Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

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Il Duomo di Santa Maria Assunta ha da poco compiuto ottocento anni. Da otto secoli tra i “pileri” delle sue navate batte il cuore di Cosenza.
Sostando sulla piazza digradante lungo corso Telesio per ammirare l’imponente facciata di pietra rosa di Mendicino, entrando nell’ampia aula dove i fedeli si raccolgono in preghiera, ci sembra che il Duomo sia lì da tempo immemore. Uguale a se stesso, incrollabile, saldo come roccia. Eppure, così non è. Nel corso dei secoli numerosi terremoti hanno colpito la Cattedrale danneggiandola talvolta in modo grave.

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Celebrazioni in onore della Madonna del Pilerio, patrona della città, all’interno della Cattedrale (foto A. Bombini) – I Calabresi

Un immaginario da cartolina

Nel Settecento un intervento barocco ha radicalmente trasfigurato la sua natura duecentesca. Infine, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento è cominciato un paziente lavoro di restauro. È durato oltre cinquant’anni e ci ha restituito le linee architettoniche di una spiritualità priva di orpelli e colma di devozione. Così oggi, ci sembra che la facciata sia sempre stata lì, in attesa dell’ennesima istantanea del buon ricordo.
Siamo talmente assuefatti al gesto automatico di immortalare in una foto ricordo le bellezze d’Italia – le piazze, le cattedrali, i palazzi e i castelli – che non ci chiediamo quasi mai: «Chi ha costruito, conservato e valorizzato l’immagine monumentale del nostro patrimonio artistico e morale?».

Affascinati da un immaginario da cartolina pensiamo che le facciate del Duomo di Milano; di Santa Maria del Fiore e Santa Croce a Firenze; del Duomo di Amalfi; del Fondaco dei Turchi e della Ca’ d’Oro a Venezia; il campanile di San Marco; i Castelli della Val d’Aosta; Palazzo Madama a Torino; il Castello Sforzesco a Milano; Porta Soprana a Genova; nonché moltissime altre meraviglie d’Italia siano un lascito arrivato fino a noi nelle forme in cui le opere furono concepite e realizzate dagli antichi maestri delle pietre. La storia è ben altra.

I meriti dell’Unità d’Italia

Se non ci fosse stato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’Unità d’Italia, uno straordinario sforzo di costruzione e conservazione dell’immagine architettonica del Bel Paese, gran parte del nostro patrimonio identitario avrebbe oggi un aspetto molto diverso: incompiuto, quando non sfigurato o cadente.

Dobbiamo alla lungimiranza del Ministero della Pubblica Istruzione – istituito con l’Unità e ai coevi Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti – il privilegio di poter ammirare, con il naso all’insù, i monumenti di cui le città d’Italia vanno fiere. Grazie all’opera e al pensiero di uomini come Camillo Boito e Luca Beltrami a Milano, Alfredo De Andrade in Piemonte e Valle d’Aosta, Giuseppe Partini a Siena, Enrico Alvino a Napoli – per citarne solo alcuni – l’Italia può andar fiera della sua “grande bellezza”.

Splendore che si mette in mostra in un’infinità di situazioni ideali per le fotografie che hanno i loro antenati nei cliché in bianco e nero delle vecchie e care caroline turistiche. Dobbiamo ad artisti che si sono formati nelle Accademie di Belle Arti (quando ancora le Facoltà di Architettura non esistevano) se l’Italia si è costruita un’immagine monumentale solida come il marmo e non solo di facciata. Un sodalizio fra il sacro e il profano in cui la cattedrale e il palazzo comunale sono quasi sempre gli interpreti di una narrazione civile e religiosa che sfida i secoli parlando di cultura, di storia e di ingegno.

Le radici nella Storia

Quegli artisti-architetti, prima ancora di dividersi e scontrarsi sotto le insegne accademiche del restauro filologico da una parte o della ricostruzione in stile dall’altra, erano accomunati da un profondo senso della storia. Le loro scelte estetiche scaturivano sempre da modi personali di interpretare il passato. Fermo restando che il progresso, per loro, era indissolubilmente legato al richiamo della storia patria.
L’Italia cercava le proprie radici nella storia e i monumenti disegnavano l’albero genealogico della sua cultura. Il dibattito fu molto acceso. I concorsi per la ricostruzione della facciata di Santa Maria del Fiore o del Duomo di Milano, nella seconda metà dell’Ottocento, ne sono una vivace testimonianza.

