume medievale, ha mobilitato centinaia di soldati armati di spade e durlindane che hanno attraversato le strade di ogni posto innalzando al cielo i propri stendardi. L’associazione dei Normanni, che ha animato per tantissimi anni, ha organizzato cortei storici in costume che hanno strabiliato le folle di tutta Italia.malanga-addio-rivoluzionario-paola, che-travestiva-re

    Al cospetto della Regina

    Resta memorabile la sfilata a Cosenza vecchia, quando Malanga venne accolto in pompa magna dall’allora sindaco Giacomo Mancini.
    Ancora: fondò l’Ordine degli Amici di San Francesco di Paola, che si è spinto in Francia, precisamente a Frejus, per rendere omaggio alla città che ha consacrato il Taumaturgo come suo protettore.
    Un’altra volta, Franco e i suoi figuranti hanno “osato” competere a Venezia con le maschere del Carnevale, uscendone trionfatori e premiati in Piazza San Marco per la bellezza degli abiti esibiti. Ma il top è stato a Londra, dove rese onore da pari, nientemeno che alla regina Elisabetta, che lo ricambiò con diversi doni e tantissimi elogi.

    Malanga nei panni di San Francesco di Paola

    A tu per tu con De Crescenzo e Piperno

    Animatore di eventi culturali, Franco ha promosso i “Venerdì letterari”, ovvero dei cenacoli, in cui artisti di ogni genere esponevano la propria opera.
    L’iniziativa ha avuto ospiti illustri: ad esempio, Luciano De Crescenzo, che ha ricevuto un premio speciale.
    Rimane nei ricordi di tanti l’incontro con Franco Piperno, una notte d’estate di molti anni fa, quando il fisico espose le sue teorie sul firmamento e l’ordine delle stelle nella suggestiva area del castello diruto dei Normanni.

    Malanga normanno

    Malanga scrittore: di sé e della Paolana

    Franco, infine, ha scritto dei libri, tra i quali una autobiografia e una storia della squadra di calcio della Paolana.
    Queste sono solo alcune caratteristiche di un personaggio poliedrico e coerente allo stesso tempo, che ha arricchito con le proprie “imprese” la vita della sua comunità. E questa omaggia il suo figlio estroso con dispiacere. Ma anche con un certo compiacimento: chissà come sarà l’ultima sfilata di Franco in cielo, dove lo accoglierà con gioia e letizia un illustre concittadino, San Francesco di Paola.

  • Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Rozzo, ignorante, burbero. E analfabeta. Così, per molti secoli, è stato tramandato San Francesco di Paola.
    Nulla di più falso: l’enorme mole di documentazione storica della sua vita dimostra l’esatto contrario, a dispetto delle tante agiografie che hanno quasi offuscato i lati essenziali dell’uomo. Non ci sono solo i miracoli, che comunque restano il filo conduttore delle narrazioni sul santo calabrese.

    San Francesco di Paola medico e filosofo

    C’è un’altra storia, ancora tutta da scrivere: San Francesco di Paola fu anche uomo di scienze e filosofo. Guariva gli ammalati con le erbe e riusciva dove i medici fallivano.
    Per questo, i dottori dell’epoca lo consideravano quasi uno stregone. San Francesco conosceva tutti i segreti delle piante e ne sapeva dosare le quantità per lenire le sofferenze.
    Erano solo pozioni “magiche”, le sue, come pensavano i detrattori? San Francesco appare nei dipinti con in mano un sottile bastone, che certo non usava per sorreggersi, specie da giovane e nel pieno delle sue forze. Quando, per capirci, si spostava in lungo e in largo per la Calabria.

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    La statua sommersa di San Francesco di Paola

    Anche rabdomante

    Il santo era una figura imponente, dall’alta statura. Gli ultimi studi ci dicono che era gioviale con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino.
    Tutto il contrario di quanto finora ci è stato raccontato. Quel bastone, da cui non si staccava mai, doveva quasi sicuramente servirgli per la ricerca dell’acqua nei luoghi più impervi dove dimorava.
    San Francesco “sensitivo” sarebbe riuscito ad individuare anche nel “deserto” i siti da dove far sgorgare il prezioso liquido, e quindi installarvi le comunità che poi dovevano popolare quei posti. Così nacquero i conventi che lui costruì.

    San Francesco ingegnere e costruttore

    Da solo e con l’aiuto dei “segreti” delle scienze, ingegneristica e idraulica, di cui era senz’altro in possesso. Questo è un altro lato della polivalente attività del frate.
    A Paola, Paterno, Corigliano, Spezzano, in Sicilia a Milazzo, ma anche in Francia e in tanti altri posti San Francesco costruì opere che solo una persona che conosceva le complicate formule matematiche della statica, poteva realizzare.
    La perfezione dei manufatti, l’equilibrio delle murature, la geometria degli archi e delle navate, rimandano all’ingegno di chi non poteva fare leva solo su empiriche conoscenze da manovale. Era proprio lui l’autore dei suoi progetti.
    Non si sa fino a che punto usasse gli squadri e gli inchiostri, anche se, coadiuvato da maestranze esperte, di sicuro era egli stesso che dava forma a quelle imponenti strutture.

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    Il santuario di San Francesco di Paola

    Un mistero da chiarire

    Aveva studiato e frequentato dotti? Certamente, tutti gli indizi portano a tali conclusioni. Ma di queste “tracce”, nessuna è stata ripercorsa e indagata nella giusta considerazione. L’uomo di scienze arriva anche ad essere un tutt’uno con l’uomo filosofo della vita.
    Al di là della fede, che professava nei comportamenti concreti, San Francesco ha pieno rispetto del corpo, oltre che dell’anima.
    I suoi lunghi digiuni e le privazioni, tramandati fino ad oggi, rappresentano la consapevolezza della coniugazione del benessere fisico con quello dello spirito.

    San Francesco vegetariano

    D’altronde i suoi 92 anni vissuti quasi tutti in salute, sono il risultato di questo perfetto equilibrio. San Francesco non partecipava ai bagordi e ai succulenti pranzi di corte. Tuttavia, non per questo le sue privazioni erano la mortificazione della carne e il decadimento dell’organismo.
    Il suo era uno stile di vita sobrio, grazie anche alla pratica vegetariana. La sua era una “dieta” salutare per il corpo e la mente, motori infaticabili di una ricca esistenza.
    Da qui anche la meditazione e la preghiera, per la materializzazione delle azioni quotidiane. Tutte rivolte alla diffusione dei messaggi di pace, carità e giustizia che hanno rappresentato il perno del suo pensiero “filosofico”.

