È la sera del 21 giugno 1980, una tiepida notte d’estate sulla costa tirrenica calabrese. Giovanni Losardo, 53 anni, conosciuto da tutti come “Giannino”, guida la sua Fiat 126 azzurra lungo la statale 18, al chilometro 298,8, nei pressi di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ha appena lasciato il municipio, dove ha partecipato a una seduta del consiglio comunale. Sono circa le dieci della sera, quando l’oscurità della strada viene squarciata da una raffica di proiettili. Due killer, forse a bordo di una moto di grossa cilindrata o di un’auto, affiancano la sua vettura. Gli spari risuonano nella notte, ferendo gravemente Losardo. In un disperato tentativo di salvarsi, esce dall’auto, ma un colpo di pistola lo colpisce mortalmente. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Paola, muore il pomeriggio successivo. Prima di spirare, pronuncia parole che pesano come un macigno: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Queste parole, riferite a un maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, sono un’accusa diretta, un grido che implica una verità nota alla comunità, ma soffocata dall’omertà.

Chi era Giovanni Losardo, e perché la sua morte rappresenta un capitolo così tragico e significativo nella storia della Calabria? Per rispondere, dobbiamo immergerci nel contesto storico, sociale e culturale della Calabria degli anni ’70 e ’80, un’epoca di profonde trasformazioni e conflitti, in cui la ‘ndrangheta stava consolidando il suo potere, mentre figure come Losardo rappresentavano una resistenza ostinata a un sistema di oppressione e corruzione.
Giannino Losardo, un uomo contro il sistema
Giovanni Losardo, nato e cresciuto a Cetraro, era un uomo semplice ma di straordinaria determinazione. Militante del Partito Comunista Italiano (PCI), in un periodo in cui l’appartenenza politica in Calabria non era solo una scelta ideologica, ma spesso un atto di coraggio, Losardo ricopriva due ruoli cruciali: era consigliere comunale a Cetraro e capo della segreteria della Procura di Paola. Non era un politico di facciata: Losardo agiva con coerenza, denunciando le collusioni tra criminalità organizzata e politica locale, opponendosi alle speculazioni edilizie che arricchivano i clan e monitorando, dalla sua posizione in Procura, le fragilità di un sistema giudiziario spesso vulnerabile alle pressioni mafiose.
La sua figura era scomoda in un contesto dominato dalla paura e dall’omertà. In un’epoca in cui la ‘ndrangheta non si limitava a estorsioni o traffici illeciti, ma si stava trasformando in una potenza economica, Losardo rappresentava una minaccia diretta. La sua azione politica e professionale era un ostacolo per chi voleva mantenere il controllo su Cetraro e sul Tirreno cosentino, un’area strategicamente importante per il commercio ittico, la speculazione edilizia e i traffici di droga.
La Cetraro del clan Muto
Gli anni ’70 e ’80 segnano una svolta per la ‘ndrangheta, che da fenomeno rurale si trasforma in un’organizzazione criminale strutturata, capace di infiltrarsi nei tessuti economici e istituzionali. A Cetraro, per esempio, il clan Muto, guidato da Franco Muto, noto come “il re del pesce”, stava consolidando il suo dominio. Il mercato ittico, pilastro dell’economia locale, era sotto il controllo del clan. Parallelamente, la speculazione edilizia, alimentata dalla crescita turistica della costa tirrenica, offriva opportunità di profitto enormi, spesso in sinergia con amministratori locali compiacenti.

Questo periodo è caratterizzato da una profonda tensione sociale. La Calabria, e in particolare il Tirreno cosentino, era una terra di contrasti: da un lato, la bellezza naturale e il potenziale economico della costa attiravano investimenti; dall’altro, la povertà endemica, l’arretratezza infrastrutturale e la disoccupazione spingevano molti a piegarsi al potere mafioso, percepito come un’alternativa al vuoto dello Stato. La ‘ndrangheta non si limitava a controllare il territorio con la violenza: costruiva consenso attraverso il clientelismo, offrendo lavoro e protezione in cambio di fedeltà. In questo contesto, l’omertà non era solo paura, ma un meccanismo di sopravvivenza sociale, radicato in una cultura di sfiducia verso le istituzioni.
Quella sera del 21 Giugno
La sera del 21 giugno 1980, Losardo diventa vittima di un’esecuzione premeditata. I dettagli dell’agguato restano avvolti nell’incertezza: i killer agiscono con precisione, ma non è chiaro se si muovano su una moto o in macchina. Gli spari, il tentativo di fuga, il colpo finale: tutto si consuma in pochi istanti. Le parole pronunciate da Losardo prima di morire – «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato» – sono un’accusa che va oltre i responsabili materiali. Implicano un sistema di complicità radicato nella comunità, dove i colpevoli non sono estranei, ma figure note, protette dall’omertà.
Losardo chiede di parlare con l’amico avvocato Francesco Granata, ma, secondo alcune versioni, non riesce a dire nulla di significativo. Questo dettaglio, mai chiarito, alimenta sospetti: cosa voleva comunicare Losardo? E perché le sue parole non hanno trovato riscontro? La risposta potrebbe trovarsi nel clima di sfiducia che permeava le istituzioni locali, dove la ‘ndrangheta esercitava pressioni dirette e indirette.