Unità d’Italia, un progetto (anche) culturale

La modernità era interpretata studiando e ispirandosi a un passato ricco di significati non solo estetici, ma anche etici e politici. Un passato iniziato ben prima che l’Italia, negli anni della Riforma e della Controriforma, venisse contesa e spartita fra le corone di mezza Europa. Il Medioevo e il Rinascimento, in epoca risorgimentale, erano i simboli illustri di una italianità autentica, e come tali, alimento inesauribile dell’immaginario degli architetti. Per molti di loro l’Unità era innanzitutto un progetto culturale e politico che si richiamava alle sorgenti dello stile romanico e del gotico. L’uso politico dell’architettura fu dunque uno dei cavalli di battaglia nella costruzione dell’identità nazionale. La conservazione del patrimonio monumentale uno dei temi di costante negoziazione fra lo Stato e la Chiesa.

Monsignor Sorgente e la raccolta fondi per il restauro

Cosenza non fu estranea a tale dibattito. L’arcivescovo del tempo, monsignor Camillo Sorgente, insediatosi a Cosenza nel 1874, nel tentativo di contrastare il cosiddetto “patriottismo di pietra” che cercava di escludere le gerarchie ecclesiastiche da ogni decisione operativa, rivendicò il ruolo della chiesa e lanciò una campagna di sottoscrizione per ricostruire la Cattedrale gravemente danneggiata dal terremoto del 1870. Egli si proponeva di ricondurre la sua Chiesa alla spiritualità dello stile di transizione fra il romanico e il gotico voluto dal fondatore Luca Campano, monaco benedettino e scrivano di Gioachino da Fiore; a quella essenzialità delle linee cistercensi che l’enfasi barocca di metà ‘700 aveva trasfigurato nel conformismo stucchevole degli ori e delle volute.

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Disegno pubblicato in Bollettino del Collegio degli Architetti e Ingegneri in Napoli, febbraio 1887

Il progetto di ricostruzione fu affidato a Giuseppe Pisanti, allievo di Enrico Alvino, a quel tempo già impegnato con successo nel progetto di restauro della facciata del Duomo di Napoli. Constatate le condizioni di gravissimo degrado delle strutture – la cupola era crollata, le murature in parte lesionate e le volte delle cappelle pericolanti – e confidando nella veridicità di una lapide dove si leggeva che «il Cardinale Maria Capece Galeota a fundmentis restituit la Basilica», Pisanti elaborò un progetto di ricostruzione che la critica del tempo giudicò con grande favore.
Così il 14 giugno 1886 Monsignor Sorgente circondato dal collegio episcopale e dal capitolo, alla presenza del prefetto e del popolo festante, pose la prima pietra dei lavori di restauro.

Duomo di Cosenza, si torna al passato

Quando iniziarono le demolizioni però, Pisanti scoprì che nella parte absidale, sotto gli stucchi e i pesanti intonaci, le strutture duecentesche erano pressoché intatte. L’arco trionfale, l’abside e gli imponenti pilastri avevano resistito alla violenza dei terremoti e allo zelo dei pomposi abbellimenti settecenteschi.
Alla morte di Pisanti i lavori proseguirono sotto la supervisione del suo allievo Silvio Castrucci. Poi, dopo la pausa forzata della Grande Guerra, i lavori, fra non poche polemiche, furono affidati a Tullio Passarelli, un ingegnere romano che completò il restauro delle navate e della facciata nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare, in particolar modo quando i raggi del sole animano i riflessi rosati della pietra di Mendicino.

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Monsignor Aniello Calcara

La data “1944”, scolpita sotto il rosone centrale, indica l’anno di fine lavori e, a ricordare la terza e ultima consacrazione celebrata il 20 maggio 1950 dall’arcivescovo e letterato Aniello Calcara, sta invece la lapide posta sulla parete di controfacciata.
L’austero aspetto abbaziale che ben si armonizza nel contesto di piazza Duomo è dunque il risultato di un’opera di restauro e di integrazione le cui motivazioni estetiche affondano in una cultura della tutela del patrimonio intesa come salvaguardia del genius loci.

Giuliano Corti