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    Victor Hugo

    San Francesco di Paola filosofo umanitario

    Una filosofia, forse spicciola, ma messa in pratica in ogni circostanza: dall’incontro, con i sovrani e coi papi a quelli con le persone più umili.
    Solo un uomo in possesso delle moderne conoscenze del mondo poteva stare alla pari, nelle corti d’Europa, in una fase così piena di grandi mutamenti. E qui arriva un’altra confutazione: San Francesco è descritto il più delle volte come fustigatore di costumi, accigliato, con lo sguardo severo e di rimprovero.
    Un conservatore e un moralizzatore in un mondo pervaso dagli eccessi e dal peccato.

    A tu per tu con Torquemada

    Tuttavia, alla base del pensiero “filosofico” del santo calabrese c’era la predicazione della misericordia e del perdono: i sentimenti tra i più alti della religione cristiana. Tutto questo, quindi, mal si concilia con la visione manichea del santo tutto d’un pezzo. Lo ha compreso, nientemeno, Victor Hugo.
    Nel testo della sua opera teatrale, Torquemada, il grande scrittore francese accosta l’inquisitore al santo calabrese. E proprio quest’ultimo tiene testa nel dialogo a colui che con la tortura si era macchiato di efferati crimini contro gli “eretici” del tempo. Mondi contrapposti confliggono nello scambio tra i due. Ne esce magnificata la tolleranza di San Francesco.

    L’inquisitore Torquemada

    L’arrivo in Francia

    In Francia il frate visse l’ultima parte della sua vita: quella della saggezza.
    Chiamato da Luigi XI a corte per guarirlo dai suoi mali, san Francesco vi dimorò per ben venticinque anni. Nonostante l’intervento del santo, per il re non ci fu nulla da fare. Morì subito dopo.
    Questo evento, comunque, aprì le porte del castello di Amboise al mistico, che costruì un nuovo convento.

    Venticinque anni ad Amboise

    Amboise a quell’epoca era il centro propulsore della modernità in Europa a tutti i livelli. In quel luogo, per volere degli “illuminati” regnanti, andavano e venivano filosofi, letterati, musicisti, artisti, consiglieri politici.

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    San Francesco di Paola e Luigi XI di Francia

    Da lì prese corpo un nuovo pensiero.
    La politica della guerra, veniva soppiantata da quella della pace, mentre il vecchio mondo si lasciava dietro le spalle tutte le sue contraddizioni.
    Dai simposi ai cenacoli e le feste di corte Amboise, diventò meta ambita per chi voleva stare al centro delle trasformazioni. San Francesco fu tra le figure eminenti che determinarono questa svolta.
    Aperto alle nuove conoscenze, visse anche gli anni della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo, e per una parte della sua esistenza quasi incrociò Leonardo Da Vinci.

    San Francesco e Leonardo: vite parallele

    Il grande uomo di scienze e artista, visse anche egli ad Amboise , per tre anni fino al giorno della morte. Le sue spoglie sono ancora seppellite in quel luogo.
    Una coincidenza non del tutto casuale, accomuna San Francesco e Leonardo. Entrambi furono i protagonisti della costruzione di un nuovo orizzonte.
    I due non si incontrarono mai, ma una intermediazione fatta di singolari correlazioni, porta a pensare ad una comunanza di aperture mentali che entrambi possedevano.

    Il castello di Amboise

    Una conclusione

    Venticinque anni di una esistenza sono tanti. Rappresentano un arco temporale di mutamento per ognuno. San Francesco visse il periodo francese in maniera intensa, ma ben poco si conosce di questa permanenza.
    Certamente si compenetrò nelle vicende del tempo. Sarebbe bene approfondire questi aspetti della sua maturazione, alla luce del contributo che diede allo sviluppo dell’Europa. Finora queste zone d’ombra non sono state scandagliate. Sicuramente, studi e ricerche approfonditi potrebbero dare molte sorprese.

  • Ruffo: lo sterminatore rosso che vien dalla Calabria

    Ruffo: lo sterminatore rosso che vien dalla Calabria

    Condottiero, politico, economista e… massacratore. Nel lontano ’84 la controversa figura di Fabrizio Ruffo, il cardinale che soffocò nel sangue la Repubblica partenopea, fu ricordata a San Lucido, paese natale dell’aristocratico, in un convegno, a cui partecipò anche Giacomo Mancini.
    In quell’occasione si presentò il romanzo storico Rosso cardinale, del giornalista inglese Peter Nichols, che ritraeva a tinte fosche il porporato.

    Mancini contro il cardinale Ruffo

    Giacomo Mancini fece un intervento accalorato, in cui evidenziò le nefandezze della spedizione di Ruffo e lo definì «un macellaio».
    Tra gli ospiti c’era Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli che non fu da meno del politico: «L’esortazione che io faccio è che mai sorga un monumento al cardinale Ruffo in questa piazza. Se mai, un monumento ai martiri del ’99».

    La lapide della discordia per il cardinale Ruffo

    L’appello di Marotta cadde nel vuoto: dopo quindici anni, nel dicembre del 1999, a San Lucido venne scoperta una lapide in memoria di Ruffo.
    Fu un piccolo, paradossale primato: il primo tentativo di riabilitazione pubblica del “cardinale rosso”, per di più mentre si svolgevano le celebrazioni internazionali del bicentenario della Repubblica napoletana.
    Anche il Corriere della Sera riportò quella “provocazione” in terza pagina, con un titolo significativo: Il cardinale Ruffo, un galantuomo dopotutto.

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    Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli

    L’anatema di Maciocchi

    Non basta rileggere il passato più o meno “illuminato” di Ruffo per farne una figura degna di qualunque interesse. Neanche oggi, che va di moda un certo revisionismo.
    «Siano maledetti, per sempre, non solo i Borboni, ma tutti i Ruffo, e i loro eserciti della Fede! Essi hanno orribilmente rallentato la democrazia in Italia». È l’anatema scagliato dalla scrittrice Maria Antonietta Maciocchi nel suo libro Cara Eleonora (Milano, Rizzoli 1993), dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, l’eroina della Repubblica partenopea impiccata a Napoli senza mutande in mezzo alla piazza festante.

    La responsabilità del cardinale Ruffo

    Il cardinale Ruffo ha una grande responsabilità, storica e morale: al servizio di Ferdinando IV di Borbone, fu l’artefice della spedizione che partì da Palermo e si estese in tutto il Sud.
    A tale scopo, Ruffo organizzò le bande armate per radere al suolo le città che avevano innalzato l’albero della libertà. Quindi caddero sotto i colpi dei Sanfedisti, che si muovevano sotto le insegne di Sant’Antonio (che aveva spodestato San Gennaro accusato di essere giacobino) popolazioni inermi.

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    Peter Nichols, biografo britannico del cardinale Ruffo

    I volenterosi macellai del cardinale Ruffo

    Una fonte anonima dell’epoca racconta tutta l’efferatezza dei massacri dei masnadieri di Ruffo, definito «un vero bandito», a cui si erano uniti i briganti di Fra’ Diavolo.
    Tra i ricordi più forti c’è la Vandea di Altamura. La città pugliese, che aveva aderito alla Repubblica, si difese dall’assedio per quarantacinque giorni e capitolò solo in seguito a uno stratagemma.
    Una volta entrate, le truppe diedero luogo all’eccidio: stuprarono donne e suore e fecero esecuzioni sommarie. Lo stesso Fabrizio Ruffo ordinò la fucilazione in piazza di suor Maria Sabina accusata di simpatie per i giacobini.

