di Walter Greco (Responsabile scientifico Laboratorio CAPIRE – Dispes Unical)
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L’espressione “intelligenza artificiale” (parlo di quella che si riferisce all’uso più immediato e diffuso, alla IA-generativa) porta con sé un’ambiguità che non è solo tecnica, ma filosofica. Da un lato indica una serie di modelli statistici capaci di generare testi, immagini, suoni; dall’altro evoca, quasi inevitabilmente, l’idea di una mente altra, di un possibile interlocutore dotato di una qualche forma di interiorità. È come se ogni progresso nelle capacità dei sistemi generativi riaprisse la stessa domanda: che cosa separa una macchina che simula desideri, emozioni, sofferenza, da un soggetto che li esperisce davvero? E, ancor prima, abbiamo davvero bisogno di oltrepassare questa soglia?
Il gioco della simulazione
Nel dibattito pubblico, spesso, il salto è immediato: si passa dall’uso pratico di un modello linguistico – scrivere, tradurre, riassumere, comporre – alla proiezione fantascientifica di una “coscienza digitale”, di una intelligenza artificiale dotata di volontà autonoma. Ma il terreno intermedio, quello dove si gioca la partita più interessante, è proprio lo spazio della simulazione. Le macchine attuali non desiderano, non soffrono, non sperano; eppure sono in grado di produrre descrizioni apparentemente sempre più convincenti del desiderio, della sofferenza, della speranza.
Possono imitare il linguaggio dell’intimità, modellare i toni dell’angoscia, restituire la sintassi di una gioia improvvisa, senza che nulla, nel loro funzionamento, corrisponda all’esperienza vissuta che quelle parole evocano. È sufficiente questa competenza simulativa per parlare di “comprensione”? O si tratta solo di una sofisticata capacità combinatoria che ci invita a proiettare sulla macchina più di quanto vi sia?

Forme efficaci di rappresentazioni della realtà
Dal punto di vista dell’uso quotidiano, la risposta sembra sorprendentemente sobria. Non è necessario che un sistema “provi” qualcosa per essere utile. È sufficiente che sappia rappresentarlo in modo coerente, che rispetti vincoli formali, che non tradisca le attese di chi lo usa come strumento. Nelle pratiche di lavoro, di studio, di scrittura creativa, l’intelligenza artificiale appare soprattutto come una protesi cognitiva: estende la capacità di manipolare simboli, accelera il montaggio dei testi, permette di esplorare varianti stilistiche altrimenti troppo costose in termini di tempo.
Ciò di cui c’è bisogno non è una soggettività digitale con una propria agenda, ma un dispositivo che resti, pur nella sua complessità, controllabile, reversibile, sostituibile. In questo senso, l’idea di una macchina pienamente autonoma, capace di iniziativa propria, appare meno come un obiettivo concreto e più come una metafora potente, un campo di proiezione delle paure e delle speranze contemporanee. Eppure, anche restando sul terreno della simulazione, alcune tensioni emergono. Se un modello è in grado di imitare con grande finezza il modo in cui gli umani parlano di emozioni, lutti, desideri, relazioni, non è più neutrale il modo in cui questa imitazione interviene nella nostra esperienza. L’interlocutore artificiale può diventare confidente, consigliere, complice di scrittura, specchio di riflessione.

Non una persona, ma “quasi”
La distinzione tra “strumento” e “quasi persona” si fa sfumata non perché la macchina possieda una interiorità, ma perché la relazione che intratteniamo con essa tende spontaneamente a organizzarsi secondo forme che conosciamo: il dialogo, la confessione, l’argomentazione. La soglia non viene varcata dalla tecnologia, ma dall’uso simbolico che ne facciamo. Una simulazione abbastanza convincente non è ontologicamente esperienza, ma può assumere una funzione esistenziale nella vita di chi la utilizza. In questo quadro si collocano anche le fantasie sulle forme ibride, sui “cyborg cognitivi” e sulle simbiosi uomo–macchina. In realtà, una ibridazione è già in corso, ma è molto meno spettacolare di quanto le immagini transumaniste lascino intendere.

Non c’è bisogno di impianti neurali o di chip sottocutanei per constatare che una parte crescente delle nostre attività mentali viene esternalizzata in dispositivi digitali: memoria, calcolo, scrittura, montaggio delle informazioni. L’ibrido, se esiste, è nella catena uomo–schermo–modello, non in un nuovo organismo. E tuttavia, anche qui, si apre una domanda silenziosa: fino a che punto questa delega cognitiva modifica il modo in cui concepiamo il pensiero, la creatività, l’autorialità? In che misura un testo, un’idea, un progetto, restano “nostri” quando sono stati plasmati da un processo in cui la macchina ha avuto un ruolo determinante, pur restando, formalmente, uno strumento?
Se la macchina “diventa” come noi
Il lessico della personificazione – l’idea di un domani in cui esisterà un “GPT-Human” – sembra allora svolgere una funzione ambivalente. Da un lato rassicura: se la macchina sarà “come noi”, potremo forse comprenderla meglio, attribuirle responsabilità, immaginarla come parte di un orizzonte condiviso. Dall’altro lato sposta l’attenzione: invece di interrogarci sul modo in cui gli strumenti già ora ridisegnano le pratiche, le professioni, le relazioni, ci si proietta in un futuro radicale che sospende il giudizio sul presente. Nel frattempo, i modelli continuano a migliorare la capacità di imitare, di combinare, di rispondere, di accompagnare. Rimangono, tecnicamente, macchine di simulazione; ma la densità delle interazioni che intratteniamo con esse e il loro radicamento nelle nostre vite quotidiane continuano a rendere meno nitida la linea che separa il “come se” dall’“essere”. È forse in questa zona grigia che si concentrano oggi le questioni più delicate.

Potenti intelligenze senza corpo né storia
Non tanto nella possibilità di una coscienza artificiale forte, quanto nel modo in cui sistemi privi di esperienza vissuta possono comunque assumere un ruolo significativo nella costruzione del senso, delle narrazioni, delle decisioni umane. La filosofia, la sociologia, l’etica, sono chiamate a pensare questa presenza paradossale: dispositivi potentemente linguistici, senza corpo né biografia, che tuttavia entrano a far parte delle trame biografiche di chi li adopera. Quanto questo cambi il nostro modo di raccontarci, di riconoscerci, di attribuire valore alle parole, resta una questione aperta, che continuiamo, forse senza accorgercene del tutto, a esplorare nel semplice gesto di rivolgere una domanda a uno schermo e attendere che qualcosa, dall’altra parte, risponda.
