di Giuseppina Pellegrino
Sociologa della comunicazione Dispes Unical
Nel furore dei ritorni d’agosto che muovono fiumane da nord a sud, in una stagione estiva turistica che si vorrebbe allungare a primavera e autunno ma si riduce alle solite due settimane a cavallo di Ferragosto, restano sullo sfondo ma continuano silenziose altre correnti di mobilità al contrario, quelle della migrazione sanitaria che da sempre e da troppo tempo portano i e le calabresi a cercare diagnosi, cure e speranza a nord di Roma. Perché, talvolta, capita che andare nella capitale non sia sufficiente a migliorare la situazione di tante e tanti che si ritrovano in una ingarbugliata matassa diagnostica e clinica, intrappolati in liste d’attesa, caos organizzativo, insufficiente attenzione e comunicazione, e non ultime, come nel mio caso, arroganza e mancanza di umiltà dei medici.
Una migrazione molto costosa
Tra i vari tipi di mobilità che la società contemporanea intreccia e promuove, in modo sempre più ineludibile e costitutivo, come John Urry aveva ben visto con la sua analisi delle mobilità multiple e plurime, la migrazione sanitaria assume profili particolarmente rilevanti nel caso della Regione Calabria e dei cittadini e delle cittadine calabresi. Secondo la Fondazione Gimbe, la spesa sostenuta nel 2022 per la mobilità sanitaria si attesta a 304,8 milioni di euro (+52,4 milioni rispetto al 2021). I crediti ammontano a 31.342.997 milioni di euro (la Calabria è in 20ª posizione) mentre siamo quinti in Italia per i debiti ( 336.128.699 milioni di euro).

La battaglia (quasi perduta) tra sanità pubblica e privata
Questo perdurante stato di minorità della sanità pubblica calabrese, con il concomitante proliferare del privato che attira sempre più professionisti (non solo i neo formati ma anche quelli chiamati ad hoc dall’estero), disegna una carenza di diritti e un vulnus nella cittadinanza, ed è alla base di una mobilità coercitiva e obbligata, diseguale ed iniqua, in cui chi ha risorse personali (ed economiche, culturali, simboliche) ha più probabilità di riuscire nell’impresa di salvarsi la pelle e sopravvivere, specie di fronte a una malattia grave che può cambiare radicalmente la vita.
La diagnosi sbagliata e i medici privi di dubbi
Quando nel 2013 mi venne prospettato il sospetto di un linfoma non-Hodgkin (immediatamente intuito da un medico dell’Annunziata) non volli fermarmi qui, puntando ad un luogo di cura dove si facessero molte, moltissime diagnosi di questo tipo, nel timore neppure tanto inconscio di una diagnosi che non fosse corretta. Umanissima paura o percezione extra sensoriale, la diagnosi sbagliata me la ritrovai, dopo due anni di cure durissime ed inutili e due recidive a cadenza semestrale, in un Istituto nazionale tumori considerato di prima classe. Due anni di trasferimento quasi permanente, protocolli multipli, partite a scacchi con la morte, ma soprattutto medici incapaci di dubitare delle loro diagnosi e strategie terapeutiche. Persino di fronte ad una nuova diagnosi, sollecitata dalla mia buona stella e anche dalla familiarità, per forma mentis, interessi di ricerca e curiosità, con il linguaggio e le pratiche della scienza e della tecnologia (o, per dirla con Bruno Latour, della tecnoscienza), quei medici non hanno mai dubitato delle loro ipotesi.

La malattia diventa campo di ricerca
Della mia storia ho fatto un tema di ricerca e di studio da molti anni, con una biografia di migrazione sanitaria che oltre alla medicalizzazione pluriennale, porta nella mia routine spostamenti periodici e iterativi da sud a nord, da un po’ di tempo per fortuna meno frequenti. Non che non siano presenti, nella mia biografia e storia clinica, episodi di buona, anzi ottima sanità calabrese (sempre presa per i capelli dopo una mancata diagnosi vicino casa). Ma di fronte alla sollecitazione di un primario che mi invitava a trovare un riferimento locale in caso di emergenza, come è stato per una gravissima polmonite da Covid nel 2023, mi sono sentita smarrita e scettica.
La mia è una storia talmente complessa, che solo raccontarla richiede tempo, pazienza, raccapezzarsi tra decine di eventi critici, ospedalizzazioni e recidive multiple, e soprattutto un atto di fiducia e affidamento che già ricostruire nella mia fuga dal centro verso nord è stato doloroso e non scontato.
Il successo nelle cure c’è dove si fa ricerca
Uno dei leit motiv della mia storia di migrante sanitaria su scala nazionale e, in un episodio specifico, anche locale, è che la probabilità di successo delle cure è più alta laddove c’è ricerca prima e insieme alla cura, con la presenza delle infrastrutture del caso; ma anche dove c’è più ascolto, empatia e capacità di accogliere il/la paziente e le sue domande, dubbi, perché no intuizioni. Mi considero, e sono (stata) una paziente disobbediente, impaziente, non ingenua, per tante ragioni e anche contingenze, e questo ha fatto una differenza fondamentale, la differenza tra vita e morte.
Una sanità aziendalizzata è inevitabilmente disumana
Una sanità aziendalizzata che impone tempi e metodi ai medici della sanità pubblica, in uno scellerato scimmiottamento del capitalismo più becero e di una ricerca di qualità ed efficienza che sacrificano tutto ad una performance impossibile ed improponibile, non può dirsi né umana né efficace rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di cura e di autentico servizio.

La sanità privata in Calabria rappresenta una sconfitta
Tanti medici fuggono dalla costante disorganizzazione e insostenibile pressione dei ritmi di un sistema in cui il paziente è un file, un numero, una pallina di un flipper impazzito in cui i medici stessi sono intrappolati. Il sistema privato come rifugio, dovunque e a fortiori in Calabria, è una sconfitta per chi deve curarsi e chi è chiamato a curare, per chi crede nei diritti civili e sociali, per chi continua a doversi spostare verso istituti privati magari convenzionati che hanno instaurato un circolo virtuoso di ricerca e cura, per chi come me vorrebbe anche provare a interloquire in loco con strutture e medici che si spera possano presto rafforzarsi, ma che ad oggi non appaiono interlocutori possibili rispetto a una storia lunga e densa di ferite, la cui narrazione aspira ad essere fonte di senso e testimonianza.