    Cannibali a Napoli

    Capitolarono, in Calabria, Crotone, Catanzaro, Cosenza, Paola e Amantea.
    A Napoli si narra che i corpi dei giacobini venivano fatti a brandelli dai lazzari, quindi arrostiti e mangiati. I loro teschi diventavano bocce.
    Leggere per credere: «I cadaveri che uscivano dalle mani del carnefice li gettavano sui roghi; poi quando erano cotti a loro gusto, ne rosicchiavano il fegato e il cuore, mentre altri soldati, si fabbricavano fischietti con le ossa delle gambe».

    Maria de Medeiros è Eleonora Fonseca Piementel ne “Il resto di niente”

    Pogrom partenopeo

    Il cardinale non risparmiò neanche i prelati. Finirono al patibolo un vecchio sacerdote, Nicola Pacifico, e il vescovo di Vico Equense, Michele Natale, autore di un catechismo repubblicano. Tutta la meglio gioventù napoletana, cresciuta col pensiero di Vico e Filangieri e con gli ardori della Rivoluzione francese, fu sterminata.
    Francesco Caracciolo, comandante della flotta napoletana finì appeso al pennone più alto della nave dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson.
    Per non parlare della fine di un’altra madre della patria: Luisa Sanfelice, protagonista dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas.

    Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

    Il voltafaccia di re Ferdinando

    Anche i massoni pagarono cara l’adesione alla Repubblica: tra i perseguitati spicca l’abate Antonio Jerocades, a cui sono tuttora dedicate molte logge, che fu costretto all’esilio. Il fragile esperimento rivoluzionario finì in tragedia. E a nulla valse la “onorevole” capitolazione che Ruffo offrì a Castel Sant’Elmo agli insorti: finirono tutti giustiziati. Infatti, dopo la vittoria re Ferdinando voltò le spalle al cardinale e calpestò gli accordi di resa da lui siglati con i giacobini. E da allora per il cardinale carnefice cominciò il lento declino.

  • Elsa Morante e noi: inizia a Cosenza il suo romanzo più famoso

    Elsa Morante e noi: inizia a Cosenza il suo romanzo più famoso

    La Storia, il classico controverso di Elsa Morante, parte da Paola.
    Infatti, Nora Almagià, la madre di Ida Ramundo, la protagonista, si lascia annegare in un tratto di Tirreno compreso tra Paola e Fuscaldo.
    La Storia divenne all’epoca (1974) un avvenimento letterario e suscitò enorme scalpore: divise la critica, tra chi gridava al capolavoro e chi invece riteneva si trattasse soltanto di un lungo feulleiton.
    Comunque sia, il libro resta un long seller: non a caso, ne vengono riproposte tuttora nuove edizioni.

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    La scrittrice Elsa Morante

    Una storia calabrese di Elsa Morante

    La protagonista è Ida Ramundo, attraverso le cui vicende la Morante racconta un dramma collettivo tra Seconda Guerra mondiale fino alla liberazione e oltre.
    Attorno a Ida, una donna spaurita e perseguitata dal destino, e ai suoi due figli, Ninuzzu e il piccolo Useppe, si muove un microcosmo di piccoli personaggi, nel contesto di una storia più grande, piena di violenza devastatrice, di orrori e miserie.
    Le vicissitudini di Ida iniziano dalla Calabria. Così scrive Elsa Morante sulla famiglia della protagonista: «Il padre Giuseppe Ramundo era di famiglia contadina dell’estremo sud calabrese. E la madre di nome Nora, una padovana di famiglia piccolo-borghese bottegaia, era approdata a Cosenza, ragazza di trent’anni e sola in seguito ad un concorso magistrale».
    Nora è di origine ebraica, ma non vuole rivelarlo per paura delle conseguenze delle leggi razziali. Insieme al marito, anche lui maestro elementare, si stabilisce a Cosenza per motivi di lavoro.

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    Una edizione recente de “La Storia”

    Elsa Morante racconta un anarchico cosentino

    Proprio in questa città nel 1903 nasce Ida. Suo padre ha letto Fauré, Tolstoj Proudhon, Bakunin e Malatesta e questo fa star male Nora, che oltre a dover custodire il suo “segreto” si ritrova per casa un marito anarchico.
    «Aveva preso a frequentare un piccolo ambiente appartato – scrive di Giuseppe, la Morante – dove finalmente poteva dare sfogo ai suoi pensieri. Non ho potuto controllare l’ubicazione precisa di quella osteria. Però qualcuno in passato, m’accennava che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse la cremagliera, su per il fianco della montagna».
    Sicuramente la scrittrice non conosceva per davvero quei luoghi, però da come li descrive, si comprende benissimo che deve essere rimasta affascinata dai racconti che dei suoi amici calabresi a Roma. Forse degli artisti, oppure politici.

    La follia di Nora

    Sta di fatto che la scrittrice sembra scusarsi per non essere più precisa nei dettagli.
    E comunque rende omaggio a Cosenza, e proseguendo nel libro, anche a Paola.
    Dopo la morte del marito, Nora è sopraffatta dalle sue paure ed esce di senno. Decide di recarsi in Palestina, dove secondo le sue congetture si ritroverebbero tutti gli ebrei del mondo per sfuggire agli orrori delle persecuzioni razziali.
    Prende il treno dalla stazione di Cosenza per Paola e, una volta lì, imbarcarsi su una nave per la Terra promessa.

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    Il treno che da Paola portava a Cosenza

    La tragica fine di Nora

    «Qualcuno ricorda di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. Forse, sarà andata girovagando per un pezzo lungo quella spiaggia senza porti. Difatti il punto preciso dove l’hanno ritrovata, è a vari chilometri di distanza dal lido di Paola, in direzione Fuscaldo. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata». Così finisce la storia di Nora Almagià. Così da Paola inizia “La Storia”.

  • Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    C’è un po’ di Calabria nelle grandi tragedie. Ad esempio, quella raccontata da Giorgio Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini.
    Iniziamo dalla protagonista.
    Morta il primo marzo del 2009 a Milano a 90 anni, Matilde Bassani Finzi, cugina di Giorgio, ispirò Micol, il personaggio femminile del celebre romanzo.
    Questo secondo una tesi accreditata e mai smentita dalla Bassani.
    Secondo un’altra ipotesi, invece, l’ispiratrice di Micol sarebbe la contessa veneziana Teresa Foscolo Foscari.
    In ogni caso, nessuna delle due assomiglia a Dominique Sanda che ha impersonato l’eroina nel celebre film di Vittorio De Sica, il quale nel 1971 vinse l’Oscar come migliore pellicola straniera.

