L’Università della Calabria ha celebrato da poco l’inaugurazione del suo 54º anno accademico, un momento di riflessione e orgoglio per un ateneo che si conferma tra i più dinamici del Sud Italia. Tuttavia, a segnare l’evento è stata un’azione dirompente: l’irruzione di studenti e attivisti del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina” durante il discorso del rettore Nicola Leone.

Con slogan come “Palestina libera!” e striscioni che denunciavano la “complicità delle università con Israele”, i manifestanti hanno interrotto la cerimonia per protestare contro gli accordi accademici con atenei israeliani e le collaborazioni con industrie belliche come Leonardo e Thales, accusate di alimentare il conflitto a Gaza. L’episodio, pur senza degenerare in violenza, ha messo in luce una tensione profonda: il ruolo delle università come spazi di sapere neutrale versus la richiesta di posizioni politiche nette su questioni globali.
Questa protesta, che si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni pro-palestinesi negli atenei italiani, solleva interrogativi cruciali. Da un lato, i manifestanti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, dando voce a un’urgenza etica condivisa da molti: la solidarietà con il popolo palestinese in un contesto di crisi umanitaria. Le loro accuse di “complicità” toccano un nervo scoperto, quello delle responsabilità istituzionali in un mondo interconnesso, dove collaborazioni accademiche e industriali possono avere implicazioni politiche. Dall’altro lato, l’irruzione ha interrotto un momento simbolico di unità accademica, sollevando critiche su modi e tempi della protesta. L’Università della Calabria, descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, ha cercato di riaffermare il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma è davvero possibile, o desiderabile, che un’università rimanga neutrale su questioni così divisive?
Libertà accademica e attivismo politico
Il cuore del problema sta nel bilanciamento tra libertà accademica e attivismo politico. Le università sono luoghi di confronto, dove idee opposte devono poter coesistere senza censure, ma anche senza che il dialogo venga soffocato da azioni che, pur legittime, rischiano di polarizzare invece che costruire. La protesta di oggi ha avuto il merito di accendere i riflettori su una questione globale, amplificata da immagini e video condivisi in tempo reale su piattaforme social e web.
Tuttavia, il rischio è che il messaggio si perda in una dialettica di scontro, anziché tradursi in un dialogo strutturato che coinvolga studenti, docenti e istituzioni.
L’Unical, con i suoi oltre 30.000 studenti e un ruolo centrale nel Mezzogiorno, ha l’opportunità di trasformare questo episodio in un’occasione di crescita. Organizzare tavoli di discussione aperti, con esperti di geopolitica e rappresentanti di tutte le sensibilità, potrebbe essere un passo per canalizzare l’energia della protesta in un dibattito costruttivo. La sfida è chiara: come conciliare l’eccellenza accademica con la responsabilità sociale, senza cedere né alla neutralità ipocrita né alla politicizzazione divisiva? La risposta non è semplice, ma l’università, come luogo di pensiero critico, è chiamata a cercarla.

La protesta del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina”, rappresenta un caso emblematico delle tensioni che attraversano le istituzioni accademiche in un’epoca di crisi globali. L’irruzione nell’Aula Magna, con slogan come “Palestina libera!” e “Se bloccano la flottilla, blocchiamo tutto!”, non è stata solo un atto di dissenso, ma un tentativo di forzare l’università a prendere posizione su un conflitto che, pur geograficamente lontano, ha profonde ripercussioni etiche e politiche. Analizzando l’evento, emergono tre nodi critici: il diritto di protesta, la “neutralità” accademica e il rischio di polarizzazione.
Il diritto di protesta e la sua messa in scena
L’azione del Coordinamento è stata pacifica ma volutamente dirompente, con l’irruzione e l’affissione di striscioni come quello sul Ponte Bucci (“complicità e responsabilità delle università con Israele”). La scelta di interrompere un evento simbolico come l’inaugurazione accademica ha garantito visibilità, amplificata da post sui social che hanno documentato l’evento in tempo reale. Tuttavia, questa strategia solleva una questione: la teatralità della protesta, pur efficace nel catturare l’attenzione, rischia di alienare chi potrebbe essere aperto al dialogo? I manifestanti hanno denunciato accordi con atenei israeliani e collaborazioni con aziende come Leonardo e Thales, accusate di sostenere il conflitto a Gaza. La loro richiesta – la rottura di questi legami – è chiara, ma la modalità scelta ha lasciato poco spazio a un confronto immediato, trasformando l’evento in uno scontro simbolico più che in un’occasione di dibattito.

La neutralità accademica: un mito insostenibile?
L’Unical ha risposto descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, riaffermando il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma la pretesa di neutralità accademica è problematica. Le università non operano in un vuoto: gli accordi con atenei stranieri o industrie belliche non sono mai solo “tecnici”, ma portano con sé implicazioni politiche. La protesta ha messo in discussione il silenzio istituzionale su queste connessioni, accusando l’Unical di complicità indiretta in un conflitto che molti studenti percepiscono come un “genocidio”. Tuttavia, la neutralità ha anche un valore: garantisce che l’università rimanga un luogo di pluralismo, dove tutte le voci – incluse quelle pro-israeliane o neutrali – possano esprimersi. Rompere accordi accademici con Israele, come chiesto dai manifestanti, potrebbe essere visto come un atto di censura verso studiosi e istituzioni israeliane, non tutte necessariamente allineate con le politiche del loro governo. Qui si gioca la sfida: come bilanciare responsabilità etica e apertura intellettuale?
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La polarizzazione e il dialogo
La protesta si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni studentesche pro-palestinesi, come i sit-in all’Aquila contro Leonardo. Questo movimento riflette una crescente sensibilità tra i giovani per le questioni globali, ma anche una tendenza alla polarizzazione. I critici dell’azione, che l’hanno definita “controversa”, sottolineano che politicizzare un momento celebrativo come l’inaugurazione rischia di alienare chi non condivide la causa. Sui social noto che commenti si dividono: alcuni utenti lodano il coraggio degli attivisti, altri lamentano la “mancanza di rispetto” per l’evento accademico. La “frattura profonda” evidenziata dall’episodio non è solo tra studenti e istituzione, ma anche all’interno della comunità accademica, dove sensibilità diverse si scontrano senza un terreno comune. La richiesta di “dialogo strutturato” avanzata da alcuni osservatori è sensata, ma richiede volontà da entrambe le parti: i manifestanti devono accettare la complessità del tema, e l’università deve riconoscere che la neutralità non è sempre una risposta sufficiente.

Il ruolo dell’Unical nell’area del Mediterraneo
La protesta all’Unical è un microcosmo delle tensioni globali che attraversano le università, chiamate a essere al contempo templi del sapere e arene di confronto politico. L’azione del Coordinamento ha avuto il merito di portare il conflitto israelo-palestinese al centro del dibattito, ma ha anche evidenziato i limiti di un approccio che privilegia l’irruzione al dialogo. L’università ha l’opportunità di trasformare questa frattura in un’occasione di crescita, promuovendo spazi di confronto che includano prospettive diverse, da quelle degli attivisti a quelle di chi difende la cooperazione accademica internazionale. La sfida è costruire un dibattito che non semplifichi la complessità geopolitica, ma la affronti con rigore e apertura. Solo così l’Unical potrà onorare il suo ruolo di faro culturale nel Mezzogiorno, senza cedere né al silenzio né alla polarizzazione.