Pochi giorni prima veniva ucciso a Rosarno Peppino Valarioti, anche lui esponente del Pci
L’omicidio di Losardo non è un caso isolato. Pochi giorni prima, l’11 giugno 1980, un altro esponente del PCI, Peppino Valarioti, era stato ucciso a Rosarno, in un altro comune calabrese. Entrambi i delitti, rimasti impuniti, segnano un periodo di estrema violenza, in cui la ‘ndrangheta colpiva chi rappresentava una minaccia al suo potere. Losardo e Valarioti erano simboli di una Calabria che sognava giustizia e trasparenza, e la loro eliminazione era un messaggio chiaro: nessuno poteva sfidare l’egemonia mafiosa.

Le indagini: un percorso minato
Le indagini sull’omicidio di Losardo iniziano immediatamente, ma si scontrano con ostacoli insormontabili. Il sospetto principale ricade sul clan Muto. Sono indagati presunti esecutori materiali – Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano – ma il processo, trasferito a Bari per “legittima suspicione”, si conclude nel 1986 con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove. Le indagini sono segnate da gravi lacune: nessuna perizia balistica viene effettuata sui bossoli e i proiettili ritrovati, un errore denunciato anni dopo dal figlio di Losardo, Raffaele. Nel 1991, un’ispezione del magistrato Francantonio Granero presso la Procura di Paola rivela un quadro inquietante: sfiducia nella magistratura locale, sospetti di collusioni, omissioni. La relazione di Granero, un documento di oltre 300 pagine, denuncia le fragilità di un sistema giudiziario permeabile alle pressioni mafiose, ma non porta a sviluppi concreti. Questo fallimento investigativo riflette il contesto sociologico dell’epoca.

L’eredità di Giannino Losardo e la lotta per la verità
La morte di Giovanni Losardo ha segnato profondamente la comunità di Cetraro e la Calabria intera. La sua eliminazione non è stata solo un omicidio, ma un atto di intimidazione collettiva, volto a soffocare ogni voce di dissenso. Tuttavia, la sua eredità non è svanita. Nel 2024, il docufilm “Chi ha ucciso Giovanni Losardo?” di Giulia Zanfino ha riportato l’attenzione su questa storia, denunciando l’omertà e i presunti insabbiamenti che hanno impedito di fare luce sul caso. Il film non è solo un tributo alla memoria di Losardo, ma un invito a riflettere sul prezzo della resistenza in un contesto mafioso.
Nel luglio 2025, una svolta dà nuova speranza. La Procura di Paola, guidata dal procuratore Domenico Fiordalisi, annuncia la riapertura delle indagini, spinta da una testimonianza del figlio di Losardo, Raffaele, rilasciata durante “Chi l’ha visto?” su Rai 3, e dalle pressioni della società civile. Un fascicolo contro ignoti viene aperto, con l’obiettivo di esplorare nuove piste.

Un’analisi socio-antropologica: il peso dell’omertà e la resistenza
L’omicidio di Losardo è emblematico di una Calabria schiacciata dal potere mafioso, ma anche di una resistenza che, pur pagando un prezzo altissimo, ha lasciato un segno. Il caso riflette la complessità di una società in cui la ‘ndrangheta non era solo un’organizzazione criminale, ma un sistema culturale e sociale che permeava la vita quotidiana. L’omertà, spesso vista come semplice paura, era in realtà un meccanismo di controllo sociale, radicato in una sfiducia storica verso lo Stato e le sue istituzioni. In questo contesto, figure come Losardo rappresentavano un’eccezione: la loro azione era una sfida non solo alla ‘ndrangheta, ma a un intero sistema di valori basato sul compromesso e sulla rassegnazione. La riapertura delle indagini nel 2025 è un segnale di cambiamento. La società civile, sostenuta da media e documentari, sta rompendo il muro dell’omertà, chiedendo giustizia non solo per Losardo, ma per tutte le vittime della ‘ndrangheta. Tuttavia, la strada è ancora lunga. La Calabria di oggi, pur diversa da quella degli anni ’80, porta ancora le cicatrici di quel passato: la criminalità organizzata resta una presenza insidiosa, e la fiducia nelle istituzioni è fragile.

Giannino Losardo, una storia di coraggio e speranza
La storia di Giovanni Losardo è quella di un uomo che ha scelto di non piegarsi, pagando con la vita il suo impegno per una Calabria libera dalla paura e dalla corruzione. Il suo omicidio, rimasto senza colpevoli, è un monito sulla fragilità della giustizia in contesti dominati dalla criminalità organizzata. Ma è anche una storia di resistenza, che continua a ispirare chi lotta per la verità. La riapertura delle indagini rappresenta una speranza, non solo per trovare i responsabili, ma per chiarire il contesto storico e politico di quel delitto: chi proteggeva chi? Quali connivenze hanno permesso che la verità restasse sepolta per oltre 40 anni? La memoria di Losardo è un invito a non arrendersi, a costruire una società in cui il coraggio non sia un’eccezione, ma la regola.