    La Micol del romanzo

    Secondo la critica Micol è una delle figure più tragiche ed enigmatiche della letteratura italiana contemporanea.
    L’amore di lei per lo studente universitario Giampaolo Malnate, amico di suo fratello Alberto, che muore giovanissimo, e l’affettuosa tenerezza per il compagno di infanzia Giorgio, figlio di un commerciante, sono il centro di una vicenda che termina tragicamente con la deportazione della famiglia Finzi Contini nei lager.

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    Vittorio De Sica

    Bassani, De Luca e i Finzi Contini

    Matilde Bassani, la “vera” Micol, è stata una figura romantica e importante della Resistenza, del socialismo e del movimento femminista.
    Veniamo alla calabresità della vicenda. Da partigiana, Matilde Bassani – possibile ispiratrice de Il Giardino dei Finzi Contini aderisce a Bandiera Rossa, gruppo combattente rivoluzionario fondato da Raffaele De Luca, avvocato calabrese vissuto a Paola per molti anni e personaggio di spicco dell’antifascismo romano. La vera storia non risulta meno affascinante di quella vissuta da Micol nel romanzo.

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    Il tesserino da giornalista di Matilde Bassani Finzi

    Le gesta di Matilde iniziano il 23 marzo 1943, mentre si reca in Vaticano per farvi accogliere due rifugiati polacchi. È subito fermata dalle SS, ma riesce a fuggire, sebbene le sparino a un ginocchio.
    Suo padre, professore di tedesco all’Istituto tecnico di Ferrara, viene licenziato nei primi anni ’20, perché anche lui antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali contro il regime.

    In azione a Firenze

    Matilde nell’agosto ’44 va a Firenze con un gruppo di compagni di Roma, mentre ancora infuriano i combattimenti, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi.
    Il gruppo giunge a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch.
    A conferma dell’esoso prezzo pagato dai Bassani, occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, combattente nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel ’45. Nonostante le dure condizioni della vita in clandestinità, Matilde conosce l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposa il 4 aprile 1945.

    Soldati della Wehrmacht a Roma

    Di ritorno a Roma

    Insieme a lui e ai fratelli Andreoni, Matilde fa parte del Comando superiore partigiano a Roma.
    Di lei scrive Concetto Marchesi, suo professore all’Università: «Il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore».
    Dopo la liberazione di Roma, il Comando collabora con gli Alleati, fornisce assistenza ai partigiani in cerca di vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, e lavoro.
    Matilde porta notizie alle famiglie dei combattenti che ancora si trovavano nei territori occupati, e fa propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale Il partigiano. Scrive anche articoli per Italia Combatte, un foglio che viene paracadutato dall’aviazione nei territori controllati dai tedeschi.

    Giorgio Bassani

    Il lungo dopoguerra di Matilde Bassani

    Socialista, di stampo riformista emiliano, Matilde mal sopporta il verticismo dei dirigenti del Pci, con cui ha a che fare che nel secondo dopoguerra quando milita nell’Unione donne italiane e si ritrova accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici.
    Sempre nel dopoguerra, Matilde si impegna nelle lotte “femminili”: partecipa alla fondazione del Cemp (Centro per l’educazione matrimoniale e prematrimoniale) che ha tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione, anche giovanile, e si attiva poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.

    Raffaele De Luca, avvocato anarchico e massone

    L’adesione a Bandiera rossa, rimane un fatto singolare da inquadrare nella sua educazione anarchica, libertaria e socialista, in sintonia col suo fondatore. Raffaele De Luca, al contrario di Matilde Bassani, nulla a che vedere con Il giardino dei Finzi Contini.

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    Raffaele De Luca

    A lui qualche anno fa lo storico e scrittore Alfonso Perrotta ha dedicato il libro L’umano divenire. Nato a San Benedetto Ullano nel 1874, il padre era bracciante e la madre filatrice, De Luca si laurea in Giurisprudenza a Napoli.
    Dapprima anarchico, in seguito si iscrive al Psi, candidandosi alle Politiche del 1921. De Luca è anche fondatore delle logge massoniche paolane “Germinal” e “Giuseppe Garibaldi”.

    Alle prese coi fascisti

    Organizzatore delle lotte dei contadini e dei ferrovieri, l’avvocato è aggredito in più occasioni dai fascisti.
    È sorvegliato speciale di Polizia e dalla scheda del suo casellario si apprende che ha rapporti con Pietro Mancini.
    Nel 1941 è costretto a trasferirsi a Roma. Lì fonda il gruppo comunista Scintilla e, nel 1943, il Movimento Comunista d’Italia. È direttore del giornale Bandiera Rossa.

    Vivo per miracolo

    Per la sua propaganda antifascista è arrestato in seguito a una delazione e finisce a Regina Coeli. Il Tribunale militare tedesco lo condanna a morte nel gennaio del 1944. Sollecitato a firmare la domanda di grazia oppone un netto rifiuto.
    Evita comunque la fucilazione per l’intercessione di alcuni antifascisti che operano nel carcere. Esce di prigione all’indomani della liberazione di Roma.

    Palmiro Togliatti

    Partigiani sconosciuti

    In Bandiera Rossa di De Luca militano 1183 partigiani. Di questi, 186 muoibono in azioni di lotta (il numero è tre volte superiore a quello del Pci), e alcuni di loro sono “giustiziati” alle Fosse Ardeatine. Altri 137 finiscono nei campi di concentramento.
    Il loro resta un tributo forte alla Resistenza, ma non così “ufficiale” da essere menzionato nella storia “organica” della Liberazione.
    Alla fine della guerra molti di questi militanti chiedono la tessera del Pci. Al riguardo, si registra una singolarità: una domanda di iscrizione “collettiva”, cosa inusuale per il rigido statuto del partito.
    A De Luca invece, resta un’amarezza: la sua domanda è accolta dalla Federazione romana del Pci, ma subito dopo è rigettata dalla Direzione nazionale e da Palmiro Togliatti in persona.

    L’amarezza finale

    Molto probabilmente, questo rifiuto si collega alla militanza massonica e al “frazionismo” dell’avvocato paolano: due cose incompatibili nell’organizzazione monolitica del Pci. Umiliato da questo diniego, Raffaele de Luca, molla la politica. Muore il 6 aprile 1949.

    Alessandro Pagliaro

  • Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

    Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

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    Ettore Petrolini è stato tra i più grandi attori ed autori del teatro comico italiano. La sua originalità si è espressa soprattutto con vena satirica in parodie e comicità, tra macchiette dei teatri minori e personaggi di operette e riviste di varietà che hanno trovato posto nelle sue commedie. Molti monologhi, per fortuna incisi su dischi dell’epoca, danno modo ancora oggi di apprezzare la modernità della sua irridente verve comica.
    Ma Petrolini fu anche interprete di cinque film tra il 1913 e il 1931. La produzione cinematografica, per quanto rada, ha permesso comunque di immortalare il suo magistrale estro su pellicola. E il recupero di quei film passa oggi dalla Calabria grazie a Gianmarco Cilento.

