“I trogloditi di Africo”: il titolo di un articolo pubblicato su “L’Europeo” nel 1948 è senza appello, come altrettanto impietose sono le foto di Tino Petrelli a corredo, che il tempo ha trasformato in icone neorealiste della miseria. Ce n’è una, oltre quella più famosa della classe con i bambini scalzi e la carta geografica della Calabria alle spalle, che mi è tornata alla memoria in questo momento, scattata all’interno di un ambiente che la famiglia condivide con un letto, un maiale ed una capra. So bene che a più di qualcuno il parallelo sembrerà eccessivo, ma l’associazione fra questa foto e quella del crollo della facciata di una palazzina di Lamezia Terme, avvenuto qualche giorno fa, ha un suo legame concettuale.
La casa di Lamezia: la frattura simbolica
La cronaca di eventi come terremoti, attentati, o fughe di gas ci ha abituati alla visione di interi palazzi sventrati che offrono la propria intimità al nostro sguardo come teatri dalle scenografie di vita interrotta. Cucine e letti disfatti, armadi aperti come confessionali forzati: gli interni più privati diventano scena pubblica, la rivelazione improvvisa di uno spazio intimo che insieme alla frattura dei muri porta con sé la frattura della distanza simbolica tra l’interno e l’esterno, ponendoci di fronte ad un intreccio complesso tra psicologia dello sguardo, estetica del disastro e tensione etica.
Se da un lato la visione delle rovine suscita empatia e compassione per la quotidianità interrotta, dall’altro la stessa visione può alimentare un piacere segreto, una fascinazione che rientra in quella che Susan Sontag ha descritto come “l’attrazione del disastro”, dove l’atto del guardare si situa in una zona ambigua, oscillante tra compassione e consumo estetico della sofferenza. Sintomo, quest’ultimo, della tensione moderna tra documentazione e spettacolarizzazione che rinnova ogni volta l’interrogativo sui limiti morali del nostro desiderio di vedere, assai vicino, talvolta, ad una sorta di voyeurismo.
Lamezia, la casa col punctum di Barthes
Ma pur volendo distogliere lo sguardo da intruso, c’è qualcosa di diverso nel crollo di Lamezia, un dettaglio da punctum barthesiano che mi tiene incatenato a quell’immagine. Un elemento perturbante che emerge da quello spaccato di quotidianità agendo come una frattura semantica: una vecchia Fiat 600, apparentemente partecipe della normalità dello spazio domestico come in quel tempo non troppo lontano documentato da Petrelli. In realtà si tratta sicuramente di uno spazio dedicato a rimessa ma non solo, condiviso probabilmente con damigiane, bottiglie di pomodori e suppressate appese a stagionare, ma comunque contiguo alla casa.
Epperò quell’accostamento tra casa e macchina, come in passato fra casa e animali, rimanda a una specificità culturale, soprattutto nel meridione d’Italia, dove in molti contesti la casa non era/è semplicemente un contenitore separato dalla vita economica e sociale, ma un organismo esteso, secondo una logica di prossimità e custodia: ciò che è prezioso, vitale o identitario viene collocato all’interno.
La 600, icona della motorizzazione di massa e della modernizzazione italiana del dopoguerra, rappresenta una traccia biografica e culturale fortemente connotata, e la sua collocazione in uno spazio a portata di sguardo, contiguo a quello domestico, la trasforma in reliquia, oggetto d’affezione e al tempo stesso testimonianza di una temporalità sospesa, quasi un fossile domestico investito di una nuova aura simbolica. Non più strumento di spostamento, poggiata sui cavalletti al posto delle ruote, ma deposito di memorie, feticcio familiare che abita lo spazio come un ospite ingombrante ma accettato.
La casa sventrata a Lamezia, vite e fragilità
Nel più ampio contesto della mise en scène forzata della palazzina messa a nudo, i cui interni appaiono espressione di una comunità socialmente omogenea, quell’auto si presta a incarnare un simbolo di identità e di memoria collettiva della piccola comunità che è un condominio, raccontando una storia più ampia di vita, di cura e di perdita che appartiene a tutti noi. Alla fine, quelle stanze aperte come vite esposte ci ricordano la nostra fragilità; guardarle è guardare noi stessi, e capire quanto sottile è il confine fra certezze e perdita.