    Gianmarco Cilento e il “Progetto Petrolini”

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    Gianmarco Cilento

    Studioso e autore di saggi e monografie incentrati sulla storia e i protagonisti del cinema nazionale, Cilento vive a Paola. Insieme ad una squadra di critici e appassionati come lui – e in collaborazione con l’associazione culturale Ettore Petrolini e Diari di Cineclub – è il promotore di “Progetto Petrolini”. Si tratta di un lavoro di ricerca che culminerà con la pubblicazione di un libro dedicato alla filmografia dell’attore romano.  A curare il volume saranno inoltre Adriano Aprà, Alfredo Baldi, Anna Maria Calò, Nino Genovese, Anton Giulio Mancino, Silvia Nonnato, Domenico Palattella, Davide Persico, Simone Riberto e Marco Vanelli. Si tenterà così di recuperare, prima che sia troppo tardi, l’opera cinematografica di Ettore Petrolini, allo stato attuale parzialmente dispersa.

    I cinque film perduti (o quasi)

    Petrolini disperato per eccesso di buon cuore di Ubaldo Pittei (1913), Mentre il pubblico ride di Mario Bonnard (1920), Nerone di Alessandro Blasetti (1930), Il cortile e Il medico per forza, di Carlo Campogalliani (1931): queste le pellicole che hanno visto l’attore romano protagonista lungo quasi un ventennio. Le prime due sono mute, mentre le altre sono state registrate con il sonoro. E se i due film senza voci sono al momento irreperibili, Nerone e Il medico per forza lo sono parzialmente all’interno del film di montaggio Petrolini, uscito nel 1949. Il cortile invece, dopo decenni d’invisibilità, è stato fortunatamente “ritrovato”. Le ricerche di Cilento hanno infatti appurato che del film esistono addirittura due copie, una conservata al Museo del Cinema di Torino e l’altra alla Cineteca di Bologna.

    Alla (ri)scoperta del Petrolini perduto

    «Compito del progetto – spiega Cilento – è non solo quello di recuperare i due film muti dell’attore romano, ma anche le versioni integrali di Nerone e Il medico per forza. Un lavoro di ricerca sicuramente impegnativo e faticoso, quanto doveroso. Vogliamo evitare che di tali pellicole si possa spegnere definitivamente anche l’ultima speranza di recupero. Per l’estrema complessità si auspica il sostegno di ogni ente pubblico e associazione culturale interessata alla preservazione del patrimonio cinematografico. Recuperare il perduto cinema di Ettore Petrolini, così da poterlo apprezzare noi e tramandarlo alle future generazioni, è la nostra missione. E che questa sia l’inizio di una serie di iniziative volte a promuovere le carriere cinematografiche irreperibili di altri artisti dello spettacolo italiano».

    Alessandro Pagliaro

  • Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Enzo Lo Giudice, paolano doc scomparso nel 2014, fu l’avvocato di Bettino Craxi ai tempi di Tangentopoli.
    Infatti, era diventato noto, soprattutto negli ultimi anni, per la sua difesa a spada tratta nelle aule del Tribunale di Milano del leader del Garofano.
    Eppure Lo Giudice non fu solo il difensore del segretario del Psi.

    Lo Giudice marxista e rivoluzionario

    Nel 1968, l’avvocato fu tra i fondatori della rivistaServire il Popolo e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti).
    Quest’ultima era una formazione extraparlamentare piccola e combattiva, molto critica nei confronti de Pci. E vi militò, come padre fondatore, anche Aldo Brandirali, diventato in seguito esponente di spicco di Comunione e Liberazione.
    Enzo Lo Giudice, così lo racconta Stefano Ferrante nel suo libro La Cina non era vicina, era un organizzatore di rivolte dei contadini calabresi e dei senza casa.

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    Enzo Lo Giudice

    Il Tirreno in rosso

    A quei tempi Paola e Cetraro erano diventati i centri principali delle “lotte proletarie” del Meridione. Lì erano di casa l’attore Lou Castel (interprete de I pugni in tasca) e il regista Marco Bellocchio, che proprio sul Tirreno cosentino girò il documentario Paola-Il popolo calabrese ha rialzato la testa. Queste vicende sono tornate da poco alla ribalta grazie al libro di Alfonso Perrotta, Maoisti in Calabria che ripercorre con notizie inedite quell’epoca avventurosa .

    Gli esordi: dalla sinistra alla rivoluzione

    Ma riavvolgiamo il nastro. Sin da giovanissimo Enzo Lo Giudice coltivò la passione per la politica.
    Figlio di ferroviere, aderì al Psi. Militò nella corrente di sinistra di Lelio Basso. Già collaboratore de La parola socialista, il periodico di Pietro Mancini, Lo Giudice passò nel Psiup. «Era un periodo – disse una volta – in cui rinnegavamo la linea revisionista di tipo elettorale che aveva corrotto il Pci dopo la svolta di Salerno di Togliatti nel 1944».

    Avvocato e scrittore

    Arrestato nel 1971 durante un comizio, Enzo Lo Giudice si alternò tra l’avvocatura (fu tra i difensori nel processo napoletano ai militanti dei Nuclei armati proletari), e la scrittura. Pubblicò il romanzo Donna del Sud e i saggi Sud e Rivoluzione, La questione cattolica, Processo penale e politica, Il diritto dell’ingiustizia, La democrazia impossibile o dell’utopia.
    Nel 1978 difese anche l’anarchico calabrese Lello Valitutti, testimone della morte di Giuseppe Pinelli ai tempi della strage di Piazza Fontana a Milano. Valitutti era finito in carcere perché accusato di appartenere al gruppo estremistico insurrezionale Azione rivoluzionaria.

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    L’anarchico Lello Valitutti

    In ricordo di Bettino

    Tra i promotori della Fondazione Craxi, Lo Giudice ha raccolto nel libro Le urne e le toghe (2002) alcuni contributi del segretario del Psi sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura in Italia.
    Sull’argomento il nostro era ferratissimo: proprio Craxi gli aveva affidato le difese più ardue da tutte le accuse del pool di Mani pulite, in particolare quelle di Antonio di Pietro.
    Quello tra Lo Giudice e Craxi fu un incontro di storie diverse: il rivoluzionario e il riformista si trovarono uniti in una battaglia impossibile a garanzia della libertà politica, in una Italia che voleva sostituire il giustizialismo alla giustizia.

    Veleno su Tangentopoli

    Da qui il giudizio tranchant di Lo Giudice su Tangentopoli, ribadito nel 2003 in una intervista a Critica sociale.
    «Craxi – ha dichiarato l’avvocato – è stato giudicato colpevole in un processo senza contraddittorio sulla base di semi-prove precostituite fuori dal dibattimento, nel quale l’imputato è stato privato del principale diritto di difesa, quello di interrogare e fare interrogare i suoi accusatori».

    Un processo “rosso” a Craxi

    Più dura l’accusa politica: «La linea della sinistra è stata traslata nella giurisdizione che ha avuto come programma “la questione morale”, in forza della quale i giudici sono diventati sacerdoti ordinati dal popolo alla grande missione. Craxi era “un delinquente matricolato” e doveva essere condannato comunque».
    Per questo suo impegno più “politico” che “legale”, Craxi volle manifestargli in una notte di dialoghi ad Hammamet tutta la sua amicizia: «Lei non riesce a darmi del tu – gli disse una volta – eppure io finalmente ho trovato un amico. Che io lo sia per lei, già lo so».

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    Bettino Craxi ad Hammamet

    A tu per tu col leader in disgrazia

    In alcuni scritti, in parte inediti, Lo Giudice parla del suo rapporto intimo e allo stesso tempo rispettoso col segretario del Psi. Soprattutto dei lunghi dialoghi intercorsi nel residence-prigione della Tunisia.
    In particolare, sono illuminanti le parole sul “dispiacere” che Craxi provava in “esilio” a causa della diaspora in atto nel partito.
    Nei tanti momenti di sconforto, il pensiero che forse lo assillava di più era quello di non aver potuto compiere il “miracolo” dell’unità socialista – anche con il Pci che avrebbe dovuto “socialdemocratizzarsi” – per ricollocare l’antica famiglia della sinistra riformista nell’ambito della grande tradizione socialista italiana ed europea.

    La rivoluzione abortita dalle toghe

    «In una delle conversazioni notturne ad Hammamet – scrive Lo Giudice – Bettino Craxi mi confidò il suo cruccio: la falsa rivoluzione dei magistrati aveva interrotto l’impegno principale del suo lavoro politico, l’impresa storica della riunificazione di tutti i socialisti nel grande partito riformista, strumento di modernizzazione del paese». La prospettiva craxiana «era l’allargamento dello spazio in cui collocare la forza autonoma socialista che si liberava dalle regole rigide dell’economia capitalistica e dal massimalismo e dal dogmatismo della sinistra radicale».

    I pubblici ministeri Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo insieme al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli

    L’utopia umanitaria di Bettino

    Ancora: «Craxi era convinto che i grandi interessi generali del popolo lavoratore avrebbero alla fine sostenuto il primato degli ideali socialisti. Il sistema della libertà e la carta dei diritti umani avrebbero potuto battere il fronte degli opportunismi politici». Queste riflessioni trovavano riscontro nell’analisi a posteriori di Lo Giudice in uno dei suo scritti: «Il nostro paese soffre per il basso livello culturale della lotta politica, dalla quale provengono odi, risse e veleni».
    Perciò «nella confusione incestuosa di destra e sinistra si va aprendo uno spazio dove ha diritto di vivere l’autonomia socialista, unica alternativa valida, sia come teoria che come pratica politiche».

    L’alternativa socialista secondo Lo Giudice

    L’alternativa socialista, conclude l’avvocato, «ha un suo programma risolutivo di questa tenaglia economica che è grave perché non riduce ma amplia il divario ricchezza-povertà. Serve, dunque un soggetto politico che conti, capace di raccogliere l’esigenza del partito già manifesta e quella ancora potenziale ma che si avverte in ogni angolo del paese».
    Malato da tempo Enzo Lo Giudice si è spento a Paola. La sua città lo ha onorato dell’intitolazione di uno spazio antistante il Tribunale.

    Resta tuttavia ancora non “comprensibile” il motivo della celebrazione dei suoi funerali al Convento di San Francesco, per un ateo convinto come lui, che aveva sempre manifestato ostilità nei suoi scritti nei confronti della religione e dell’operato della Chiesa.

    Alessandro Pagliaro

  • Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Adriano Sofri nel suo La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo 2009) rievoca gli anni bui della strage di Piazza Fontana.
    Il 12 dicembre del 1969 le bombe piazzate nella Banca dell’Agricoltura di Milano fecero 17 morti e 88 feriti. La Polizia seguì subito la pista degli anarchici. E i sospettati furono fermati e tradotti in Questura nel giro di poche ore.
    Tra questi c’erano Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e Pasquale “Lello” Valitutti.

    Lello Valitutti, il supertestimone calabrese

    Quest’ultimo fu testimone di ciò che accadde nelle concitate ore della notte del 15 dicembre, quando il ferroviere Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori stressanti, precipitò dalla finestra dall’ufficio – in cui si sostenne fosse presente il commissario Luigi Calabresi – e si schiantò dal quarto piano.
    Sulla dinamica di quel “volo” sono state condotte numerose inchieste da cui sono emerse altrettante “verità”.
    I poliziotti presenti parlano di suicidio. Al contrario, gli anarchici e tanta parte dell’opinione pubblica sostengono l’ipotesi dell’assassinio.
    A distanza di 53 anni, resta il mistero: tra i “testimoni” di allora, infatti, qualcuno ha abiurato e qualcun altro ha revisionato la propria storia.

    Una versione che non cambia

    Chi, invece, ripete la stessa versione dei fatti, è Lello Valitutti di origine calabrese, citato più volte nel libro di Sofri. Suo padre Francesco è stato per tantissimi anni leader storico della Democrazia cristiana a Paola. La madre, Anna Maria Del Trono, apparteneva a una famiglia bene di Cetraro.
    Lello racconta, il 18 marzo 2004, durante l’iniziativa Verità e giustizia promossa dal circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa e dal Centro Sociale Leoncavallo, la sua verità su quella tragica notte.
    Lo fa con espressioni misurate ma suggestive: «Da questo corridoio passano, portando Pino, Calabresi e gli altri, e vanno nella stanza vicino. Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno è più uscito».

    E ancora: «Ve l’assicuro, era notte fonda, c’era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. Dopo circa un’ora che lui era in quella stanza, che c’era Pino in quella stanza, che non avevo sentito nulla, quindi saranno state le 11 e mezzo, grosso modo, in quella stanza succede qualcosa che io ho sempre descritto nel modo più oggettivo, più serio, scrupoloso, dei rumori, un trambusto, come una rissa, come se si rovesciassero dei mobili, delle sedie, delle voci concitate».

    La strage di Stato

    Questo racconto di Lello Valitutti è apparso per la prima volta nel celebre libro La strage di Stato, la controinchiesta che fece scalpore quando uscì nel 1970, perché puntava il dito sui neofascisti di allora.
    La storia, dopo l’assoluzione del ballerino anarchico Pietro Valpreda e i processi di Catanzaro, ha dato ragione a Eduardo Di Giovanni e Marco Ligini, gli autori dell’opuscolo, che nel frattempo si erano dovuti difendere dalle accuse di diffamazione.

     

    Lello Valitutti e Gerardo D’Ambrosio: botta e risposta

    Un’altra volta, e precisamente nel 2002, Valitutti fu chiamato in ballo in modo errato dal giudice Gerardo D’Ambrosio, all’epoca dei fatti titolare dell’inchiesta, che in un’intervista al settimanale del Corriere della Sera, Sette, dichiarò: «Poi, ottenni un’altra prova sull’innocenza di Calabresi». «Quale?», domanda il giornalista. «La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli cadesse».

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    Gerardo D’Ambrosio all’epoca delle indagini sulla morte di Pinelli

    Valitutti rispose all’istante. In una lettera scritta all’allora direttore diLiberazione, Sandro Curzi, pubblicata il 17 Maggio 2002 dichiarò: «Vedo, ancora una volta, distorta la verità. Io sono l’anarchico Pasquale Valitutti e ho sempre sostenuto il contrario. Lo ripeto a lei oggi: Calabresi era nella stanza al momento della caduta di Pinelli. Se tutto è ormai chiaro, come dicono, perché continuare a mentire in questo modo vergognoso sulla mia testimonianza? Io sono ormai stanco, malato e fuori da qualsiasi gioco. Ma alla verità non sono disposto a rinunciare».

    Le vecchie lotte

    Per comprendere ancora meglio il carattere di Valitutti, il suo rigore e l’inossidabile fede negli ideali anarchici, basta consultare il carteggio intercorso, durante la sua detenzione a Lucca, con Franca Rame e Dario Fo, che si battevano per la sua liberazione.
    Lello era accusato di appartenere ad un gruppo denominato Azione rivoluzionaria. «Compagni – scrive – adesso vogliono farmi pagare le vecchie lotte per Pinelli e Valpreda, le carceri che ho combattuto insieme a tanti di voi. Gli elementi che hanno contro di me sono: la conoscenza con uno dei colpevoli del tentativo di sequestro Neri a Livorno e alcuni miei spostamenti che ritengono sospetti».

    Lello Valitutti, Dario Fo e Franca Rame

    Anche in quelle circostanze, non rinunciò a un rapporto franco con i propri interlocutori, manifestando disappunto, perché a suo dire, la Rame, non si stava impegnando troppo per sostenere la causa dei detenuti politici come lui.
    Dario Fo gli rispose in una lettera del 27 gennaio 1978: «Ti rispondo a nome di Franca perché, come saprai è ricoverata in ospedale a causa dell’incidente che ha avuto a Genova. È stata investita da una macchina e ha subito la frattura del braccio sinistro. Sinceramente non capisco il termine delusione che usi nella lettera che indirizzi anche a Franca. Lo sai benissimo che non si è tirata mai indietro. Quindi nel tuo caso è solo perché è bloccata all’ospedale e sta proprio male se non ha potuto far niente. Hai ricevuto il vaglia che ti è stato spedito il 18? Faccelo sapere per favore».

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    Dario Fo sul palco nel suo Morte accidentale di un anarchico

    Parla la mamma

    Tra i documenti custoditi nell’archivio storico della coppia di attori, c’è anche un appello della madre di Valitutti, indirizzato «ai giornali, ai compagni, agli amici», che denuncia le gravi condizioni di detenzione del figlio in attesa di giudizio a Volterra. «Vive in una cella munita unicamente di letto e luogo di decenza – scrive Anna Maria Del Trono – senza un lavandino, senza una seggiola, senza alcun mezzo di informazione, continuamente ammanettato. È ovvio che tale stato di completo isolamento possa considerarsi un omicidio nei confronti di un giovane già così provato nella salute. Ritengo responsabili della sua salute coloro che permettono che mio figlio soffra ingiustamente un trattamento indegno non dico di un uomo, ma di una bestia».

    Malato in carcere

    Sempre nell’epistolario, Pasquale Valitutti, una volta chiariti i motivi del mancato impegno di Franca Rame e Dario Fo, descrive il peggioramento della sua salute: «Sono affetto da una grave depressione nervosa con gravi conseguenze fisiche, L’avv. Lo Giudice sta raccogliendo un’ampia documentazione medica e al più presto presenterà una domanda di libertà provvisoria».

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    Enzo Lo Giudice e Antonio Di Pietro negli anni di Tangentopoli

    Il Lo Giudice, citato nella lettera, è Enzo, avvocato con lo studio a Paola e dirigente allora di primo piano del Partito marxista-leninista d’Italia, che diventerà in seguito il legale di Bettino Craxi in molti processi di Tangentopoli.

    Solidarietà tra carcerati

    Ma Lello in cella non pensa solo sé. Si preoccupa anche degli altri compagni rinchiusi in tutte le carceri d’Italia che devono difendersi in Tribunale. Ed esorta tutti quelli che vogliono contribuire a «far avere dei soldi al mio avvocato. Vi prego di non mandare nulla a me: l’avvocato difende altri compagni ed è giusto che a lui vadano i soldi. Mandateli a tramite vaglia o assegno, specificando che siete miei amici».
    Il giornalista Toni Capuozzo, in collegamento dal Brasile, nel commentare le dichiarazioni del governo italiano circa la mancata estradizione di Cesare Battisti, elencava i nomi di una serie di latitanti italiani che abiterebbero ancora in Brasile, tra cui l’anarchico Pasquale Valitutti.

    Libero e combattente

    Capuozzo non sapeva che Lello Valitutti da molti anni vive libero a Roma e partecipa, nonostante le gravi condizioni di salute, insieme a Licia Rognini, la moglie di Pinelli, alle iniziative che si tengono in memoria del suo amico e compagno volato in cielo a testa in giù.

    Valitutti, malgrado sia costretto da diversi anni sulla sedia a rotelle, continua a partecipare a manifestazioni di piazza, anche alle più dure e pericolose. Una volta è stato immortalato con una bomboletta spray in mano mentre spruzzava vernice su una camionetta della Guardia di Finanza. Un’altra foto lo ritrae mentre fronteggia un plotone di celerini in assetto antisommossa, con il pugno chiuso nella sua continua lotta anarchica antisistema.

    Alessandro Pagliaro

  • Conservatori vaticani alla carica: Müller arriva a Paola

    Conservatori vaticani alla carica: Müller arriva a Paola

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    Il 2 dicembre del 2022 il cardinale Gherard Ludwig Müller ha presentato nel Convento di San Francesco di Paola il suo ultimo libro: Il Papa, Missione e Ministero.
    Accolto con tutti gli onori dai frati Minimi, l’alto prelato, dopo aver celebrato messa, ha ricevuto i calorosi saluti del correttore provinciale dell’Ordine, padre Francesco Trebisonda. L’appuntamento ha interessato un uditorio ristretto ma consapevole di partecipare ad un evento significativo.
    Non fosse altro per la caratura del big vaticano, che negli ultimi anni si è schierato in maniera aperta contro l’attuale pontefice Bergoglio, rappresentando l’ala intransigente della Chiesa.

    Dopo papa Ratzinger

    Questo episodio, in relazione alla morte del papa emerito Benedetto XVI, assume una nuova luce nel contesto di una guerra che si è riaperta tra le due fazioni, quella progressista e l’altra più tradizionale, all’ombra della cupola di San Pietro.
    Padre Georg, segretario particolare di Ratzinger, ha dato fuoco alle polveri: a salma ancora da inumare dell’ex pontefice, ha rilasciato dichiarazioni non certo tenere verso papa Francesco.

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    Padre Georg con Benedetto XVI

    Parole al veleno, le sue, con cui ha anticipato l’imminente uscita di un suo libro pieno di rivelazioni sconcertanti sulla convivenza dei due papi.

    Padre Georg alla carica

    Per quale motivo Georg Genswein ha rotto la pax vaticana, tra l’altro nel momento meno opportuno? Dietro quest’iniziativa forse c’è l’intenzione di aprire un’offensiva mirata a stabilire nuovi equilibri cardinalizi.
    Il tutto in vista di un Concilio, che seguirebbe le ventilate dimissioni di papa Francesco per motivi di salute.
    Infatti, scrive l’arcivescovo tedesco nel suo libro Nient’altro che la verità, di essere rimasto «scioccato e senza parole» quando Francesco gli comunicò: «Lei rimane prefetto ma da domani non torni al lavoro».
    Secondo padre Georg, Benedetto commentò: «Penso che papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode».

    Satana contro Ratzinger e l’inquisitore silurato

    In una intervista rilasciata a Ezio Mauro, Genswein ha rivelato di aver scorto la «mano del diavolo» durante il pontificato di Ratzinger.
    In un’altra dichiarazione alla stampa, il prefetto della Casa Pontificia ha evidenziato che il provvedimento con cui papa Francesco ha ribaltato la liberalizzazione della messa in latino ha «spezzato il cuore» di Ratzinger.

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    Papa Benedetto XVI

    Con queste uscite, l’arcivescovo tedesco ha riacceso le polemiche innescate in precedenza dal cardinale Müller con le sue continue prese di distanza dalla visione di Bergoglio. Per questo motivo, il papa ha destituito Müller da capo della Congregazione per la Dottrina della Fede (cioè l’ex Sant’Uffizio).

    Müller alla riscossa

    Dopo questa decisione, il prelato tedesco ha deciso di non tornare a Ratisbona ma è rimasto a Roma per accrescere il fronte dei conservatori vaticani.
    In questo compito rientra anche il proselitismo, soprattutto nei più importanti centri religiosi e all’interno delle varie confraternite in Italia e nel mondo. Da qui la tappa al Santuario di San Francesco di Paola, dove Müller ha trovato porte aperte e orecchie pronte ad ascoltare le sue tesi radicali. Arricchite dagli spunti polemici, più volte esternati in altre sue pubblicazioni.
    La polemica di Müller colpisce le aperture di papa Francesco al riconoscimento dell’affettività omosessuale, le posizioni papali sul ruolo delle donne nella Chiesa e sui divorziati risposati.

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    La Cappella del Santuario di San Francesco di Paola

    L’ambigua diplomazia di un conservatore

    Ciononostante, lo stesso Müller ha in più circostanze tentato di non rimarcare troppo queste distanze. Anzi, ha messo in risalto la fedeltà al Papa, pur manifestando una linea a volte non coincidente con quella di Bergoglio.
    Tuttavia, non bisogna dimenticare che lo stesso ex inquisitore nel 2015 firmò la lettera dei tredici cardinali in cui si denunciavano irregolarità nello svolgimento del Sinodo sulla famiglia, che avrebbero favorito la prevalenza delle posizioni più avanzate. E c’è da dire che Müller intrattiene rapporti anche con uomini nella Chiesa di stampo progressista, come il peruviano Gustavo Gutiérrez, padre della teologia della liberazione, con cui ha scritto un libro intitolato Dalla parte dei poveri.

    Coppie gay: il no di Müller

    Dopo l’apertura di Papa Francesco alle unioni civili per le coppie omosessuali, Müller dice di aver ricevuto «centinaia di chiamate» di chi la pensa diversamente.
    Teologo e curatore dell’opera omnia di Ratzinger, nominato nel 2012 da Benedetto XVI prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e rimasto in carica fino al 2017, al Corriere della Sera ha spiegato la sua critica al pontefice: «L’ho sempre difeso contro protestanti e liberali, però il Papa non è al di sopra della Parola di Dio, che ha creato l’essere umano maschio e femmina».

    Papa Francesco

    Massoni? Alla larga

    In un’altra occasione ebbe a dire: «Non mi sono piaciute tutte quelle grandi lodi dei massoni al Papa. La loro fraternità non è la fraternità dei cristiani in Gesù Cristo, è molto di meno. Non possiamo prendere come misura della fraternità quello che viene dalla Rivoluzione francese, che è ideologia, come il comunismo. Una religione universale non esiste, esiste una religiosità universale, una dimensione religiosa che spinge ogni uomo verso il mistero. A volte si sentono idee assurde, come quella del Papa “capo di una religione universale”, ma è ridicolo. Pietro è Papa per la sua confessione o professione di fede: “Tu sei Il Cristo, il figlio del Dio vivo”. Questo è il Papa, non il capo dell’Onu».

    «Solo la Chiesa è universale»

    Ancora più netto è sul concetto della relativizzazione:
    «C’è una orizzontalizzazione del cristianesimo, lo si riduce in modo da piacere agli uomini d’oggi, invece così si inganna la gente. Quando ci si trova con persone di altre religioni non possiamo unirci in una fede generalizzata. Si riduce la fede a una fede filosofica, Dio a un essere trascendente, e poi diciamo che Allah o Dio padre di Gesù Cristo sono la stessa cosa. Così come il Dio del deismo non ha nulla a che vedere con il Dio dei cristiani. Ogni appello ad una “fratellanza universale” senza Gesù Cristo, l’unico e vero Salvatore dell’umanità, diventerebbe, dal punto di vista della Rivelazione e teologico, una corsa impazzita nella terra di nessuno».

    Gherard Ludwig Müller

    Caccia ai fedeli

    Questi concetti, esposti in maniera netta e intransigente, non lasciano intravedere una direzione comune con quella di Bergoglio, invece più aperto al dialogo interreligioso. Dopo la morte di Benedetto XVI è in gioco il futuro della Chiesa e la sua proiezione al di fuori dei confini vaticani. Perciò chi vuole riportare la dottrina cristiana in orizzonti più dogmatici, si sta organizzando per acquisire il consenso necessario a delimitare l’espansione di una visione più illuminista, che ha tuttora nel papa il più strenuo sostenitore. In questa ottica si inserisce l’attivismo del cardinal Müller, arrivato anche in Calabria in cerca di interlocutori.

    Alessandro Pagliaro